La storia della gastronomia siciliana e' come una favola che ha inizio con il classico "c'era una volta".
Iniziamo a raccontare: C'era una volta una civilta' classica: i Greci.

I
Greci provenienti dalle Cicladi nel 735 a.C. sbarcarono sul litorale ionico, in prossimita' dell'odierna Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 a.C. furono a Siracusa. Diverse, come sappiamo, furono le novita' che apportarono questi colonizzatori e, per restare in tema, da un punto di vista alimentare, L'arte del fare il vino nasce proprio da loro, I'ulivo, il farro ed altri prodotti, gia' esistenti nell'isola, vennero utilizzati in modo diverso, ebbero, per cosi' dire, una nuova impronta greca che porto' ad ottimi risultati.
Prendiamo per esempio il farro.
Il Farro, prima dei Greci, veniva utilizzato in Sicilia, per fare il pane, poi, venne utilizzato in tutt'altro modo.
Con la farina di Farro, oltre a un ottimo pane, si ottennero delle tagliatelle molto saporite e, niente poco di meno che, la pasta frolla.
Con il farro macinato grosso essi si fecero delle ottime zuppe ed, infine, con il seme intero, unito a fave, lenticchie, ceci, ed interiora, la famosa Fabata Puls. Questo non ci deve fare credere che quando i Greci sbarcarono la Sicilia era abitata da selvaggi.
Sulle coste ioniche abitavano i
Siculi
ed in quelle tirreniche prosperavano i Sicani e gli Elimi.

Queste antiche popolazioni avevano eretto potenti e progredite citta', dove, almeno da tre millenni si era sviluppata una cucina autoctona.
L'incontro di queste due civilta' mediterranee ha arricchito tutte le arti, compresa quella culinaria ed ha fatto nascere il gusto per la buona cucina che trovo', piu' tardi, grande accoglienza nella Grecia dove, a poco a poco, gli elaborati manicaretti si sostituirono ai voluminosi arrosti dei tempi omerici ed alla Maza, la schiacciata con farina d'orzo.
Accanto alla nuova cucina sorse la letteratura gastronomica.

Primo in assoluto fu Epicuro Siracusano, segui' Miteco ed Archestrato di Gela, siamo tra gli inizi del V e del IV secolo a.C. Archestrato di Gela, nel IV secolo a.C., nei suoi "frammenti della gastronomia", asserisce di avere visitato ogni terra ed ogni mare ma che in Sicilia ha trovato il buon gusto.
L'opera parla soprattutto del pesce: la stagione piu' propizia per pescare le varie specie e il modo di cucinarle.
Il "leitmotiv" e' quello di una cucina naturale, schietta e genuina senza sofisticherie e che si avvale unicamente di olio, sale ed, all'occorrenza, di aceto e di erbe aromatiche.
Accanto a questi antichi ricettari, troviamo gli antenati dei moderni libri "curatevi con le erbe".
Nacque cosi' la dietetica di cui Acrome e Eutidemo furono i precursori.
Ma, per ora, bando alle diete e torniamo ai buoni cibi del periodo classico.
In Sicilia le mense dei ricchi buongustai erano sontuose e le vivande, variate e saporite, erano accompagnate da squisiti vini siciliani, ma anche da birra e da idromele.

Il fatto che il banchetto fosse sentito come occasione principe per discussioni sui piu' vari argomenti, sta alla base della ricchissima letteratura detta "Del Convito e del Simposio".
A tale filone si lascia ricondurre anche la bizzarra opera di Ateneo, erudito greco di Egitto (200 d.C.), i Deipnosofisti, (banchetto dei sofisti), che di dettagli gastronomici e' una miniera incomparabile.
In questo libro, infatti, vi e' un vero e proprio vademecum sulla cucina: dalla lepre, al tonno, dai piselli alle anguille, dall'aragosta al pesce spada, insomma c'e' di tutto.

Ma torniamo ai nostri amici greci ed alle loro abitudini alimentari.
I pasti dei Greci, in eta' storica, erano tre al giorno: uno leggero al mattino, I'Ariston, ed altri due piu' consistenti, il Defeion a meta' del giorno, ed il Dorpon, a fine giornata.
Ogni banchetto iniziava con il rito dell'offerta di ringraziamento agli dei: il padrone di casa, dopo essersi purificato le mani con acqua, gettava sul braciere pugni d'orzo, sangue e ciuffi di pelo di un vitello sacrificato e vi versava del vino.
Terminata questa funzione propiziatoria, i servi ponevano, vicino ad ogni commensale, un recipiente con il pane ed una coppa per bere il vino liquoroso allungato con acqua e poi iniziavano a servire le vivande.
Nelle riunioni conviviali non sempre vi era un padrone di casa, perche' spesso queste erano organizzate da alcuni amici che si riunivano per mangiare portando ciascuno, in un canestro, cibi gia' cotti ed il vino.

 

Questi simpatici simposi erano, appunto, denominati "I Pranzi del Panierino", ed e' questo piccolo recipiente di vimini, la "Spyris", che a volte, vediamo appeso ad un chiodo in alcune raffigurazioni di cene.
I menus dei greci erano variati, composti da minestre, da pesce, da carne, da uova; da legumi, da formaggio fresco e stagionato ed, dulcis in fundo, dai dolci a base di miele, di noci, di latte e di farina e dalle Focacce Attiche a forma piramidale.
I dolci venivano serviti assieme a ricchi vassoi di frutta al termine di ogni pasto o durante il simposio che era la parte piu' importante e gaia del banchetto, quando il vino scorreva a fiumi ed i convitati, allegri per le libagioni, cantavano gli Skolia, brevi e briosi versi affini ai ditirambi.
Socrate criticava gli opsofagi (ingordi) e diede delle regole di galateo sul modo di comportarsi a tavola, definendo la cucina un'arte.

Le citta' della Magna Grecia piu' reputate per sontuosita', a volte anche eccessiva, delle mense furono: Siracusa, Crotone e Sibari ed e' proprio dai cittadini di questa ultima citta' che e' nato il vocabolo Sibarita, usato ancora oggi per indicare una persona amante della vita piacevole e del buon cibo.
Ed adesso parliamo di un'altra importante civilta': gli
Arabi. Nell'827 i Musulmani d'Africa sbarcano a Marsala, chiamati da un ricco comandante siciliano, Eutimo o Eufemio, ribellatosi alla corte di Costantino imperatore.
Anche loro, come i Greci, apportano molte novita' nell'arte, in generale, e nella cucina, in particolare.
Ci fanno conoscere la canna da zucchero, il riso, il gelsomino, il cotone, I'anice, il sesamo e le droghe: cannella e zafferano.
Sono abilissimi pasticceri e, tra i dolci, segnaliamo: la Cubbaita (Qubbayt), ossia, un dolcissimo torrone di miele con semi di sesamo e maridorle; i Nucatuli, dalla parola araba "Nagal" (frutta secca, confettura, dolce secco); la Cupita o meglio Copata: torrone molto duro confezionato in grossi pani, a base di nocciole, albume d'uovo, zucchero miele ed amido.

 

 

Sempre agli arabi dobbiamo la Cassata ed il sorbetto.
Aman
ti delle essenze, crearono dolci profumati alla frutta, alla cannella e, perfino agli odori dei fiori. Con il gelsomino, per esempio, crearono un niveo gelato, che si confeziona ancora oggi a Trapani con lo stesso nome arabo: "Scursunera".
Inventarono i geli di melone, di mosto, di cannella, di gelsomino; crearono storte ed alambicchi per la distillazione della grappa che, in ossequio al Corano, la usavano solo per disinfettare le ferite, e, quindi, anche l'alcool.
Ma a questi "invasori" si devono altri gustosi piatti come le panelle, i ceci essiccati ed i fiori di zucca seccati e salati nonche' il pane con la milza di cui, ancora oggi, i palermitani sono ghiotti.
Questa e' anche l'era degli Harem.Ci sono molte leggende al riguardo, tra cui quella dell'invenzione del cannolo.
Si narra che furono proprio le donne di Caltanissetta, ospiti dell'Harem Kalt El Nissa, ossia, Castello delle donne, ad inventare il famoso dolce siciliano.
Gli arabi vengono sconfitti dai
Normanni di Ruggero II di Altavilla nella battaglia di Cerami nel 1063.Popolazione scandinava di indole marinara e guerriera, oltre alla costruzione di enormi cattedrali, portano: spiedi rotanti, aringhe affumicate, merluzzi secchi (Piscistoccu e Baccala') .
Nel 1130 Ruggero II diviene re fino alla morte (1154).La sua fama sara' superata da Federico II di Svevia.
Questo grande sovrano, oltre all'Universita', alle tasse, ed a varie innovazioni, compose un trattato sulla caccia con il falco, cacciatore egli stesso e conoscitore della buona tavola, ebbe al suo servizio, numerosi cuochi e sembra databile in questo periodo la nascita delle specialita' di rosticceria.
Ed ecco il turno dei Francesi con Carlo d'Angio'
(Angioini 1268).  I Siciliani si ribellano al loro sistema feudale con il Vespro del 30 marzo 1282.
Palermo per non soccombere ai francesi chiama Pietro III d'Aragona ed ecco gli
Spagnoli.
Con la pace di Caltabellotta, 1302, i francesi se ne vanno. In questo periodo si consolida la cucina dei nobili: si afferma il Falsumagru, che, prima, si chiamava Rollo', dal francese Roulle', che si imbottisce, nel popolo, con frittate e verdure, mentre, tra i nobili con carni pregiate.
Nel 1440 Ferdinando di Castiglia diviene re di Aragona e di Castiglia.
L'eta' spagnola arriva fino al 1713.
Grazie a questo popolo conosciamo l'evoluzione della cassata araba dal mom
ento che i nuovi dominatori ne importano un ingrediente base: il Pan di Spagna; ed ancora, sempre grazie ai nostri amici iberici conosciamo la zucca all'agro dolce e le varie "mpanate".
Sempre durante questo periodo si ha l'apporto del pomodoro, cacao e mais dall'America, insieme al peperoncino, alla patata, ai fagioli, al tacchino, ai peperoni, mentre la melanzana arrivera' dalle Indie.

Adesso possiamo renderci conto come una pietanza si completa nel corso dei secoli, attraverso l'apporto di nuovi elementi.
La Caponata, per esempio, e' l'espressione piu' tipica della legge gastronomica in base alla quale i piatti partono da una base semplice, a seconda della disponibilita' degli ingredienti, e si arricchiscono di sapori supplementari anche grazie alla fantasia di chi cucina.
La Caponata allora, sebbene composta da verdure, e' un piatto marinaresco, nato nella Caupona, il termine con il quale la bassa latinita' designava la taverna, dalla quale la pietanza ha derivato il suo nome.
La caupona dei porti preparava le vivande per i marinai che facevano vela dalle coste dell' isola.
Il dizionario del Palazzi alla voce caponata dice:"cibo marinaresco, galletta inzuppata nell'acqua salata, condita con olio e aceto".
Quindi non somigliava affatto a quella che conosciamo oggi, e cio' si spiega benissimo con il fatto che la gamma degli elementi di cui disponevano gli antichi era piu' povera di quella di oggi, perche' non ancora conosciuti.
La melanzana, per esempio, arriva dall'India nel 1600, il sedano, sebbene conosciutissimo fin dall'antichita', (con esso si intrecciavano serti per i cittadini piu' meritevoli) non veniva utilizzato per la cucina, e cosi' altri ingredienti.
Ma adesso e' necessario fare un passo indietro ed andare agli Arabi che ci fecero conoscere il riso.
Il risotto alla milanese, infatti, potrebbe avere avuto i suoi natali in Sicilia.
C'e' una leggenda in base alla quale il risotto allo zafferano sia stato creato per caso nel 1574 da uno dei garzoni di maestro Valerio da Profondavalle, artefice delle vetrate del Duomo di Milano, in occasione delle nozze della figlia.

Ma Cristoforo di Messisburgo, maestro di casa del Cardinale Ippolito D'Este, nel descrivere un banchetto, servito il 16 gennaio 1543 alla corte Estense, precisa che il secondo servizio di cucina comprendeva, con i timballi di piccione, di conigli e lepri, in salsa pevorada, anche sei piatti di riso alla siciliana con tuorli d'uovo crudi, formaggio grattuggiato, pepe, zafferano e l' immancabile zucchero di tutte le ricette medievali.
Nel 1500, quindi i ferraresi mangiavano quello che oggi e' il risotto alla milanese in edizione corroborante.
E, per finire in dolcezza, completiamo il discorso sui cannoli e sulla cassata siciliana.
Per quanto riguarda i primi c'e' da riferire una citazione di Cicerone: "Tubus farinarius, dulcissimo, edulio ex lacte factus", ossia, "cannolo farinaceo fatto di latte per un dolcissimo cibo".
Sembra che l'odierno cannolo siciliano abbia avuto, come dicevamo, origini arabe, anche se ha subito, nei secoli, diversi rifacimenti, il suo antenato, infatti, sembra essere stato un dolce a forma di banana ripieno di mandorle e zucchero.
Per quanto riguarda la cassata, la sua elaborazione definitiva si ebbe nel periodo barocco con l'utilizzazione del Pan di Spagna, epoca in cui gli antichi fasti della gastronomia ed anche della pasticceria siciliana, furono rinverditi dalle consuetudini di vita spagnola e dai nuovi ingredienti importati alla America.
Per concludere possiamo dire che oggi non si mangia e non si beve piu' per sopravvivere, ma si cerca di farlo nel modo migliore, perche' una necessita' fisiologica si trasformi in piacere.
Brillant Savarin, nel suo libro:"La fisiologia del gusto" scrive:
"Il Creatore, obbligando l'uomo a mangiare per vivere, lo invita con l'appetito e lo ricompensa con il piacere".

 

 

I ROMANI

 I Mamertini, mercenari campani, furono al servizio di Agatocle di Siracusa fino al 289 a.C. quando, alla sua morte conquistarono Messina. I Mamertini chiesero aiuto a Roma contro nel 264 a.C. Ebbe cosi inizio la prima guerra punica. La conquista romana non fu indolore: nel 261 la splendida Agrigento, dopo un sanguinoso assedio, fu espugnata ed i suoi abitanti trucidati o venduti come schiavi. Anche la potente Siracusa nel 214 a.C. venne assediata dai Romani, dopo due anni di duro assedio per il tradimento di alcuni nobili fu conquistata e il popolo ridotto in schiavitù o trucidato. Fu ucciso anche Archimede che con le sue geniali macchine di guerra aveva tenuto sotto scacco gli invasori. Polibio scrisse: I Romani non capirono che in alcune circostanze il genio di un uomo (Archimede) vale di più di molte braccia

La stessa sorte toccò agli abitanti delle città che resistevano all'invasione, non c'era alternativa: la sottomissione o la morte. L'insaziabile voglia imperiale romana è particolarmente stigmatizzata nell'Agricola di Publio Cornelio Tacito (56 d.C.-117 d.C): “Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano imperium, e dove fanno il deserto lo chiamano pax.”

I funzionari romani solitamente depredavano a man bassa e tra questi tristemente famoso è rimasto Verre (I sec. a.C.) che, a suo dire, doveva rubare per tre: per lui, per gli avvocati che dovevano difenderlo e per i magistrati che l'avrebbero assolto. Ai veterani romani come premio vennero assegnati vasti possedimenti, dando cosi origine a quella piaga siciliana dei latifondi, che dovevano scomparire solo negli anni Cinquanta del secolo scorso, sotto la pressione dei movimenti contadini.

I Romani si stabilirono in una Sicilia dalle antiche tradizioni culinarie e in quasi otto secoli di dominazione hanno lasciato anche qualche traccia. Quando arrivarono in Sicilia rimasero affascinati dalla grandiosità delle città, dalla qualità della vita sociale dell'aristocrazia siciliana e dalla raffinata gastronomia.https://www.mimmorapisarda.it/2023/381.jpg

Cicerone visitando Siracusa rimase abbagliato della bellezza del tempio di Atena e scrisse: «Porte più splendide e più squisitamente d'oro e d'argento, non sono mai esistite in alcun tempio».

Per secoli i Romani avevano avuto una vita semplice ed una cucina frugale e per loro, mangiare era una necessità corporale e non una gioia del palato. Il commediografo Plauto ricorda alcuni alimenti della Roma frugale: «Una montagna di cibo, insalata assiepata con altre ed insaporita con coriandolo, finocchio, aglio e prezzemolo, inoltre acetanella, cavolo, porro e bietola. Si unisce il tutto a senape pestata, una cosa orribilmente venefica. Tutto questo è più adatto ai buoi che agli uomini”. Il nome di molti patrizi romani, in ricordo della vita sobria, deriva dai legumi: Lentuli (lenticchie), Ciceroni (ceci), Pisani (piselli), Fabi (fave).

In poco tempo, come tutti i parvenus, superarono i popoli conquistati, dandosi all'eleganza, allo sfarzo e all'ingordigia. Velleio Patercolo nelle Storie Romane (30 d.C.) scrive: “Il primo Scipione aveva aperto la strada alla potenza dei Romani, il secondo l'apri alla lussuria: cosi, una volta rimossa la paura di Cartagine e sottomessa la rivale non degna dell'impero, non gradualmente ma con corsa precipitosa ci si allontanò dalla virtù e si passò al vizio; l'antico costume di vita fu abbandonato e ne fu uno la città passò dalla veglia al sonno, dalle armi ai pia-ceri, dal lavoro all'ozio».

Roma raggiunse nel II secolo d.C. intorno a due milioni di abitanti. Una simile popolazione poneva enormi problemi per l'approvvigionamento di cibo e di acqua.

Divenuta potenza globale, importava grandi quantità di derrate alimentari dalle sue province divenendo l'insaziabile "ventre del mondo".

Molti aristocratici romani si stabilirono in Sicilia costruendo lussuose ed architettonicamente imponenti residen ze decorate con dipinti, marmi e splendidi mosaici che ancora ammiriamo nella Villa del Casale a Piazza Armerina (EN), nella Villa del Tellaro a Noto (SR), nella Villa di Patti Marina (MEL nella Villa di Real Monte (AG) o nella demus rinvenuta durante il restauro del Monastero dei Benedettini a Catania

A differenza dei Siciliani che come Greci bevevano vino solo nei simposi, gli aristocratici romani mangiavano e bevevano tanto. Le pietanze nelle loro tavole erano ricercate, esotiche e spezie rare arricchivano il banchetto. Talora titillavano la gola con una penna di pavone, per vomitare e riempirsi di nuovo.  Seneca, nostalgico delle antiche virtù romane, diceva “Vomitano per mangiare, mangiano per vomitare, non disdegnano nemmeno per digerire”.

Lo sfarzo, l'eleganza, l'abbondanza dei banchetti romani che spesso si concludevano in orgia ripetono i modelli iconografici che i Romani avevano ammirato nelle favolose città siciliane e in quelle della Magna Grecia.

Non é azzardato pensare che l'espressione coniata da Orazio per la Grecia valga per la nostra isola: “Sicilia capta ferum victorem cepit et artes intulit agrest Latio”.

Sono state le magnifiche città siceliote caratterizzate anche da un habitat culturale e vivace a svelare ai Romani la Grecia che conquisteranno solo nel 146 2.C

Non sempre i banchetti evolvevano in volgari orge, i padroni di casa colti e raffinati davano banchetti dove dominava la distinzione e l'eleganza. Un ricco menú romano è riportato da Quinto Orazio Flacco (65 a.C.-8 d.C.); “Come antipasto, cinghiale lucano: era stato cacciato al levarsi dello scirocco cosi diceva il padrone di casa; a far da contorno ravanelli piccanti, lattuga, radici, cose da stuzzicare lo stomaco svogliato, raperonzoli, salsa di pesce porpo e feccia del vino di Coo. Sparecchiata questa portata, un valletto in veste succinta deterse con uno straccio di porpora il piano d'acero della mensa... mangiavamo uccelli, frutti di mare, pesci che nascondevano un gusto diverso da quello consueto come quando mi furono serviti filetti di rombo e di pesce passero di un sapore per me inusitato... viene allora servita, lunga distesa nel piatto, una murena, guarnita di gamberetti in umido. E subito l'anfitrione è stata presa gravida, perché una volta deposte le uova, la sua carne sarebbe peggiorata” (Satire, libro II, 18)https://www.mimmorapisarda.it/2023/405.jpg

E difficile stabilire quanto i Siciliani appresero da Roma e quanto i Romani dalla Sicilia. Dai Siciliani appresero l'utilizzo dei frutti dell'ulivo e della vite in cucina. I cuochi siciliani, fra tutti Trimalchio da Siracusa, erano ricercati nella Roma imperiale. I cuochi servivano l'aristocrazia e l'alta borghesia. La plebe, quando poteva mangiava puls di farro, un fossile vivente che ha dato il nome alla farina e oggi ritornato di moda, legumi, verdure. pane nero e qualche volta carne conservata sotto sale.

Dalle puls che i Romani preparavano con farina di farro discendono le varie polente. La siciliana arriminata o frascatula, che ha sfamato la povera gente, diventata ora un raffinato contorno molti piatti di carne. Il curioso nome di patacò viene dato alla polenta di farina di chiecchiru (cicerchia). A Licodia Eubea ancora oggi si tiene l'affollata sagra della patacò dove tra balli e musica si mangia patacò calda, fritta, semplice o con verdure ed aromi. A Troina la cicerchia si chiama rumaneddu e la polenta si chiama piciocia. In alcuni paesi dei Nebrodi diventa simulata, farinata nel nisseno, panniccia a Enna. È strano come in Sicilia uno stesso piatto possa avere nomi così diversi e strani da non capirne il significato e l'origine.

La passione per le murene in brodo, per le alghe, per i frutti di mare, per le ostriche e le seppioline ripiene è anche romana. Molte alghe marine sono consumate ancora. Nel catanese e nel siracusano vengono consumate regolarmente la curaddina (alga corallina) e u mauru (alga del genere fucus) che si possono trovare nelle bancarelle della pescheria di Catania, condite con sale e limone.

Di origine romana è la cottura sulla brace del fegato avvolto nella calia (o mento del maiale).

I sottaaceti vengono preparati dalle massaie siciliane immergendo le verdure in tre parti di aceto ed una di salamoia; le stesse modalità sono riportate da Columella nel “De re rustica”.

Il lievito, u criscenti che faceva crescere il pane lievitandolo, fino a pochi decenni fa in Sicilia veniva preparato e conservato con lo stesso procedimento che è riportato da Plinio nella “Naturalis Historia”. Sembra che la lievitazione sia opera degli Ebrei, anche se nelle festività consumavano pane azimo. Nell'Esodo (12, 39) si legge: “Essi fecero cuocere sotto forma di focacce azime la pasta che avevano portato dall'Egitto e non avevano potuto indugiare, né avevano fatto provviste. Gli Egizi producevano un pane bianco lievitato, l'hori, che veniva consumato dai nobili. Per millenni nel Mediterraneo il pane lievitato rimarrà appannaggio delle classi dominanti. Il popolo mangiava focacce azime fatte con un miscuglio di farina di grano, spelta, crusca, legumi, cereali e verdure che sono rimasti in Sicilia tra le poche possibilità alimentari fino alla prima metà del secolo scorso.

L'aristocrazia ed il clero siciliani gustavano fave e ceci solo in occasio-ni di eventi luttuosi. Fave e ceci erano legumi rituali dedicati ai defunti e facevano parte del piatto dei banchetti funebri. I Romani avevano ereditato queste usanze dai Greci di Sicilia. Nelle Antesterie si cucinavano fave e ceci che poste sugli altari venivano offerte al defunti. La Chiesa romana non potendo abolire questi riti pagani li adattò.

A Bronte i baccelli di fave, espressione di lutto e mestizia, addobbano i crocifissi che, preceduti dal suono legnoso della troccula (greco trocès, crepitacolo), il venerdi di passione sfilano per le vie del paese. Le fave divennero cibo di precetto nelle veglie per la commemorazione dei defunti. In Sicilia si mangiavano i “favi a

Cunigghiu” che ad Acireale si chiamavano “favi n'quasuni” e a Bronte “favi n'grill”. Fave rammollate in acqua e condite con olio, origano, aglio e peperoncino

I nostri sformati affondano le radici. nelle torte salate di formaggio e di verdure che una costante nei banchetti romani.

La 'mpanata con tutte le sue varianti siciliane (scacciata, scaccia, fuazza, pastizzo, u pistuni missinisi, la comisana mitilugghia, il siracusano scacciuni, l'in figghiulata di Rosolini) trova le radici nella pasta di pane farcita con formaggio e cotta al forno. La farcia nella 'mpanata dipende spesso dalla disponibilità degli ingredienti e dalla fantasia della massaia. “U chinu da 'mpanata” che Pirandello usa come metafora nel Berretto a sonagli, è sempre una sorpresa. Le 'mpanate siciliane, dove i sapori e i profumi sono nascosti in una dorata crosta di pane, sprigionano tutta la loro fragranza quando si affonda il coltello.

I Romani preparavano le polpette. Apicio ne propone una ricetta: “Amalgamare la carne tritata con mollica di pane inbevuta nel vino, pepe, garum, pinoli, fare polpette e rosolarle nelle caraeunum (mosto cotto ridotto a meta)”. I Siciliani da sempre riducono in polpette un pò di tutto: carne, pesce, verdura, uova, formaggio e le 'ngranciano (rosolano) nell'olio.

I Romani gustavano le ovamele: frittate condite con pepe e miele che ricordano le omelette.

Il patè (pasticium) di fegato d'oca sembra romano, Plinio il Vecchio racconta che Apicio immobilizzava le oche inchiodando le membrane interdigitali su una tavola e le ingozzava di fichi miele e vino così il fegato (allora chiamato iecur) raggiungeva dimensioni impressionanti. Lo iecur ficatum, ingrossato a causa dei fichi, raggiungengeva dimensioni tali da essere chiamato solo ficatum; termine rimasto nelle lingue neolatine (fegato in italiano, foie in francese, higuado in spagnolo).

Anche il patè di olive nere non è altro che l'epityrum romano. Ancora oggi gustiamo, con qualche modifica, le olive che Catone riporta nel De Agricultura: "Togli il nocciolo a olive nere, bianche, screziate. Falle a pezzetti e aggiungi olio, aceto, cumino, finocchio, menta; mettile in una ciotola di terra cotta. Devono essere coperte dall'olio. Gustale cosi”.

Il “moretum romano”. Un pesto realizzato a freddo pestando nel mortaio erbe aromatiche, formaggio, aglio, noci, aceto, sale e amalgamato con olio potrebbe essere il progenitore dei pesti siciliani: il pesto trapanese che alcuni vogliono far risalire all'agliata ligure, il pesto catanese, il pesto di pistacchi brontesi, il pesto di olive. I Romani lo spalmavano su fette di pane. Ricette del moretum si trovano nel “De re rustica” di Columella e in un poemetto intitolato Moretum attribuito a Virgilio.

L'uso delle spezie era diffuso nella Roma imperiale. Il pepe è presente in molte ricette di Apicio. Plinio il Vecchio ne considerava l'uso un segno della follia popolare. Nella sua Naturalis historia ne riporta i costi elevati che variavano da 45 denari al chilo per il pepe lungo, e 9 denari per il pepe nero. Ovidio suggerisce, per risolvere i sessuali, di applicare localmente pepe mescolato a semi di ortica.

Il sapa romano, mosto evaporato per un terzo, è il nostro vinu cottu, che lo prepariamo con il mosto di vino come i Plinio disprezzava il popolare sapa che era stato inventato per falsificare il dolce miele.

I Romani conoscevano la canna da zucchero (saccaron) ma non sapevano estrarre lo zucchero. Plinio scriveva: “Una massa simile al miele, raccolta in canne, bianca come la gomma, fragile tra i denti, della grandezza massima di una mandorla è impiegata solo come medicamento”.

 

IL SALE E IL GARUM

I Romani migliorarono e potenziarono la tecnica della salatura per conservare le carni ed i pesci che dovevano esportare nelle varie regioni dell'Impero. In Sicilia la produzione di sale era abbondante. Erano stati i romani a perfezionare nel trapanese l'estrazione del sale dal mare con tecniche ancora oggi in uso. Lo storico Tommaso Porcacchi. (1530- 1585) scrive: “Il quale (sale) nasceva ancho da se stesso dalla schiuma dell'acqua marina che resta negli scogli e negli estremi liti, presso l'idedeo Drepano".

I Romani utilizzavano il sale non solo per conservare le vivande ma anche a fini alimentari. Davano ai soldati una parte della paga sotto forma di sacchetti di sale (da dove salario). Con Federico II il sale diventerà monopolio di stato.

Le terribili salse che i Romani avevano imparato dagli etruschi, come il garum che spalmavano e servivano durante i banchetti che Plinio definiva marciume di "cose putrefatte", non hanno contaminato la cucina siciliana. Il garum non soddisfava i gusti di molti Romani. Seneca scrive a Lucillo: «Quel garum preziosa poltiglia di pesci guasti, non credi che ti bruci le budella col suo piccante marciume?”

Col garum i Romani condivano tutto e fungeva anche da sostituto del sale.

Il garum entrò nella farmacopea dell'antica Roma. Plinio (Libro XXX, 96) scrive che col garum si guariscono ustioni recenti... è utile contro i morsi del cane e sopratutto del coccodrillo e per le ferite che si diffondono e si infettano.https://www.mimmorapisarda.it/2023/spig.jpg

I Siciliani, i Campani e gli Spagnoli lo producevano per farlo gustare ai Romani. Pregiato era il garum di Cartagena (Spagna) confezionato in ampolle da due litri e dal costo proibitivo di mille sesterzi (circa 1.000 €). Il giudizio di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historiae (77 d.C.) sul garum, se si pensa alla sua composizione, è stato benevolo: «Si salino in un recipiente le interiora di pesci e vi si aggiungano pesci di piccola taglia come sardine, triglie, menole e bavose, che vanno anch'essi salati; poi si facciano ritirare al sole, mescolando sovente. Quando sono ben marciti, si passi tutto al setaccio. La massa che rimane nel setaccio si chiama alec; il liquido che passa è il liquamen. Anche gli Islamici hanno una salsa simile al garum: il murri di pesce.

In Campania si prepara ancora un condimento dal profumo e dal sapo-re intenso: la colatura di alici. Questa antica salsa è la versione raffinata del garum romano. Ho avuto modo qualche anno fa di assaporarla in un ristorante di Cetara (Salerno). Anche la sardella calabrese ricorda il garum romano.

Recentemente una azienda siciliana ha riscoperto, dopo secoli di oblio, la ricetta del garum romano. Viene preparato con frattaglie di tonno macerate con sale, timo, finocchietto selvatico, menta e rosmarino posto in contenitori di vetro.

 

Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - © tutti i diritti riservati - esclusiva concessione del Prof. Schilirò per  il sito web mimmorapisarda.it

 

 

 

 

È certo che un record dell'arte culinaria di questa terra è quello delle svariatissime influenze che sulla gastronomia siciliana vennero sovrapponendosi via via: Greci, Romani, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Inglesi... popoli provenienti dalle più lontane contrade convennero nell'isola del sole e dei limoni portando, insieme a brame di possesso e a progetti di conquista, usanze e ingredienti che si innestarono, fondendovisi senza difficoltà, sulle tradizioni locali.

Cucina tipicamente mediterranea, i suoi temi fondamentali sono olio, pasta, pesce, frutta, ortaggi, erbe aromatiche; ma a questa base colorata e fragrante, e che è identica a tutte le cucine meridionali italiane, si aggiungono echi, sapori, profumi nuovi, di varia provenienza, spesso inediti per il palato continentale, che derivano appunto dalla storia.

La gamma dei piatti e delle creazioni è straordinariamente ricca ed è particolarmente evidente nelle famiglie, sia in quelle modeste sia in quelle aristocratiche.

Se si ripercorrono il difficile passato della Sicilia e i vari periodi delle dominazioni che l'isola subì, si ritrovano - una per una - le tessere di quel mosaico policromo e ghiottosissimo che è il suo attuale patrimonio gastronomico. 

Della Magna Grecia restano intatti i sapori delle olive, della ricotta salata, del miele dei fiori, del pesce, dell'omerico agnello alla brace e soprattutto del vino. 

 

Al periodo romano risalgono invece piatti come le seppie ripiene, le cipolle al forno, il "maccu", purea di fave cotte in acqua insaporita con erbe aromatiche, che si condisce con olio crudo e si mangia con pane o pasta. È un piatto semplice, che oggi si trova quasi soltanto nell'interno dell'isola: per secoli è stato il cibo più frequente del contadino e dello zolfataro, che se lo portavano, dentro la "quartara" o anfora di terracotta, nei campi e in miniera.

Alla dominazione araba riportano invece piatti di netto stampo orientale, come il "cuscusu" (la forma più elementare e primitiva di pasta alimentare che si conosca, minutissime palline di farina di semola e acqua che vengono lasciate ad asciugare al sole e conservate) con cui si realizza la famosa zuppa di pesce del Trapanese; la "cassata", che certamente è il dolce più classico della fantasmagoria dolciaria isolana; la "cubbaita", torrone al miele con semi di sesamo e mandorle, e il gelido nettare che gli Arabi chiamavano "sciarbàt" e che univa alla neve prelevata dall'Etna le essenze profumate di agrumi, frutti e fiori: da qui venne il "sorbetto" che i gelatai siciliani portarono a fama mondiale. Fu, quello arabo, il periodo in cui la Sicilia assunse ancor più l'aspetto di isola felice, profumata e lussureggiante come un giardino. Nuove colture (riso, agrumi, canna da zucchero, anice, ecc.), nuove importazioni (spezie e droghe), nuovi impianti (le tonnare, per esempio): nel generale fervore anche la tavola divenne più sofisticata ed elaborata.

Al periodo del dominio angioino e aragonese risale il popolare "farsumagru", che prima si chiamò "rollò", dal francese "roulé", e che è l'indiscusso sovrano dei piatti siciliani a base di carne: un ricco arrotolato di vitello che racchiude una farcia piena di ogni bendiddio. 

Echi di usanze francesi si trovano in piatti popolari che ne scimmiottano il nome con una certa ironia, come la "pasta cacata", condita con ricotta fresca e un densissimo ragù, alla quale in qualche modo si contrappone la semplicissima pasta e ricotta che dimostra come la cucina siciliana riesce, grazie alla straordinaria qualità delle materie prime, a creare nel modo più semplice una preparazione magnifica. La ricetta arriva dalla tradizione popolare, sempre basata su accostamenti elementari, e ricorda in qualche modo quella laziale dei bucatini "cacio e pepe". In questo caso la pasta è del tipo corto, formato ditalini o conchigliette. La ricotta deve essere freschissima e va diluita in una tazza con un poco di acqua di cottura della pasta. Alla fine si condisce tutto insieme e si completa con una spolverata di pecorino grattugiato. Di origine francese è anche l'"ancidda brudacchiata", che è la traduzione di "anguilla in brouet", cucinata con pepe, zenzero, cannella, chiodi di garofano e zafferano sciolto nel vino.

 

Si giunge così al lungo periodo della dominazione spagnola in Sicilia; l'epoca dei Viceré. Al seguito dei Conquistadores spagnoli di ritorno dall'America, si diffuse in Europa il pomodoro che, nel Sud d'Italia e quindi anche in Sicilia, ebbe enorme fortuna trovando terreno ideale. Pochi anni dopo fu la volta di un'altra protagonista della cucina meridionale, la melanzana, anch'essa di origine sudamericana. Si crearono con questi ortaggi piatti come la "caponata" di verdure, tuttora uno dei più caratteristici e diffusi dell'isola. In questo stesso periodo nacque il Pan di Spagna, base di molti dolci, e si diffuse il cioccolato.

Il capitolo più celebre della cucina siciliana è quello baronale. Nelle sontuose dimore dei gattopardi dei secoli XVIII e XIX la tavola raggiunse opulenza e fasto straordinari.

Il popolo non aveva di che sfamarsi, ma i baroni e gli alti prelati si contendevano i più abili "monsù", cioè i maestri della cucina (dal francese "monsieur") che prendevano al loro servizio per avere sempre una tavola ricca di invenzioni spettacolari.

È rimasta celebre la descrizione che fece l'inglese Patrick Brydone di un pranzo offerto nel giugno del 1770 dalla nobiltà di Agrigento al proprio vescovo. "A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non credo che i piatti siano stati meno di un centinaio. Erano tutti guarniti con le salse più succulente e delicate... Non mancava nulla di ciò che può stimolare e stuzzicare il palato...". Tra le portate, quelle che più colpirono il viaggiatore inglese furono le murene e il fegato di polli fatto ingrossare a dismisura. A un certo punto del banchetto ci fu un interessante scambio eno-gastronomico perché gli invitati britannici furono pregati di preparare un ponce, bevanda di cui in Sicilia si era sentito parlare ma che non si era ancora assaggiata. L'accoglienza fu entusiasta, ma l'incredibile pranzo aveva in serbo altre sorprese. Al momento dei dessert, continua il cronista anglosassone, "uno dei camerieri offrì al capitano il simulacro di una bella pesca e questi, impreparato a qualsiasi inganno, non dubitò affatto che si trattasse di un frutto vero. Tagliatala in due, se ne cacciò subito in bocca una grossa metà... ma tosto il freddo violento ebbe la meglio ed egli cominciò a rotolare la pesca da una parte all'altra della bocca, con gli occhi che gli lacrimavano; finché, non potendone più, la sputò nel piatto imprecando: "Una palla di neve dipinta, perdio!"".

 

 

La gustosa descrizione di Brydone offre la testimonianza storica di un'arte - quella dolciaria, in particolare quella dei gelati - che non è andata perduta. Basta entrare nelle più importanti gelaterie di Palermo, di Catania, di Messina per capire come il gelato sia una tradizione secolare. Nella rutilante esposizione di "spumoni", "spongati", granite, "geli", "pezzi duri", sorbetti, si incontrano tutti i gusti possibili e immaginabili: fra gli altri, il gelato di fico d'India, il frutto-simbolo della Sicilia, e quello di gelsomino o "scursunera", in cui si vorrebbe affondare la lingua ma anche il naso, irresistibilmente. Straordinario è anche il "gelu di meluni": è un gelato di cocomero in cui, nella pasta spumosa e vermiglia dell'anguria occhieggiano pezzetti di cioccolato amaro che imitano perfettamente i semi del frutto.

L'arte della rappresentazione, la ricerca puntuale della verosimiglianza, la perfetta abilità nell'imitazione sono caratteristiche tipicamente siciliane e hanno la massima espressione nei celebri frutti di "pasta reale" o "della Martorana", dal nome del convento palermitano che anticamente aveva il monopolio di questa preparazione. Questi dolci prelibati sono a base di pasta di mandorle la cui consistenza morbida, plasmabile come creta, permette di modellare qualsiasi forma: vengono di preferenza riprodotti frutti che, opportunamente colorati, sono una vera e propria sfida alla natura e compongono bellissime "nature morte". Altri soggetti tradizionali sono agnelli pasquali, pesci e in genere simboli religiosi.

 

 

 

 

Peccati di gola grazie agli arabi
La pasticceria siciliana presenta molte affinità con i gusti esotici importati dall'Oriente: pistacchio, cannella e zucchero

Tre sono le fonti a cui si rifà la cucina siciliana in fatto di dolci: la prima è l'ambiente contadino, dove spettava alle donne nell'approssimarsi di ogni festa religiosa e familiare, preparare i dolci previsti per tali ricorrenze. Così, per la nascita del primogenito maschio, considerato nel mondo contadino una vera e propria provvidenza divina, si usava regalare una treccia di zucca candita legata con un nastro rosso, ch'è un chiaro segno contro il malocchio. La seconda fonte è legata ai monasteri, dove le monache di clausura preparavano, inventandoli di volta in volta, dolci ricchi e fantasiosi, che si tramandano fino ad oggi, esclusivamente entro le mura dei conventi.

La terza fonte è, infine, quella di più recente acquisizione, e riguarda la raffinata pasticceria importata in Sicilia da valenti pasticceri svizzeri, che dall'inizio del secolo scorso si trasferirono nell'isola. Infatti i dolci siciliani più conosciuti sono proprio quelli appartenenti alla pasticceria svizzero-siciliana, che si trova in tutte le principali città d'Italia. Fra le molte dominazioni che si sono succedute nell'isola è sicuramente quella araba che ha impresso di più la propria impronta, perché ha introdotto alcuni elementi, quali il pistacchio, la cannella e lo zucchero, di cui si fa largo uso nella preparazioni di molti dolci siciliani. Ma è attraverso la creatività che la pasticceria siciliana tradizionale si rivela ricca e variata, anche quando impiega ingredienti semplici e poveri: la ciaurrina, un antico dolce tradizionale, ha come unico ingrediente il miele.  

Ogni provincia della Sicilia conserva una propria tradizione in fatto di dolci, così come per ogni festa popolare, religiosa e familiare. La Pasqua e la commemorazione dei defunti sono le festività più celebrate nell'isola. La settimana santa, tanto sentita in tutta la Sicilia, diventa anche l'occasione per preparare una varietà di dolci e pani rituali, legati al significato religioso della Pasqua, elaborati con gli stessi usi che fanno parte della tradizione agropastorale, presente non solo nella storia della Sicilia, ma in quella dei popoli mediterranei. I pani rituali, preparati a base di farina, uova, zucchero, pasta reale e ricotta, sono vere e proprie specialità a cui vengono date forme diverse in base ai riferimenti simbolici religiosi.
Oggi è usuale vedere in bella mostra, nelle vetrine delle pasticcerie, vassoi con la frutta martorana, modellata da abili pasticceri. Mentre tanti dolci sono diffusi in ogni parte dell'isola, altri restano circoscritti a livello locale: la pignolata a Messina, le crespelle a Catania, il riso mantecato ad Enna, le arancine dolci ripiene di cioccolato e il gelo di mellone a Palermo, le schiumette a Siracusa e le impanatiglie a Ragusa. Alcuni dolci vengono preparati esclusivamente in alcuni periodi dell'anno o per determinate festività patronali.
Simbolo gastronomico per eccellenza della Sicilia è la cassata, tradizionale un tempo solo nel periodo di Pasqua, è oggi reperibile tutto l'anno. Il nome deriva dall'arabo "qasat" che significa scodella rotonda. È un dolce trionfale, un involucro di pan di Spagna ripieno con una crema di ricotta freschissima insaporita alla vaniglia e a un liquore dolce o rum, arricchita con pezzetti di cioccolato, dadini di frutta candita, ricoperta con una glassa verde al pistacchio e decorata con altra frutta candita, scorzette d'arancia e altro.
Un altro esempio della rinomata dolceria siciliana legata alla pasqua sono i quaresimali, croccanti biscotti fatti con le mandorle, che nascono come pietanze votive legate alla Quaresima.

Dulcis in fundo, non sono da trascurare i gelati, che si mangiano in ogni stagione, e quelli siciliani, sono indiscutibilmente i sorbettieri più rinomati del mondo. I "gelatai" sono capaci di inventare migliaia di gusti servendosi di tutti i tipi di frutta fresca, secca o anche fiori, come il gelato di scurzunera (gelsomino) che é in assoluto il più caratteristico.
Posto di rilievo, infine, si deve dare ai sorbetti (gelati senza aggiunta di latte) ed alle granite, al limone, al caffè ed alle mandorle, gradita pausa rinfrescante soprattutto nelle giornate estive.

In Sicilia non c'è stagione che non abbia i suoi dolci caratteristici. Nei sapori di un pasticcino, di una torta o di un gelato, è possibile scoprire le millenarie stratificazioni lasciate da tutti i popoli che hanno attraversato l'isola.
Le tradizioni gastronomiche di un luogo, infatti, come sempre accade, dipendono dalla storia, dal clima ed anche dalla religione.
E così in Sicilia, in particolare a Palermo, da sempre sede dei governanti stranieri, la necessità da parte dei cuochi di trasformare cibi poveri, essenziali e genuini in pietanze che mostrassero all'occhio critico dei regnanti, sfarzo e ricchezza ha portato ad una varietà di sapori e di decorazioni, che si riscontra soprattutto nei dolci.
Gli aspetti più evidenti della pasticceria siciliana sono soprattutto due: le profonde radici arabe e il successivo sviluppo nelle cucine conventuali.
È soprattutto durante le ricorrenze più importanti come il Natale, il Carnevale e la Pasqua che la gastronomia siciliana dà davvero il massimo, grazie ad alcuni piatti che oramai rientrano a pieno titolo nella tradizione culinaria.
Simbolo gastronomico della Sicilia è la cassata, tradizionale un tempo solo nel periodo di Pasqua, è reperibile tutto l'anno. Il nome deriva dall'arabo "qasat" che significa scodella rotonda. È un dolce trionfale, un involucro di pan di Spagna ripieno con una crema di ricotta insaporita alla vaniglia e a un liquore dolce o rum, arricchita con pezzetti di cioccolato, frutta candita, ricoperta con una glassa verde al pistacchio e decorata con altra frutta candita e scorzette d'aranci.
In occasione del Natale la cassata è uno dei dolci tipici, richiesto in tutte le pasticcerie dell'isola, ma anche in numerose località italiane. Insieme alla cassata è il buccellato. Dolce ripieno di fichi secchi (o marmellata di fico), cioccolato, noci, mandorle, uva passa, di origine antica, prende il nome dal tardo latino buccellatum, cioè pane da trasformare in buccelli, ossia bocconi, per la sua morbidezza.
Tipico dolce delle feste di Natale e delle cene di San Giuseppe è, inoltre, la cubbaita, croccante dolce, fatto di semi di sesamo e mandorle, cotti nel miele ibleo. Ed ancora i torroni, tipici dell'interno dell'isola, che si presentano con il miele, con il cioccolato oppure con mandorle e pistacchi. "Corona del pranzo carnevalesco", a detta del Pitrè, il maggiore studioso del folklore siciliano, il cannolo è una cialda farcita con ricotta zuccherata ed aromatizzata, guarnita con canditi d'arancia, cioccolato e zucchero a velo.

 

 

 "Norma" a Catania non solo significa "Musica", ma anche il "non plus ultra" di ogni cosa: infatti l’omaggio al Cigno catanese, autore di Norma, è stato ed è sempre senza riserve. Ma anche se dovessimo scrivere "norma" con la enne minuscola, avremmo sentenziato: pasta secondo l’alta tradizione degli antichi buongustai catanesi. "Pari ‘na Norma", sembra una Norma, era ed è il paragone corrente per l’iperbolica mania di cui sono sempre stati affetti gli abitanti della città.

Da quando questo paragone è stato dedicato alla popolare pasta? Nel 1920 in casa Musco-Pandolfini in via Etnea, si svolse un pranzo che adesso ci appare in tutta la sua storica prospettiva. Il grande attore e mimo catanese Angelo Musco era ancora celibe e viveva presso la diletta sorella Anna, sposata con Giuseppe Pandolfini. La coppia aveva due figli, il celebre caratterista Turi Pandolfini e Janu, prima teatrante, poi titolare di un notissimo negozio d’abbigliamento. Janu era sposato con la signora Saridda D’Urso, nel cui appartamento troviamo riuniti a tavola Angelo Musco, Turi e Janu Pandolfini e i noti commediografi e giornalisti Nino Martoglio, Pippo Marchese e Peppino Fazio. Quando Donna Saridda portò a tavola gli appetitosi spaghetti con la salsa di pomodoro, basilico, melanzane fritte e ricotta salata grattugiata, dopo le prime religiose forchettate, da quel galante poeta e buongustaio che era, Nino Martoglio volle complimentarsi con l’autrice con queste precise parole: "Signora Saridda, chista è ‘na vera Norma!". Naturalmente, stante la presenza di tanti e così autorevoli "gazzettini", la frase immediatamente si riseppe in tutta via Etnea, da sempre salotto e curtigghiu dei catanesi. E dunque Nino Martoglio, indimenticato autore di Centona e delle più vivaci commedie del teatro siciliano, viene definitivamente accreditato dell’onore di aver ufficialmente battezzato "alla Norma" la popolare pasta catanese, anche se, come appare probabile, non fece altro che ripetere una felice espressione già coniata con straordinaria efficacia dal popolo, per un diretto ma sentitissimo omaggio all’arte di Vincenzo Bellini

 

 

 

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L'Azienda

In una citta' golosa e raffinata come Catania, la Pasticceria Savia incarna i fasti della dolcezza, tra cannoli invitanti e cassate variopinte, tra paste di mandorla e l'esplosione di colori del marzapane.

Come consuetudine cittadina,da piu' di Un Secolo, dal caffe' all'aperitivo,dall'arancina al pasticcino, a seconda dell'ora e degli impegni, la Pasticceria Savia e' la meta preferita da giovani e meno giovani impiegati e manager ranpanti nella pausa pranzo.

Fu fondata nel 1897 dai coniugi Angelo ed Elisabetta Savia in quella zona anticamente chiamata Piano di Nicosia. Da li' mosse i primi passi e accrebbe la sua esperienza grazie all'intuito e alla sagacia di Alfio e Carmelina Savia trovo' degna sistemazione nel cuore della citta';

Per i pochi che non lo sapessero la Pasticceria Savia si trova incastonata ad angolo tra la via Etnea e la Via Umberto, in quello che Federico de Roberto battezzo' col nome prestigioso di Salotto di Catania.

In quell'illustre angolo matura, grazie ad Angelo Savia, la tradizione dolciaria che trova i suoi punti di forza nell'eccelsa qualità delle materie prime, nella magistrale professionalita' e cortesia del suo personale e nel confezionamento dei prodotti sempre freschi e fragranti.

Forte di questi capisaldi la Pasticceria Savia ha iniziato un nuovo capitolo della sua storia Da oggi insieme ai nipoti Alessandro e Claudio, si presenta alla clientela in una veste completamente rinnovata, conservando sempre la qualita' e le tradizioni di un tempo.

(savia.it)

 

 

 

 

 

 

 

Zio Angelo Savia

 

 

Una guerra antica, tutta catanese. Ma Savia è l'arancino per antonomasia.

 

 

 

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L' Azienda fu fondata negli anni trenta dal maestro pasticciere Gaetano Spinella, che volle allocarla nel "salotto buono" di Catania in via Etnea, 300 di fronte al giardino Bellini. La maestria del fondatore, rispettoso dei canoni della migliore tradizione dolciaria siciliana, ne determinò un immediato successo.

Dal 1996 la società "Pasticcerie Siciliane Riunite" ha rilevato l'Azienda, introducendo nella gestione moderni criteri manageriali che si sono integrati ai sapienti insegnamenti del fondatore.

 

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Gaetano Mantegna aveva appena 10 anni quando inizia l'attività di apprendista pasticcere. Nel 1946 decide di realizzare il sogno di una vita: aprire una pasticceria tutta sua al centro di Catania.
La passione del fondatore, da subito, è rivolta verso le due specialità che presto diventano i must della pasticceria: la gelateria, la pasticceria e le "sculture" di martorana che, per bontà, bellezza e perfezione delle fogge, diventano sempre più richieste e apprezzate in Sicilia e all'estero.

In occasione dell'inaugurazione, Gaetano Mantegna realizza una delle sue celebri sculture: un bellissimo pesce spada di martorana di 5 kg completamente modellato a mano. L'opera ha avuto un successo tale da essere acquistata da un ufficiale americano per poi donarla ad una baronessa inglese.

 


Già nel 1950 Mantegna vince il suo primo concorso per la realizzazione di una vetrina straordinaria; i premi continuano fino alla medaglia d'oro del "Fipper" e dell' "Aquila d'oro" della Confcommercio. In seguito, grazie all'intraprendenza di Gaetano Mantegna, inizia in Sicilia la produzione industriale del classico panettone milanese e dei gelati artigianali.
Una lunga storia fatta di passione e fantasia che ha continuato, negli anni, ad entusiasmare generazioni di golosi.

Da sempre situata in Via Etnea a Catania, in pieno centro storico, la pasticceria Mantegna ha subìto negli anni importanti trasformazioni.
Oggi, infatti, Casa Mantegna non è solo sinonimo di qualità e bontà dei prodotti che, oggi come ieri, continuano a vivere grazie alle antiche ricette del nonno Gaetano; al fattore dolcezza, si è aggiunto anche l'eleganza degli ambienti della nuova sala: "living room cafè". Un luogo di ritrovo in cui la varietà dei sapori si coniuga con il servizio impeccabile di un personale specializzato nel presentare the, cioccolate, cocktails e gustosi aperitivi.

 

 

 

 A Belpasso, suo paese natale, il cavaliere del lavoro Francesco Condorelli rappresentava una istituzione, cosi come la sua industria dolciaria, che proprio lo scorso anno ha festeggiato trenta anni di attività e di successi, derivati, in rnassima parte, dai torroncini commercializzati in tutto il mondo.

La notizia della scomparsa di Condorelli, ha offerto l'occasione per scoprire un personaggio che con i suoi 91 anni di esistenza pienamente vissuta, ha contrassegnato una pagina positiva dell'imprenditorialità siciliana sin da quando, ventunenne, nel 1933, divenne proprietario della pasticceria di Borrello.

Spirito irrequieto e curioso, Condorelli conobbe anche l'esperienza dell'emigrazione. Per un breve periodo della sua vita, su sollecitazione di un conoscente, decise di trasferirsi in Istria e nel 1939 giunse a Pola. L’avventura istriana fu breve, cosi come quella che lo portò, dopo la guerra, a Malta. Tornato definitivamente in Sicilia, nonostante fosse provato dai combattirnenti e dalla prigionia patita, mostrò tutta la sua tempra e si fece protagonista della locale vita imprenditoriale. La sua pasticceria cominciò ad essere frequentata dalle numerose comitive di gitanti che passavano da Belpasso, per salire a fare escursioni sull'Etna. Con le sue granite Condorelli fece ancora più dolci gli anni della- dolcevita- come rivelano le foto che lo ritraggono, sempre elegantissimo e sorridente, accanto ai personaggi famosi dell'epoca, spesso appartenenti al mondo dello spettacolo. Aneddoti, racconti, episodi e ricordi biografici furono raccolti dal Condorelli in un volume di ricordi, "La mia vita", pubblicato recentemente da Maimone. Nelle pagine autobiografiche, con la memoria prodigiosa che lo contraddistingueva, il cavaliere ci permette di entrare nel suo mondo più intime, in quello dei suoi affetti, ma anche nella vita sociale ed economica della provincia etnea. Significativi, per i dettagli e gli spunti di riflessione, le pagine che egli dedica agli anni del boom economico, quando la vita della zona etnea, pur tra gli alti e bassi dovuti alle difficoltà del la ripesa post bellica, fece di Catania la Milano del Sud.

A questo processo di sviluppo contribuii anche l'attività imprenditoriale di Condorelli. Ma il vero salto di qualità egli lo fece negli anni Settanta, quando inventò un prodotto - il torrone morbido monodose con glassa - che ha conquistato il mercato mondiale per la stia bontà e per merito di una abile campagna pubblicitaria, affidata a personaggi siciliani che hanno avuto successo nel mondo dello spettacolo. I messaggi promozionali e innovativi - celebre gli spot con i Re Magi - identificano immediatamente ed efficacemente i "Torroncini CondorelIi". Ma forse non tutti sanno che l'ìdea del morbido monodose maturò in seguito ad una cena in casa di una vedova a Venaria Reale in provincia di Torino. Quella sera il dolce era proprio una stecca di torrone che venne rotto con un grosso coltello in parti disegnali. A Condorelli, che era l'ospite, fu dato il pezzo più grosso e questo non gli sembrò giusto, per non parlare dei problemi di masticazione che, a causa della durezza, creava soprattutto alle persone anziane Gli balenò l'idea di un torrone morbido, dal gusto delicato, incartato in porzioni singole. E da qui anche il salto di qualità perché il marchio Condorelli divenne presto sinonimo di torroncino. Oggi nell'industria dolciaria Condorelli si trasformano ogni giorno settemila chili di mandorle per confezionare 15 mila chili di torrone morbido ricoperto in sette glasse diverse, L'industria dà lavoro a 54 dipendenti fissi, a 66 stagionali e a 96 agenti, che coprono tutto il territorio nazionale. Sono cifre imponenti e - siamo certi - destinate ad accrescersi con la istituzione della Fondazione, nata per ricordare uno dei più importanti imprenditori siciliani nel settore dolciario.

 

 

Il torroncino che esporta l'immagine della Sicilia in trenta Paesi del mondo

La Sicilia, 5 Aprile 2014 - Ombretta Grasso

Catania. È cresciuto tra il profumo del miele e l'aroma delle mandorle tostate. Da bambino, racconta, passava i pomeriggi facendo la glassatura di cioccolato e incartando a mano, a uno a uno, quei pezzetti di torrone che sono diventati il marchio di una dolce storia di successo. Giuseppe Condorelli, 47 anni, guida da più di 10 anni l'azienda di famiglia che da Belpasso con il suo torroncino ha conquistato clienti in tutto il mondo, compresa una principessa degli Emirati Arabi, ed è arrivato sugli scaffali di 30 Paesi: negli Usa e in Germania, in Belgio «e pure in Svizzera», sottolinea con l'orgoglio di vedere le sue tavolette nella patria della cioccolata.

«L'idea a cena da amici»

Un'azienda con 49 dipendenti e 60 stagionali che lavorano da settembre a dicembre a quelle prelibatezze nate da un pizzico di genio: una sera a cena da amici a Venaria Reale, in provincia di Torino, gli viene offerta una stecca di torrone spezzata con un grosso coltello in parti diseguali. A Condorelli, che era l'ospite, fu dato il pezzo più grosso e questo non gli sembrò giusto. Così, invece della tradizionale stecca di torrone, pensò a torroncini monodose da distribuire in pezzi uguali, e a quella nuova morbidezza che consente di gustarli con più facilità.

Un modo di unire la tradizione con l'innovazione. Scelta mai tradita. Si intitola, infatti, "I dolci tra modernità e tradizione" la giornata che per il quinto anno ha organizzato con la Fondazione dedicata al padre, il cavaliere Francesco Condorelli - questa mattina alle 10 al Museo diocesano di Catania - una tavola rotonda in cui si confronteranno economisti e sociologi, operatori del settore e imprenditori. «La pasticceria siciliana esprime ancora prodotti fortemente legati alla tradizione - spiega Condorelli - e anche con l'avanzare della tecnologia continuano a essere realizzati con modalità e ingredienti tipici. Dietro i dolci siciliani c'è tutto un mondo di ricordi, di profumi, di tradizioni antiche. Basti pensare al legame fortissimo che c'è con il territorio e con le feste religiose, dalle olivette di Sant'Agata alle sfince di San Giuseppe. Dolci che hanno storia e cultura da valorizzare. Mi sembra importante confrontarsi su come salvaguardare questo patrimonio creando un sistema che valorizzi l'eccellenza all'interno di uno sviluppo economico e sociale».

Nel pomeriggio il momento più goloso con il concorso e la degustazione delle "opere" presentate dai maestri pasticceri e dagli apprendisti di tutta la Sicilia, da Trapani e dall'Alberghiero di Caltanissetta, da Catania, Scicli e Messina. «Gli iscritti sono 35 e dovevano cimentarsi con la presentazione di un dolce pasquale al cioccolato», spiega. «La dolceria è una forma d'arte, non basta preparare un buon dolce, bisogna anche saperlo presentare, dargli un aspetto che incanti l'occhio e solleciti il gusto». Premi in denaro per i primi tre di ciascuna delle due categorie, pasticcieri (1.500 euro per il primo classificato) e apprendisti pasticceri (1.000 euro), ma soprattutto il valore simbolico di essere valutati da sette maestri. «Tra le finalità della fondazione c'è quella di tenere unito il gruppo di pasticceri siciliani. Questa è un'opportunità di offrire una vetrina alla loro abilità, ai nomi già affermati ma anche ai giovani talenti».

«Grazie a Baudo»

La pasticceria artigianale Condorelli è nata nel ‘33 a Belpasso, grazie all'intraprendenza del cavaliere Francesco, che aveva cominciato a lavorare come garzone di dolceria. Negli anni 60, con l'intuizione di reinventare il torrone, si trasforma in una piccola industria. Il vero salto nell'83 grazie a un siciliano eccellente. «Pippo Baudo ci chiese di fare da sponsor a Domenica in. Un'operazione audace ma che ci fece conoscere in tutta Italia. Era la svolta». L'altro siciliano che con la sua simpatia irresistibile ha dato volto al torroncino, consacrandone la celebrità, è Leo Gullotta, «per 25 anni il nostro testimonial straordinario». dallo scorso anno lo spot è affidato a Francesco Pannofino.

Oggi, l'azienda in piena attività produce 150 quintali al giorno di torroncini, seguiti, per volumi di vendita, dal latte di mandorla, «molto apprezzato anche al Nord dove si beve tutto l'anno», e da nuove golosità: le rivistazioni delle paste di mandorla, come "Lapilli" e "Libecci", le uova di pasqua, le tavolette di cioccolata con l'arancia candita, con la granella di mandorle pralinate, di cioccolato bianco con pistacchio di Bronte. E già si sta lavorando a un nuovo prodotto, come sempre una ricetta tipica rivisitata.

Negli ultimi anni la crisi ha colpito anche questo settore. «Si compra meno, ma per fortuna non si rinuncia al dolce. Noi resistiamo perché abbiamo puntato sulla qualità. Il nostro è un segmento di fascia media: chi fa un regalo non cerca solo il prodotto, ma vuole un'emozione». Qualità anche negli ingredienti. «Usiamo mandorle siciliane e mediterranee, non quelle californiane che sono più legnose». Snocciola una poesia di delizie: la romana, fascionello, genco, pizzuta d'Avola, pg Sicilia e la prelibata tuono, «al cento per cento dolce».

I segreti del successo

Il futuro? Per Giuseppe continuare a far crescere l'azienda, mentre la sorella Gloria si occupa della pasticceria e del punto vendita catanese. «Restare in Sicilia e portare avanti la nostra attività in cui manteniamo un rapporto familiare con chi lavora - conclude Giuseppe Condorelli - E soprattutto salvaguardare sempre il tocco artigianale: nel nostro torroncino, la miscelazione della frutta secca, mandorle e pistacchi tostati, viene ancora fatta manualmente».

E lo dice ancora con un pizzico di orgoglio, «perché la nostra isola ha tante risorse, ma non riusciamo a fare sistema. Così come hanno fatto i produttori di vino, dovremmo potenziare la nostra qualità, credere di più nelle nostre potenzialità e fare diventare un modello del settore agroalimentare i nostri dolci siciliani».

Profumo è la parola chiave che descrive meglio di ogni altra la pasticceria Russo, piccolo e storico laboratorio di Santa Venerina, paese etneo. Profumo di dolci, di cannella, mosto cotto, canditi, chiodi di garofano, mandorle e liquirizia in un mix che ci riporta indietro. Al tempo in cui a spadroneggiare non erano solo cannoli e cassate, di cui qui per scelta non parleremo, ma i mille altri dolci di Sicilia, quelli creati in varietà infinite nei piccoli borghi di provincia. Delizie aromatiche, paste secche e biscotti di ogni tipo.

E’ il 1880 quando il signor Lucio, nonno dei fratelli Russo, attuali proprietari dell’omonima pasticceria, appena diciannovenne e figlio di ebanisti, decide di partire per Catania e lavorare in una bottega di dolci. Gli basta un mese per fare bagaglio della propria esperienza, ritornare al paese, aprire un suo laboratorio e inventare i “biscotti ca’ liffia” da vendere nei battesimi organizzati dalle famiglie benestanti.

Per ogni battesimo chili e chili di paste tra cui ne spiccavano tre, come piramidi: uno per il parroco, uno per la levatrice e uno per la madrina, ospiti d’onore.

Sono passati 135 anni da quel momento, ma la specialità dei fratelli Russo è sempre la stessa. Stessa ricetta, stessa preparazione, stesso ingrediente: la “liffia”. Cacao con aggiunta di zucchero e acqua, un’emulsione che viene “alliffiata”, raffinata, con la sua lavorazione. Ne viene fuori una glassa che mani sapienti fanno scivolare sul biscotto.

Il profumo diventa allora quello della storia. Tre generazioni che continuano nello stesso mestiere. A impastare, mescolare, riempire, decorare, infornare con la calma e la pazienza che solo i veri pasticceri e i veri artigiani possono avere.

Da buon figlio di ebanista, il signor Lucio diede la giusta importanza all’arredamento acquistando un mobile da una antica farmacia in chiusura, che servisse da vetrina per i dolci e separé tra la bottega aperta al pubblico e il piccolo laboratorio.

Quel mobile è ancora li, imponente e caldo, vigile pastore dei dolci esposti in vetrina.

Ancora è lì, presentato con lo stesso orgoglio da Anna, la sorella più piccola dei Russo. Un po’ in contrasto con la sala destinata ai clienti, meno curata nei dettagli, poco accogliente e fredda d’inverno. Un contrasto accettabile perché rispecchia autenticamente le peculiarità dei fratelli, divenuti pasticceri contro la volontà dei loro genitori.

Accogliente, fiera e intelligente, Anna è l’anima della pasticceria Russo. E’ lei che tiene unita la famiglia mediando tra il laboratorio e la sala, tra i fratelli, tra l’azienda e i clienti, tra il passato e il futuro della pasticceria. E’ l’unica dei tre ad avere una figlia e due nipoti, speranza di continuità di una tradizione ormai secolare nella produzione di dolci che va preservata e tramandata.

Introverso, delicatamente schivo, Salvatore sta alla cassa, accenna un sorriso distaccato senza mai riuscire a lasciarsi andare. Gentile su richiesta, senza troppo pretendere, è lui che si occupa con attenzione e meticolosa dedizione della contabilità dell’azienda familiare.

E poi Maria Nevia. Curiosa, creativa, vivace e testarda. La vera pasticcera: il cuore dei Russo. Infinitamente appassionata. Da 49 anni lavora, stampa e decora la pasta reale.

Altra specialità composta da zucchero e mandorle che insieme danno vita ad un’imitazione della natura nelle sue infinite forme.

Una pasta che si trasforma nei frutti locali, nelle mele dell’Etna (le cosiddette puma cola) o nelle fragole di Maletto, nei fichi d’india, negli agrumi (mandarini e tarocchi), e poi frutta secca come i pistacchi di Bronte.

E ancora in ortaggi, cozze, “masculine ra magghia” e pesci di ogni tipo, tutto rigorosamente siciliano. Impossibile alla vista distinguere tra il vero e il falso.

Dai Fratelli Russo non potete perdere la mostarda fatta con mosto cotto, ridotto della metà, e cenere di sarmenti in infusione. Niente zucchero aggiunto. Bastano i sarmenti (tralci di viti) ad addolcire l’uva ed eliminarne l’acidità. Il tutto viene poi filtrato, addensato e messo negli stampi per la stagionatura.  Ne vengono prodotte due tipologie. La mostarda fresca, consigliata per i più golosi, è una crema gelatinosa e scura ricoperta di cannella, da mangiare al cucchiaio. A pezzi invece quella stagionata, presentata su foglie di alloro che anticamente avevano la funzione di allontanare gli insetti durante la stagionatura.

In un’antica pasticceria siciliana è obbligatorio assaggiare la cotognata. Provarla significa entrare nelle case di ogni singola famiglia dell’isola ossessionate dalle tradizionali e cicliche preparazioni legate ai periodi dell’anno.

Preparata con mele cotogne, frutto aspro utilizzato solo per preparare marmellate e, per l’appunto, le cotognate, fatte indurire in stampi di terracotta, talmente belli da diventare col tempo oggetti di arredo.

Consigliamo di assaggiare le tortine paradiso, versioni in miniatura della torta paradiso, inventate dal padre dei Russo, Giuseppe, che volle trovare il modo di non buttare via i tuorli delle uova usate per creare le paste di mandorla.

Ne vennero fuori delle tortine golose ma un po’ dure, motivo per cui vennero in seguito ammorbidite con l’aggiunta di albume.

Da provare anche i pasticcioni o le paste secche fatte con la “zuccata”, una zucca lunga dalla buccia verde e dalla pasta bianca, che viene fatta decantare su sale grosso per perdere acidità e lavorata poi con lo zucchero. Ottima anche come frutta candita.

Infine, nonostante la nostra scelta iniziale, non possiamo fare a meno di consigliare il cannolo, meglio ancora se con crema pasticciera e spolverata di cannella regina. Se poi fate colazione e i vostri palati non si sono stancati di peccare di gola, prendete una granita alla mandorla amara e un croissant al miele dell’Etna.

Lo so, siamo in Sicilia, mica in Francia, ma sappiamo fare tutto.

 

Pasticceria F.lli Russo

Via Vittorio Emanuele, 105 – S. Venerina (CT)

Tel/Fax +39 095 953202

email: informazioni@dolcirusso.it

http://www.dissapore.com/grande-notizia/pasticceria-russo-santa-venerina-recensione/

 

 

 

Nonna Vincenza è di un paesino in provincia di Enna, Agira. Qui, sin dall’età di sei anni, aiuta zia Provvidenza, suora laica e dolciera del paese, nella produzione artigianale della tipica pasticceria tradizionale siciliana destinata ai matrimoni. Era infatti usanza per i nubendi andare a prenotare prima i dolci da Sr Provvidenza per poi pensare a tutto il resto. Così Vincenza, giorno dopo giorno, impara i segreti della zia e si appassiona al punto da aprire, molti anni più tardi, la sua pasticceria: I dolci di Nonna Vincenza. Ma andiamo con ordine. Dopo l'infanzia passata ad Agira, si innamora del capo coro della chiesa del paese, Giuseppe, lo sposa, mette su famiglia e, sempre con lui, si trasferisce a Catania

. Una volta arrivata nella città barocca, la sua passione per i dolci non svanisce: lei vorrebbe aprire una pasticceria ma il marito, con la passione per la musica, non è poi molto d'accordo. La cosa non ferma Vincenza che comincia a preparare dolci per i parenti e gli amici, nel frattempo i sette figli crescono e la convincono a concretizzare il suo sogno. Arriviamo così al 5 febbraio 1997, festa di Sant'Agata, la più importante festa religiosa di Catania. È in questo giorno che viene inaugurata la sede storica della pasticceria a gestione familiare, caratterizzata da uno stile elegante, raffinato, e che sta espandendosi in Italia e prossimamente all'estero.

Dal 1997 a oggi la pasticceria di Vincenza ne ha fatta di strada, anche grazie alla lungimiranza dei tre figli coinvolti a tempo pieno negli affari dell'azienda. Alessandro si occupa della produzione, Salvo dell'aspetto commerciale e Paolo Pistone, il primogenito, è colui che sceglie le materie prime. “Il tutto è coadiuvato da mamma Vincenza che, nonostante i suoi ottantatré anni, ci consiglia e ci sostiene”. Paolo parla a nome di tutti i fratelli. “È soprattutto grazie a lei che oggi abbiamo dieci punti vendita tra Catania, Roma e Bologna ed è sempre grazie alla sua capacità di appassionarsi e di appassionare che continueremo a diffondere le tradizioni siciliane in Italia e tra un po' anche all'estero”. La prossima apertura è prevista agli inizi di dicembre nella Strada Maggiore, centro di Bologna, e tra non molto apriranno negozi a Londra, in zona Oxford Street, e a New York: “Ci stiamo già muovendo e siamo andati a vedere un po' di location papabili. I negozi saranno a Manhattan mentre il laboratorio sarà in periferia. In questo caso il caseificio si farà in loco perché il latte di qualità lo si può procurare ma per quanto riguarda la ricotta, questa, necessita di tecniche e procedure particolari”. Tale scelta strategica, portare il loro know how siciliano a New York utilizzando le materie prime del luogo (lì dove è impossibile trasportarle da Catania), è applicabile a tutte le città e sembra vincente dal punto di vista della qualità dei prodotti. “È innegabile che la ricotta fatta al momento, con la sapienza dei casari siciliani, sia migliore di una ricotta, proveniente sì dalla Sicilia, ma che ha dovuto subire ore e ore di volo”. Immagine correlata

Se da una parte c'è questo slancio verso l'estero, dall'altra Paolo e i suoi fratelli stanno puntando molto sul loro territorio. “Stiamo investendo molto sull'agricoltura: abbiamo undici ettari di mandorleto ad Avola e un pistacchieto di cinque ettari a Bronte. Sempre a Bronte, abbiamo gli aranceti e vogliamo istallare delle arnie per il miele (che ora comprano a Zafferana Etnea e a Sortino), tra le coltivazioni. L'obiettivo? L'auto approvvigionamento, anche se per ora la produzione non è sufficiente”. Oltre alle coltivazioni, Paolo, vorrebbe aprire un caseificio anche a Catania. Per ora la ricotta arriva dal caseificio Fioretta e dal consorzio Ragusa Latte. Questa viene poi trasportata a Roma e a Bologna dentro dei furgoni di loro proprietà, rispettando la catena del freddo a 4° C

Oltre alla ricotta, vengono trasportati tutti i loro prodotti: pasticceria secca alle mandorle, ai pistacchi, al mandarino, all’arancia; infasciatelli, buccellati, nocatole, olive di sant’Agata, pesto di pistacchi, creme in barattolo. E ancora cassatine e cassatelle, pasta di mandorla, dalla frutta martorana ai pasticcini aromatizzati al limone, al mandarino, al caffè o al pistacchio. Non solo dolci ma anche i rosoli della Nonna, al limone, alla cannella, all'alloro, ai fichi d’india, al latte, al finocchietto... Ogni giorno arriva tutto dalla Sicilia, insieme al resto della materia prima per la produzione fresca che, nella maggior parte dei punti vendita, avviene nel laboratorio per garantire la qualità dei prodotti. E negli altri punti vendita, quelli che il laboratorio non ce l'hanno, come vi organizzate? “In questi casi facciamo arrivare i cannoli già pronti: all'interno della cialda c'è uno strato di cioccolato per evitare che si inzuppi la cialda stessa. Lo sappiamo che non è il massimo ma secondo noi è il male minore. Tra l'altro quando nell'aeroporto di Catania proponevamo i due tipi di cannoli, quelli classici e quelli con copertura di cioccolato, vincevano i secondi”.

E a proposito di aeroporti, ci sono due punti vendita in quello di Catania (agli arrivi e alle partenze), uno nell'aeroporto di Bologna e, ultimo in ordine di apertura, in quello di Roma Ciampino. Ma cosa li ha spinti ad aprire dei negozi in luoghi così spiccatamente non luoghi? “Dopo l'apertura nella piazza della chiesa barocca di san Placido a Catania ci siamo resi conto che i nostri prodotti sono apprezzati sia dagli italiani che dagli stranieri. Nonostante oggi la percentuale di vendite agli italiani sia del 60%, contro il 40 di quelle destinate agli stranieri, queste ultime stanno aumentando moltissimo. Così abbiamo pensato di aprire negli aeroporti, dove si possono intercettare anche molti stranieri. L'investimento sta dando i suoi frutti, basti pensare che il punto vendita dell'aeroporto di Catania è il nostro maggior store a livello di fatturato”. Risultati immagini per nonna vincenza

È ovvio dunque che la famiglia Pistone abbia dovuto investire molto ma è altrettanto evidente che le cose stiano girando bene sia a livello economico (dato che dalla loro parte c'è anche un'economia di scala che permette di trattare sul costo delle materie prime) sia a livello di immagine. Sì, perché nei loro punti vendita viene proposta la tradizione siciliana, quella giusta, quella vera, che non ha nulla a che fare con i cannoli ingialliti che si vedono in molti bar e pasticcerie. “Per mantenere qualità e artigianalità ci deve essere prima di tutto una selezione spietata delle materie prime. Poi un controllo costante su tutti i prodotti che escono dal magazzino centrale di Catania e infine bisogna avvalersi di personale preparato: tutte le persone che lavorano nei nostri store sono formate. Ciascuno di loro sa come riconoscere una ricotta buona. Così, anche se ci dovesse essere un intoppo durante il trasporto, tutti sono in grado di accorgersene. Il segreto è assaggiare. E loro lo devono fare sempre, perché ci sono ingredienti che all'olfatto sembrano buoni e poi, al gusto, si rivelano difettosi. Per esempio, se il miele surriscaldato ha un retrogusto di fumo, non va bene”. E un cliente che prima di comprare, e dunque assaggiare, deve giudicare attraverso la vista, come fa a riconoscere un buon cannolo? “Diffidate dai colori sgargianti: no ai pistacchi verde fluo o ai canditi arancione fosforescente. A proposito di canditi, io li eviterei perché coprono il sapore delicato della ricotta che deve essere bianca. Il color giallino è intollerabile. Poi tra cialda e ricotta non ci deve essere spazio, se c'è, i cannoli hanno più di un giorno”. E così, oltre ad aver scoperto una bella storia imprenditoriale tutta italiana, abbiamo anche il tutorial per riconoscere il cannolo impeccabile...

www.dolcinonnavincenza.it

 

a cura di Annalisa Zordan

http://www.gamberorosso.it/it/food/1020701-i-dolci-di-nonna-vincenza-tutta-la-storia-da-catania-a-new-york

 

 

 

In centro, famoso era Finocchiaro, preferito da attori di varietà quando essi si esibivano a Catania, e dove abitualmente consumavano i loro pasti i giocatori della locale squadra di calcio. Altro ristorante rinomato era il "Venezia" in via Montesano e gestito da Indelicato. Ma si andava volentieri da Gennarino, in piazza Manganelli, o al "Rumba", angolo vie Etnea Carcaci (al primo piano) gestíto da De Maria, o da Alba, che prima di trasferirsi in via Corridoni aveva l'originaria sede, se non ricordo male, in via Penninello e si chiamava "Bolognese". Altri noti ristoranti di quel periodo: il "Trinacria", il "Ciclope", Lorenti, "Rivoli", "Antonella" (piazza G. Verga) noto anche per una frequentazione perlomeno sospetta.
A Piano Tavola venne aperto (durò poco, purtroppo) il "
Chicchirichì", caratteristico locale in cui si servivano pietanze romane, che non disturbò la fama di La Rosa (porchetta e zuppa di fagioli) ubicato nei pressi. A nord, verso la città alta, c'era "Donna
Palma" e più sù, a Cerza, Don Santino dove con pochi spiccioli si gustavano ottimi legumi.
Altre mete, per le crispelle,
Stella, Pistorio (che iniziò in piazza Carlo Alberto) e Milardí in piazza Spirito Santo. Per le pizze era privilegiata "La Fattoria", all'interno del "Sangiorgí", in cui furoreggiava Carmine che fu il primo a portare la vera pizza napoletana a Catania.
Fra i bar e le pasticcerie è d'obbligo naturalmente ricordare Caviezel dei mitici
Nicolosi, Alíoto, Leopardi, Anastasi, Costa, Caudullo, Ragusa, Fassari, i Tusa, Licciardello, Rutella, Gíuffrida, Alivu, Campagna ecc.; Ardizzone, sempre in via Etnea alle spalle della statua di Garibaldi; Tripi, che rimaneva aperto l'intera nottata e dove io presi una terrificante sbornia di birra al demoniaco jocu du patruni supra e sutta; il "Bocconcino" (di Carmelo Li Sciotti) in piazza Duomo che fungeva anche da rosticceria; Corsaro in via Santa Maria del Rosario, bar dei giornalisti e quindi male in arnese.
In questa brevissima rassegna condotta sul filo dei ricordi, dunque necessariamente incompleta (e delle omissioni ne è corresponsabile l'amico Rodolfò Bandieramonte che mi ha aiutato in tale sforzo di memoria), vorrei per mio e, nonostante tutto, altrui decoro non menzionare le varie putìe in cui con immonda continuità ci riversavamo la sera per ingozzarci di vili pasti e altrettanti vili libagioni. Ma non posso, quantomeno per la memoria del lettore, non ricordare (oltre
Don Neddu) la putìa accanto al Castello Ursino e i cui titolari avrebbero poi realizzato il "Nord Ovest", oggi in nostalgica rovina.

da "A Catania con amore" di Aldo Motta - Edizioni Greco

 

 

 

Il ristorante Gennarino, presso il Palazzo San Nicolla in zona Quattro Canti (Via Antonino di Sangiuliano, 281)

 

 

 

Oggi al Caffé si va per prendere il caffé. Da soli, o anche in compagnia di un amico, col quale, volendo, si possono scambiare i soliti convenevoli, e spesso anche insipide parole di prammatica. Il tutto presentato in confezione ridotta e sorbito come il più ristretto dei caffé. Giusto il tempo dí vuotare la tazzina e accendere la sigaretta. Poi, un saluto frettoloso e via di ritorno alla base di partenza: casa, ufficio, negozio, scuola; quello che sia.
Oggi si va al Caffé per assumere caffeina, di solito nelle ore meridiane. Ma se si va nel pomeriggio, non cambia niente. E il Caffé, inteso come locale nel quale si ammannisce l'aromatica, bevanda, può essere sempre lo stesso, magari quello più a portata di mano ma può anche essere un altro, o cento altri, all'angolo di casa, nel centro storico, in un lontano quartiere di periferia.

Passare da un Caffé all'altro, da un giorno all'altro, o nell'arco della stessa giornata, non interessa nessuno, non scandalizza nessuno, non dice niente a nessuno, purché nella tazzina ci sia il contenuto che ci deve essere, lungo, stretto, amaro, dolce.
Una volta, fino all'esaurirsi degli anni Trenta, al Caffé si andava píù nel tardo pomeriggio che di mattina, sempre nello stesso locale. E, a meno dí fatti eccezionali o di sopravvenute esigenze, non erano ammesse deviazioni, né tollerati ripensamenti, né tantomeno tradimenti.
Si andava, forse anche per degustare una tazzina di caffé, certamente per l'ineffabile piacere di incontrarsi o magari scontrarsi con gli amici, dialogare, esibirsi, pontificare, scambiare pensieri, idee, opinioni. Naturalmente, seduti a proprio agio, come nel più accogliente dei salotti. La tazzina consumata all'impiedi non era pensabile, tranne al bar della Stazione, o in certi locali anonimi, quando non se ne poteva fare a meno.

Nel centro storico della città, prima degli anni Trenta, prosperarono Caffé di così chiara rinomanza da passare se non alla grande storia, certamente alla piccola storia di Catania.
Furono locali ricchi d'una propria identità, dove persone di spiccata levatura, d'alto ingegno, di nobile prosapia, trascorrevano ore e ore a discutere, a confrontarsi, a litigare. A bassa o ad alta voce, a seconda della scabrosità dell'argomento, dentro nei mesi freddi, fuori d'estate, sempre allo stesso posto, attorno allo stesso tavolo, serviti dallo stesso cameriere.
In quel tempo, in alcuni di codesti Caffé (ma anche nel retro di certe farmacie e nei séparés di talune "case" di lusso), vennero discussi argomenti di politica locale, si stabilirono nuove alleanze, si formularono programmi, si avviarono contese cavalleresche.
Ma, con la politica, non si esauriva il discorso. Si dibattevano pure problemi di carattere letterario, di poesia, di arte, di costume. Si parlava, si sparlava, si recitava a soggetto.

Ai tavolini di quei Caffé, scrittori già arrivati vergarono pagine significative di alcuni loro romanzi. Furono quelli i Caffé politici e i Callé letterari. Ritrovi che oggi potremmo chiamare i Caffé della memoria.
Fu prerogativa tutta catanese? No.
Milano, Roma, Firenze, Padova, Venezia, Viareggio, Pisa, Napoli ebbero i loro Caffé della memoria: il Rosati, il Greco, lo Strega, l'Aragno, il Giubbe rosse, il San Marco, l'Ussero, il Gambrinus.
Scriveva Riccardo Bacchelli: "Se si pensa che un tempo andavamo al Caffé, in media due volte al giorno, le prime ore del pomeriggio, e a passarvi la serata, ci si avvede di quest'altro cambiamento nel costume nazionale. La più parte dei Caffé hanno chiuso; i pochi che resistono sono cambiati; pochissimi sussistono, e come cimeli di tempi andati. Il carattere pubblico, aperto, spontaneo e libero delle riunioni ch'essi procuravano, aveva il gran pregio della liberalità; e gli stessi vizi e difetti ad esso inerenti, coi parlatori a vanvera quando c'erano, vi trovavano naturale e spontanea correzione. ( ... ) La liberalità di tal costume, che esigeva e importava una semplicità e discrezione civile e civica, cominciò a essere osteggiata e ferita a morte da quando principiò la sopraffazione a sormontare la díscussione, e alla scelta ragionata fu sostituita l'imposizione imperiosa: politica, ideologica, polemica, diffamatoria, e finalmente verbalistica, ingiuriosa, dispotica... Non si tratta di rimpiangere né di ripristinare caffé-salotto perché i rimpianti sono oziosi e il voler ripristinare è vano. Per altro, in un consorzio dove tendiamo ad essere ognuno sui piedi e a ridosso dell'altro, senza vera ed efficace comunicazione socievole, qualche consuetudine e istituto che sostituisse il caffé-salotto non sarebbe inutile".

fonte "Catania anni Trenta"

 

 

 

 

Ubicata nel lato ponente-tramontana del palazzetto Biscari, constava di due ampi saloni e aveva l'ingresso su piazza S. Nicolella. Gestita dai fratelli Tscharner, svizzeri d'origine catanesi d'adozione, la Birraria era il ritrovo preferito dai giornalisti, ma anche dai commercianti, negozianti, funzionari della vicina Posta.

 I giornalisti, preponderanti e rumorosi, "occupavano due tre tavoli del settore loro riservato, discutendo commentando vivisezionando i fatti del giorno, preferendo fatti e misfatti politici, esaltando o censurando ministri senatori deputati, con una libertà di giudizio che li rendeva deliziosamente interessanti. Per loro gli Albertina, i Luzzatto, i Morello, gli Scarfoglio altro non erano che colleghi collocati dalla geografia e dal caso, più in vista; con costoro, all'occasione, volentieri polemizzavano; e le occasioni non mancavano, giacché è utile tener presente che uno che se ne intendeva, Francesco Crispi, aveva definito Catania di quegli anni la più difficile prefettura del Regno, e Catania, dai caporioni ai maneggioni della politica, a tale definizione teneva assai, se ne gloriava, anzi ".

Non vi furono intellettuali, oltre ai giornalisti, fra gli abituali frequentatori della Birraria? Vi furono. Basterà ricordare Francesco Guglielmino e Nino Martoglio. Nel '14, la Birraria si trasferì al pianterreno del palazzo Tezzano, con tre ingressi su via Etnea.

 

 

 

Il nuovo locale si impose all'ammirazione dei catanesi per l'ampiezza, l'armoniosa compostezza delle strutture interne, l'aristocratica sobrietà dell'arredamento.

Sul frontale esterno, al riparo d'una longilinea pensilina di vetro, campeggiavano ventidue grandi lettere d'ottone brunito: Grande Birraria Svizzera. Tra un ingresso e l'altro, guarnite dagli stipiti intagliati in pietra tenera di Siracusa, facevano spicco due eleganti lastre di marmo con l'indicazione di alcune specialità della Ditta. Ne fu autore l'architetto Paolo Lanzerotti, gentiluomo e musicologo, professionista di largo ingegno, apprezzato e richiesto a Catania e fuori.

Inaugurata il 29 maggio del 1915, con una fastosa cerimonia che riempì le cronache cittadine, la grande birraria divenne il ritrovo più accogliente, ambito e salottiero della città, in aperta gara col Diana di Milano, allora ritenuto il più elegante Caffé d'Italia.

Un'orchestrina di taglio viennese deliziò le serate della Catania bene che, dame in testa, affollò l'aristocratico locale in quell'epoca.

Scomparsi i fratelli Tscharner, prima il maggiore, poi il più piccolo che si era sposato ad un'avvenente donna, già violinista nel l'orchestrina di cui si è appena detto, nei primi anni Trenta il prestigioso locale passò nelle mani dell'indimenticabile Peppino Lorenti.

Riammodernato secondo il gusto e le esigenze dei nuovi tempi, impreziosito da alcune sanguigne di Roberto Rimini, dotato di un'ampia sala di biliardi nei cantinati, la grande birraria si trasformò in Gran Caffé Lorenti, perpetuando i fasti della sua tradizione.

A quei tavolini infiorati, affluirono personaggi di rango, professionisti di grido, artisti famosi, alti gerarchi.

Ne ricordiamo solamente alcuni: Attilio Momighano e la sua bellissima moglie; Francesco Guglielmino dall'inseparabile pipa; Giuseppe Villaroel infaticabile ricercatore d'immagini poetiche e di donne procaci; Vitaliano Brancati coi fedelissimi Leone, Giardina, Rapisardi, Centorbi, Ardizzoni, Rossi, Blandini.

Un tavolo a parte eran soliti occupare Vincenzo Zangara, Lo Giudice e Pietrangelo Mammano.

Saltuariamente vi bazzicavano alcuni giovani di belle speranze, come Arturo Mannino e Vittorio Frosini, ai quali incombeva l'onere e e l'onore di accompagnare a casa i due poeti, Villaroel e Guglielmino, quando s'eran fatte le ore piccole.

Serate memorabili furono quelle in cui coi maestri vollero misurarsi, in dotti conversati o in tenzoni poetiche estemporanee, Ferdinando Cajoli, Vito Mar Nicolosi, Prestinenza, Giacomo Etna, Gesualdo Mantella.

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1930 Giuseppe Lorenti, avendo saputo che il gestore Rizzo si accingeva a lasciare la Birreria svizzera di via Etnea 141-143-145, la prese in affitto. Il locale, dopo pochi mesi, gli fu offerto in vendita e Lorenti lo acquistò. Poteva contenere 500 persone sedute a tavolino, funzionava da ristorante, bar, gelateria e sala da biliardo.

Nel 1934 divenne un café chantant: per la prima volta nella storia di Catania in un pubblico esercizio suonava un’orchestra, composta da sette donne e diretta dalla borghese Soffritti. Questo divenne il locale di moda di Catania, nel quale conveniva la migliore società.

Nel 1935 il Gran caffè Lorenti lanciò a Catania i coni gelati (semplice 20 centesimi l’uno, con panna 50 centesimi), che andavano a ruba; fra gli ospiti di riguardo, prima che scoppiasse la guerra, il gran caffè accolse il duca di Windsore il re d’Inghilterra Edoardo VIII.

 Nel 1939, il locale fu arricchito di sei grandi dipinti murali del pittore Roberto Rimini e durante la guerra era anche meta dei militari tedeschi; l’8 luglio 1942 fu parzialmente danneggiato da una bomba e, pertanto, chiuso.

Riparato in seguito, fu occupato dalle truppe inglesi; al pubblico italiano fu riaperto nel 1945 e nella serara inaugurale si esibì un’orchestrina diretta da Mario Giusti (batterista) e composta tutta da catanesi.

Mentre si accingeva a riparare definitivamente il locale, Lorenti ricevette offerte vantaggiose dall’UPIM, per l’affitto; fu così che, nel 1948, l’ampio locale fu ceduto in affitto alla grande organizzazione di vendita e il Gran caffè Lorenti cessò di esistere con grande rammarico dei catanesi.

E' morto a 86 anni Ugo Lorenti. Finisce con lui una dinastia di commercianti conosciutissimi a Catania. Il commendatore Peppino Lorenti, il capostipite, prima della seconda guerra mondiale gestiva il ristorante del Sangiorgi, in via di San Giuliano, dove si esibivano le grandi compagnie di rivista. Poi aveva realizzato la Birreria Lorenti in Via Etnea, un vasto locale di lusso di fronte alla Pasticceria Svizzera dei Caviezel.
Allora Via Etnea era il salotto di Catania che si racchiudeva nei cento metri tra piazza Stesicoro e la statua di Garibaldi di fronte alla Villa Bellini e all'albergo Italia. In quei 100 metri c'era il «cuore» della città: salendo verso la Villa sulla sinistra c'erano il negozio di tessuti degli svizzeri Caflish, la farmacia chic di Spadaro Ventura, la rosticceria Giardini, il cinema Sala Roma, la Birreria Lorenti, l'orologeria Cicala, e il palazzo delle Poste; sulla destra il negozio di dischi Riva, la Pasticceria dei Caviezel, l'ingresso dell'albergo Central Corona con due leoni di marmo, il negozio di occhiali Balestrazzi dove lavorava la commessina Eugenia Bonino eletta Miss Italia, lo studio fotografico del signor Marino nel cui archivio c'erano le foto della vecchia Catania e poi le rinomate pasticcerie Spinella e Savia prima di svoltare in via Umberto. I locali della Birreria vennero poi ceduti all'Upim e Peppino Lorenti, padre di Ugo e Ferruccio, decise di trasferirsi al Viale XX Settembre per realizzare assieme a Ugo il gran Caffè Lorenti. Il commendatore aveva capito con largo anticipo che il Viale sarebbe diventato il nuovo salotto della città. All'angolo con piazza Giovanni Verga, il Caffè Lorenti divenne presto frequentatissimo da avvocati e loro clienti per la vicinanza del Palazzo di Giustizia. Ci andavano anche i giovani della Catania bene perché in un salone si tenevano i primi tè danzanti. D'estate i tavolini venivano messi fuori fino a tarda sera e molti ragazzi aspettavano che passasse l'autobus per il Lido dei Ciclopi inaugurato agli inizi degli anni 50. Era un punto di ritrovo gradevole
perché in quegli anni non erano molte le auto in circolazione e quelle poche che giravano erano viste con grande curiosità.
Al Caffè Lorenti la domenica mattina erano soliti ritrovarsi
gli ex pallanotisti catanesi, quelli che avevano fatto parte della bella gioventù catanese, Franco Pintaldi «Taralla», Ciccio Calabretta, Saverio Barbagallo, Geo Magrì, i fratelli Armando e Pietro Cucinotta e tutti gli altri compagni d'avventura. Poi il figlio del commendatore Ugo, realizzò un suo ristorante, battezzato Rivoli, che era uno dei più belli di Catania ed ebbe lunghe stagioni di successo. Il ristorante Lorenti si spostò anche alla Nave, nella villa appartenente al notaio Pittella sul mare di Ognina. Stavolta non ebbe gran fortuna, forse perché era troppo di nicchia, tanto che chiuse e poi vi si insediò il Club della Stampa allora retto da Filippo Galatà, giornalista ed alto dirigente della Provincia.
Per più di 70 anni il nome della famiglia Lorenti è stato sinonimo di ritrovi signorili: la morte di Ugo richiama con nostalgia il ricordo di quella Catania che «chiu va e chiu bella addiventa», come diceva Turi Ferro alla Radio in «Tutta la città ne parla».

Tony Zermo

 

 

il Gran Caffè Lorenti

 

 

 

 

foto di Stefano Corso (Cufter)

 

 

 

RICORDI DEGLI ANNI PASSATI

 

         

 

Il ristorante del Teatro Metropolitan (foto di Franz Cannizzo)

 

 

 

anni 30-40 - la succursale estiva alla Villa Bellini

 

 

 

 

 

 

LA PIZZA A CATANIA

 Chi di noi non è cresciuto con il buon sapore della pizza .gioia e delizia non solo per il palato ma anche per i nostri occhi ,è uno degli alimenti più gustosi e ricercati ;nel corso degli anni le nostre città si sono riempite di pizzerie ed i gusti sono notevolmente aumentati;a volte riesce persino difficile scegliere una pizza leggendo il menu ! E non è sempre necessario andare in pizzeria poiché panifici e bar sono attrezzati a soddisfare i gusti dei propri clienti.....insomma la pizza oggi si trova ovunque e dovunque!

Ma non è stato sempre così, anzi i nostri nonni e bisnonni non hanno avuto il piacere di conoscerla e gustarla !È un piatto che a Catania e in tutto il mondo è stato "adottato" ma è un'invenzione napoletana.

Tralasciando l'origine della pizza, quando arriva per la prima volta la pizza a Catania e come ci arriva?

Vi sorprenderà sapere che la sua presenza a Catania è, diciamo,piuttosto recente; essa arrivò soltanto nel dopoguerra, nel novembre del 1946! Pare che fu preparata per la prima volta da due pizzaioli napoletani nel ristorante aperto dal cav. Guglielmo Sangiorgi adiacente all'omonimo Teatro!

Eccone il racconto di Nello Pappalardo nel libro "Il Sangiorgi:novant'anni di vita spettacolo e costume a Catania ":

<<Nei primi giorni di novembre si apre LA FATTORIA, un ritrovo, che nell'architettura riproduce un tipico cortile agreste con falsi balconcini, botti di vino e foglie di stucco. Funge da "ridotto "da dancing, e presto vi si potrà gustare anche la famosa pizza confezionata da due pizzaioli napoletani veraci ingaggiati appositamente, i fratelli Carmine ed Alfonso Marrazzo ,con i quali collabora,per il fondamentale momento dell' "infornata" ,il catanese Carmelo Uccellatore. All'inaugurazione, con una apprezzabile manifestazione di schietto sapore folkloristico,che fu radiotrasmessa ed alla quale partecipò il complesso de "Gli amici del Dialetto "(Corriere di Sicilia, 8 novembre 1946), il poeta Giovanni Formisano, autore del testo E vui durmiti ancora, dedica al gestore una poesia in dialetto, A Guglielmu Sangiorgi.>>

Turi Giordano per Obiettivo Catania

 

 

 

 

 

 

 

I LOCALI OGNINESI

 

 

 

 

 

 

il ristorante "scoglio di frisio" aveva una terrazza su palafitte, attaccato alla "villa Spadaro" che in seguito divenne "ristorante Costa Azzurra". Gli scogli in primo piano furono stravolti, servirono da fondamenta su cui si impiantò l'allargamento della terrazza Costa Azzurra, è visibile lo storico "scoglio bianco" e l'antichissima "noria" circolare

Mario Strano

 

 

          

 

 

La Terrazza Balsamo fondata nel 1944, ormai storico locale Catanese, racchiude i profumi, i sapori e gli incanti dell'isola, esaltando gli aromi semplici e genuini delle ricette tipiche locali.

Una cena a base di pesce freschissimo, una pizza fatta secondo la migliore tradizione Siciliana, queste sono solo alcune delle tentazioni che offre la tradizione gastronomica di Catania. Questo locale offre un ricco menù a vostra scelta per ogni tipo di sapore mediterraneo terra di mare.

Oggi non esiste più.

 

 

 

 

IL PICCOLO GRANDE LORENTI, IMPRENDITORE CATANESE

 

Giuseppe Lorenti, un uomo piccolo,intelligente,straordinariamente attivo,diede vita a Catania ad una serie di iniziative nel campo della ristorazione.Nato ad Agrigento nel 1892,emigrò giovanissimo in Argentina,lavorò come fattorino nella locale azienda dei telefoni e progredi' fino ad un passo dall'assunzione come funzionario.Ma lo scoppio della I Guerra Mondiale lo fece rientrare in Italia,dove fu spedito al fronte,fu ferito,trasportato a Catania,poi assegnato ai servizi di mensa della caserma "Feo".Trovò moglie e fissò cosi' la Sua residenza definitiva a Catania.Fu nel 1930,ritiratisi Timarco e Rizzo che assunse la gestione dell'intera "Birreria Svizzera" di Via Etnea 141-143-145,locale che dopo pochi mesi acquistò a condizione vantaggiose (1 milione di lire che fini' di pagare,a rate,nel 1940).Il "Gran Caffè Lorenti" poteva contenere 500 persone sedute a tavolino.Nel 1934 divenne "Caffè Chantant" (per la prima volta a Catania in un pubblico esercizio suonava un'orchestra,composta da sette donne e diretta dalla Bolognese Soffritti).

 

anni Sessanta - la nave sulla scogliera di San Giovanni Li Cuti. Poi Club della Stampa e Lido Gambero.

 

Questo divenne il locale alla moda di Catania,nel quale,sia la mattina che la sera, conveniva la migliore società Catanese.Nel 1935 lanciò a Catania i coni gelato (inimitabili i lattemiele) e vendette ben 10.000 coni quando il gerarca PNF Achille Starace,si recò per un'adunata al Giardino Bellini.Accolse il Duca di Windsor e nel 1939 il locale fu arricchito da sei grandi dipinti murali del pittore Roberto Rimini.Durante l'ultima guerra fu frequentato dal maresciallo Tedesco Kesselring (fu effettuato anche un collegamento radiofonico con Berlino).L'8 Luglio 1943 il "Gran Caffè" furono parzialmente danneggiati dai bombardamenti aerei e quindi chiusi.Riparati,in parte,furono occupati dagli Inglesi e riaperto al pubblico nel 1945.Nel 1948 Lorenti cedette in affitto i locali alla "Upim",a fronte di un'offerta vantaggiosa e si propose con altre iniziative imprenditoriali in città, sia in Corso Italia che sul lungomare di Catania,a San Giovanni Li Cuti,scorcio che possiamo ammirare in questa splendida cartolina che Mi è stata spedita da un amico della famiglia Lorenti,Alessandro Russo ,che ringrazio per il gentile pensiero nell'invio di questa splendida immagine d'epoca (siamo durante gli anni '50 del secolo scorso),insieme a molte altre che pubblicherò in questi giorni su questa pagina e domani, domenica, con alcune anticipazioni sulla mia rubrica settimanale sul giornale on line NewSicilia .

Franz Cannizzo

 

quel che resta del Selene

 

 

 

 

 

Storia non meno colorita e illustre ha il Baglio del Cav. Vincenzo Tricomi. Attiguo alla dolceria dello stesso Tricomi, il Baglio si apriva nella corte del palazzo Raddusa, con ingresso su via Etnea 28.

Di lunghe radici (la sua nascita rimonta al 1828), visse stagioni più o meno fortunate, ma fu sempre all'altezza di se stesso.

Accolse nel suo seno "la politica locale, le idee di De Felice, gli epigrammi di Picardi, gli strali di Rapisardi, le arrabbiature di Giovanni Milana, i sonetti di Nino Martoglio, le palinodie di Gigi Placchi, l'enfasi di Vincenzo Saitta, i dormiveglia di Salemi, le romanze di Giovanni Falsaperia, le apparizioni di Mario Ciancio, i ditirambi di Corvaja. Caro a tutti, era come un occhio di buona salute, arzillo e loquace ".

Era anche di poche pretese, il vecchio Baglio: tre soldi mezza granita e un panino, due soldi un caffé, sei soldi un gelato.

Le lire in giro erano poche a quei tempi, ma troppe le mosche, specialmente d'estate, e il Baglio, d'estate, viveva la sua pittoresca, romantica giornata!

 

 

Un giorno, il Caffé di don Vincenzo Tricomi chiuse i battenti, e del Baglio non si parlò più per diversi anni.

Agli inizi degli anni Trenta, un uomo di grande mestiere e di grandissimo cuore, Alessandro Caviezel, rilevò l'ex Baglio, annessi e connessi, e nel solco della grande tradizione dolciaria, già sperimentata in via Etnea 202, lo trasformò in un raffinato ritrovo, dove non si parlò più di politica locale né più si recitarono odi e ditirambi, ma si degustarono gelati e sorbetti, preparati con materie di primissima qualità, come imponeva la serietà, lo stile, la rinomanza della Pasticceria Svizzera A. Caviezel e C.

La sede centrale si trovava in Via Etnea 200 e fu aperta nel 1914. Vi erano poi la succursale in Via Etnea 32, tra Piazza Duomo e Piazza Università, aperta dal 1927, e altre sedi a Palazzo Bruca in Via Vittorio Emanuele 201 e al castello Mirone in Corso Italia.

Per organizzare i propri ricevimenti, si appoggiava a palazzo Bruca, palazzo del Toscano, villa Manganelli, palazzo Biscari, ecc.

 

 

 

 

 

GLI SVIZZERI A CATANIA Gli svizzeri Alessandro Caviezel e Ulrico Greuter giunsero a Catania nei primi del '900, dove aiutati economicamente dalla ditta Fratelli Caflish, fondarono la Pasticceria Svizzera "A. Caviezel & C." con sede in via Etnea.

Dopo le prime difficoltà, comincio la espansione della produzione svizzero-tedesco-austriaca ad opera di valenti pasticceri provenienti da quelle nazioni. La sede di via Etnea fu restaurata nel 1949 diventando punto di ritrovo della migliore società catanese.

Ceralacca rossa su un foglio bianco, una scritta sfumata a confondere un ricordo d'infanzia... un'immagine, incontrata per caso, a stimolare un riflesso di sapori e di ricordi lontani... vaghe sagome di un passato che solo in parte mi appartiene tornato così a ricomporsi, come per magia...

....l'albero di Natale, sotto, una cesta colma di doni ... una scatola trasparente profanata dalle mani di un bambino dentro cui compare una scritta ancora poco leggibile: "cotognata"Caviezel"...

Mio padre, ancora giovane, zii lontani, borselli in mano, maggiolini e fiat 127 circolano per le strade di una città, di campagna, di paste prese da Caviezel...

La tv in bianco e nero, il volto di Mina, ancora reale, le sue canzoni, ...il campanile del borgo a ripassare le ore, lente e infinite ...e ti accorgi che forse basta poco per colorare di ricordi l'infanzia fugace ed effimera come tutte le cose destinate a cambiare o a sparire... ...così cambiò il volto di una città nobile, a diventare grigia, violenta deserta...

...così cambiarono le abitudini, fatte di fughe da un centro invivibile, ...così cambiarono i gusti ancora accecati da un ricordo stordito dalla nostalgia per un epoca bella e confusa......così sparì Caviezel...un giorno la città si sveglia torna il sole dopo una lunga notte buia.

Timidi ricordi fanno capolino e trovano spazi in angoli nuovi ed antichi che mutano in progressive certezze......"è vero Catania vive" par di sentire dire ai residui passeggeri già adulti all'epoca dei miei ricordi d'infanzia, ...spazzati i resti grigi di anni bui e deserti, l'orgoglio di chi ama la nostra città torna prepotente a farla rivivere......infine una scatola trasparente a custodire il profumo delle cotogne di Sicilia, ...un foglio di carta con la ceralacca rossa, ...il miracolo di un ricordo che si fa presente... ...odori, sapori unici, l'insegna più nobile di una città che opera torna a brillare nel cuore dei catanesi... ...e sembra dire ...ben tornati a Catania...ben tornato Caviezel...

 

Marcello Gulisano 31/10/1998 (da caviezel.it)

da Lucacaviezel.com

Ho curato per oltre quarant'anni il settore produttivo della nostra Pasticceria Svizzera, A.Caviezel & C. in Catania che contava nei momenti di maggiore fioritura in laboratorio oltre 70 fra pasticcieri e aiutanti. Tutta l'azienda, composta da tre pasticcerie ed un ristorante, contava oltre 200 collaboratori.

Insegno da oltre 30 anni nel settore della gelateria avendo iniziato l'attività con Corsi professionali per gelatieri al Politecnico del Commercio di Milano dove ho introdotto per la prima volta in Italia per gelatieri artigiani la tecnica della formulazione delle ricette attraverso il bilanciamento degli ingredienti.

Da allora mi dedico alla formazione professionale per inizianti ed all'aggiornamento continuo per gelatieri avanzati.

Ho collaborato alla costituzione della Scuola Europea del Gelato presso il CAPAC in Milano alla quale presto il mio contributo in qualità di esperto. Insegno anche presso CAST ALIMENTI, sede della Accademia dei Maestri Pasticcieri Italiani in Brescia, dove si svolgono in particolare Corsi di specializzazione per pasticcieri e gelatieri avanzati in occasione dei quali vengono rilasciati i Diplomi Master. Dedico il mio tempo disponibile alla conduzione di brevi Corsi di formazione, di aggiornamento e di specializzazione per gelatieri sia in Italia che all'estero.

Collaboro da anni con varie riviste del settore come "Il Gelato Artigianale", "Pasticceria Internazionale" e "Bar Giornale" e ho pubblicato due testi di base su "Scienza e Tecnologia del Gelato Artigianale " e "Scienza e Tecnologia del Semifreddo Artigianale", pubblicati da Chiriotti Editore di Pinerolo.

Mi sono stati assegnati numerosi premi e riconoscimenti tra i quali uno dei primi "CONO D'ORO" dal Comitato Nazionale dei Gelatieri Italiani, una MEDAGLIA D'ORO dalla Accademia dei Maestri Pasticcieri Italiani quale "Riconoscimento per avere comunicato ed insegnato l'arte del gelato artigianale in Italia e nel Mondo" ed una MEDAGLIA D'ORO dalla Accademia della Gelateria Italiana e dalla rivista Gelato Artigianale per "l'opera di didattica e diffusione della cultura del gelato artigianale profusa nella crescita professionale dei colleghi".

Ho collaborato con l'Istituto della Enciclopedia Treccani in Roma per la ricerca e la stesura di documentazione relativa alla storia del gelato.

 

 

Il lavoro mi apparteneva...parola di Luca Caviezel!

di Silvia Ventimiglia - 18 Febbraio 2013

 

La mattina dell'intervista sono andata, con lo spirito della giovane/vecchia, per un viaggio nel passato ed ho trovato un vecchio/giovane che mi ha portato a spasso per il presente ed il futuro. Bella lezione per chi, come me, coniuga piu' spesso il passato di quanto sia giusto e sano.

In una splendida mattina d' inverno, riscaldata da un sole primaverile, raggiungo a San Gregorio casa Caviezel. Mi attende Luca, classe 1923 (esattamente del 27 settembre), erede di quella grande famiglia svizzera che ai catanesi ha fatto conoscere le delizie della pasticceria mittleuropea e... non solo!

La A.CAVIEZEL PASTICCERIA SVIZZERA appartiene al Dna di Catania come la Villa Bellini, il Liotru e non c'è persona che abbia vissuto, tra il 1914 e il 1995, che non abbia interrotto le proprie passeggiate lungo il salotto barocco di Catania, Via Etnea, facendo una tappa che significasse goduria per il palato. Si trattasse di un cannolo, di un semifreddo, di una fetta di Foresta nera e... finiamola qua altrimenti mi sale la glicemia!https://www.mimmorapisarda.it/2023/026.jpg

La simpatia per la persona, preceduta da un' ammirazione sconfinata per quanto fatto da Lui e dalla Sua famiglia, si era rinsaldata nella breve telefonata, complice il Suo pupillo Gianluca Mignemi, figlio di Saretto, grande ristoratore catanese - “...Se non Le crea disagio, potremmo vederci a casa mia. Non troverà nessuno, solo me... è giusto che lo sappia”.

Uomo d'altri tempi, Luca Caviezel, con un'attenzione ed un rispetto che, al giorno d'oggi, è merce rara. Rarissima.

Spero di non averlo deluso nel momento che gli faccio presente che non ho alcun problema ad aderire alla Sua richiesta. Anzi, ne sono felice. In casa, da soli, potrò dare libero sfogo alla mia curiosità senza disturbi o distrazioni.

Scende ad accogliermi al cancello ed una vigorosa stretta di mano suggella l'avvenuta conoscenza. Giusto il tempo di dire due parole di ringraziamento per il tempo che vorrà concedermi e passerò buona parte della mattina ad ascoltare, ascoltare, ascoltare...dirò poco.

Pochissimo. Sarà Lui, da bravo nocchiero, a dirigere l'intervista sul piano che piu' gli è congeniale. Quello del lavoro con qualche puntatina nostalgica... di quelle che piacciono tanto a me.

Da subito saprò che molte delle informazioni in mio possesso sono errate o incomplete.

“Vediamo di fare ordine...ragazza mia!”.

E qui comincia l'avventura, narrata con dovizia di dettagli, alla faccia di una smemoratezza piu' dichiarata che reale.

Siamo alla fine dell'800 e dalla Svizzera, esattamente dal confine con l'Austria...dal Cantone dei Grigioni... da Pitasch (110 abitanti in tutto), Alessandro Caviezel, padre di Luca ma anche di Mario...Stefano...Anna Maria e Reto, decide di venire in Sicilia. Tra i monti, laddove pascola il Suo bestiame, si è sparsa la voce che un tizio sta andando a Palermo e così, date le condizioni precarie di tutte le famiglie numerose, aggiungo io... in ogni latitudine, decide di imbarcarsi in quest'avventura.

 “Lì parliamo il romancio, la quarta lingua ufficiale nazionale. Siamo circa 195.000 a parlare 'sta lingua neoladina antichissima, studiata dai filologi”

Ne va orgoglioso...così come delle origini della Sua famiglia che affonda radici nel lontano 1500. A tal proposito ricorda un Suo omonimo, Lucas Caviezel, che ritroviamo nella Battaglia dei Giganti a Marignano (oggi Melegnano...vicino Milano) del 1515”.

Gli svizzeri – aggiunge - sono stati sempre soldati mercenari nelle piu' grandi battaglie in Europa”.

Ricorda che a Solferino, nel 1860, un tale ginevrino, Henry Dunant, diede aiuto ai tantissimi giovani, di entrambe le fazioni, che morivano dissanguati. Ritornando in Svizzera, Dunant – memore di ciò che aveva vissuto – aveva fondato la Croce Rossa il cui stemma, per l'appunto, è l'inverso della bandiera svizzera, croce rossa in campo bianco. Un popolo attivo, quello svizzero, profondamente diverso da quello siciliano che, tranne in occasione dei Vespri, non si è mai ribellato ed ha sempre subìto...”Sissignori...vossaberenica” ...lo dice con tono partecipato e divertito.

E' un fiume in piena, il Maestro Caviezel! E continuando, si sofferma sulla Costituzione federale del 1291 che riuniva i 3 Cantoni e, per completare l'informazione, fa il segno con le tre dita che oggi ha il significato di “Vittoria” e che, invece, è sempre stato il tratto distintivo delle Guardie svizzere che, famose nel mondo, tutelano - tra l'altro - l'incolumità del Santo Padre.

Preso un vecchio testo, mi chiede di leggerne qualche riga. Ascolta commosso e con sentimenti di profonda partecipazione.

“Il segreto della Svizzera?...si chiede a voce alta... il rispetto che ha sempre avuto per le minoranze! Ventisei piccole repubbliche... ognuna con il proprio governo e laddove, specifica, quest'ultimo non può essere italicamente ladro in quanto è tenuto, con periodicità, a dar conto delle spese e delle entrate. Là non esistono gli onorevoli ma i semplici deputati. Bossi – aggiunge orgoglioso – dovrebbe imparare dalla Confederazione elvetica!”

Lo interrompo... Ma perchè se in Svizzera si sta così bene, i Caviezel sono emigrati in Sicilia?

Ritorna ai ricordi del padre....del Suo essere contadino...dell'appartenenza ad una famiglia numerosa.

“Venne qui in Sicilia per necessità, come succede a tutti gli emigranti”.

Prima ancora di soffermarsi sull'arrivo, ama raccontare della Sua patria che, sottolinea..

 “non era patria di pasticceri come, erroneamente, si pensa ma di contadini la cui cultura, come quella dei marinai, impone di fare fronte comune contro la forza della natura. Gli svizzeri non hanno mai avuto grandi risorse né oro nè argento...solo tanta erba. Erano contadini. Oggi la situazione è diversa...ma tutto ciò che sappiamo l'abbiamo imparato da altri. L'arte di lavorare il cioccolato, ad esempio, l'abbiamo imparata a Torino. Fu il Signor Cahier ad andare, imparare e tornare in patria.  A proposito, aspittassi...”

e torna sui suoi passi con un magnifico pacco di cioccolatini svizzeri al cui richiamo non mi sottrarrò. No, di certo!

La simpatia aumenta man mano che parla ed alterna i classici E DUNQUE...da DONC... derivanti dalla familiarità con la lingua francese...con i sicilianissimi CCA SEMU! Un catanese mittleuropeo, non c'è che dire!

Continua...“Mio padre partì a 15 anni, nel 1900, con un paio di scarpe e due paia di calze. A peri, naturalmente...non aveva manco u cavaddu. Passò il Reno e, via via, la Foresta Nera. Fu in quell'occasione che vide, per la prima volta, una locomotiva...impiegò 3 giorni per arrivare a Palermo meta di tanti, dopo la fuga dei Borboni. A quel tempo, la Sicilia era amata per la sua bellezza...era la patria degli aranci...veniva decantata da Goethe per la Sua magnificenza e qui comincia a citare, con enfasi partecipata, qualche verso in tedesco.

L'influenza degli Arabi, poi, aveva lasciato traccia anche nel...gelato. Ne furono Loro gli inventori!”

Ma come...dico meravigliata ...non furono i Caviezel????

“No...e sorride. Il gelato l'hanno inventato gli Arabi solo che da Loro era una sorta di bevanda, il sherbet. In Sicilia è diventato pastoso. Per opera di chi, nonostante varie ricerche, ancora non si sa con esattezza....Anche la cultura gastronomica, qui, è frutto di varie influenze, poi elaborate, che hanno dato vita a prodotti di stile...unico. E lo dice con tono convinto e trionfale!

Tornando a mio padre, siccome era piccolino di statura ma anche di età, lo soprannominarono “Il piccoletto” e lo misero a pulire vetrine. A poco a poco, andò avanti. A Palermo, già dal 1870 c'era la Pasticceria Caflish (puntualizza che non trattasi della stessa famiglia che a Catania ebbe fortuna con i tessuti e con i casalinghi) che continuava a chiamare svizzeri a lavorare giu'. Mio padre, che faceva coppia con Ulrico Greuter, ad un certo punto, aveva pensato di andare in Transval alla ricerca di petite d'oro ma fu subito persuaso dall'amico che lo convinse a rimanere, quantomeno, in Sicilia e dopo un viaggio in lungo e largo per l'isola...l'approdo definitivo a Catania. E sa perchè? Perchè durante una visita, mio padre notò, in un locale, un cameriere addormentato durante l'orario di lavoro e da un'altra parte, vetrine sporche e con qualche mosca morta”. Pensò bene, pertanto, di apportare giuste modifiche a quell'andazzo.

Immagino l'orrore provato da uno svizzero davanti all'approssimazione che, talvolta, contraddistingue noi catanesi.

Insomma, come fu o come non fu, Alessandro Caviezel ed il Suo amico Greuter decisero di stabilirsi a Catania...che Dio Li abbia in gloria!

“Il problema erano i soldi...Allora il consolato era retto da Vittorio Caflish (questo sì della famiglia nota a Catania per i tessuti e per i casalinghi)che lo invogliò a fare società con Lui. Lui avrebbe messo il 50%, mio padre ed il Suo amico il restante 50%. Partivano in quinta, avendo una banca privata alle spalle... proprio il Banco Caflish che aveva sede in Via Biondi 8 “ nelle cui vicinanze (esattamente in Via Recalcaccia)...molti anni dopo – aggiungo io – esattamente nel 1970, trovò la morte Giovanni Caflish vittima della prima rapina eclatante avvenuta nella nostra città.

Appena alzata la saracinesca della PASTICCERIA SVIZZERA, sita nella principale Via Etnea di fronte a dove oggi si trova La Rinascente, mio padre pensò bene di allestire, al primo piano laddove ci furono – piu' avanti - gli uffici e l'amministrazione dell'azienda, una foresteria per dare alloggio ai tanti pasticceri che, man mano, chiamò a lavorare a Catania.

Ricordo Oscar Werthmann che aveva baffi lunghi di 'sta manera...e accompagna le parole con un buffo gesto...svizzeri, austriaci, tedeschi, ungheresi e ciò a riprova che noi Caviezel abbiamo il merito di aver portato la pasticceria mittleuropea a Catania...in Sicilia.”

So che avete portato la crema al burro e la panna...

“ Si è vero...prima del burro esisteva solo la saimi...come si dice...la sugna, insomma. La panna, poi, era appannaggio solo dei nobili e l'avevano portata i francesi. Fino ad allora era prodotta per affioramento e non per centrifuga. Aveva un tenore di grasso intorno al 28% e non si montava bene. I monsù francesi avevano, giustamente, cercato di alleggerirla con l'aggiunta di meringa per darle corpo. Successivamente, la panna fu portata al 35% di grassi e centrifugata. La centrifuga nacque verso la fine dell'800...”.

E mentre la mia mente annega in un mare di dolce panna...aggiunge “ Un buon latte pastorizzato a Catania l'abbiamo portato noi Caviezel. Anzi, negli anni '50, avevamo installato addirittura una piccola centrale e vendevamo latte e panna anche ai nostri colleghi in bottiglie da un quarto”. L'utilizzo del termine colleghi anzichè concorrenti che ritroveremo anche piu' avanti...

 

Mi dice che l'anima catanesissima, per certi versi, sia rimasta fortemente svizzera.

“Avevamo comperato un bel pastorizzatore...la panna arrivava quasi al 4% di grassi. Avevamo dei fornitori straordinari. Anche qui si sofferma, come dicevo prima, su collaboratori e fornitori...volendo accomunare tutti nella formula che ha reso vincente la loro pasticceria a Catania. Ricordo Iugulano che stava alla Piana. Mio padre, che era rimasto contadino, ogni domenica visitava vaccherie e stalle dando consigli anche sul colore delle pareti che doveva essere azzurro per evitare le mosche... l'abbeveratoio disinfettato costantemente e costruito in modo tale che il bestiame potesse anche pulirsi gli zoccoli”.

Sull'onda dei Suoi ricordi, cerco di inserire quelli che mi ha trasmesso il grande scrittore Aldo Motta...non tutti sanno che, a fine giornata ad esempio, chiusa la saracinesca si svolgeva all'interno della pasticceria un rituale concertino animato dai lavoranti e i cui suoni venivano fuori da piatti, forchette, bicchieri. Luca Caviezel si commuove per la prima volta anche se, subito dopo, non riesce a ricordare la foto del Catania davanti alla quale campeggiava un mazzo di prezzemolo anziché un mazzo di fiori considerato di presagio funesto...”.

Sorride a questi ricordi ed anzi, galvanizzato dalle buone notizie circa la salute di Aldo che Gli trasmetto con gioia, mi fa partecipe di un progetto in cui vorrebbe coinvolgerLo. Una riedizione di un libro scritto da piu' di 25 anni e che abbisogna di una rivisitazione. “E' pezzo da Museo, ormai!” aggiunge. Lui, il Maestro Caviezel – aggiungo io – ne ha scritti tanti di libri e tutti considerati, a livello mondiale, Bibbia del settore.

Proseguiamo con i ricordi...

 

 

”La Pasticceria Caviezel, nata come sede unica in Via Etnea, nel tempo si sdoppiò ed aprimmo la cosiddetta succursale vicino Piazza Università, dove c'era il famoso bagghiu di Tricomi, un cortile interno dove posizionammo dei tavolini con 4 camerieri in frac. Infine, fu la volta di Piazza Europa . L' avventura crebbe e si affievolì contemporaneamente... da 205 dipendenti si passò a 72 ed infine ad 8”.

Cosa accadde?

“La colpa fu dei sindacati, non c'è dubbio.”

Si avverte che la questione bruci ancora. A partire da quell'ingratitudine che ha scoperto nelle nuove generazioni dei Suoi collaboratori tanto che ricorda di un tafferuglio tra la vecchia guardia (solidale con la famiglia) e la nuova che portò a chiudere la pasticceria per qualche giorno, nel momento caldo della querelle, per ragioni di ordine pubblico. Ricorda che Lui i lavoranti li mandava ad imparare, a proprie spese, all'estero... per formarli e mantenere alto lo standard qualitativo. Non si spiega proprio quel voltafaccia che procurò immenso dolore alla sorella Anna Maria e soprattutto al fratello Mario che, unendo ciò alle traversie della Sua vita, si chiuse in un silenzio dal quale non è mai piu' uscito fino alla morte.

Luca Caviezel ricorda anche di un collaboratore della Loro Amministrazione, un tale ragioniere, che financo morì di crepacuore. Non riesce proprio a capire. Qualche errore certamente, da parte Loro, ci sarà stato. Il fatto, ad esempio, di far fare sempre la stessa cosa a ciascuno dei Suoi lavoranti che rispondeva all'esigenza di proporre sempre gli stessi prodotti, così come amati e richiesti dalla clientela, probabilmente tarpò le ali ad alcuni di Loro che, dovendo trovare lavoro altrove, non erano in grado che di proporsi solo per quello che sapevano fare e non per altro.

Vedo che il tono si fa sofferente per cui riporto la discussione sul passato piu' remoto rispetto a quello dove ci stiamo soffermando.

Abbiamo ricordato Suo padre...mi parli di Lei, ora!

“Nella mia famiglia si parlava il romancio, come Le dicevo. La mia prima lingua estera fu il SICILIANO...non l'italiano, è vero? Abitavamo in Via Roccaromana dove mio padre desiderava che frequentassimo i ragazzi dda strata, che imparassimo ad ittari petre...Noi Caviezel abbiamo voluto integrarci con la gente di qui mentre gli altri svizzeri si sono sempre mantenuti distanti e non solo con i catanesi...anche con i connazionali. Poi, dopo il siciliano imparammo... l'italiano.

Ultimate le scuole superiori a Catania, io ed i miei fratelli, Stefano e Mario, partimmo per la Svizzera dove – secondo i nostri progetti - avremmo dovuto proseguire gli studi nelle scuole tecniche.

Allo sbarco degli alleati in Sicilia, nel luglio del '43, eravamo già lì e per ben 3/4 anni non sapemmo nulla dei nostri genitori e del resto della famiglia rimasta a Catania. Una volta, per la verità riuscì a comunicare attraverso una radio a Berna. Io parlai ma non seppi mai se mie notizie erano arrivate a destinazione e, comunque, non seppi niente di chi era rimasto e in quali condizioni. Con i miei fratelli dovemmo interrompere gli studi e metterci a lavorare. Io cominciai in una fabbrica di marmellate. Furono anni difficili. Ricordo che in pensione, la domenica, non avevamo nulla da mangiare...periodo terribile. Come per tanti, comunque. Ma avevamo un futuro davanti...c'era il desiderio di tornare. Qui era casa nostra! E finalmente, nel '46, potemmo tornare e trovammo il resto della famiglia. A noi era andata bene!”

Ma Lei si considera piu' svizzero o catanese?

 “Ma guardi, professionalmente, sono catanese marca...elefante! La professione l'ho imparata qui. E' l'impostazione...ad essere svizzera. Quelli come me tendono sempre a migliorarsi e a sperimentare. Io sono stato il primo a Catania...in Sicilia...in Italia...vabbè, lo ammetto, al mondo ad aver creato il “bilanciamento degli ingredienti”, nel campo della gelateria ed è frutto degli insegnamenti dei tecnologi alimentari. Frutto degli insegnamenti americani ma portato qui, applicato e reinterpretato”.

Lei è un bravissimo pianista (“discreto” mi corregge)...il riuscire a creare melodie, suoni... l'ha aiutata anche nell'amalgama degli ingredienti?

Guardi, dalla musica alla gelateria, ho cercato sempre di portare, come dire, ordine...Prima il gelato, ad esempio, si faceva a muzzo...ad occhio”

Insomma, Lei ha applicato il rigore svizzero in gelateria...

“Di piu'...ho fatto mio il metodo dell'americano Arboucle che ha trovato la maniera di esprimere la qualità di un prodotto in gelateria attraverso le cifre, i numeri. Un fatto estremamente interessante. In tutti gli altri settori alimentari non esiste 'sta cosa. In pasticceria, un certo Santiago Peres – spagnolo – ha cercato di trasmetterlo senza riuscirci. Non è facile. Con questo sistema, questo bilanciamento, abbiamo la possibilità di avere dati certi, scritti...insomma, 2+2 fa 4 non 22, non è vero? Io posso dare valore di certezza a quanto faccio”.

Ma questo non toglie spazio alla fantasia...al cuore?

“No, quello è fondamentale! Noi, con questa teoria, abbiamo una panoramica scritta. La fantasia, l'estro, l'assorbimento delle influenze ambientali fa tutto il resto. Fa la differenza, insomma”.

A questo punto, smonta ad una ad una certezze che avevo ricavato da internet. Gradisco la sincerità del mio interlocutore ma non nego di aver provato una piccola delusione. Mi ritrovo a sottoporLo ad un interrogatorio incessante. Domanda e risposta senza soluzione di continuità.

E' Lei l'inventore del cono, gelato da passeggio, nato proprio per permettere di godere delle bellezze del barocco e, nel frattempo, gustare le Sue specialità?

“No! E' leggenda...”

Primo colpo al cuore...il mio, naturalmente. E' Lei l'inventore del gelato con lo stecco...del famoso pinguino?

“No...ma chi gliel'ha dette 'ste cose? Noi lo facevamo, questo sì, ma usavamo forme che compravamo da Caflish alla Marina. E se esistevano le forme vuol dire che qualcun altro aveva già pensato di farlo o no?”

E certo...secondo colpo al cuore. Sempre il mio. E' Lei l'inventore del famoso Pezzo duro?

“No, fa parte della ricca e barocca tradizione italiana. Quale Italiana.... SICILIANA. Insieme agli schiumoni, ai cannoli gelato...”

Colpita ed affondata...certezze che si sgretolano. Vincono la verità e l'umiltà del mio interlocutore.

“Noi, quello sì, abbiamo portato – attraverso tutti i lavoranti provenienti da svariati Paesi europei – le novità che allora, in mancanza di comunicazioni, non sarebbero arrivate. Noi abbiamo “rubato” dalla cultura parigina e viennese i segreti dell'alta pasticceria...l'abbiamo rivisitata alla luce della tradizione siciliana. Questo sì...se questo è inventare...sì... siamo gli inventori.

Ecco, fine della sanguinazione...del mio cuore, ovviamente!

“Si...la PASTICCERIA SVIZZERA si ascrive questo...Ma sa che, per un certo periodo, abbiamo dovuto togliere la scritta dall'insegna? Fu quando Mussolini passò davanti al nostro locale, io Lo ricordo benissimo. Allora, la Svizzera aveva sottoscritto le sanzioni contro l'Italia per aver attaccato l'Abissinia e, quindi, iddu pensò bene di farci togliere la dicitura che riportava alla provenienza geografica”.

Ricordo ancora la carta della Loro pasticceria e Glielo faccio presente con un pizzico di nostalgia. Si alza e prende un foglio uguale uguale...sopra c'è scritto Daidone. Mi racconta che Nuccio Daidone, grande amico Suo ed ottimo pasticcere, l'ha copiata pari pari quella grafica che, tra l'altro, quella sì (evvivaaaaaaaaaaaaaa) è opera Sua...con i colori, i richiami alla ceralacca. Inconfondibile!

Maestro...qual è secondo Lei il dolce principe siciliano? “Il cannolo di ricotta, non c'è dubbio. Non quello alla cioccolata...quello alla ricotta.”

Il mio viso si veste di un sorriso complice...

E lo dice a me?????

Ritrovo le mie corde, perse strada facendo immersa in visioni di panne, creme, gelati... Il Vostro era il luogo preferito dall'aristocrazia, dai grandi proprietari terrieri, dagli industriali...la dirimpettaia BIRRARIA (si,proprio birraria con la A da birra...così si chiamava ai tempi) LORENTI era il luogo dove si ritrovava l'intellighentia cittadina che aveva possibilità di chiacchierare a quei tavolini di cui Voi, invece, eravaTe sprovvisti... almeno nella sede centrale.

Il ceto medio basso transitava e basta, lungo la Via Etnea, inseguendo le proprie occupazioni... Quale personaggio L'ha colpita maggiormente?

“Guardi, ricordo benissimo Scelba. Ma anche Brancati...il futuro Presidente della Repubblica,De Nicola, il poeta Villaroel che scriveva versi su ogni pezzo di carta che trovava e... tanti altri”.

Aggiungo io che era l'epoca anche dei famosi arancini di GIARDINI...

“Sa perchè erano così buoni?” aggiunge “Perchè Lui era un salumiere e pensò bene di aggiungere, all'interno delle piramidi di riso, cozzi di salumi residuali, macinandoli...”

Maestro, l'anno prossimo saranno 100 anni dall'apertura della A.CAVIEZEL PASTICCERIA SVIZZERA, esattamente il 25 dicembre del 2014. Come pensaTe di celebrare questa data?

Cambia un po' espressione e riprende quella pensierosa di quando parlava dell'ingratitudine di certi lavoranti

 “Guardi, noi abbiamo affrontato vari passaggi nella gestione dell'azienda. Con mio fratello Mario ci rincuoravamo...passerà...ce ne sono stati di momenti brutti...Si figuri, un giorno dovevo andare ad un corso a Madrid e dovetti annullare il viaggio perchè, nel giro di 15 giorni, abbiamo dovuto consegnare i locali a chi è subentrato. Abbiamo dovuto svendere l'azienda e siamo rimasti a zero. Io vivo di pensione e mi sta bene ma di festeggiare c'è poco, per la verità. Noi siamo stati aggrediti dai sindacati senza alcuna possibilità di reagire. Rivendicazioni su rivendicazioni...Ogni sabato un'assemblea...Alla fine, non c'era piu' quel piacere al lavoro che ci aveva animati sin dagli esordi.

E sono stati parecchi gli anni difficili... 15/20...non pochi, è vero?

Abbiamo ricevuto molto, è indubbio, ma abbiamo dato tanto quanto... se non di piu'. C'è molta amarezza e, pertanto, non c'è voglia di celebrare un bel niente. Non volevamo arricchirci ed infatti non ci siamo arricchiti ma Catania non ci ha protetto...nè la città, nè i politici...nessuno.

Sento spesso parlare di lavoratori...sacrosanto. Ma chi pensa ai datori di lavoro?

Il lavoro chi lo crea... se non il datore di lavoro?Mio padre ha cominciato dal nulla...ha creato una bellissima azienda...ha avuto con i propri collaboratori un rapporto quasi familiare ed il risultato quale è stato? La nostra azienda, alla fine, non poteva piu' andare avanti ed è stato un peccato. Nell'immaginario collettivo i Caviezel sono una famiglia ricchissima...pensi la gente quello che vuole. Non è così!

L'agonia è stata prolungata, poi, con il mantenere vivo il settore ricevimenti, di cui si occupava mio fratello Reto, ed infine con l'apertura, insieme a mio figlio, di IGLOO in Via Raffaello Sanzio, punto vendita aperto nell'80 e chiuso dopo 8 anni... 14 rapine e 2 richieste estortive. Ho rimesso centinaia di milioni e vabbè...

I guai cominciarono con i sindacati...dovrebbero star fuori dalla politica! Pensi - ad esempio - che ad certo punto, dovemmo pagare una multa di 6 milioni e sa perchè? Due volte a settimana, i nostri lavoranti seguivano dei corsi in pasticceria e lo facevano facoltativamente.

Ciò che elaboravano o veniva buttato oppure su puttavano a casa...certo non li pagavamo per questo. Erano dei corsi e per giunta facoltativi. Morale della favola...fu considerato lavoro non retribuito...non formazione. Da qui la multa che, per quei tempi, erano soldi!

 

 

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Sono stati i sindacati a rovinarci e non solo a noi. Pensi ai Dagnino ed ai Caflish a Palermo, agli Irrera a Messina per poi finire alla Motta ed alla Alemagna...queste erano aziende che assumevano, per il periodo natalizio, ben 3000 persone per 4 mesi. No, secondo i sindacati, dovevano assumere per 14 mesi (compresa tredicesima e quattordicesima)! Non andava bene così... Ma, insomma, come avrebbero potuto sostenere queste spese aziende che lavoravano, soprattutto, in quel periodo?”

Come datore di lavoro non sente di aver commesso errori?

“Chi non ne commette?... ma rivendico la buonafede. Ho licenziato ma ho anche riassunto. A volte l'atmosfera di rivendicazione faziosa era talmente pesante che, per poter continuare a lavorare con un minimo di serenità, ho dovuto licenziare. Ma il rapporto con i miei lavoranti è sempre stato amichevole tanto che, anche a distanza di tempo, ci sentiamo. Passo ricette, quando me le chiedono, li aiuto a cercare lavoro se occorre...Insomma, non penso di essere considerato un despota o che Loro non conservino un buon ricordo di me sia come persona che come datore di lavoro”.

Vorrei alleggerire l'atmosfera...mi danno con me stessa per aver portato l'argomento su questo piano. Mi soccorre il sorriso sornione di Aldo Motta con la Sua domanda ricorrente.”Ti raccomando, chiediglielo!” aveva insistito..

Maestro, perchè le pizzette furono aumentate, da un giorno all'altro, da 25 a 40 lire?

“Chissacciu...su riorda sulu iddu!”

Sorride e mi svela, pressato, il segreto delle famose pizzette mai piu' eguagliate...

 “Vede, se lei chiede ad un panettiere di fare un dolce lo farà con la Sua mentalità di panettiere. Se ad un pasticcere chiede di fare il pane, prima o poi ci lassa currere un uovo...è vero? Noi avevamo dei pasticceri che prestati alla piccanteria...applicarono la Loro mentalità da pasticceri. Innanzitutto, l'impasto...poi la doppia lievitazione...tre diversi tipi di formaggio di primissima qualità, anche svizzero al posto della solita mozzarella”.

Mi ritrovo a volermi chiarire circa le ipotetiche origini ebree della famiglia Caviezel...

“No, assolutamente. Siamo di Chiesa evangelica protestante. Chiesa valdese nata, prima della riforma luterana, nel 1200. Pietro Valdo, un contemporaneo di San Francesco, lasciò la famiglia ed andò a vivere in Francia per poi tornare nelle valli valdesi, in Piemonte. Quelle le nostre origini religiose”.

Esiste ancora una comunità svizzera a Catania?

“Certo ma ci sono piu' italiani che svizzeri. Prima, al limite, c'era qualche tedesco o austriaco...oggi tanti sono figli di svizzere piu' che di svizzeri. Insomma, la comunità si è allargata”.

Maestro, mi ricorda che Catania era quella dei Suoi tempi?

“Ma vede, La deluderò...lo so. Ma io stavo per la maggior parte del tempo, dietro...in laboratorio. Non facevo pubbliche relazioni. Forse ha sbagliato il Caviezel da intervistare. Quando non ero in laboratorio ero in giro per il mondo...sono stato fino in Giappone. E sempre per lavoro. Com'era Catania? Spensierata. Direi...senza pinseri...ottimista”.

Lo dice con un sorriso agrodolce... Oggi, come tutta la Sicilia, rimane polo di attrazione...una terra fuori dagli schemi. Una nazione a parte ed io mi sento di appartenere, profondamente, a questa nazione”.

Mai pensato di tornare in Svizzera?

“L'abbiamo pensato, qualche volta, ma il nostro centro affettivo era qui. E poi non eravamo piu' i contadini che eravamo partiti da quei luoghi...non avevamo piu' dimistichezza con quel tipo di vita”.

Suona il telefono, si alza di scatto come se le 90 primavere non avessero intaccato né la mente, come ha dimostrato ampiamente in 3 ore di quasi soliloquio, né le articolazioni.

“Cu è?” risponde allegro e tale rimane per tutto il tempo della breve conversazione. Ritorna accanto a me e continua a chiacchierare.

Lei ha figli...com'è che non ha pensato di passare il testimone per far sì che il patrimonio di esperienza acquisita non andasse perduto?

“Vede. I miei figli stanno in Svizzera...fanno altro. Che futuro avrebbero potuto avere qui? Mio figlio s'imbarcò con me nell'ultima esperienza, quella di IGLOO come Le raccontavo ma poi...sinni scappau. Non c'erano le condizioni per poter lavorare in santa pace. Lì, in Svizzera, c'è un'efficienza che, purtroppo, qui da noi non c'è!”.

E lo dice con rammarico...da catanese per scelta.

“Per quanto riguarda l'eredità professionale, sappia che scrivo libri e tengo corsi per trasmettere quella che è la mia arte nel campo della gelateria. Ci sono bravi gelatieri, mi creda. Devono, però, convincersi che sono Loro i nocchieri della barca...non i produttori di macchine da gelato o di prodotti lavorati. Ana accumannare iddi perchè non vada disperso tutto il patrimonio accumulato. In primis, non bisogna transigere sulle materie prime. Devono essere di eccellenza sia in termini di qualità che di quantità e bisogna specializzarsi”.

Una curiosità, Maestro...ma Lei che preferenze ha in fatto di gastronomia e di gelateria?

“Guardi, se è vero che uno è quello che mangia...La deluderò! Io non sono goloso. Oggi, addirittura, mangio esclusivamente le cose surgelate di cui è pieno il mio frigo e che mi prepara me figghia quando scende a Catania. Bevo un litro e mezzo di latte, quello sì...e amo le uova. Mangiarle ed usarle nelle mie ricette. Ci pensi, l'uovo è legante...montante...strutturante...emozionante”.

Sembra di assistere ad una dichiarazione d'amore in piena regola...

”Oggi viene usato poco, sostituito da schifezze ed è un vero peccato! Dico io...mittiti l'ovo e putiti togghiere tuttu u restu. Anche il gelato, nato dall'acqua e dallo zucchero, ha fatto il suo salto di qualità quando ci si abbiò l'uovo”

E qui mi parla e si dilunga sul sito che cura per dare un freno alla brutta piega che sta prendendo il mondo del gelato.

“ Oggi viviamo di mediocrità e standardizzazione...c'è poco spazio per quell'eccellenza che prima la faceva da padrona!”

Mi scandisce chiaramente l'indirizzo G E L A T I E R I P E R I L G E L A T O. COM e m'invita a visitarlo. Ha ancora uno scopo nella vita, il grande Luca Caviezel, quello di tutelare e salvaguardare il ricco patrimonio siciliano che spazia dagli schiumoni ai pezzi duri passando per i cannoli gelato. Mi chiedo...e dovevamo aspettare uno svizzero per questo? Eppure così è e mi sento di ringraziarlo di cuore!

In tema di ringraziamenti, il Maestro Caviezel sente di voler doverosamente ringraziare l'ex Sindaco di Catania, Senatore Enzo Bianco. Non ricorda esattamente l'anno ma, di certo c'era ancora la lira...sarà stato l'89. Nel Suo lungo peregrinare in giro per l'Europa, Caviezel aveva notato come, dappertutto, ci fossero scuole del gelato tranne a Catania che ne era la patria.

Decise di sottoporre la questione al Primo Cittadino che, entusiasta dell'idea, Gli aveva accordato fiducia e...fondi. Ben 300 milioni di lire. Bene, da allora, Catania ha una sua SCUOLA DEL GELATO che, nata presso i salesiani di Via Teatro Greco, si è definitivamente trasferita - godendo di ottima salute - presso l'Istituto San Filippo Neri di Via Vincenzo Giuffrida, con un numero annuo di allievi che si aggira sulle venti unità.

Una vita lunga...che bilancio è il Suo?

“Ho fatto quello che ho voluto, secondo gli insegnamenti di mio padre. Sono sempre stato portato nel dare piuttosto che nel ricevere. Anche per i corsi che ho tenuto, e tengo, ho chiesto quello che mi sembrava e mi sembra giusto...una piccola parte di quello che altri pretendono.

Non ho saputo arricchirmi. Non ho voluto arricchirmi. Mio padre ci ha insegnato che ognuno di noi ha un compito, che deve fare qualcosa per gli altri. Questo è stato il faro della mia vita. Non sono scontento, onestamente. Certamente una cosa di cui mi rammarico è il poco tempo dedicato alla famiglia. Io lavoravo anche la domenica. Non ho mai accompagnato sull'Etna mio figlio a sciare, ad esempio, e questo mi spiace. Il lavoro... mi apparteneva!

Verso le 12.30 chiudo l'agenda con gli appunti presi...

”Già sinni va...mi chieda qualche altra cosa, no?” Lo accontento...i cosiddetti beneinformati pronunciano il Vostro cognome CAFIZEL...hanno ragione?

“No! La pronuncia corretta è proprio CAVIEZEL e sa che significa? Ca, come a Venezia, sta per Casa. Il nostro cognome significa Quelli della casa di Viezel laddove è questo il termine con cui si indica un albero, un ciliegio selvatico, che ha dimora tra i nostri amati monti....come Caflish significa Quelli della casa di Flish...Canova Quelli della casa nuova...Casùt, quelli della casa di sotto e così via.

Mi ricordo di un dubbio che vorrei chiarirmi anche perchè la fonte dalla quale ho attinto si è dimostrata inattendibile. In questo ed in tanto altro.

Fu il pasticcere Amato, lo stesso della famiglia coinvolta nel caso del “bambino incendiato”, ad inventare la Torta Savoia in occasione della visita della famiglia reale a Catania?

“Ma no!!!!!Fu un tedesco a crearla, Oscar Werthmann, e lo fece sì in occasione della visita dei reali ma a... Palermo. Che c'entra Catania? Solo dopo, Oscar, venne qui a lavorare – come primo pasticcere da noi – e a Catania morì. Fu Lui a creare quel capolavoro di pasticceria che consiste in 3/4 strati di Pan di Spagna molto sottile con su spalmata la gianduia, in quantità sempre maggiore.

Niente, con l'acquolina in bocca, sento che è tempo di andare e, stavolta, sistemo l'agenda ed il registratore in borsa.

Prima di lasciare la casa, Gli trasferisco innanzitutto gli innumerevoli “Grazie di cuore” di cui sono ambasciatrice...uno per tutti quello del mio fraterno amico Alessio Bonaccorsi che, trasferitosi – decenni fa - in Emilia Romagna dopo la laurea, ci tiene a farGli sapere che i ricordi della Sua giovinezza sono legati a doppio nodo ai Caviezel ed, infine, chiedo di poter avere alcuni rametti di una pianta grassa che è stata testimone muta della nostra chiacchierata. Acconsente con piacere.

La pianterò a ricordo di questo incontro tra chi ha avuto voglia di raccontare e chi di ascoltare.

Attecchirà lo sento e la chiamerò... Memoria. Si...Memoria, quel patrimonio collettivo, unico ed imprescindibile da tutelare, conservare e trasmettere.

La vigorosa stretta di mano, che fa calare il sipario sulla bellissima mattinata, si traduce in un impalpabile..sentito e reciproco GRAZIE!!!!

 

http://blog.siciliansecrets.it/2014/08/29/il-lavoro-mi-apparteneva-parola-di-luca-caviezel/

 

 

 

 

La Sicilia 28.1.2014

 Il maestro pasticcere Lucas Caviezel, svizzero di nascita e portabandiera della pasticceria siciliana, ha ricevuto ieri a Palazzo degli Elefanti la cittadinanza onoraria di Catania, la prima assegnata dal sindaco Bianco dal suo insediamento. «Attribuire a Caviezel la cittadinanza onoraria - ha detto Bianco - è uno dei momenti più importanti della sindacatura. E' con vero gratitudine che la assegno a un uomo che ha saputo con impegno straordinario incentivare la tradizione della pasticceria e della gelateria in particolare e che, ancora oggi non più giovanissimo, trasmette i suoi saperi ai più giovani offrendo loro una preziosa opportunità». Nato e cresciuto in Svizzera, sin dal secondo dopoguerra il maestro Caviezel ha saputo rilanciare in particolare la gelateria. «Per il lustro che Lucas Caviezel ha saputo dare a Catania in questi decenni, l'Amministrazione comunale ritiene di dovergli conferire, in segno di stima e apprezzamento, la cittadinanza onoraria del Comune», si legge nella pergamena. Caviezel - ieri accompagnato dal presidente dell'associazione di categoria Ducezio, Salvatore Farina, e dai pasticceri che ne fanno parte - ha ringraziato il sindaco e ha ricordato come sin da ragazzino abbia sempre cercato di essere catanese fra i catanesi: «Da questa città ho ricevuto molto di più di quanto io abbia dato».

 

  

Mi sento catanese fra i catanesi

Caviezel è sinonimo di Pasticceria Svizzera, quindi dare la cittadinanza onoraria a Luca Caviezel è quasi un atto dovuto perché quel nome richiama automaticamente il fascino dei cento metri d'oro della via Etnea.

I Caviezel fanno parte di quel gruppo di imprenditori svizzeri (tra cui anche i Caflish) che nel secolo scorso scelsero di lavorare e vivere a Catania, ed erano così tanti e di alto censo che a Catania c'era anche una Scuola svizzera dove studiavano i loro figli. Tra l'altro Caviezel e Caflish avevano i loro negozi in via Etnea a distanza di non più di dieci metri: Caflish che vendeva articoli casalinghi era sulla sinistra a salire, prima della farmacia Spadaro Ventura, della Sala Roma, della Birreria Lorenti e della Rosticceria Giardini, mentre Caviezel era sulla destra, poco prima dell'albergo Central Corona che aveva all'ingresso due leoni di marmo.

Sopra Caviezel vi era la sede Rai di Catania con il caporedattore Mario Giusti, l'uomo che inventò il Teatro Stabile di Catania (assieme al notaio Tanino Musumeci) e che alla Rai di Catania organizzava le trasmissioni di successo di Turi Ferro e di suo padre Guglielmo, in primis "Tutta la città ne parla" con Turi che scriveva «al fratello Bastiano da Catania che più va e più bella addiventa». I testi erano di Piero Corigliano, Gerardo Farkas e di Filosì, i primi due erano giornalisti di vertice de "La Sicilia".

A vent'anni da collaboratore sportivo di Radio Sicilia frequentavo la sede di Catania dove registravo con il vecchio Nagra delle interviste che Totò Pistone "puliva" con le sue forbicine sul nastro nastro. A un certo orario arrivava al secondo piano il profumo degli arancini di Giardini e allora mandavano un ragazzo, oppure Bik che faceva il batterista, ma anche il tuttofare a prenderne un vassoio. Se c'erano ospiti invece quel ragazzo andava alla Pasticceria Svizzera a prendere pasticcini e bignè.

In genere la gioventù dorata degli anni '50 e fino agli anni '80 si dava appuntamento da Caviezel all'ora dell'aperitivo, ed era il momento di fissare i programmi della serata, o andare al cinema, oppure a qualche festa da ballo in casa, di studiare non se ne parlava. Un settimanale dell'epoca molto diffuso pubblicò un ampio servizio fotografico sui «giovani leoni» catanesi da Caviezel e ci fu un mezzo scandato perché in foto apparivano anche personaggi in vista delle professioni cittadine. Caviezel è uno dei nomi che ha resistito più a lungo in via Etnea, ebbe anche per un breve periodo una "succursale" vicino piazza Duomo.

Da tempo in via Etnea non ci sono più insegne Caviezel, da quando i negozi di successo sono traslocati al Viale. Ed è una tristezza.

Tony Zermo - La Sicilia, 28 Gennaio 2014

 

 

 

 

 

 

 

Brasile, detto anche bar dei professori, altro non era che un "buco, sempre rumoroso e animato dai conversare di poeti e novellieri in fieri. Gli assidui furono in maggior parte giornalisti agli inizi (Vito Mar Nícolosi, Ferdinando Caioli, Giacomo Etna), pittori alle prime armi (Fichera, Rimini, Gandolfo), nonché docenti di scuole medie senza cattedra... Padroni del bar, i coniugi Imbronciano: curiosa coppia, con un bambino di pochi mesi che la signora allattava, seduta alla cassa, mentre il marito attendeva ai bicchieri, al caffé, alle risciacquature.

Turgida di guance, di braccia, di poppe, la proprietaria, in quel bailamme di letterarie diatribe sentiva nobilitata la sua stessa mansione di nutrice in vetrina. Con le pareti a piastrelle, come l'ingresso di un albergo diurno, il Brasile s'era fatto un nome quasi nazionale. Vergane, Sarfatti, Saponaro, di passaggio per Catania, venivano li a cercare gli amici, e vi si soffermavano, attratti dalle fantasie di Amante, dalle mutrie di Brancati, dall'umorismo del giovane Patti. Troneggiava il professor Michele Cosenza, un vero mare magnum dello scibile... ".

 

 

 

Al Gambrinus diedero prestigio i soci del Circolo Artistico, soprattutto i redattori di Siciliana, la bella rivista catanese, cui collaborarono Roberto Rimeni, Natale Scalía, Giuseppe Patané e altri dell'intelligbentia nostrana.

Da ricordare anche il Baciami subito che era un locale notturno, preferito dal barone Beritelli, dal maestro di scherma Carletti, dal professor Cassarà, latinista di grandi risorse.

Lo frequentarono pure alcuni giornalisti assai noti, come Bettaniní, Garano e Corvaia.

Col trascorrere degli anni, i Caffé, che avevano fatto storia a Catania scomparvero tutti, uno dopo l'altro.

L'ultimo guizzo dell'ultimo rampollo blasonato si ebbe nel giugno del '37, allorché Peppino Lorenti inaugurava il suo grande ritrovo al Giardino Bellini.

Fu l'estrema radura di sereno gaudio prima della tempesta, il luogo ideale dove "tra lo sfarzo delle luci, il fresco della sera, il profumo dei fiori, la delizia dei suoni dell'ottima orchestra, il gran pubblico catanese trascorse indimenticabili serate sotto il palpito delle stelle e il fascino romantico della notte". Ma, con l'avvento del 1940, l'oscurità della notte aveva già perso il suo fascino.

 

 

 

 si trovava in Via Etnea dove attualmente c'è la Rinascente, poco dopo la farmacia di Spadaro Ventura e il cinema Sala Roma andando verso la Villa e la statua di Garibaldi. C'era un flusso continuo di clientela attratta dai suoi arancini, al sugo con piselli e al burro, famosi anche fuori città. La folla era tanta che i commessi non potevano controllare tutto e accadeva che i ragazzi ne approfittassero. Nei giorni di pioggia entravano portando al braccio l'ombrello dentro cui facevano scivolare gli arancini: ne pagavano uno o due consumati al banco e se ne portavano via una mezza dozzina dentro l'ombrello.

Di fronte c'era la Pasticceria Svizzera dei Caviezel, Luca e Retho, e sopra la sede Rai dove Mario Giusti, Guglielmo e Turi Ferro, Gerardo Farkas, Piero Corigliano, Totò Pistone, la pianista Dora Musumeci, a volte anche il maestro Pregadio, il batterista Bic e compagnia cantante lavoravano a «Tutta la città ne parla» e al «Ficodindia». Il direttore della sede Rai di Catania era il signor Carrera promosso per avere salvaguardato gli impianti durante i bombardamenti e l'invasione anglo-americana. Casualmente Carrera era vicino di casa della prof. Falcidia e fu tra i primi ad accorrere quando venne assassinata. Ma questa è roba abbastanza recente.

Mentre regista e attori imbastivano il programma arrivava dalla finestra l'odore degli arancini ancora caldi. Così qualcuno provvedeva immantinente a ordinare due grandi guantiere di arancini, metà «a sucu a carni» e metà al burro, e quando dopo un quarto d'ora arrivava il garzone con gli arancini belli caldi si sospendeva il lavoro per evitare che si raffreddassero: e mi invitavano a mangiarne qualcuno perché da giovincello collaboravo allo Sport del Gazzettino di Sicilia e quindi avevo libertà d'accesso.

 

 

 

In meno di cento metri c'era la «pancia» della città, che andava dal mercato di via Gambino poi sparita per lo sventramento del San Berillo, alla rosticceria Giardini, a Caviezel, alla salumeria Dagnino. All'angolo di Via Etnea con Via Umberto c'erano (e ci sono ancora) le rinomate pasticcerie Savia e Spinella che si fanno concorrenza, ma vanno benissimo tutte e due e non hanno proprio motivo di lamentarsi. Poco più avanti in Via Etnea c'è sempre Mantegna che fa un grande lavoro di cucina proponendo piatti molto gustosi e anche raffinati per una clientela chic.

Ma il grosso della città, il popolo, si riforniva in via Gambino, la strada stretta che partiva da Piazza Stesicoro e sfociava in Piazza Spirito Santo. Tra Piazza Stesicoro e via Gambino c'erano due salumerie importanti che si fronteggiavano, una era dei miei genitori e l'altra della famiglia Impellizzeri. Quando scrissi il primo articolo sulla pagina sportiva de «La Sicilia» il fatto fu segnalato dal redattore del settimanale satirico «Lei è lario» che poi andò da mio padre per essere ringraziato con qualche chilo di salsiccia. Era il 1953.

Proseguendo da Piazza Stesicoro, detta «Porta di Aci», verso Piazza Spirito Santo lungo Via Gambino c'era di tutto, un negozio di verdura che faceva angolo con via Paternò, poi una rivendita di balate di ghiaccio perché all'epoca i frigoriferi erano un lusso, seguivano una rivendita di tabacchi, il macellaio, il pescivendolo, il panettiere. Certo per il pesce era meglio la pescheria, ma la zona di via Gambino era «completa» di negozi e poi era vicinissima a Via Etnea e agli arancini di Giardini. Erano preparati con riso cotto allo zafferano, ripieni di carne di vitello al ragù o alla glace con l'aggiunta di interiori di pollo, burro e formaggio fresco, fritti nella sugna o nell'olio di oliva, in formato classico a pera o a sfera. Fino al 1940 costavano mezza lira. La bottega di Via Etnea stretta e lunga fu inaugurata nel 1921 e chiuse i battenti il 26 dicembre 1958. E ancora oggi, a distanza di più di 50 anni, se ne parla con nostalgia.

Tony Zermo - 22/12/2012

 

 

 

Vitaliano Brancati, nel suo Diario romano, in data 1950 racconta - e il suo racconto ci permettiamo d'integrare con nostri ricordi giovanili - che dal `44 al `46, al caffè Italia di Catania, allora situato dove via Etnea si biforca con l'inizio di via Caronda, proprio alle spalle del monumento a Garibaldi, erano soliti riunirsi, quasi tutti i giorni e, per lo più, nella tarda mattinata, alcune persone di rare qualità. Noi, allora giovanotti, un paio di quelle persone che trascorrevano qualche ora al giorno discutendo di letteratura e politica, sedute attorno a un tavolinetto dietro la vetrina d'esposizione del lato sud del locale, le conoscevamo benissimo o perché erano stati nostri professori o perché lo erano ancora. Oltre al Brancati e a qualche altro personaggio saltuario, il gruppetto era quasi sempre composto di Francesco Guglielmino, Stefano Bottari e Arcangelo Blandini.

Il Guglielmino, professore di letteratura greca all'Università e autore di un volumetto di buone poesie in siciliano dal titolo Ciuri di strata (1922), era allora considerato a Catania una specie di istituzione culturale. Da giovane aveva avuto la ventura di conoscere Giovanni Verga e di essere stato vicino a Federico De Roberto, sicché era diventato un vivente anello di congiunzione tra il glorioso e quasi mitico Ottocento letterario catanese e la generazione, per lo più mediocre e provinciale, che s'era affacciata alla letteratura negli anni che avevano immediatamente preceduto e seguito la prima guerra mondiale. Brillante, faceto, signorile, il Guglielmino batteva allora la settantina (era nato nel vicino paese di Acicatena nel 1873) ed era totalmente pelato e più sordo d'una campana. Portava i baffi con le punte all'insù, l'inseparabile bastone appeso al gomito, il cappello verdognolo con la falda piegata per metà su un lato, i pantaloni grigio-scuri a sottilissime righine bianche e la giacca, nera, con le tasche sempre gonfie di giornali. In apparenza modesto e alla mano con tutti, in realtà completamente compreso del suo ruolo, il professore Guglielmino era universalmente stimato e molto ricercato, specialmente dai giovani. Dava però un certo fastidio quella sua senile sordità che lo costringeva, tutte le volte in cui qualcuno gli rivolgeva la parola, a tirar fuori dal taschino il cornetto acustico e a puntarlo in direzione di chi parlava. Rispondeva, poi, con la sua caratteristica voce chioccia, gridando e quasi facendo voltare la gente. Di lui raccontavano che un pomeriggio, nell'aula magna dell'Università, mentre un cattedratico di passaggio stava tenendo una dotta conferenza, s'era d'un tratto alzato e aveva gridato in perfetto siciliano (a modo suo sottovoce) ad un vecchio collega seduto in prima fila, suscitando l'ilarità generale e bloccando in gola la parola all'allibito oratore: «Sùsiti, Turi, e amunì nni. Ssu pazzu sta dicennu `n-saccu di minchiati! »

 

C'era, poi, il professore Bottari, messinese e titolare all'Università della cattedra di Storia dell'arte medievale e moderna. Era pienotto, scuro di pelle e un po' trascurato nell'abbigliamento. Veniva, qualche volta, a far lezioni con la barba di tre giorni e, se gli capitava, anche col bavero della giacca, o con la fascia del cappello, unti di chissà che. Aveva poi una vocina molto flebile, da grillo parlante, che non alzava mai di tono per nessun motivo, sicché, quando parlava dalla cattedra o buttava giù le domande agli esami, si dovevano fare i classici salti mortali per capire quel che diceva.

 

Se ne stava, inoltre, talmente assorto nei suoi pensieri di raffinato storico dell'arte che, per non lasciarsene scappare nemmeno uno, spesso si fermava, per strada, per prendere appunti su occasionali pezzetti di carta. Anche di lui si raccontava che una volta, con un suo assistente, avevano tranquillamente parlato di Bellini per più di un chilometro: l'uno, però, si riferiva all'omonimo musicista catanese, mentre l'altro credeva che si trattasse del famoso pittore del Quattrocento veneziano Giovanni Bellini.

Il più vivace del gruppetto, dopo il Guglielmino giustificato dalla sordità, era il Brancati. S'avviava, allora, verso i quarant'anni ed aveva raggiunto, come scrittore, una certa rinomanza anche a livello nazionale per aver pubblicato, nel `41, il suo libro più divertente: Don Giovanni in Sicilia.

Per darsi le arie, spesso portava pure lui il bastone e aveva un vispo visino da furetto. Fisicamente, però, era sottile e delicato come un grissino. Nonostante la forte carica di gallismo che sapeva infondere ai suoi personaggi, così esile e sparuto com'era, una donna sessualmente un po' su di giri se lo sarebbe succhiato d'un fiato come un uovo fresco.

Molto intelligente e dalla battuta caustica e facile, il Brancati, ogni tanto, si divertiva a punzecchiare Giuseppe Villaroel (un poeta ingiustamente dimenticato dai critici e dagli antologisti del primo Cinquantennio del `900), per i suoi trascorsi fascisti. Il Villaroel, allora prudentemente profugo a Catania perché a Milano, in quegli anni ancora caldi dell'immediato dopoguerra, soffiava aria brutta per uno che era stato autorevole critico letterario del mussoliniano Il popolo d'Italia, non se la prendeva per niente. Scherzando anche lui, faceva subito adombrare il Brancati ricordandogli quel mannello di giovanili operette un po' troppo impegnate col caduto regime che gli avevano permesso di arrivare, troppo presto e troppo facilmente, dov'era arrivato. Anche se ora gli faceva più comodo ritenerle delicta iuventutis e opera di uno sconsiderato ragazzaccio che aveva impunemente approfittato della sua firma.A1 fine di evitare quelle scherzose schermaglie che, in fondo, lo infastidivano un poco, il Villaroel preferiva venirsi a sedere, ogni tanto, con noi ragazzi nel vicino caffè Savia. Gioviale e senza troppi peli sulla lingua, si divertiva a chiacchierare con noi di donne e di letteratura, raccontandoci episodi seri e spassosi capitatigli nella sua lunga carriera di letterato che, nonostante avesse sempre parlato bene di tutti, s'era procurato, specialmente a Milano, solo antipatie e inimicizie. In quella città di arrivisti e di avventurieri, ci diceva talvolta per sfogarsi, con la scusa dell'Antifascismo e della Resistenza, un grosso nugolo di marpioni d'ogni risma e colore, s'era ficcato di prepotenza nelle case editrici e nei giornali per fare il buono e il cattivo tempo non certo per l'arte e la cultura, ma per i loro personali interessi di partito o di cassetta.

Dei quattro amici del caffè Italia, tutti più o meno insudiciati di fascismo anche se solo molto superficialmente e per motivi di carriera (qualche maligno diceva, infatti, che andavano ad esporsi tutti i giorni in vetrina, dietro le bottiglie dei liquori e la frutta di pasta reale, per rifarsi in pubblico una nuova verginità politica), Arcangelo Blandini era l'unico totalmente pulito. Nato a Catania il 31 ottobre 1899 (vi morì poi il 1 ° gennaio 1974), proprio negli anni più fulgidi del ventennio nero, pur di non essere obbligato a prendere la tessera del partito fascista, aveva preferito lasciare Roma e ritirarsi a vivere in disparte: nella solitudine della sua vecchia casa catanese e presso gli agrumeti che possedeva nelle vicinanze di Palagonia. Alto, segaligno, semplice nel vestire e di modi affabili, aveva un aspetto quasi sempre triste e corrucciato - anche il suo sorriso era stentato e amaro - e non gradiva né mettersi in mostra né parlare, o far parlare, di sé. Poco loquace e riservatissimo, in quelle private riunioni di amici non si spingeva mai avanti e solo di rado prendeva in mano le redini della conversazione. Preferiva restarsene nel suo cantuccio, intento ad ascoltare, con molta attenzione e con qualche impercettibile risolino, quel che dicevano gli altri.

Quando era costretto a dire la sua, lo faceva quasi a malincuore e in un tono così sommesso da mandare in bestia il povero professore Guglielmino. Il quale, nonostante si piegasse tutto verso di lui col cornetto acustico appiccicato all'orecchio sinistro e aperto al massimo volume, non riusciva ad afferrare quasi niente.

I rari interventi del Blandini erano sempre assai precisi e pertinenti. Uomo di varia e profonda cultura e, per giunta, abituato a trascorrere quasi tutto il suo tempo in compagnia dei suoi libri e dei suoi pensieri, quel che diceva lo aveva così a lungo rimuginato e meditato da farlo diventare cosa propria e originale. Aveva pure, qualche volta, ma molto di rado e subito repressi, improvvisi scatti di stizza, caratteristici di quei soggetti che, per innata timidezza o per modestia più voluta che reale, pazientemente sopportano tutti i luoghi comuni e le sciocchezze che vengono detti in loro presenza e che ad un certo punto, non potendone più, reagiscono in modo sproporzionato.

Dopo il definitivo rientro da Roma, dove era stato redattore, sino al `37, del settimanale letterario romano Quadrivio, fondato e diretto dal siciliano Telesio Interlandi, autore del libro razzista Contra Judeos, e di dove aveva pubblicato due striminziti libretti di poesie, il Blandini lasciò l'isola una sola volta per un viaggio a Parigi. Rimase celibe e trascorse tutta la vita in quasi monastica clausura, solo con i suoi pensieri e più leggendo e studiando che scrivendo. Non disdegnava, tuttavia, la presenza di qualche gatto randagio, venuto ad invadere il suo incolto giardinetto, né quella di qualche amico, per lo più giovane, che andava a trovarlo per una chiacchieratina culturale o per sottoporre qualche scritto al suo giudizio.

Salvatore Puglisi “CATANIA DEI SOGNI” Cavallotto Edizioni - www.cataniaperte.it

 

In memoria del grande pasticciere Bonvegna

La vita è fatta spesso di incontri e avvenimenti casuali, ma al tempo stesso ciò che ci accade è frutto del lavoro e dell’esperienza senza cui non saremmo ciò che siamo. La storia di Concetto Bonvegna e Nunzio Verona titolari dell’ omonima pasticceria sita in via Asiago 60 è quella di due pasticceri ricchi di esperienza e talento che si incontrano casualmente e danno vita a una delle realtà commerciali più longeve ed apprezzate della città etnea.

Concetto Bonvegna impasta zucchero e farina per la prima volta a dieci anni, quando è apprendista nella storica pasticceria Laudani di via Playa, di fronte al mulino Maione. A quindici anni lo troviamo presso il bar del dopolavoro della Posta centrale in via Etnea a preparare deliziosi manicaretti mentre ormai maggiorenne collabora con i fratelli Maimone presso l’indimenticato Bar Centrale di via Etnea, angolo piazza Stesicoro, dove completa Ia propria formazione professionale e incontra un altro straordinario professionista che sarà suo socio.

Nunzio Verona, pasticcere dall’età di quattordici anni,ha una grande esperienza maturata in città, e oltre lo stretto: ha appreso iI mestiere presso svariati laboratori e prestigiosi locali come l’Antica pasticceria Melardi di piazza Spirito santo, il Jolly Hotel di piazza Trento, iI Central Palace di via Etnea ma ha anche lavorato al Lido di Venezia presso il noto bar e gelateria “Cristallo” alternando per quattro stagioni iI lavoro estivo in Veneto con quello invernale presso iI Bar Centrale dei Maimone.

È dunque al Bar Centrale che i due si conoscono, si apprezzano e decidono di iniziare insieme una nuova avventura professionale aprendo un loro laboratorio in via Asiago 60. La clientela non tarda ad arrivare, grazie alla professionalità dei due professionisti e alla qualità dei prodotti artigianali. I titolari sono però consapevoli del fatto che il successo di quest’ attività si deve anche a uno staff competente e dedito, tra cui va annoverato il sig. Giuseppe Rizzo, uno straordinario professionista e fedele collaboratore da trentacinque anni. Il locale riceve recensioni lusinghiere dai clienti affezionati e dagli avventori di passaggio che apprezzano I’altissima qualità delle preparazioni: chi se ne intende sa che è la pasticceria Verona e Bonvegna ad avere ideato tanti anni fa il Savarin con crema pasticcera e frutta fresca che ancora oggi sembra riscuotere successo, insieme alla torta al limone o alle fragoline di bosco e a tante altre specialità. Alle trazioni tipiche siciliane, infatti, la pasticceria accosta prodotti classici della pasticceria italiana e internazionale, come la Millefoglie, la Saint Honoré e profiterole.

Oggi i due titolari sono affiancati dai rispettivi figlioli,Giuseppe Verona e Rosario e Giovanni Bonvegna che seguono le orme dei genitori nella produzione pasticcera e nella gestione impeccabile del punto vendita e delle numerosissime prenotazioni che il laboratorio riceve quotidianamente.

https://www.shoppingdeluxe.it/partner/le-migliori-pasticcerie-siciliane/pasticceria-verona-bonvegna-catania/

 

   
 

 

 

 

 

 

 

HERY BAR

Amarcord...ottobre 1975...davanti all'HERYBAR di via Etnea 19, Catania. Io sono all'interno del bar, il primo vestito di blu mentre bevo, mio padre, il proprietario, è appoggiato allo stipite destro accanto ad alcuni clienti seduti a fianco, il terzo da destra è l'attore Saretto Spadaro. In oltre è da notare, a sinistra, la vetrinetta pubblicitaria del fotografo CAV. Saro D'Agata, papà del compianto Gianni D'Agata, che mostra alcune foto dell'attore Saro Bonaventura. All'epoca la via Etnea non era chiusa al traffico e sui marciapiedi non si mettevano i tavolini. (Piero Privitera, Gianni Sineri, Giuseppe D'agata, Teresa D'agata)

Turi Giordano

 

Menza nel 1955

 

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/390.jpg

grazie alla pagina Facebook Volontari di Picanello

FUORI CITTA'

 

 

Urna a Viagrande

Il Paradiso dell'Etna

 

LA RIVIERA

IL BELLAVISTA AD ACIREALE

 

ACICASTELLO

   

 

 

 

 

 

      

 

 

PROCOPIO, L'INVENTORE DEL GELATO. Durante il Medioevo, in Occidente, le raffinatezze legate al gelato scomparvero momentaneamente.

 

Non così in Oriente. Fu proprio lì che venne realizzata la decisiva scoperta del sistema per congelare i succhi di frutta ponendoli in recipienti circondati di ghiaccio tritato. Gli Arabi svolsero un ruolo assai importante. In Sicilia erano soliti mescolare la neve dell'Etna ai succhi di frutta. Non a caso la parola sorbetto sembra tragga origine dall’arabo scherbet (dolce neve) oppure dall’etimo, sempre arabo, sharber (sorbire), da cui passando attraverso la lingua turca, sarebbe stato coniato il termine chorbet, ossia sorbetto.

Alla fine del ’300 stava risorgendo, dalle nebbie del Medioevo, l’arte del vivere e del mangiar bene, e il consumo dei sorbetti continuava in tono minore, anche se le direttive di austerità del papa e dell’imperatore venivano sempre più disattese.

Nel lontano 1660 un certo Francesco Procopio De Coltelli lasciò la natia Acitrezza per conquistare Parigi, Non partì con un carico di lupini, ma con uno speciale utensile che serviva a fabbricare sorbetti e granite. Forte della tradizione in materia, importata secoli prima in Sicilia dai lungimirati musulmani, Procopio capi che la specialità nostrana poteva avere successo anche in altre parti del inondo. E così inventò la sua ricetta vincente: lo zucchero al posto del miele (come nell'uso arabo) e il sale mescolato al ghiaccio nelle giuste proporzioni per aumentarne la durata.

Ma non fu vita facile per il pescatore mancato. Passarono molti anni prima che Procopio potesse mettere a punto un sorbetto doc, e ad ogni tentativo fallito faceva ritorno nella sua Acitrezza e scoraggiato prendeva il largo, oltre i Faraglioni. Ma in quel fatidico 1660 riuscil finalmente ad aprire il suo primo caffè-gelateria nella capitale transalpina, addirittura con la benedizione del sovrano Luigi XIV, il mitico Re Sole, il quale era rimasto deliziato dal gusto "rnediterraneo" dei suoi sorbetti. La sua fama si propagò velocemente, al punto che dovette ampliare il suo locale e trasferirsi alla rue de l'Ancienne Cornédie Francaise, aprendo il famoso Cafè Procope. Il gelataio trezzoto divenne così Francois Procope De Couteaux, fu invitato alla corte di Versailles per ricevere dal re un ambito riconoscimento: "le Iettere patenti", una sorta di concessione esclusiva per produrre le cosiddette "acque gelate" (l'odierna granita), e poi gelati di frutta, "fiori d'anice e di cannella" e gelati al succo di limone e d'arance.

Un secolo più tardi sarebbe nato anche il celebre "Cafè Napolitainse" del partenopeo Tortoni.

E le vicende di questi due bar italiani si sarebbero incrociate più volte, luoghi che testimoniano grandi eventi storici e culturali, che lasceranno il segno in Europa.

Il Café Procope diventerà il ritrovo ideale di illuministi di grande fama, quali Voltaire, Rosseau, D'Alembert, Diderot; si dice che alcuni di loro abbiano lasciato manoscritti, tutt'oggi consultabili a chi abbia voglia di visitare questo locale, nel cuore del quartiere latino di Parigi. Non solo. Negli anni della rivoluzione francese il bar sarà frequentato dai capi del movimento giacobino, dai vari Roberspierre, Danton, Marat e Saintjust; qualche storico francese sostiene che sia stato anche teatro di omicidi durante gli anni del terrore. E invece, trent'anni dopo, nel vicino Cafè Tortoni, si davano appuntamento il sommo Gioacchino Rossini e un giovane siciliano, di Catania, che aveva appena composto un'opera che avrebbe scosso definitivamente il melodramma europeo. Il dramma musicale in questione è "I Puritani", e l'artista è quel tale Vincenzo Bellini, giovane di belle speranze che suscitava l'ammirazione del grande autore di "Barbiere di Siviglia". Rossini preferiva le paste napoletane del "Tortoni", mentre Vincenzino avrebbe sicuramente gustato una granita di limone nel "Procope", fondato da quel conterraneo venuto da Acitrezza.

 

 

 

 

 

La rosticceria Stella

Le tradizioni gastronomiche non si mantengono nel tempo. Alcune cambiano, altre rischiano di perdersi. Ad esempio le scacce del modicano-ragusano, un prodotto di rosticceria povero ma di altissima qualità e gusto, rischia di perdersi nell’omologazione indotta da modelli di consumo importati.

Pensate che nel corso della mia ultima visita a Ragusa Ibla, due anni e mezzo addietro, la famosa bottega che produceva scacce continua ancora a farle, ma nell’insegna c’è scritto “focacce”!

Credo invece che occorra salvaguardare la denominazione originale e farne un presidio gastronomico e per questo mi rivolgo agli amici di quella zona.

Anche a Catania, nel campo della rosticceria, si sono conservate le tradizioni delle scacciate e delle crispelle, ma non quella della pizza.

Non riesco più a trovare la pizza come la mangiavo negli anni cinquanta, vicino a casa mia, nei locali di una nota rosticceria. Venendo da piazza Cappellini, adesso piazza Falcone, ti lasciavi sulla sinistra il palazzo Fischetti, e alla destra il Crocifisso della buona morte, un nome non propriamente beneaugurante per la mia parrocchia.

Nella piazza v’era un grande mercato all’aperto che proseguiva per l’attuale via De Curtis dove si trovava il cinema Mirone, mitica sede del Cineforum negli anni ottanta. All’incrocio venivi circondato dai profumi e dagli effluvi dello strutto fritto provenienti da tre o quattro rosticcerie che si trovavano all’incrocio fra l’attuale via De Curtis, che proseguiva nella via Di Prima (dove iniziava la zona proibita di quelle che allora venivano definite le case chiuse) e la via Monsignor Ventimiglia.

Entrando nella rosticceria trovavi subito alla tua sinistra tre enormi caldaie dove friggeva in continuazione lo strutto in cui cuocevano arancini, crispelle, pizze, sfincioni. I tre fratelli che la gestivano, tondi grassi e rubicondi, badavano alle caldaie: il maggiore, più alto e più rotondo, a quella più grande, il secondo, lievemente più basso ma con rotondità proporzionalmente uguale a quella del maggiore, alla caldaia intermedia. Il più piccolo d’età, che era anche il più minuto, perché sembrava che la loro mamma nel generarli avesse perso progressivamente potenza creatrice, era addetto alle crispelle che produceva a getto continuo e a velocità supersonica, mescolando con straordinaria abilità l’impasto con la ricotta o con l’acciuga e versando il tutto nello strutto. Sì, perché lo strutto era d’obbligo, anche in famiglia. Si preparava d’inverno con il grasso di maiale: spesso si compravano le cotiche ( “a cutini”) che si cuocevano a parte con un sottile strato di grasso, lasciandone la maggior parte da sciogliere in padella per la preparazione dello strutto. “A saimi” il nome catanese per lo strutto, si conservava per le preparazioni alimentari, ma veniva usato in famiglia anche per i massaggi sulla schiena dolente. Ciò che restava della preparazione, piccoli pezzetti croccanti di grasso, le cosiddette “frittule”, (a Bologna chiamati “ciccioli”) venivano anch’essi conservati per usi alimentari.

Dunque entrando in rosticceria si chiedeva la pizza alla catanese e se non era pronta il più piccolo dei fratelli te la preparava all’istante.

 

Il gastronomo educato

http://www.cataniapubblica.tv/cucina-arriva-il-gastronomo-educato-e-vi-mette-tutti-a-tavola-oggi-pizza-alla-catanese/

 

 

LA FRIGGITORIA STELLA

La storia della rinomata Friggitoria è un po' la storia della stessa famiglia STELLA, sino ad oggi sono quattro le generazioni che si tramandano da padre in figlio.

Nasce a Catania nella centralissima Via Ventimiglia intorno al 1890, In una tormentata vicenda ambientata nella Sicilia ottocentesca .

 I fondatori Natale e Andrea STELLA.

Giovani fratelli e piccoli  imprenditori agricoli delle campagne della zona tra Augusta e Lentini (Sr), si dedicavano per tradizione familiare alle coltivazioni tipiche della zona e all'allevamento di pregiate razze bovine.

I tempi difficili non permettevano a due giovani imprenditori di espandersi ma loro, caparbi, pensarono bene di migrare verso la grande città per poter vendere direttamente i prodotti della loro terra.

Dopo enormi sacrifici e dopo raccolto un bel gruzzoletto di denaro, partirono in calesse alla volta di Catania.

( E' bene ricordare che il viaggio da Augusta a Catania era lungo ben tre giorni di marcia estenuante con non pochi rischi, tra l'altro di essere aggrediti e derubati dalle bande di ladroni che allora scorrazzavano per i sentieri stradali).

Nonostante la lontananza, i pericoli e le notti passate all'agghiaccio o alle stazioni di posta come la mitica stazione cosiddetta di "zia lisa" i fratelli Stella giunsero a Catania e pressero subito contatti con dei conoscenti. Visitarono parecchie botteghe ove poter impiantare la loro futura azienda.

Catania allora si estendeva da Nord -Sud compresa dal porto a poco piu' sù  del Corso Sicilia (allora inesistente) e da  Est -Ovest dalla via della Concordia (strada delle ottanta palme) alla Stazione (piazza Giovanni XXIII).

Per i più giovani va detto che già San Giovanni li cuti era considerato un luogo di villeggiatura fuori città.

Ma torniamo ai STELLA, le botteghe fatte visitare ai due fratelli non erano piaciute e stavano per lasciare la città percorrendo dalla ex sciara del corso Sicilia verso il porto, la stretta via Ventimiglia, quando si fermarono ad un chioschetto per dissetarsi, si accorgevano che poco piu' avanti al numero civico 66 64 stavano traslocando.

Chieste informazioni e capito che il proprietario era lì presente, senza destare troppo l'interessamento, da classici siciliani di quei tempi cercarono di carpire informazioni sulle botteghe.

Visitarono, i locali e i loro sguardi si incrociarono e si parlavano, senza fiatare, sorridendo ma senza fornire al proprietario alcuna sodisfazione trasmettevano tra loro la sodisfazione di aver trovato i locali della futura azienda.

Dopo una lunga ed estenuante trattativa sull'affitto, i lavori da fare, le cauzioni, il proprietario cedette sotto il martellamento delle proposte prima di Andrea e poi di Natale. Una volta accordati, il momento del pagamento il proprietario chiese di andare presso la banca dei fratelli per ricevere le cauzioni, rispose Andrea << la nostra banca siamo noi -  Natale pigghia i sordi >>  aggiunse Natale << pozz ire o' bagno>>, sospettoso il proprietario disse << ma unni l'hai e sord'>>  risposero assieme << unn' o' sul e l'occhi nun arrivun>>.

Natale si allontanò in bagno e da una tasca cucita appositamente nelle mutande srotolò un mazzo di soldi che consegnò al proprietario delle botteghe, il quale alla vista di tutti quei soldi annui meravigliato.

 I due fratelli partirono per ritornare ad Augusta dove li antendevano oltre che i propri genitori già anziani anche le loro fidanzate, due sorelle, Maria e Giuseppina Ferraguto, due bellissime donne di figure esili e poco assomiglianti alle classiche donne siciliane infatti entrambi erano bionde con occhi azzurri e carnaggione chiara.

Arrivarono a casa di notte, i genitori fremevano di conoscere l'esito del loro viaggio, ma i due fratelli non vollero parlare se non prima venissero convocate anche la famiglia delle loro  fidanzate, cosi mandarono un garzone di stalla  a chiamare la famiglia Ferraguto la quale risiedeva in una fattoria poco distante.

Immaginate la scena si sedettero tutti attorno un grosso tavolo di legno, gli Stella posero a disposizione di tutti al centro del tavolo  pane, formaggio e vino e subito dopo i due fratelli presero a spiegare i loro piani per il futuro, produrre salumi, conserve e formaggi di buona qualità e venderli a Catania, la piazza non è facile ed è necessario che entrambi si stabiliscono a Catania, mentre che le rispettive famiglie Stella e Ferraguto penseranno alle fattorie, ma c'è un problema ..... le donne, le fidanzate, i due fratelli non sarebbero partiti senza di loro e non avrebbero potuto affrontare nemmeno le spese di due matrimoni. Le discussioni, le perplessità dei genitori delle due fanciulle non ebbero scampo innanzi all'intraprendenza dei due fratelli.  Giunsero a Catania dopo circa un mese con al seguito due carri di mobilia e quant'altro per impiantare una casa e due carri di lecornie di ogni tipo, salami, formaggi, ricotta, tuma etc.etc.

Il successo non tardò a presentarsi dopo qualche mese le migliori salumerie e macellerie si rifornivano dai Stella. Riuscirono a sposarsi poco tempo dopo. Gli affari prosperavano e i fratelli Stella miravano ad ingrandirsi ma principalmente di prendere i catanesi "per la gola" , che come è noto hanno sempre avuto il "palato fine".  In Particolare i catanesi amavano la cucina "salata" e estremamente lavorata con lavorazioni tipiche un po' arabe, greche. Quindi pensarono che si sarebbe potuto provare ad installare una "rusticcheria, scacciateria ma sopratutto non sarebbero dovuti mancare gli arancini.

Enormi arancini di riso imbottito di ragù di carne e tuma fresca di pecora.

Dopo poco meno di un'anno nasceva la FRIGGITORIA STELLA.

Nel frattempo nelle rispettive famiglie che abitavano sopra gli stessi locali della salumerie e della friggitoria In famiglia si susseguirono nuovi arrivi: Da Natale e Maria nacquerò Giuseppe, Antonino, Francesca e Andrea, mentre che da Andrea e Giuseppina nacquerò Natale e Giuseppe. Il tempo e la speranza avevano baciato queste due famiglie, ma la fortuna non volle assisterli per lungo tempo e poco dopo morì il piccolo Natale seguirono in tragici eventi e malattie le dipartite di uno dei fratelli Stella e una delle sorelle Ferraguto, cosi come voleva la allora tradizione siciliana, qualche tempo dopo  i cognati si unirono in matrimonio  e unirono le due famiglie in una. 

Ma poco tempo dopo anche i due neo sposi lasciarono il mondo terreno.

 I figli non erano da meno nelle capacità imprenditoriali  e continuarono per la strada segnata da i loro genitori, acquistando poco tempo anche un panificio.-

I stella divvennero i proprtietari di quasi tutta la parte meridionale della via ventiomiglia con botteghe di macelleria, salumeria, panificio e friggitoria.

La guerra, le invasioni prima tedesca, poi degli alleati le carestie, le crisi e la poverta generalizzata colpi tutti e i STELLA non furono risparmiati, ma nemmeno decapitatio solo l'alto senso di sacrifico dell'intera famiglia fece in modo di passare quei brutti momenti.

La friggitoria STELLA conobbe il suo massimo splendora da gli anni 50 sino alla fine degli anni 70.

Le produzioni degli STELLA si importavano persino negli Stati Uniti d'America, partecipavano a tutte le fiere nazionali e internazionali promuovendo i prodotti tipici siciliani e portando un po' di Sicilia agli emigranti.

Tra  la Friggitoria, Salumeria e panificio ed inoltre nelle capagne Augustane lavoravano decine di persone assicurando il massimo della genuinità dei prodotti. 

http://friggitoriastellact.jimdo.com/stella-oggi/  (le foto provengono dal sito ufficiale della friggitoria Stella)

 

I MONSU’

Fino a tutto il 1500 l’Italia fu il punto di riferimento per la gastronomia europea: i banchetti interminabili, con carni e condimenti ricchissimi, tempi di cottura notevoli, erano d’esempio per la nobiltà e per le corti d’Europa, per la gradiosità, la genialità e l’opulenza delle rappresentazioni dei piatti.

Con Luigi XIV, la Francia diventò una potenza dominante, la cultura e la lingua francese si diffusero ovunque e con essa tutte le regole fissate dalla grandiosa cucina francese del seicento e che finì per emergere in tutti i paesi da lui dominati e dove la religione non creava limitazioni, parliamo della corte di Spagna e del REGNO borbonico delle due Sicilie.

Maria Carolina d’Austria, sposa di Ferdinando I di Borbone è stata una figura primaria e inconsapevole per la storia e la tradizione della cucina italiana e in particolare per la cucina siciliana. Infatti, a seguito del matrimonio con Ferdinando, Carolina introdusse con insistenza i cuochi francesi, in quanto simbolo di eleganza alla corte del re borbonico, dando grande importanza alla figura del Monsù nelle case di tutti i nobili del regno; nello specifico la nobiltà siciliana del ‘700, che consumava piatti francesi preparati dal proprio cuoco francese.

Monsù fu l' appellativo, derivante dal francese “Monsieur” ovvero Signore.

Chiamati talvolta con il loro nome di battesimo ma con il cognome della famiglia presso cui lavoravano, alcuni di loro diventarono così famosi da essere trattati alla stregua di grandi artisti in quanto il titolo di Monsù era motivo di orgoglio che si tramandava da padre in figlio.

“…il titolo di Monsù si dava ai cuochi di casata“ diceva Alberto Denti di Piraino, e cioè a quanti avevano il privilegio di servire in case patrizie. Gli altri, al lavoro magari presso gente ricchissima, ma non titolata, erano cuochi di paglietta e venivano considerati “gente da non frequentare“.

Il Monsù era colui che dava il tocco di eleganza ed originalità alle pietanze, signore e capo della cucina, e che si contraddistingueva dagli apprendisti. Non c’era aristocratico nel Regno delle due Sicilie che non avesse nella propria cucina un cuoco francese.

Era tanta la smania di sfoggiare un Monsù che quest’ultimi venivano contesi dalla stessa nobiltà dell’epoca, perfino a costo di duelli, e sono stati questi grandi cuochi che consolidarono, fra 700 e 800, la grande cucina baronale, descritta da scrittori come Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo” o De Roberto ne “I Vicerè“.

A Palermo in tutti i palazzi della nobiltà c’era sempre il “quarto del Monsù”: in pratica un appartamento a disposizione dello stesso che lo usava per se e a suo piacimento.

E’ chiaro che i signori siciliani, spur gustando con piacere nei grandi pranzi ufficiali, i delicati sapori francesi, negli altri giorni chiedevano ai loro Monsù di creare cibi più robusti e dai sapori più decisi.

E così i Monsù, cucinavano pietanze rielaborandole con l’arte di chi sa bene come utilizzare le materie prime, usando le spezie per far risaltare al massimo sapori e odori e utilizzando quanto la terra di Sicilia produceva.

I Monsù seppero creare piatti che consumiamo ancora oggi: il gateaux di patate che in sicilia diventa gatò, all’aglassato, ai timballi esternamente croccanti e ripieni di carne e formaggi, ai polli farciti di riso o i beccafico, cacciagione cucinata ripiena di fegatini e interiora varie,fino alla reinvezione della caponata in agrodolce, agli involtini alla palermitana e il falsomagro che come leggerete più avanti ricorda lontamente un piatto in origine decisamente più leggero.

Diedero origine alle vecchie tradizioni alimentari siciliane, grazie ai prodotti che questa magnifica isola produceva e grazie alla cacciagione e al pescato che non mancava mai.

Nacquero da piatti della vecchia cucina siciliana come i timballi, le melanzane alla parmigiana cotte sopra e sotto, cioè con la brace che copriva il tegame e il pesce coricato, spunti che gli stessi Monsù utilizzarono in seguito per creare e ampliare parte della nuova gastronomia, trasformando quelli che erano piatti semplici in sontuose preparazioni.

Alcuni di questi piatti verranno “imitati”, cambiando la carne o la cacciagione con prodotti più economici: fra tutti le sarde a beccafico o le melanzane o i peperoni ripieni di riso o la caponata di melanzane (invece che di capone).

Saranno loro a creare nuove ricette per rendere mangiabile la carne dura e fibrosa (retaggio della macellazione di vecchi bovini). Fra questi era famosa la carne vaccina una farcitura di tenere verdure e odori, chiamata gentilmente in francese farcie de maigre, popolarmente divenuta farsumagru, falso magro, anche se riempito di ogni sorta di ben di Dio e molto diverso dal delicato piatto da cui aveva preso le origini. Loro la semplice modesta pasta con la ricotta ma profumata di cannella, il cacio all'argentiere, caciocavallo riscaldato in padella con un po' d'origano, sono golosità che se hanno soddisfatto i grandi nobili siciliani.

Straordinariamente è proprio in Sicilia che i Monsù con la loro arte culinaria, riuscirono ad influenzare gran parte della cucina popolare siciliana, sfruttando tutte quelle ricette della tradizione e superando la barriera esistente fra cucina ricca (per i nobili) e cucina povera, dando il via a quella cucina popolare che più che mai è presente in tutta la regione.

Furono loro che realizzarono per i loro signori una serie di piatti che la grande tradizione isolana greca, romana, araba, ebrea, normanna e spagnola aveva saputo conservare.

Gli originali Monsù, rigorosamente francesi, istruirono i volgari “cuochi di paglietta” , dando vita ad una scuola che originariamente avrà basi francesi ma che poi diventerà grazie a altri grandi personaggi, rigorosamente italiana.

Ho pensato di raccontarvi questa storia a mio avviso molto interessante, per far comprendere oltre alle “origini della cucina siciliana” anche quanto lo stesso filo conduttore unisca paesi diversi. La cucina è un’arte indiscussa e come tale appassiona. Artista e arte che non sono meno di chi per genialità e bravura dipinge un bellissimo quadro. Anche i Monsù lo facevano con dedizione, rigore e qualche volta alterigia.

Di fatto però è un’arte effimera, perché allora come adesso chissà perché, non ne rimane mai traccia… (ma forse sappiamo perchè)

 

Armando Di Dio Martello, da Facebook “La storia della cucina tradizionale siciliana”

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C.R. de Saint-Non, che trascorse in Sicilia sei mesi, scrisse nel Voyage pittoresque ou descripion des royaumes de Naples et de Sicilie, Paris 1751: “Noi trovammo i nostri baroni palermitani passare voluttuosamente la vita in molle e dolce ozio mangiando a due palmenti il pr dotto delle loro terre che essi non visitano».

I nobili ostentavano magnificenza per sorprendere i loro pari ed abbagliare il popolo, che con dispregio chiamavano "popolino", esibendo il loro status non solo materiale ma anche culturale. Per la nobiltà il lusso non era spreco un obbligo sociale. L'aristocrazia siciliana è stata una casta impenetrabile, solo quanto le ricchezze volavano e rimaneva il prestigioso nome si apriva ai nuovi ricchi. I Florio che, da bottegai in meno di due generazioni divennero una potenza economica europea, entrarono a gamba tesa nell'aristocrazia palermitana. Ignazio Florio Jr. sposò Franca Jacona Notabartolo San Giuliano, Giulia Florio sposó il principe Pietro Lanza Branciforte di Trabia e Butera. Vincenzo Florio Jr ha sposato Anita Alliata di Montereale.

I Monsù (monsieur), cuochi della nobiltà e del clero, erano tenuti in grande considerazione dai loro committenti che gli davano del rispettoso Voi e alla fine del pranzo li chiamavano per complimentarsi della bravura. Come i grandi artisti non si concedevano al primo chiamo, dopo ripetuti chiami si presentavano con inchino e un accenno a sorriso.

Ogni Monsú aveva un suo piatto esclusivo di cui teneva segreta la ricetta. Nel palazzo avevano un alloggio riservato: quartu (l'appartamento) ru monsu. Erano contesi dalla nobiltà a suon di quattrini, lo stipendio di Giuseppino (il siciliano Giuseppe Lazzaro), monsù personale di Maria Carolina, era di 37 ducati. La raffinata Maria Carolina d'Austria influenzò i gusti dell'aristocrazia siciliana che faceva di tutto per imitare i reali. Come il cuoco secretum del principe del Rinascimento, seguivano i loro signori nelle varie residenze e persino nei lussuosi alberghi europei dove cucinavano per loro. Nelle cucine baronali, con i monsù sono arrivati nuovi piatti e tanti vocaboli francesi: regoûts, patès, sufflès, glasse, maccheroni en croûte, pasta brisé. I monsù, spesso scontrandosi con la cucina siciliana, seppero adottare e arricchire il modello francese con i nostri aromi. i nostri prodotti ed i nostri gusti. Qualche volta entravano in contrasto con la padrona come ricorda Renata Pucci di Benisichi in “Scusate la polvere”: «Ma la lingua si scioglieva in difesa del proprio operato, per discutere sulle  regole di cottura o l'amalgama delle dosi o la quantità del sale. Cessava il rapporto di dipendenza e si apriva una disputa d'accademia: "Non si è mai sentito dire di una pasta con le sarde con salsa di pomodoro", diceva altera mia zia, con un piccolo ghigno di scherno. "Ma ci vogliamo mettere a fare la pasta con le sarde come il popolino palermitano? Questa ci voleva!" "Voscenza mi permette, ma la principessa Giuseppina la ordinava sempre cosi!" "Mi meraviglio per la principessa" reagiva mia zia, giá battendo in ritirata».

Basile riporta quanto gli è stato riferito da Anna Tasca Lanza: "Gli arrosti si poggiavano su un tovagliolo bianco di Fiandra, rimboccato ai quattro angoli sul piatto di portata, la cima dell'osso era nascosta da un cappello da chef in miniatura; i fritti misti su una base di carta bianca, artisticamente sfrangiata lungo i bordi, l'unica pietanza che si poggiava direttamente sul piatto di portata era la pasta asciutta. I sughi e le salse venivano serviti a parte, nelle salsiere d'argento o di maíolica. Da noi lo "spillungo" il "fagotto", la "raviera" erano i nomi di questi piatti di portata .

Il monsù Urna in casa Pennisi di Floristella ad Acireale, preparava i complicati ramacchè che sono una variante dei francesi ramaquins. Urna aprirà nel 1885 un ristorante a Viagrande (Ct) dove si possono gustare le dorate pizze siciliane frítte, farcite con tuma, acciughe e pepe. Il prestigioso "titolo di monsù" era riservato ai cuochi dei nobili. I ricchi borghesi che ostentavano lusso e ricchezze avevano solo i cuochi di paglietta". Uhttps://www.mimmorapisarda.it/2023/spig.jpgn grande cuoco di paglietta è stato Alfredo Senisi, cuoco secretum di Ignazio Florio, che seguiva il signore nei suoi viaggi in Italia e all'estero.

Sono stati i Monsù a creare nel 1700 la cucina baronale che si caratterizzava non solo per la raffinatezza ed il gusto ma anche per l'elegante presentazione. La loro arte si realizzava nella preparazione dei grandi pranzi. La scenografia dei buffet era una splendida opera d'arte e di gola:  «Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi dei "dolci di riposto" mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables à thé dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immense nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, i pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccaccie disossate reclini su tumuli di crostini ambrati, decorati delle loro stesse viscere triturate, le galantine color d'aurora, dieci altre crudeli, colorate delizie. Alle estremità della tavola due monumentali zuppiere d'argento contenevano il consommé ambra bruciata e limpido.” (G. Tomasi di Lampedusa, II Gattopardo)

Il monsù del Principe palermitano Fulco di Verdura era stato son solo a Parigi ma anche a Londra, Verdura scrive: «Sapeva benissimo condizionare steak and kidney, pie, yorkshire pudding ed altre specialità nordiche. Però durante il lungo viaggio da Dover a Palermo questi piatti avevano subito metamorfosi linguistica, sicchè il mince pie era diventato mezzosposo e lo strawberry fool, strabbifuoddi».

Antonino Alaimo monsù del principe della Cattolica per le gite fuori porta del suo principe preparava la pizza rustica con la francese pasta brisè farcita con ricotta, mortadella, caciocavallo, pangrattato e prezzemolo.

Il prestigioso titolo di Monsù era riservato ai cuochi dei nobili. I ricchi borghesi che ostentavano lusso e ricchezze avevano solo i cuochi di paglietta. Un grande cuoco di paglietta è stato Alfredo Senisi, cuoco secretum di Ignazio Florio che seguiva il suo signore nei suoi viaggi in Italia e all'estero.

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Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - gentile concessione del Prof. Schilirò per mimmorapisarda.it

 

 

 

"Ti faresti monaco?" gli domandò il principe, per chiasso. "Ci staresti sempre, al convento?" "Sì," rispose egli, per non dargliela vinta.
"È bello stare a San Nicola!..." I monaci infatti facevano l'arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d'olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un'ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, ed ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per questo servizio, doveva segarne due dita, perché si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare.

In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto.

Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regalo alle famiglie dei Padri e dei novizi, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno. Essi rifacevano le camere ai monaci, portavano le loro ambasciate in città, li accompagnavano al Coro reggendo loro le cocolle, e li servivano in camera se le LL. PP. si sentivano male, o si seccavano di scendere al refettorio.

Lì il servizio toccava ai fratelli: a mezzogiorno, quando tutti erano raccolti nell'immenso salone dalla vòlta dipinta a fresco, rischiarato da ventiquattro finestre grandi come portoni, il Lettore settimanario saliva sul pulpito e alla prima forchettata di maccheroni, dopo il Benedicite, si metteva a biascicare. Il giro della lettura cominciava dai più piccoli novizi fino ai monaci più vecchi, per ordine d'età; ma una volta arrivato ai Padri di fresca nomina, ricominciava per evitare quel fastidio ai grandi, i quali se ne stavano comodamente seduti dinanzi alle tavole disposte lungo i muri, sopra una specie di largo marciapiedi; l'Abate, nel centro del gran ferro di cavallo, aveva una tavola per sé. I fratelli portavano intanto attorno i piatti, a otto per volta, sopra un'asse chiamata "portiera" che reggevano a spalla.

 Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità; e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell'acciottolio delle stoviglie e del gorgoglio delle bevande mesciute e del tintinnio delle argenterie, il Lettore biascicava, dall'alto del pulpito, la Regola di San Benedetto: "... 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro..." La Regola, veramente, andava letta in latino; ma al principino e agli altri novizi, aspettando che la potessero comprendere in quella lingua, la spiegavano nella traduzione italiana, una volta il mese.

San Benedetto, al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d'ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane; "se hanno poi da cenare, il Cellerario serbi la terza parte di detta libbra per darla loro a cena"; ma questa era una delle tante "antichità" - come le chiamava fra' Carmelo - della Regola.

Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, caldo fumante come quello della mattina. La Regola diceva pure: "Ognuno poi s'astenga dal mangiare carne d'animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi"; ma tutti i giorni compravano mezza vitella, oltre il pollame, le salsicce, i salami e il resto; e in quelli di magro il capo cuoco incettava, appena sbarcato, e prima ancora che arrivasse alla pescheria, il miglior pesce.

Molte altre "antichità" c'erano veramente nella Regola: San Benedetto non distingueva Padri nobili e fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizi che non adempissero il dover loro, diceva insomma un'altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco.

Articolo vino, il fondatore dell'Ordine prescriveva che un'emina al giorno dovesse bastare; "ma quelli ai quali Iddio dà la grazia di astenersene, sappiano d'averne a ricevere propria e particolare mercede". Le cantine di San Nicola erano però ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perché il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti.

Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d'oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale. Gli altri monaci, subito dopo tavola, se ne uscivano dal convento, si sparpagliavano pel quartiere popolato di famiglie, ciascuna delle quali aveva il suo Padre protettore.

Padre Gerbini, la cui camera era piena di ventagli e d'ombrellini che le signore gli davano ad accomodare, cominciava il giro delle sue visite; Padre Galvagno se ne andava dalla baronessa Lisi, Padre Broggi dalla Caldara, altri da altre signore ed amiche. Tornavano all'ave, per entrare in chiesa, ma quelli che venivano un poco più tardi, o a cui doleva il capo, se ne salivano direttamente in camera; e non già per dormire, ché la sera, fino a tre ore di notte, quando si serravano i portoni, c'erano visite di parenti e d'amici, si teneva conversazione, molti Padri facevano la loro partita.

da "I Vicerè", di Federico De Roberto

 

La cucina

Il Refettorio grande

 

La cucina ha una forma poligonale con il punto di cottura, al centro, facilmente raggiungibile da ogni angolo della sala. Un vano “passa vivande” (foto in alto) la collega al refettorio con una distribuzione degli spazi decisamente funzionale e innovativa. Proprio sotto la cucina, le cantine custodivano ottimo, immancabile buon vino. Luoghi dove esistono pochissimi simboli religiosi sostituiti da sfarzi di ogni genere. In pratica un Hotel a 5 stelle dei tempi passati. Comunque un gioiello.

 

 

 

 

VEDI IL SET FOTOGRAFICO DEI BENEDETTINI

 

 

 

Per il venerdì si seguiva lo schema dettato dalle regole di San. Benedetto, che era così articolato: la cena delle occasioni particolari iniziava con lo “scacciu”, mandorle, noci, nocciole da schiacciare al momento, seguito sempre da una minestra di verdure e legumi. Ad essa seguiva sempre un piatto a base di riso “Timbale o timballo” un involucro di riso sapientemente farcito con aggrassato di carne. Il secondo a base di pesce “tonnina” detto “Terza cosa”, e per i venerdì fuori dalla Quaresima era prevista una “Quarta cosa”, generalmente un piatto di sostanza a base di carne, come il celebrato falsomagro detto bruciuluni o rollè. Fra il secondo di pesce e quello di carne veniva servito il cosiddetto “Cunottu” una sorta di autentico stratagemma che serviva a togliere il sapore del pesce e predisporre il palato al gusto della “carne”. A chiudere la cena, poi, ci pensavano oltre a montagne di cannoli, cassate e spumoni, le sfinge di pasta bognè (nient’altro che delle bignole farcite con crema di mele e sciroppo di miele e arance).

L’autunno richiedeva ai monaci benedettini di seguire con solerzia le ultime pratiche agrarie nelle varie tenute terriere, prima del grande freddo e del letargo dei campi. In quei giorni si estraevano le forme di pepato, caciocavallo e pecorino. Andando per le cucine del monastero dei benedettini a Catania, potevano trovarsi ammonticchiate sacchi di iuta pieni di lenticchie, fave e castagne, preziosa dispensa per i pasti serali delle brutte stagioni.

In attesa della preziosissima risorsa dell’olio, orgoglio e sapienza monastica, il mosto riposava nelle cantine. Questo è il periodo per preparare le conserve di verdure ed i salumi. I frati spesso erano bravi erboristi e cultori delle provviste di bosco raccoglievano funghi e castagne, provvidenziale aggiunta per il refettorio in questo periodo.

 

 

L’antipasto, pietanza abbastanza elaborata da collegare al tornagusto della cucina baronale, era molto vario. Fra i tanti vengono segnalati: le sfogliatine con i fegatini, baccalà ripieno di mandorle, cutumè di riso o ricotta, frittate di ricotta e mentuccia, polpette dal volume inusitato, tocchi di caciocavallo.

 

Spiedini di provola e caciocavallo.

Dosi per 4 persone, tempo di preparazione: 15 minuti circa.

Ingredienti:     Caciocavallo stagionato: 400 gr  Uova: 1 Pangrattato: q.b. Olio Extra Vergine di Oliva: ¾ di bicchiere  Sale q.b.   Latte q.b.   Farina: quanta se ne prende

Preparazione:  Tagliare il caciocavallo stagionato e la provola a fette alte più o meno 2 centimetri e poi a cubetti tutti uguali.  Bagnare i cubetti nel latte, poi nella farina, quindi nell’uovo sbattuto con un pizzico di sale e infine nel pangrattato.  Infilarli su 4 spiedini di legno e friggerli in abbondante olio bollente.

 

 

I cutumè, tipici del catanese, sono piccoli bignet fritti, farciti variamente e ricoperti di zucchero, ed i cutumè, altri bignet, che hanno come principale caratteristica la ricotta dell'impasto. Ingredienti che peraltro troviamo in moltissimi dolci siciliani: dalla cassata al cannolo, dalle "Sfinci di San Giuseppe" alla cassata al forno. Ma da dove deriva il nome cutumè? Ecco ancora un classico esempio della nostra antica tradizione, che affonda le sue radici nel mondo ellenico: il termine infatti viene da xùtos, ossia mucchietto, fagottino.Bignet Ingredienti per 6 persone: 300 gr di ricotta di pecora 3 uova intere 230 gr di farina OO Cannella quanto basta Olio d'oliva extravergine 100 gr di miele.

 Esecuzione: Passate la ricotta a setaccio, aggiungete le uova, quindi la farina mescolando continuamente fino a quando l'impasto risulterà consistente. Dopo averlo lavorato, fatelo riposare per 3 ore circa. Fate bollire in una padella a bordi alti abbondante olio, quindi appiattite il composto, con un dito procurategli un buco al centro e tuffatelo nella padella; quando sarà imbiondito ritiratelo, disponetelo su un piatto di portata, conditelo con il miele che nel frattempo avevate riscaldato e spolverate con la cannella.

 

 

 

 

Pane fritto con le uova

Ingredienti: 500g di pane raffermo con tanta mollica,all'incirca 6 uova,olio per friggere,sale,e facoltativo parmigiano

Preparazione: in una padella mettete l'olio sopra e lo fate diventare caldo,prendete il pane e lo tagliate a fette non troppo sottili,prendete un contenitori e sbatteteci le uova se si vuole con il parmigiano e un pizzico di sale,dopo prendete un'altro contenitore e lo riempite d'acqua,prendete la fetta di pane la inzuppate un po' nell'acqua non troppo il tempo che si ammorbidisce giusto un po' non  si deve rompere o essere troppo inzuppato d'acqua,dopo invece passatelo nell'uovo e giratelo stile cotolette e poi li friggete, mangiateli caldi e non strafate con le porzioni perche' saziano molto.

 

 

Gateau di ricotta

ingredienti: 1 kg di ricotta di pecora 4 uova 200 gr di zucchero 1/4 di fiala di vanillina 1 scorza di limone grattugiata 150 gr di cioccolato fondente

Fare scolare almeno un giorno la ricotta. Passarla la ricotta nel passa-verdura.

Incorporare lo zucchero, la vanillina, il limone grattugiato, i tuorli e cioccolato tagliato a pezzi

Montare a neve gli albumi e aggingerli al composto e mescolare il tutto.

Imburrare la teglia e versare il composto in maniera uniforme

Informare a 240° a forno ventilato, appena prende colore mettere il forno statitico a 18o°

Lasciare raffreddare e poi disporla nel piatto di portata

 

 

Scacciu o passatiempu in dialetto siciliano è la frutta con guscio legnoso come noci (nuci), noccioline (nuciddi), mandorle (miennuli), ceci tostati (calia), semi di zucca seccati e tostati (simienza), carrubbe o anche frutta secca come fichi, prugne, ecc.

 

Pagnotta ripiena di ravioli di ceci

Gli ingredienti sono per 8/9 pagnotte. Sciogliere il lievito con 100 g d'acqua e un cucchiaino di zucchero. Impastare il lievito con la farina, 4 cucchiai d'olio, il sale e circa 2 litri di acqua "morta" (lasciata riposare per depositare l'eventuale calcare), non aggiungendola tutta subito, ma poca per volta, controllando la consistenza dell'impasto che deve risultare elastico. Impastare bene e mettere a lievitare divisa in 8/9 pagnotte per un'ora circa, cioè fino a quando la pasta raddoppierà di volume. Trascorso il tempo, impastare brevemente ogni pagnotta e, per aiutare la lievitazione, fare con il coltello due doppi tagli incrociati. Lasciare il pane a lievitare per un'ora circa, poi infornarlo nel forno a legna coperto da carta stagnola per 20 minuti circa, togliere la stagnola e proseguire la cottura per altri 15 minuti. Nelle giornate molto umide, potrebbe essere necessario lasciare il pane nel forno aperto per una decina di minuti ancora, sottosopra. Volendo, aggiungere all'impasto una o due patate lessate e schiacciate, diminuendo la quantità di acqua.

 

 

 

Filetto di baccalà in crosta di mandorle con purea di scarola

Ingredienti per 4 persone Per il baccalà 320 gr Baccalà, 1 albume, Acqua, 80 gr Mandorle grattugiate, Olio extra vergine di oliva

Per la purea di scarola 1 kg Scarola, 1 Cipolla, 1 spicchio Aglio, 1 Patata lessata, Olio extra vergine di oliva, Sale, 40 gr olive di Gaeta

Procedimento: Il baccalà: Ammollare il baccalà in acqua fredda per 24/48 ore. Togliere dall’acqua  ed eliminare la pelle. Tagliare il baccalà in 4 porzioni da 80 gr e rosolare in padella da ambo i lati per 1 minuto. Lasciare raffreddare e spennellare le superfici del baccalà con l’albume sbattuto insieme a poca acqua. Passare il pesce nelle mandorle grattugiate, premendo affinchè aderiscano bene e avvolgano il pesce. Terminare la cottura rosolando nuovamente il baccalà in padella con un filo di olio per 5 minuti , girando per fare dorare entrambi i lati.

La purea di scarola: Pulire la scarola, eliminando le foglie esterne più dure. Lessare in acqua bollente salata per 5 minuti e scolare bene. In una padella fare imbiondire la cipolla tritata insieme ad aglio e peperoncino, aggiungere la scarola e la patata lessa tagliata a pezzetti. Cuocere per 5 minuti e frullare il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo e cremoso.

Il piatto: Adagiare la purea di scarola sul fondo del piatto da portata e disporvi sopra il baccalà in crosta di mandorle. Decorare con qualche oliva nera .

 

 

Sfogliatelle di fegatini

ngredienti ricetta (per 4 persone):  1 carota, 300 g di fegatini di pollo, 1 foglia di alloro, 1/2 scalogno, 3 cucchiai di sherry, 40 g di burro, 8 vol-au-vent medi surgelati, sale, pepe,   carote, 1  fegatini di pollo, 300 g   alloro, 1 foglia     scalogno, 0,5  sherry, 3; cucchiai burro, 40 g;  vol-au-vent, 8

Preparazione ricetta Mondate le carote e lo scalogno e tritate entrambi grossolanamente.Lavate con cura i fegatini (eliminando eventuali parti sporche di fiele) e tagliateli a tocchetti.

Scaldate metà del burro nella pentola a pressione, unite il trito di verdure, la foglia di alloro e fate insaporire cuocendo a fiamma bassa per 5 minuti circa. Aggiungete i fegatini e bagnateli con lo sherry. Mescolate per 3/4 minuti, poi, quando il liquore sarà completamente evaporato, salate, pepate, aggiungete qualche cucchiaio di acqua calda e chiudete la pentola con il suo coperchio.Cuocete per 3 minuti contando il tempo a partire dal sibilo.

Al termine, scaricate completamente il vapore, aprite la pentola eliminate la foglia di alloro, salate se necessario e aggiungete il burro rimasto.

Con il composto riempite i vol-au-vent e disponeteli sopra una teglia ricoperta con un foglio di carta d'alluminio.

Infornate per 5 minuti nel forno già caldo a 150° C e servite.

 

 

Olive condite.

500 g di olive verdi in salamoia, 4 spicchi d'aglio, 1 cuore di sedano, 1 mazzetto di prezzemolo, 2 carote, 1/2 bicchiere d'aceto, olio extra vergine d'oliva, origano, pepe.

 Lavate e asciugate le olive, poi battetele leggermente con il batticarne per aprirle, ma senza rompere il nocciolo.

Dopo averle snocciolate tutte, ponetele in un'insalatiera e conditele con l'aceto, l'aglio e il prezzemolo tritati, il pepe e origano a piacere.

Aggiungete abbondante olio extravergine d'oliva e mescolate con cura.

Riducete a rondelle le carote pelate e il sedano in foglie, poi unite tutto alle olive.

Rigirate ripetutamente, affinché gli ingredienti si distribuiscano bene e lasciate insaporire per almeno 24 ore, prima di servire.

 

 

 

 

 

 

 

La prima pietanza dei rigidi mesi invernali era sempre una minestra di legumi (lenticchie o fave) con aggiunta di pasta (reginelle o rimanenze di pasta di semola).

A completare un filo d'olio extravergine, un trito di finocchietto selvatico, bastavano così due tocchi a trasformare la minestra in un ricordo indelebile.

Timbale di riso secondo le cassuerole di modelo con oncie quattro di carne aggrassata. Il riso non poteva mancare sulle tavole dei benedettini, oltre alle celebrate e mastodontiche arancine dalla forma inusitata, compariva, spesso, come timballetto di carne aggrassata.

 

Reginette con lenticchie, lardo e finocchietto.

Gr. 300 di spaghettini spezzati, gr. 300 di lenticchie, 2 cipolle piccole, 1 costa di sedano, 1 carota, 1 spicchio d’aglio, gr. 200 di pomodoro pelato, gr. 50 di lardo, 1 ciuffo di finocchietto di montagna, olio extravergine di oliva, sale, pepe.

Ponete sul fuoco le lenticchie in circa  2 litri di acqua appena salata, aggiungete  1 cipolla affettata, , mezza costa di sedano a pezzetti  e la carota tagliata a rondelle. Lasciate cuocere a fuoco basso per circa 40 minuti. Quando le lenticchie saranno cotte scolatele e mettete da parte l’acqua di cottura. Preparate un battuto con il lardo, l’altra cipolla, la mezza costa di sedano, lo spicchio d’aglio e il finocchietto lavato e tritato.

Mettetelo a rosolare per circa 5 minuti, in una pentola, con 4 cucchiai di olio; poi, aggiungete i pomodori pelati e le lenticchie e lasciate insaporire il tutto per alcuni minuti.

Aggiungete quindi l’acqua di cottura delle lenticchie nella misura di circa 1 litro e mezzo e portate a bollore. Buttate giù, a questo punto, gli spaghettini spezzettati e portateli a cottura.

Trasferite la minestra nella zuppiera e servite calda.

 

Timballo di riso ripieno di carne grassata.

Il "timballo di riso" è un tipico primo piatto natalizio della Sicilia orientale. Gli ingredienti sono:600 grammi di riso vallone,    una gallina con le uova nonnate,     300 grammi di polpette di carne di vitello trita,     200 grammi di tuma,     150 grammi di pecorino col pepe stagionato grattugiato,     sei uova fresche,   150 grammi di caciocavallo di provola fresco,     150 grammi di cotenna di maiale,     200 grammi di salsiccia di maiale,    quattro pomodori pelati,     50 grammi di estratto di pomodoro,     due cipolle medie,   due gambi di sedano,     un trito di aglio e prezzemolo,     50 grammi di mollica di pane,     50 grammi di pan grattato,     una spruzzata di latte,     burro o strutto,     olio d'oliva, sale e pepe.

Una prima fase della ricetta prevede la preparazione del brodo di gallina insaporito con la cipolla, poco pomodoro, prezzemolo e sedano e le polpette precedentemente preparate impastando la carne di vitello - o di manzo - trita con uova, formaggio pecorino grattugiato, prezzemolo e aglio tritato, mollica di pane ammorbidita nel latte, sale e pepe. Quando la gallina è ben cotta, la si toglie dal brodo, la si priva di pelle ed ossa e la si divide in pezzettini che poi si conservano insieme alle polpette lessate. Si filtra il brodo e lo si riporta in ebollizione aggiungendo il sale. Qui si cuocerà il riso al dente. A cottura ultimata, occorre mantecare il riso denso con il pecorino grattugiato. Umettare una teglia con burro e pan grattato e stendere il primo strato di riso che deve esser alto due centimetri.

Su esso occorre stendere pezzetti di gallina, popettine, le uova nonnate lesse e fettine di tuma. Si aggiunge un secondo strato di riso e poi si le polpettine, salsiccia e pezzi di caciocavallo di provola; se si vuole, prima della seconda fascia di ripieno si può stendere un velo di ragù. Si ricopre il tutto con un ulteriore strato di riso che sarà a sua volta coperto con la "conza", una salsa di uova battute, pecorino grattugiato, sale e pepe. La pietanza va infornata e la cottura sarà ultimata quando il piatto avrà ottenuto una crosta dorata e compatta.

 

 

 

Fra i tanti secondi a base di pesce mangiati in convento viene segnalato lo Sfoglio di erbette con tonnina. Foglia di erbetta, cipolla in agrodolce, e tonno detto “Surru”, dal gusto dolce, come risulta nei registri “ Straordinari”.

 

 

 

 

 

Dadi di tonno con erbe cipolla e alloro,

 adagiati su un leggero amnto di pasta bresina. Di seguito una ricetta analogoa:    4 tranci di tonno freschissimo    3 rametti di rosmarino  , alloro,  8 foglie di salvia fresca     1 rametto di timo

 3 cucchiai di pangrattato     1 spicchio di aglio     3 cucchiai di olio extravergine d'oliva     sale e pepe q.b.

Lavate e asciugate molto bene le erbe aromatiche, pulite l'aglio e tritate finemente tutto con un coltello o un mixer. Unite il trito aromatico al pan grattato (se si vuol preparare un tonno più speziato e particolare sostituite il pangrattato con semi di sesamo o nocciole finemente tritate) aggiungete sale e pepe, mescolate bene poi passate nella panure il tonno (da entrambi i lati) premendo bene per far aderire il composto al pesce.

In una capiente padella fate scaldare l'olio, aggiungete il tonno e fatelo cuocere 3 minuti per lato a fuoco moderato per evitare che la panure si bruci e diventi amara. Bastano pochi minuti per cuocere il tonno che dovrà risultare rosa all'interno.. se cotto troppo la carne del tonno sarà troppo asciutta.

Servite il tonno con insalata mista, pomodori o verdure di stagione.

Fra il secondo di pesce e quello di carne veniva servito il cosiddetto “Cunottu” (conforto)  una sorta di autentico stratagemma che serviva a togliere il sapore del pesce e predisporre il palato al gusto della “carne”.

 

 

 

(vietata nei venerdì di Quaresima")

 

Quello che colpisce di questo celebrato piatto, così come rallegra, e seduce è l'aggressività. Non è un corteggiamento romantico quello ingaggiato dalla cucina siciliana. Via con il primo assalto ai sensi: un manto di carne avvolge un ripieno di capuliato (tritato: rigorosamente misto di carne di maiale e vitello) nel quale accennano la loro presenza, sedani, carote e uova sode, il tutto inebriato da buon vino cotto, rossissimo strattu di pomodoro, e del buon basilico fresco.

Diventa un sapore che strappa la nostra attenzione da tutto quanto il resto; diventa un intreccio di profumi che racconta un pezzo di mondo e di storia dell’isola. Il falsomagro siciliano è dunque il barocco del gusto, quello che dà l'impronta alle tante splendide città del sud: poi ci sono i cassettoni, le statue, le volte.

 

Falsomagro di vitello con uova di quaglia.

800 gr di fesa di manzo aperta a libro 200 gr di mortadella 100 gr di macinato di manzo 1 salsiccia di maiale 60 gr di grana grattugiato 1 uovo fresco 100 gr di piselli lessati 150 gr di scamorza affumicata a fettine 4 uova di quaglia sode 1 spicchio d'aglio 1/2 cipolla bianca 100 g. di pistacchi, estratto di pomodoro, 1 bicchiere di vino bianco olio q.b. burro q.b. sale q.b.

In una ciotola mescolate il macinato di manzo con la salsiccia privata del budello, il grana, l'uovo fresco e i piselli e un pizzico di sale.  Stendete sul piano da lavoro la fesa di manzo e farcitela con uno strato di mortadella e con le fettine di scamorza affumicata. Spalmate la farcia preparata sopra alle carni e inserite quindi al centro anche le 4 uova di quaglia sode sgusciate premendole leggermente verso il basso. Richiudere la carne avvolgendela su se stessa e legando l'arrosto con dello spago da cucina.

In una padella capiente preparare un soffritto di aglio e cipolla con un paio di cucchiai di olio e rosolate l'arrosto su tutti i lati. Aggiustate di sale e sfumate con il vino, poi aggiungete l'estratto di pomodoro e un bicchiere di acqua calda. Continuate la cottura per circa 80-90 minuti aggiungendo altra acqua se necessario.

Fate intiepidire leggemente l'arrosto prima di tagliarlo, affettatelo e servitelo con il suo sughetto cospargendolo con i pistacchi

 

 

Tortino di patate (ricetta analoga): Sbucciate le patate, lavatele, tagliatele a tocchetti e cuocetele al vapore per circa 15 minuti. Schiacciatele attraverso uno schiacciapatate e trasferite la purea in una ciotola.

 Unite il burro a fiocchetti e lo zucchero e mescolate fino a ottenere un impasto omogeneo. Sbucciate le mele, eliminate il torsolo e tagliatele a fettine sottili. Separate i tuorli dagli albumi e unite i primi all’impasto. 

Montate a neve gli albumi con un pizzico di sale e mescolate con movimenti dal basso verso l’alto. Versate l’impasto in una teglia rettangolare rivestita con carta da forno in modo da ottenere uno spessore di circa 2 centimetri e cuocetela torta in forno preriscal

 

 

 

I monaci del convento sono riusciti, sapientemente, a conservare e tramandare un’impressionante molteplicità di ricette. Il rituale religioso ha da sempre influenzato le abitudini alimentari della città. Così uova, mandorle, zucchero, e crema di latte hanno dato vita allo spumone di mandorle detta “cubbaita”, dolce del periodo baronale siciliano. Esso veniva sempre servito alla fine dei pasti, rigorosamente accompagnato dalla liffia, una struggente crema di cioccolato.

 

Semifreddo alle mandorle con crema di cioccolato

Ingredienti (12 porzioni): base - 130 g di farina - 4 uova - 90 g di zucchero di mele farcia - 250 g di ricotta - 200 g di Philadelphia yo - 20 g di farina di mandorle - 30 gocce di dolcificante liquido copertura - 200 g di cioccolato fondente senza zucchero (io utilizzo chocolight fondente Venchi) - 3 o 4 porzioni di burro di cacao Venchi - mandorle intere e a fettine per decorare q.b.

Preparazione: Per preparare la base, separare i tuorli dagli albumi. Montare gli albumi con lo zucchero di mele (1) e, quando saranno spumosi, aggiungere la farina setacciandola per evitare di fare grumi (2). Montare gli albumi con un pizzico di sale (3) e incorporarli al composto di tuorli e farina con movimenti dal basso verso l'alto per non smontare gli albumi (4). Versare il composto nella teglia e livellarlo (5). Io ho utilizzato la teglia In Forma di Pavonidea che ha il fondo in ceramica e la parte superiore in silicone. Dopo la cottura la parte in silicone si smonta e il dolce è già su un piatto da portata. Infornare a 180° per 15 minuti circa, fino a quando la superficie sarà ben dorata. A questo punto, montare la ricotta con la philadelphia yo e con le gocce di dolcificante fino a ottenere un composto cremoso (6). Aggiungere a questo la farina di mandorle e amalgamare bene (7). Quando la base si sarà raffreddata, spalmare e livellare la crema sulla base (8). Metterla in frigo in attesa della copertura.

Per la copertura di cioccolato, utilizzare un fondente al 70%, possibilmente senza zuccheri aggiunti e fonderlo insieme a 3-4 porzioni di burro di cacao Venchi (9). Più burro userete e più morbida sarà la copertura, ma non preoccupatevi di esagerare perché il burro di cacao non contiene colesterolo! Una volta sciolto il cioccolato (10) al microonde alla minima potenza e mescolando di tanto in tanto, spalmarlo sulla superficie della torta e decorare con le mandorle intere e a fettine (11). Quando il cioccolato si sarà solidificato, sarà possibile togliere la parte in silicone della teglia (12) e servire.

 

Bignole fritte condite con giuleppo:

sciroppo di mele e fiori di arancio (i benedettini impararono l’arte del giuleppo dalla medicina araba)

Mescolare la farina, il sale e l'arrow root; aggiungere la birra e far riposare la pastella in frigo per 30 minuti. Tagliare le mele a rondelle spesse, passarle nella farina, poi nella pastella e metterle a friggere in una padella con dell'olio bollente. Servire i bignè di mele caldi, con dello zucchero a velo.

 

 

La ricostruzione del menù benedettino è stato reso possibile grazie al documento dell'Istituto Alberghiero Karol Woytyla.

http://www.ipssar.eu/joomla/images/stories/doc_2009-10/approfondimenti_menu.pdf

 

 

 

 

 

 

 

La donna che diede origine ai Biscotti della Monaca

di Giuseppe Lazzaro Danzuso

(La Sicilia, 8.1.2008)

Quando Mara Messina morì, il 14 di agosto del 1907, il cordoglio si sparse per le strade di Catania rapido come l’inconfondibile profumo dei suoi biscotti all’anice, ancor oggi rinomati in tutta la Sicilia. E fu con un’affettuosa gratitudine che i catanesi si recarono a rendere l’ultimo omaggio alla donna che aveva saputo portar fuori dal convento, quasi come Prometeo con il fuoco, il segreto di dolci semplici e gustosi. Un sentimento conservato quasi intatto fino a oggi che ricorre il centenario della scomparsa della Monaca dei viscotta d’a monica. Sì, perché fu proprio Mara Messina, nella Catania degli ultimi decenni dell’Ottocento, a metter su con la nipote Rosaria Di Mauro, che avrebbe poi sposato Giovanni Arena, una piccola rivendita di biscotti in via Mancini, proprio dietro la Piazza dell’Università, dove ancor oggi si trova un punto vendita della ditta.
Da allora i viscotta d’a monica sono i biscotti dei catanesi per antonomasia. Se volessimo esagerare potremmo dire che i cromosomi del cittadino marca liotru hanno forma di esse, un color mielato scuro e... un forte odore d’anice. La ricetta dei viscotta rimane però ancor oggi segretissima: la famiglia Arena non ne vuol sapere di rivelarla. Ma si può ipotizzare che siano a base di farina, strutto e semi d’anice, visto che dolci simili, di cui è nota la ricetta, vengono preparati anche a Cefalù e sulle montagne di Pistoia. Di certo c’è che sono inconfondibili: per il profumo, la forma a esse, per il crocchiare quando vengono addentati.
E perché, come le ciliege, non ci si stanca mai di mangiarne (qualcuno sostiene addirittura siano digestivi). Quel che comunque ci preme non è parlare dei viscotta d’a monica, è tentare di ricostruire la vicenda umana della Monaca stessa: Maria Messina, meglio nota come Mara.
Un’operazione non certo semplice, a distanza di tanto tempo e con fonti estremamente ridotte. Sappiamo che Mara nacque nel 1847, anche se sono ignoti giorno e mese, non segnati sulla sua tomba, nel cimitero di Catania. E proprio in quell’anno lo scrittore e illustratore inglese Edward Lear, celebre per i suoi limerick e il nonsense, durante il suo viaggio in lungo e in largo per il Regno di Napoli realizzò un disegno - a penna, inchiostro e gouache - che ci rimanda un’immagine di Catania incorniciata di nere lave e fichidindia e con il classico sfondo del vulcano. Ma quel che colpisce, paragonandola a recenti immagini fotografiche scattate dalla stessa posizione scelta dal britannico per inquadrare il paesaggio, è quanto piccola fosse allora la città: appena un borgo, all’ombra del cupolone della cattedrale.

Bisogna aggiungere poi che quello era un periodo non solo di grandi fermenti politici, ma anche di grande fervore religioso per la città ai piedi dell’Etna: nello stesso anno sarebbero nate anche Giuseppina Faro, nobildonna meglio nota come Beata Peppina, nella vicina Pedara, e, in Piemonte quella madre Maddalena Morano, che qui si sarebbe spenta in odore di santità.
Fu in questa Catania minuscola che cercava di far convivere sentimento religioso e Garibaldi - come descritto da quello straordinario affresco del periodo che è "I Viceré" di De Roberto - che Mara crebbe, con un destino segnato dalla mancata primogenitura. Infatti, per evitare di frazionare il patrimonio di famiglia in onerose doti, anche lei fu mandata, come si usava allora, in convento. Per la precisione in quello di Santa Chiara, in via Garibaldi, che aveva la facoltà di conferire l’abito religioso a chi decideva d’ispirarsi alla Regola dell’allora terz’ordine Francescano. Dopo un periodo di formazione e di approfondimento spirituale e culturale - ma, come vedremo, anche di lavoro - nei conventi, queste giovani donne si impegnavano a vivere la vocazione anche all’esterno dell’edificio religioso, rientrando in famiglia e diventando "monache di casa" o bizzocche (non tragga in inganno il termine, oggi sinonimo di bacchettone, baciapile: un tempo indicava appunto il terziario francescano).
 Mara, dunque, entrò giovanissima in convento, a imparare l’arte della spiziali. Infatti, come ricorda Antonio Uccello nel suo "Pani e dolci di Sicilia", "...Gran parte nell’arte dolciaria veniva svolta dai monasteri, che fin dal medioevo detenevano gli strumenti e il privilegio della panificazione". Erano i conventi, prima del 1860, le dolcerie delle città siciliane. E, per le feste comandate, sfornavano ’nguanteri di squisite specialità da distribuire a nobiltà e clero. E anche a qualche ricco borghese.
Ecco perché le più apprezzate monache erano le cosiddette spiziali. Coadiuvate dalle zitidduzzi di la badia, converse non legate da voti, che per sfuggire alla fame erano state affidate dai genitori ai conventi, dove sin da piccolissime venivano addestrate all’arte della pasticceria. Un uso tramandatosi fino al secolo appena trascorso a leggere il recente "Mandorle amare", della scrittrice americana Mary Taylor Simeti, dedicata all’ericina Maria Grammatico, dolciera nota in tutto il mondo e che apprese le ricette nell’Istituto San Carlo, dove venne condotta da bambina.
Ma torniamo a Mara Messina e al suo noviziato, anche da spiziali, nel convento di Santa Chiara. Sull’argomento non abbiamo che poche e frammentarie notizie che ci vengono dalla famiglia, che possiamo però tentare di inquadrare nella storia di quel periodo.
Quando, nel 1860, cominciò la vendita dei beni ecclesiastici da parte dello Stato - e le suore senza rendite furono costrette a lasciare i conventi, facendo crescere in maniera esponenziale il numero delle "monache di casa" - Mara aveva soltanto tredici anni, e, con ogni probabilità, era da poco entrata a Santa Chiara, che continuava a essere il "posto dei dolci" a Catania. E’ certo che nel convento si producessero, oltre ai biscotti a forma di esse, gli ’nzuddi - in italiano suonerebbe come "vincenzini" -, così chiamati poiché furono le suore Vincenziane a produrre per prime questi biscotti secchi profumati con scorza di arancia e anice e decorati con mandorle. Un’altra delle ricette "esportate" da Mara.
’Nzuddi e viscotta d’a monica rientravano nella categoria dei dolci "di riposto" o "di credenza", ossia la biscotteria secca. Ma nella Catania della fine dell’Ottocento, anche per la notevole richiesta seguita a un certo benessere economico, i produttori cominciarono a fornire dolci sempre più elaborati. Uno dei più rinomati "confettieri" etnei del periodo era Rosario Amato, che inviava ai propri clienti, antesignani dei moderni depliant pubblicitari, fogli vergati a mano con descrizione e prezzo delle specialità: frutte candite, frutte alla Martorana assortiti - con varianti pasta reale cotta e pasta di mandorle imitazioni frutti - rame di Napoli, mustaccioli alla napolitana, sussamele alla Sapienza, e, naturalmente, cassate.
Gli affari andavano talmente bene per chi si lanciava nel ramo dolciario che tutti a Catania erano alla ricerca dei ricettari dei cosi duci di la batia, come li definì nella poesia omonima, il poeta palermitano Giovanni Meli. Così Rosaria, ventenne nipote di Mara - che, morti i genitori, viveva in casa della sorella maggiore, sposata a un Di Mauro -, cominciò a cutturiari, a cuocersi a fuoco lento, la z’a monica. Voleva cercare di convincerla a far concorrenza a Rosario Amato sfruttando le ricette imparate in convento. Ci furono, probabilmente, parecchie resistenze da parte della zia, che non doveva godere di una buona salute. A questa deduzione si giunge osservando con attenzione una d
elle due immagini rimasteci della Monaca. La prima è un bel ritratto a olio eseguito un anno prima della sua morte che ce la rimanda florida e composta, in posa ieratica con un messale in mano. L’altra è la foto della Monaca dei viscotta d’a monica esposta nel negozio Arena di via Mancini. Ed è analizzando al computer quest’immagine che si scopre come la folta chioma della z’a monica sia in realtà un ritocco: i capelli furono aggiunti a carboncino. La povera Mara, che non era certo una bellezza, era insomma anche calva. Cosa, a sentire i medici, abbastanza comune in quell’epoca in cui imperversavano tifo e infezioni intestinali che, in assenza di antibiotici, finivano sempre per cronicizzarsi.

 Nonostante fosse provata nel fisico, però, Mara infine - anche perché la nipote era diventata un’insopportabile virrina, un succhiello capace di trapanare il cervello ripetendo sempre la stessa richiesta - cedette. E oltre a rivelare a Rosaria il segreto della preparazione di viscotta d’a monica, ’nzuddi, piparelli eccetera, la aiutò per molti anni, rimanendo però sempre dietro le quinte. Così, quando dal forno di via Mancini cominciava a spandersi per le strade del centro l’odore paradisiaco dei viscotta d’a monica, i catanesi accorrevano con i soldi in mano. Anche perché avevano scoperto che, pestati nel mortaio, ridotti in polvere e mutati in pappa, quei biscotti assolvevano in maniera eccellente alla funzione di far crescere belli e sani i bambini e a irrobustire anziani e ammalati. Quando poi ci sono di mezzo bimbi e vecchietti, vien facile informarsi della salute, stringere rapporti che diventano di familiarità, d’affetto. E, anche se la z’a monica rimaneva sempre celata a preparar biscotti, senza rapporto con il pubblico, di lei non si poteva non parlare.
Così, il giorno prima del ferragosto del 1907, la scomparsa di Mara Messina colpì la città, già stordita dall’afa. Quando la notizia prese a circolare, le bocche si torcevano in quelle caratteristiche smorfie di dispiacere che i catanesi riservano ai lutti più pesanti. A portarsi via Mara, all’età di sessant’anni - ma allora si invecchiava decisamente prima - fu probabilmente l’ennesima infezione intestinale, aggravata dall’afa terribile di quei giorni. Morì, dunque. Ma il suo ricordo è, ancor oggi, vivo nei catanesi. Qualcuno tra i più anziani giura persino di aver conosciuto personalmente la Monaca, ma in realtà parla di Rosaria Arena, agguerrita antesignana delle donne imprenditrici etnee, morta nel 1943 all’età di 82 anni.
Per concludere: si parla, in questi giorni, di tre busti da dedicare ai catanesi illustri nei viali della Villa Bellini. Beh, perché non considerare anche la candidatura di questa "monaca di casa" entrata grazie ai suoi biscotti, nella memoria collettiva dei catanesi? Gli altri biscotti delle monache Popiglio, sulle montagne pistoiesi, si prepara un biscotto che ha per ingredienti solo farina di grano, zucchero, acqua, semi di anice e bicarbonato di ammonio. Ma non hanno la forma a esse dei viscotta d’a monica catanesi. Pur avendo il medesimo colore hanno forma di fette di pane spesse circa un centimetro. E venivano un tempo preparate nei conventi della zona.
Spiega chi oggi li produce che il vero segreto per preparare questi biscotti sta nei quantitativi degli ingredienti e nelle modalità di esecuzione e cottura.
Altri viscotta d’a monica siciliani sono i "Biscotti della Monaca Catalfamo", che Vincenza Collotti Genchi, una signora della buona borghesia di Cefalù, ricevette nella seconda metà dell’Ottocento dalla suddetta religiosa e trascrisse nel suo ricettario. Poi messo in rete, su Internet, da un suo pronipote. Per realizzare i biscotti, scrive la signora, occorrono un rotolo farina majorca, due once e mezza zuccaro fino, due once meno una quarta sajme, due once e mezza levito cimino quanto vuoi.
"Rosaria Di Mauro Arena era un masculazzu". Così la pronipote, Teta Arena, definisce la bisnonna Rosaria, che avviò l’impresa di famiglia negli ultimi decenni dell’Ottocento nel forno di via Mancini. E dal ritratto fotografico - risalente con ogni probabilità al periodo tra le due guerre mondiali - risulta evidente il piglio deciso della donna. Di una bellezza austera, non molto alta ma sempre eretta, con occhiali rotondi che accentuavano la severità dello sguardo, gli abiti sempre scuri, i candidi capelli tirati all’indietro, sembrava una religiosa. Così trascorsi diversi anni dalla morte di Mara Messina, molti finirono con il credere che la Monaca dei viscotta d’a monica fosse Rosaria. E lei non fece mai nulla per chiarire l’equivoco.

Teta Arena, che manda avanti l’azienda di famiglia con il fratello Gipi, conosce la bisnonna soltanto attraverso i racconti del nonno Giuseppe, l’ultimogenito, che portava lo stesso nome del primo figlio, morto in tenera età. Da quei ricordi emerge il ritratto di una donna forte, una carabinera a cavaddu, un monarca assoluto che mantenne serrate le redini della famiglia anche prima di rimanere vedova, poco dopo aver partorito, a 50 anni (un record per quei tempi), l’ultimo dei sei figli.

 

 

 

Rosaria Di Mauro maritata Arena era religiosissima ma con grande senso degli affari, in periodi in cui il lavoro e ancor più l’impresa erano prerogative esclusivamente maschili, aveva preteso di registrare a proprio nome l’azienda nella Camera di Commercio di Catania, probabilmente l’unica intestata a una donna, in quel periodo. Era una donna capace di comandare a bacchetta sia i figli (compreso Ignazio, Monsignore della Collegiata, morto sei anni prima della madre) sia i dipendenti: le venti lavoranti che, tutte attorno a un enorme tavolo, confezionavano a mano i biscotti a esse inanellando canzoni e proverbi popolari.
Per donna Rosaria, poi, i fornitori avevano un grande rispetto, a cominciare dal fido carrettiere che, partendo da Nicolosi, riforniva periodicamente l’azienda di ginestra secca per alimentare il forno a pietra. O da coloro i quali portavano i semi d’anice, prodotti allora nel Nisseno.
C’era un’unica persona di cui Rosaria si fidava: la sorella Concettina, che l’aiutava a mandare avanti l’impresa. Un’altra Concettina, la nuora Concetta, era invece al suo fianco quando morì, a 82 anni, il 13 maggio del 1943 a Cantello, un paesino del Varesotto al confine con la Svizzera, in cui gli Arena erano sfollati.
E lì, sotto le Alpi, riposa ancora.

 

 

 

 

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IL TIMBALLO DEL GATTOPARDO

In Sicilia il timballo sembra avere radici nel patè di maccheroni. Il domenicano francese Labat Jean- Baptiste, giunto in Sicilia nel 1711 invitato da un nobile siciliano, nel suo Vojage en Espagne et Italie, Amsterdam 1731 scrive: “Non avevo mai visto un patè di maccheroni, e d'altronde non è un piatto per tutte le bocche. I maccheroni erano stati cotti in un brodo di latte di mandorle zuccherato e ambrato, una finissima polvere di cannella, della vera uvetta di Corinto, dei pistacchi del Levante delle scorze di limoni, i salamini più delicati, e guarniti con pasta di Genova. Si trattava di un autentico "boccone di cardinale". Ho trovato questi maccheroni eccellenti, e se ce ne avessero offerto di simili al convegno non avrei avuto troppa difficoltà a farci l'abitudine”.

Sono convinto che l'alta cucina, sia proprio quella popolare che con materie povere e spesso di scarto realizza piatti semplici ma saporiti dove trionfa il gusto naturale e non il gusto culturale.Gli scrittori siciliani hanno esaltato l'abilità dei Monsù. Gaston era il monsù di casa Tomasi di Lampedusa, dove era gradita la cucina francese, a lui si deve il noto timballo di maccheroni: «L'oro brunito dell'involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che emanava non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall'interno quando il chttps://www.mimmorapisarda.it/2023/spig.jpgoltello squarciava la crosta.

Nel timballo è inconsueta la presenza tutta francese del tartufo, chiamato in Sicilia “tirituffalu”, che si trova nei nostri boschi. I porcari lo regalavano ai padroni dei terreni dove razzolavano i maiali che lo mangiavano ma non entrava in cucina. Il tartufo si trova anche nelle mense dei monaci Benedettini di Catania.

Una varietà dell'aristocratico timballo era la popolare pasta 'ncasciata farcita in vario modo e cotta, fino a pochi decenni fa con grande perizia, focu supra e focu sutta. Il tegame veniva messo sulla brace (focu sutta) e chiuso con un coperchio pieno di brace (focu supra) realizzando un ingegnoso forno a cielo aperto.

Anche i Romani avevano il loro timballo, Apicio ne dà la ricetta, era costituito da sfoglie di lagana alternate a carne e cotto al forno.

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Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - esclusiva concessione del Prof. Schilirò per mimmorapisarda.it/cucina.htm

 

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Tortina Tomarchio, buona e genuina come fatta in casa

 

Da 60 anni la Tomarchio di Misterbianco produce la "brioscina di Catania" per antonomasia. Il segreto? Ingredienti semplici e lavorazioni artigianali

A Catania c'è chi ancora la definisce "il dolce della domenica", anche se i più ormai la chiamano semplicemente "la brioscina". Stiamo parlando della Tortina Tomarchio, un prodotto da forno e un marchio che in 60 anni di vita sono entrati stabilmente nel cuore e nelle abitudini quotidiane di una intera provincia, quella di Catania appunto, anche se gli estimatori fuori dalla Sicilia sono in crescita esponenziale.

Basti pensare che la Compagnia Dolciaria Tomarchio di Misterbianco vende annualmente oltre 25 milioni di tortine soltanto nel catanese, un territorio che tra capoluogo e dintorni non supera i 500mila abitanti. E il successo è tale che si sta allargando anche al resto dello Stivale. L'azienda prevede infatti di chiudere il 2017 con 3 milioni di merendine distribuite nel Nord Italia.

"E' un prodotto che ci rappresenta - dice Massimiliano Stanco di Tomarchio – e di cui andiamo orgogliosi. La nostra gioia più grande è sapere che, proprio grazie a questo dolce, il marchio Tomachio è diventato sinonimo di qualcosa di genuino e di qualitativamente alto. E' un risultato che premia la nostra scelta di rinunciare in toto alla chimica e ai conservanti per puntare invece sull'eccellenza delle materie prime e sull'artigianalità delle lavorazioni".

Non a caso l'azienda si è sempre attenuta fedelmente alla ricetta originale della "brioscina" che, da 60 anni a questa parte, prevede gli stessi ingredienti, quelli semplici che ogni mamma utilizza nella cucina di casa per preparare i dolci per tutta la famiglia. "Anzitutto servono le uova fresche pastorizzate – spiega Stanco – che noi ci procuriamo solo presso allevamenti selezionati e certificati. Poi farina di grano tenero, zucchero, sciroppo di zucchero e... tanto amore".

 

 

A proposito di ingredienti, per la preparazione della Tortina, la ditta Tomarchio utilizza anche olio di girasole e perfino olio extra vergine d'oliva. "Siamo stati tra i primi in Italia – sottolinea Stanco - a impiegare l'olio extra vergine nelle merendine. Abbiamo messo a punto una lavorazione che è in grado di attenuare il sapore forte tipico dell'oliva, quella sorta di "pizzicore" non a tutti gradito, ma che al contempo mantiene inalterate tutte le caratteristiche organolettiche e nutritive dell'olio, compresi i polifenoli che fanno così bene alla salute".

Un'altra peculiarità della merendina Tomarchio è la totale assenza di conservanti, coloranti e altri componenti chimici. "Noi lavoriamo le sole materie prime – continua Stanco - e ci sforziamo di valorizzarle al massimo esclusivamente attraverso la tecnica artigianale. Le gocce di impasto scendono nel pirottino che poi viene messo direttamente in forno. Rispettiamo scrupolosamente i tempi naturali sia di lievitazione che di raffreddamento dopo la cottura, senza forzature nè accelerazioni. Infine la Tortina viene chiusa in una bustina ermetica che ne preserva la freschezza e ne garantisce la durata nel tempo".

Semplicità, genuinità e salubrità sono insomma i capisaldi su cui si fonda il successo della "brioscina". E pensare che la sua ricetta venne ideata quasi per caso, oltre sessant'anni fa, dal fondatore, il signor Tomarchio in persona, che all'inizio produceva quasi esclusivamente biscotti siciliani alle mandorle. Per sperimentare qualcosa di diverso creò un dolce del tipo "Pan di Spagna" e lo mise in vendita nella sua bottega, dove andò subito a ruba. La fama del nuovo prodotto conquistò nuovi clienti allargandosi in breve sempre di più: era nata la tradizione della Tortina Tomarchio.

Una fama peraltro giustificata dalla versatilità d'utilizzo che caratterizza la soffice brioche. "Non è solo una merendina da gustare a metà giornata – spiega Stanco -, ma molto di più: c'è chi la mangia a colazione inzuppata nel latte e chi invece la preferisce alla sera come "coccola" prima di andare a dormire. E' buona al naturale, ma si può anche tagliare a metà e farcire con crema di nocciola o panna. Qui a Catania la accompagnamo spesso con il gelato o la granita. Si presta insomma a tanti abbinamenti, anche di fantasia, tutti golosi".

 https://www.territori.coop.it/territori/tortina-tomarchio-buona-e-genuina-come-fatta-casa?fbclid=IwAR1P6s79Gmsc9gPtrkgncMJaWtnZarYT3W9wnV6a027X7d-6EIOxBXkbCqc

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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