Il lungo e animato rettifilo, che da piazza del Duomo corre a ovest, è caratterizzato nel primo tratto da palazzi settecenteschi. Al suo inizio, a sinistra, si nota la fontana dell'Amenano (1867) che utilizza le acque del fiume sotterraneo; nella piazza retrostante e nelle vie adiacenti è la Pescheria, caratteristico mercato popolare. Oltre piazza Mazzini, cinta da portici su colonne forse provenienti da una basilica romana, in angolo con via S. Anna, un palazzo del tardo '700 è la Casa-museo di Giovanni Verga che custodisce mobili, arredi, libri e oggetti appartenuti allo scrittore. La via prosegue rettilinea per concludersi alla cosiddetta porta Garibaldi, arco di trionfo eretto nel 1768 per le nozze di Ferdinando IV di Sicilia con Maria Carolina d'Austria.

 

 

 

SE GUARDI AD EST

 

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foto Salvo Olimpo

 

SE GUARDI AD OVEST

 

 

 

 

 

Solo Palazzo Scammacca della Bruca, il primo dei quattro ad essere stato realizzato, rimase del tutto fedele all'originario disegno e così si presenta ad oggi (2011). Bisogna precisare che detti cambiamenti furono abbastanza marginali guardando all'aspetto complessivo della sistemazione della piazza, sicché essa appare ancora oggi estremamente omogenea e simmetrica nelle sue parti. Resta il dato di fatto che i mercati storici di Catania, dal XIX secolo posti nelle stesse zone, sono ubicati altrove: la "Féra ô luni" alle spalle di Piazza Stesicoro e la Pescheria alle spalle di Piazza Duomo, solo marginalmente vicina a Piazza Mazzini, che probabilmente, con lo sviluppo progressivo della città etnea e della sua popolazione, divenne troppo piccola per l'esercizio del mercato.\

http://it.wikipedia.org/wiki/Piazza_Mazzini_(Catania)

 

 

Piazza Giuseppe Mazzini, originariamente nota col nome di Piano di San Filippo, è una piazza monumentale del centro storico di Catania, la cui progettazione risale al XVIII secolo.

 Dopo il disastroso terremoto del Val di Noto del 1693, il nuovo impianto urbano deciso da Giuseppe Lanza, duca di Camastra, coordinatore e finanziatore della ricostruzione in accordo con le autorità cittadine, prevedeva lo sfruttamento di questa piazza come mercato e per tale motivo fu stabilita anche la conformazione strutturale degli edifici che dovevano affacciarvisi. Giacché lo spazio venne ricavato dall'incrocio fra due strade, l'attuale via Giuseppe Garibaldi (un tempo chiamata via San Filippo e, successivamente, via Ferdinandea a causa della Porta Ferdinandea, che si trova alla sua fine e che rappresentava anticamente l'ingresso della città dal lato sud-ovest) e via Santa Maria della Lettera a nord che cambia nome in via Auteri a sud, la piazza assunse un disegno a croce greca con uguale spartizione degli spazi ad angolo nei quali si scelse di erigere edifici dotati di terrazzini loggiati.

Così, nei primi decenni del XVIII secolo, non è sicuro per mano di quali architetti, in quella che sarebbe dovuta divenire una delle principali piazze del mercato catanese, sorsero quattro identici loggiati, ciascuno composto da 8 colonne in marmo bianco, che formarono una cornice quadrangolare lungo i perimetri del luogo ad eccezione delle quattro aperture stradali. Tali colonne furono recuperate da delle rovine di epoca romana, in particolare dai resti di una Basilica, sita ai tempi nei pressi dell'odierna Chiesa di Sant'Agostino, al quale fu poi annesso un Convento, e del Cortile San Pantaleone, dove si trovava il Foro romano di Catania. Esse furono messe in opera su eleganti plinti cubici in pietra lavica e su di queste furono sviluppate arcate a tutto sesto che, a loro volta, reggono i terrazzi dei palazzi nobiliari.

 

Questi edifici (Palazzo Scammacca della Bruca a nord-est, Palazzo Asmundo di Gisira a sud-est, Palazzo Peratoner a sud-ovest e Palazzo Gagliani a nord-ovest) avrebbero dovuto tutti adeguarsi stilisticamente alle carte progettuali del XVIII secolo, e invece, a partire dal XIX secolo, tre dei quattro palazzi subirono modifiche ai secondi piani, dotati di finestre balconate quando sarebbero dovute essere semplici cornici quadre, e agli intonaci, che passarono dal grigio catanese al rosa. Solo Palazzo Scammacca della Bruca, il primo dei quattro ad essere stato realizzato, rimase del tutto fedele all'originario disegno e si presenta così ancora oggi.

Bisogna precisare che detti cambiamenti furono abbastanza marginali guardando all'aspetto complessivo della sistemazione della piazza, in quanto essa appare ancora oggi estremamente omogenea e simmetrica nelle sue parti. Resta il fatto che i mercati storici di Catania sono ubicati altrove: a parte quello storico della "Fèra o Lùni" in Piazza Carlo Alberto, a nord-est di Piazza Stesicoro, vi è quello principale della Pescheria in Piazza Alonzo Di Benedetto, a sud-ovest di Piazza del Duomo, relativamente vicina a piazza Mazzini, la quale, molto probabilmente a causa dello sviluppo progressivo della città etnea e della crescita della sua popolazione, divenne troppo piccola per l'esercizio del suo stesso mercato, ovvero la "Fiera dei Morti", oggi tenuta invece in piazza Mercato Ortofrutticolo, nel quartiere San Giuseppe la Rena.

 Fonte Wikipedia

 

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PIAZZA MAZZINI O PIAZZA SAN FILIPPO

Alla luce dell'importanza che nel piano del Duca di Camastra avevano le piazze, possiamo affermare che piazza Mazzini fu una delle prime ad essere realizzate e anche una delle principali, di cui non si conosce l'autore. Guarda direttamente alla Cattedrale e dall'altra parte a Porta Garibaldi, ed ha una struttura unica, una pianta quadrata con gli angoli formati da 4 palazzi tra loro uguali, dove 32 colonne, forse provenienti dal foro romano, sostengono 4 terrazze e formano dei portici. Trovandosi strategicamente tra due vie che raggruppavano la maggior parte degli artigiani cittadini e vicina alla porta della decima, da cui entravano in città le merci, divenne centro di affari e di commerci praticamente da subito, agevolata dalla presenza dei portici che offrivano riparo dalle intemperie. Col tempo qui si riunirono i venditori ambulanti, fino a che nell'ottocento la piazza iniziò ad ospitare la tradizionale Fiera dei Morti, e continuò fino al oltre la metà del 1900.

fonte Catania Segreta

 

 

 

La casa natale di Verga è a Catania in via Sant'Anna 8, una stradina che collega Via Garibaldi con Via Vittorio Emanuele. Tel. e fax 095/7150598.

Luogo di atmosfere letterarie e artistiche, a pochi passi dal Duomo di Catania. La Casa natale di Giovanni Verga, è un appartamento al secondo piano di un palazzo ottocentesco, dove l'autore de ''I Malavoglia'' trascorse l'infanzia e risiedette per lunghi periodi circondato dai familiari e dagli amici più cari. Dopo la morte di Giovannino Verga Patriarca, erede dello scrittore, la casa venne acquistata dalla Regione Siciliana ed aperta al pubblico dopo il restauro. Al suo interno sono custoditi gli arredi ed i libri che appartennero allo scrittore di Mastro Don Gesualdo. Tra gli oltre 2600 volumi figurano opere di Giacosa, Oriani, Rod, Capuana, Di Giacomo, Deledda, Marinetti, Borgese, Villaroel, nonchè di autori russi e francesi come Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj, Gorkij, Flaubert, Maupassant, Dumas, Zola.

 

Dopo la scomparsa dello scrittore, alcuni decenni più tardi, in via S. Anna fu ritrovato quanto rimaneva della passione pionieristica del Verga per la fotografia. Le lastre e le pellicole (oggi raccolte in una collezione privata) svelano un interesse documentario che, anche se casuale, certo non si discosta dall'ideologia verista. Le fotografie ritraggono soprattutto volti familiari allo scrittore: la madre, i fratelli, gli zii, i nipoti, ma anche i contadini che lavorano per la famiglia Verga, nelle campagne di Tebidi, a Vizzini. L'interesse per la fotografia (tecnica che nella seconda metà dell' Ottocento coinvolse intellettuali della buona borghesia in un hobby, per l'epoca, decisamente d' elite e che ispirò la poetica del Verismo) accomunò Verga, Capuana e De Roberto, rendendoli artefici di sperimentazioni non prive di interesse.

Il salotto di Casa Verga è un'ampia stanza oggi arredata con bacheche che espongono riproduzioni di manoscritti verghiani (gli originali sono custoditi presso la Biblioteca universitaria regionale di Catania). Sulla parete destra, una cornice datata 1920 racchiude un diploma con decorazioni floreali e soggetti campestri dipinti da Alessandro Abate, dono dei soci del Circolo Unione allo scrittore in occasione del suo ottantesimo compleanno. In un angolo un busto del Verga e, su un tavolino, in una scatola di legno, una maschera di cera che riproduce il volto di Giovan Battista Verga Catalano, padre dello scrittore. Nella biblioteca, sei librerie di noce scuro custodiscono i volumi personali di Giovanni Verga. I dorsi in pelle hanno il fascino discreto e l'eleganza dell'editoria ottocentesca: su alcuni spiccano ancora le iniziali dorate 'GV'. Tra le numerose dediche di scrittori del secolo scorso, vanno ricordate quelle di Luigi Capuana, testimonianza di un sodalizio affettivo e culturale destinato a rimanere memorabile nella nostra letteratura. Sul panno del grande tavolo, posto al centro della stanza, sono sparsi pochi oggetti: un tagliacarte, un tampone, la riproduzione in terracotta della campana di Rovereto, il calco della mano di Dina di Sordevolo che dal 1889 sarà la compagna dello scrittore.

Alle pareti, un'immagine di Antonino Abate, precettore del Verga, ed un ritratto dello scrittore, opera di Amedeo Bianchi; su di un mobile, una targa di ottone su marmo bianco con la dedica della cittadinanza di Catania allo scrittore in occasione delle celebrazioni per il suo ottantesimo compleanno.

La camera da letto. E' un grande ambiente con salottino e caminetto. Nell'armadio sono contenuti abiti e cappelli d'epoca. Alle pareti vi sono ritratti di familiari e due fotografie incorniciate, opera di Michele Grita, che raffigurano il Verga e il nipote Marco. Giovanni Verga, romanziere e novelliere è uno dei maggiori rappresentanti del verismo o naturalismo italiano. I suoi primi romanzi vengono pubblicati in un clima letterario ancora fortemente influenzato dalla produzione manzoniana e scottiana e dalle teorie del naturalismo francese, che trovano consensi anche tra i letterati del nostro Paese. Verga e Capuana furono considerati i capiscuola del verismo: al Capuana viene riconosciuto il merito di aver elaborato la teoria dell'impersonalità e dell'oggettività, ma appartengono sicuramente a Verga le opere più significative della stagione verista, opere non sempre di facile comprensione per i lettori del tempo.

I personaggi verghiani (pescatori, contadini, piccoli artigiani) si muovono in una realtà poco conosciuta ai più, caratterizzata da aspetti fortemente regionalistici e da una lingua che inaugura nuovi schemi sintattici e non disdegna l'uso di espressioni dialettali. A dispetto delle perplessità iniziali della critica del tempo, la narrativa verghiana fa senz'altro parte ancora oggi dei ricordi letterari di ciascuno di noi e, tradotta in tutte le lingue, è stata rappresentata nei migliori teatri e ha sedotto anche il cinema con personaggi indimenticabili.

 

VIA SANT'ANNA SULL' ANGOLO MAGICO DOV'ERA LA SCENA DEL TEATRO GRECO-ROMANO

(articolo di Saverio Fiducia da Passeggiate Sentimentali)

 

- Non mi era mai capitato di vedere il nome di una chiesa scritto all'ingresso di essa ,come una insegna.

Questa chiesa esiste, qui,a Catania;è una delle sue cento;piccolina, modesta, incassata fra alti e vetusti palazzi,e si chiama S.Anna.Al religioso che la governa dovette sembrare che nessuno la vedesse,se tra l'architrave e il timpano del portale fece incidere,ben visibile la dicitura:S.ANNA.

Via S.Anna, però, non è una via qualsiasi e senza particolari risonanze, come tante ve ne sono in ogni città e i cui nomi sembra rispondano a necessità urbane soltanto;essa ha nel mondo della cultura letteraria una notorietà pari a quella della piazza Belgioioso di Milano e della via Giovanni Boccaccio di Certaldo(vi è un perché se cito queste e non altre);che nella casa segnata al numero 8 nacque e morì Giovanni Verga.

Percorrerla tutta è affare di un minuto. Dato il punto, nell'agitata vita di oggi,è una via relativamente tranquilla. Fiancheggiata da alte case,con abitazioni protette da vetrine e botteghe d'artieri che vi si affacciano, parrebbe una stradetta qualsiasi, se non vi fosse quella casa o palazzotto che sia, munita di una lapide con un nome, che più gli anni passano più si veste di luce.È il prototipo, questa casa,delle abitazioni signorili insieme e popolari dei primi dell'Ottocento catanese,in quello stile sobrio e castigato che liberatosi alfine dal barocco imperante da due secoli, gli studiosi chiamano neoclassico. Il piano, come si soleva chiamarlo,<<nobile >>,noi oggi,più che signorile, lo consideriamo un'isola dello spirito;ma le basi rimasero popolari e fu sotto quel basso androne che l'ombrellaio Sanguedolce morsicò l'orecchio del suo antagonista, come ebbe a narrare lo stesso Verga.

Tornando a via S.Anna, si vociferò un anno addietro che il nome di essa fosse stato cambiato in via della Capinera ;un omaggio pittoresco e gentile all'autore del romanzetto che fece lagrimare le nostre mamme; ma fuor di luogo.È un angolo magico questo dove via S.Anna si innesta nel corso Vittorio Emanuele II.

Due brevissime rette che si incontrano ad angolo retto nel punto preciso dove era la scena del Teatro Antico. Anche in tale regolarità assoluta vi è qualche cosa di misterioso che costringe a pensare;e alle due estremità di queste rette ,vi sono:la casa dove nacque Bellini e quella dove nacque Verga.(S.Fiducia)

 

 

LO STUDIO DI VERGA

 

-Imboccando la quieta e breve via Sant'Anna nella vecchia Catania, tra via Vittorio Emanuele e via Garibaldi, si arriva subito davanti al portone della casa di Giovanni Verga. C'ero stato una volta mentre viveva lui nel 1920;ero studente al Ginnasio Spedalieri e avevo letto tutti i libri di Verga che mi avevano impressionato molto e non mi stancavo di guardarlo per la via Etnea e quando lo vedevo davanti al Circolo Unione col bastone fra le gambe e le mani appoggiate sopra il manico. Quella volta mi ero accodato a Villaroel che andava a trovare lo scrittore e me ne ero rimasto in silenzio accanto alla sua bassa libreria, mentre lui parlava in dialetto, bonariamente, con l'aria di un gran signore di provincia. Non osavo muovermi e potei guardare soltanto i dorsi dei volumi che erano accanto al mio posto di osservazione. Tutto Maupassant rilegato in pelle e oro. Tutto Flaubert con la stessa rilegatura e,al piano di sotto, Zola rilegato in colore diverso. Allungando il collo potei sbirciare i libri di Tolstoj e quelli di Dostoevskij. Altro non vidi un po' perché avevo ritegno di spostarmi e anche perché non riuscivo a distogliere lo sguardo dallo scrittore vestito di scuro coi suoi nobili baffi bianchi che rispondeva alle domande di Villaroel.

Quell'anno si stavano organizzando le onoranze a Verga che aveva compiuto ottanta anni. Pirandello sarebbe venuto a Catania a fare la celebrazione al Teatro Massimo. Ma nè Federico De Roberto nè il ministro Carnazza riuscirono a persuadere Verga ad assistere a quella cerimonia che aveva un carattere ufficiale e nazionale. Verga si rifiutò sempre ostinatamente e delegò De Roberto a rappresentarlo. Alla fine della cerimonia si limitò a ricevere il Comitato in casa sua, che gli fece dono,tramite Dario Niccodemi, di un orribile bassorilievo di metallo e marmo.

Pochi giorni fa,trovandomi a Catania, sono voluto ritornare nello studio di Verga che il nipote ha conservato intatto coi libri,la disposizione dei mobili e le carte come quando c'era lui.

Era una bella mattinata di Catania intorno alle feste natalizie, una giornata come ne avevo viste tante in anni lontani,proprio da quelle parti. Il sole sui cornicioni dei palazzi e quel brusio delle giornate festive.

In quella zona la città non ha subito nessun cambiamento. I palazzi di piazza Mazzini, di via Garibaldi, di via Vittorio Emanuele conservano le stesse facciate settecentesche, gli stessi balconi panciuti. Attraverso gli immensi portoni gentilizi si scoprono cortili verdi e interni pieni di panni stesi. Il Monastero di Santa Chiara rifatto dopo che una bomba dell'ultima guerra lo aveva quasi distrutto, ha ripreso l'antico aspetto che aveva ai tempi di Verga quando il giovane scrittore lo guardava di sbieco dai balconi di casa sua e,vedendo balenare gli occhi di una suora dietro una grata,concepiva la sua romantica STORIA DI UNA CAPINERA.

Nella piccola e tranquilla via Sant'Anna, non è stata spostata una sola pietra dai tempi quando Verga, scrittore alla moda verso la fine del secolo scorso, veniva da Firenze o da Milano dove abitualmente risiedeva,a trascorrere qualche giorno in famiglia. La sola cosa più nuova è la grande lapide che, in alto, ricorda che in questa casa è nato ed è morto Giovanni Verga.

Ecco il portone e l'ampio portico. Di lì più di trent'anni fa Verga usciva nel pomeriggio col suo vestito scuro e le ghette chiare per recarsi al Circolo Unione dove lo attendevano alcuni vecchi signori catanesi amici suoi che non avevano letto nè i Malavoglia nè il Mastro don Gesualdo nè altro e che di lui conoscevano attraverso la musica di Mascagni soltanto la Cavalleria Rusticana. Qualcuno dei soci si era avventurato nella lettura dei Malavoglia ma aveva trovato il romanzo piuttosto noioso,e non era arrivato alla fine. Questo non impediva a quei signori di avere della simpatia ed anche della vaga stima per Verga dovuta soprattutto al suo aspetto signorile.

Una volta, ragazzo,seguii a distanza Verga che, uscito dal Circolo, si era incamminato per via Etnea in compagnia di uno di quei soci amici dell' "Unione ",bel vecchio anche lui,con grandi baffi bianchi, un barone o marchese,che camminava con una certa spavalderia lasciando sul suo cammino un buon odore di sigaro e di spigo. Li seguii fino a quando, svoltati per via Pacini, non entrarono nella piccola bottega a pianterreno di un sarto. Dalla strada vidi che Verga esaminava una giacca di velluto alla cacciatora, una giacca di campagna cucita col filo della imbastitura e poi si dirigeva verso il retrobottega seguito dall'altro vecchio che andava ridacchiando. Quella fu l'ultima volta che vidi Verga. Nel 1922, mentre mi trovavo a Roma, lo scrittore morì.

Salendo gli alti gradini della sua casa si passa davanti ai due appartamenti dell'ammezzato affittati ai piccoli impiegati, le cui porte sono ricoperte da quei lutti di carta listata a nero così frequenti in Sicilia: "Per il mio caro fratello ","Per la mia adorata sposa","Per mio cognato ".Cartelli ingialliti e lacerati che non si possono togliere mai anche se sono passati molti anni e ne è rimasto soltanto la metà:bisogna che caschino da sè.

L' appartamento di Verga è al piano nobile primo ed unico del palazzotto. Mi apre la porta il nipote Giovannino, un florido e amabile signore all'antica dai capelli e i baffi quasi bianchi,serio e oculato agricoltore che bada alle sue proprietà di Vizzini e abita nella casa di famiglia dove nacque e morì lo zio scrittore.

Rientrando nello studio di Verga dopo 32 anni ho riconosciuto subito quella libreria bassa e scolpita che gira intorno alle pareti contro la quale ragazzo mi ero appoggiato pieno di emozione, fitta di volumi rilegati ,il tavolo accanto al balcone illuminato dalla calma e riposante luce di via Garibaldi, le due riproduzioni in bronzo della mano della contessa Dina di Sordevolo amica dello scrittore, che Verga teneva sul tavolo come fermacarte.

Una mano assai bella, appena dischiusa, delicata e forte come se fosse stata ritratta mentre stava abbandonata sul velluto di un palchetto di teatro durante una serata di gala dell'Ottocento.

Il pavimento luccica accanto al legno della biblioteca, i dorsi dei volumi sono in perfetto ordine, spolverati, tutti rilegati,in rilievo;molti recano in basso le iniziali dello scrittore intrecciate a caratteri floreali:G.V.

In un settore ci sono tutte le copie delle prime edizioni delle opere di Verga che, non appena uscivano, da Milano le mandava subito al fratello Mario a Catania. Ogni volume reca la dedica con la calligrafia minuta ed inclinata di Verga, in inchiostro violetto:"A mio fratello Mario con affetto,Giovanni. Milano 1875", Edizioni Treves con sul frontespizio la grossa "T" fiorita:e le prime traduzioni in francese e in inglese dei Malavoglia del 1887. In mezzo ad alcuni volumi si scopre qualche ricevuta del gas del 1904 o una bolletta della "Fondiaria "del 1898.

La targa in bassorilievo che gli portò Niccodemi nel 1920 è in un angolo con la sua aria di piccolo monumento funebre.

Quando Verga morì all'improvviso nel febbraio del 1922,aveva sul comodino un libro di novelle di Ferdinando Paolieri che in quei giorni stava leggendo. Il volume in edizione popolare, senza dedica, è conservato in un piccolo e gualcito portacarte di cuoio intrecciato:è l'ultimo libro che Verga lesse.

Giungono dalla strada i quieti rumori di via Garibaldi, il fruscio del filobus che ai tempi di Verga non esisteva, il grido di un venditore di carciofi che passa col suo carrettino. E la luce del balcone, quella luce ferma di Catania che riverberata sulle imposte,si posa sugli angoli dei mobili tale e quale, come quando lui lavorava in questa stanza.

(Ercole Patti, "Diario siciliano")

 

 

IL MONASTERO DELLA CAPINERA

 Vasto come tutti i monasteri compagni, a Catania è limitato da quattro vie, cioè a dire un'isola secondo il concetto romano della casa patrizia, viene di domandarsi:Che ne facevano di tanta vastità quelle serve di Dio?<<Santa Chiara >>,difatti, ospitava 23 monache in tutto, più 14 educande e 5 o 6 bizzocche, come dire serve,due delle quali, di giorno, vendevano il vino del monastero, nella dispensa di via del Castello Ursino, e i biscotti di fabbricazione propria.Sissignore,vino;chè <<Santa Chiara >>,possedendo vigne opulente lasciategli dal Barone di Oxina e da Chiara Statella, le pratiche badesse non sdegnavano di fare la concorrenza a Ciaccaligna e al Carabiniere, che erano due bettolieri famosi dei paraggi.Ma si badi, dispensa la loro, non bettola:ci si entrava come oggi nei bar,mezzo quartuccio in piedi e via col Signore, e a un'ora di notte chiusura.

Questi quotidiani contatti, però, tra popolo e monastero, autorizzavano il primo a trattare il secondo con una certa disinvoltura, nel senso che qualche storiella più pepe che sale correva pei trivii;ed io personalmente ricordo il principio di una canzonetta in voga, appresa ragazzo dai coetanei della strada; la quale, per essere parecchio arguta e punto ortodossa, nè allora potevo cantare nè ora ripetere, e altronde l'ho quasi del tutto dimenticata:

<<E non ci passu cchiù di Santa Chiara,

Ca la batissa mi manna 'in galera.....>>.

Colpa della dispensa certo, chè le bizzocche non erano monache;e in quanto a queste e alla vastità dell'edificio, dove tra saloni, sale e salette, tra ànditi e corridoi e celle,i vani sommavano a centinaia, per esse quella vastità poteva anche significare la solitudine e l'isolamento, o quanto meno favorivano l'una e l'altra per la conquista della perfetta letizia e della pace dell'anima.

Comunque, oggi,climi compiutamente sorpassati;di essi non rimane che il ricordo, ed un ricordo, se così può dirsi,imbalsamato;anche della canzonetta poco ortodossa, chè proprio negli anni in cui era in voga, venne sconfitta dalla Eterna Poesia:

<<Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia......>>,l'agitato e desolato soliloquio che ha per scenario appunto il monastero di Santa Chiara.

 

 

Nato e cresciuto in una delle case di faccia,Giovanni Verga, fanciullo e giovinetto ,dovette sentirsi toccato dal mistero della vita claustrale che gli si svolgeva sotto gli occhi, Egli, dai balconi di casa,intravedeva le <<capinere >>passare rapide dietro le fitte grate barocche e ne udiva a sera il cicaleccio vivace sul belvedere che sovrastava la chiesa aperto alla grand'aria;le sorprendeva a spiare, illudendosi di non essere viste ,nell'interno delle abitazioni vicine, con una intensità che alla romantica sensibilità del giovinetto dovette sembrare struggimento infinito, ardore di vivere la vita ad esse preclusa ansia di godere la libertà, l'amore, la maternità.

L' anno 1871,quando "Storia di una capinera " vide la luce,la sorte di quelle anime offese era maturata: libertà, amore, maternità;ma il sentimento di cui il romanziere-poeta s'era da trent'anni nutrito era rimasto intatto, se egli riuscì a commuovere una generazione di lettori che già sapeva del mutamento avvenuto. Potenza della Poesia che non muore!

Pure,dal tempo della <<scoperta >>di Verga, che risale a un trentennio, a quando cioè egli era tanto vecchio da non potere più dare ombra ai letterati;pure, dicevo, non è lecito lodare questa mesta storia di un'anima e tanto meno alla lettura commuoversene, senza sentirsi rimproverare di scarso intuito artistico;come se l'angoscia manifestata dalla piccola Maria con lunghe effusioni agitate ,sia meno efficace e toccante del fievole mormorare sommesso di Diodata;<<Voi siete il padrone >>.Che lagna i criticoni che seguon le mode ed ignorano il cuore!

Ecco perché, malgrado la conclamata tenuità della favola, Storia di una capinera rimane per noi una delle opere più schiettamente concepite della prosa romantica di tutti i paesi:ecco perché quando le bombe del '43 distrussero parzialmente il monastero di Santa Chiara, non quelle mura vetuste parve colpissero, ma il nostro cuore;ecco perché deploriamo che il monastero sia stato da anni adibito a scuole ed uffici, e perché nella ricostruzione delle parti colpite sia stato seguito un criterio del tutto arbitrario.

La loggetta, per esempio che affacciava sulla via Castello Ursino, una delle opere architettoniche più singolari del nostro Settecento, pur essendo rimasta indenne, venne demolita e non rifatta.Il ricordo di essa ci strugge.

(Saverio Fiducia)

 

 

 

Catania è la città che tutti i viaggiatori del tempo lodano sopra ogni altra in Sicilia come centro di cultura, grazie particolarmente alla benemerenza del Biscari, nel campo archeologico, e del Gioeni, in quello della storia naturale. Le loro relazioni ed esaltazioni in proposito, che talvolta possono sembrare alquanto esagerate, si ripetono e si rassomigliano quasi sempre. -- Non conosciamo una guida di Cat. che possa essere utilmente commentata ai nostri scopo, prima di quella del CARCACI, Descrizione di Catania, (1847).

   Intorno all'avventuroso «albergo del Leon d'Oro» e alla affannosa ricerca d'alloggio del G. a Catania, ecco alcune notizie desunte da nostre indagini sul luogo. Il vecchio «fondaco» nel quale il G. trovò provvisoriamente ricovero la sera del suo arrivo, sembra sia stato a pianterreno del palazzo del principe Pardo, in quello che oggi si chiama appunto vicolo Pardo, accanto a via Cisira [ora via Gisira], non lungi da piazza del Duomo. La maggior parte dei «fondaci» e dei primi alberghi a Catania sorsero sempre nei vicoli adiacenti a quel primo tratto della via, oggi detta Vittorio Emanuele. Il «Leon d'Oro» era poco lontano, e precisamente nella casa allora di proprietà dei baroni Anzalone, oggi del barone Poliero, in via Virrotio Emanuele.

 

Come accadde al G., anche il Brydone nel 1770 fu portato la prima sera in uno di quei miseri fondaci, di dove poi la cortesia del can. Recupero lo trasferì in un convento. -- La più antica famiglia di albergatori a Catania sembra sia quella degli Abbate, un discendente dei quali è ancor oggi proprietario della «Corona d'Oro». Uno dei più antichi Abbate era soprannominato popolarmente «Cacasangue» e godeva fama di maligno ospite dei forestieri d'oltr'Alpe. Anche il noto poeta dialettale Dom. Tempio lo chiama «Ingannamercanti». Quest'ultimo, che teneva albergo precisamente in casa Poliero, oppure il suo successore può essere stato l'ospite del nostro Poeta al «Leon d'Oro». Carlo Grass, amico del G., nel 1804 alloggiò a Cat. presso un Lorenzo Abbate, forse nello stesso albergo. Il Seume (che del resto allogiò qualche anno prima nel vicino «Elefante») nomina espressamente il «Leon d'Oro» come albergo di inglesi.

   Del principe Biscari e del Museo B., parlano con grande entusiasmo, come fu accennato, tutti i viaggiatori; notevoli le relazioni del Riedesel, dello Houel, del Münter, del Borch e (dopo quella del Goethe) dello Stolberg. Esiste poi tutta una letteratura locale, encomiastica e d'occasione, sulla famiglia Biscari. Il Museo è stato fra i nostri ampiamente descritto dall'ab. Domenico Sestini, già suo direttore e ordinatore: «Descrizione del Museo d'Antiquariato e del Gabinetto di Storia Naturale di S. E. il principe di Biscari ecc. ecc., Firenze 1776» riedita con aggiunte nel 1787. Nei Paralipomena del nostro «Viaggio» troviamo ricordato dal G. il Sestini, ma solo come autore del suo viaggio in Sicilia. L'abate di casa Biscari che accompagnò il Goethe in giro per Catania non può essere il Sestini, come ha dato per certo il Cart, perchè egli aveva lasciato da un pezzo la Sicilia, per non tornarvi più. (Del Sestini parla anche Goethe, in una lettera del 1806, F. A. WOLF; v. G.-Jahrbuch, 1906, p. 45). La più utile descrizione del Museo in relazione alle impressioni del Goethe, ci sembra quella del Rezzonico (Viaggi della Sicilia ecc.) che è del 1793. Quando il G. visitò il Museo, il principe di Biscari, suo fondatore, era morto. Il G. conobbe il figlio, Vincenzo, che continuava a curare e ad accrescere le raccolte, e la vedova donna Anna Maria Bonanno, figlia del principe palermitano di Poggio Reale. Il Museo Biscari è andato in gran parte disperso dal principio del sec. scorso in poi, sia per vendita degli eredi, che per saccheggi (1848 e segg.). Già il Seume lo aveva trovato in disordine.

http://martinwguy.co.uk/martin/libri/Goethe/goethe.html

 

Wolfango Goethe era un viaggiatore ca chiu viaggiatore di iddu non ce ne sono. Nel suo “Viaggio in Italia” scrive: «Conoscete la terra dove fioriscono i limoni? Chi non conosce la Sicilia non può capire l’Italia». Però può anche darsi che noi siciliani, che pure viviamo su questa terra, non riusciamo a capire l’Italia. Non è che Goethe sia stato fortunato nell’arrivare a Catania nel maggio del 1787 assieme all’amico Cristoforo Kniep perché dormì prima in una locanda di Catenanuova su indicazione di un carrettiere. Ati a sapiri che il poeta tedesco si muoveva a bordo di carretti perché all’eppica non c’erano treni o automobili. In questa fetida locanda di mala cogniuntura c’era un cartello: «O passeggero, chiunque tu sia, guardati dalla locanda del Leon d’oro, peggio che cadere in una volta sola nelle grinfie dei ciclopi, delle sirene e di Scilla».

Comunque sia, Goethe se ne andò l’indomani 1° maggio a Catania dove prese alloggio in un fondaco sotto palazzo del Pardo in via Gisira, fino a che girovagando capitò proprio nella locanda del Leon d’oro, ma non se ne lamentò troppo. Poi andò a visitare il museo di palazzo Biscari, via Crociferi e il famoso monastero dei Benedettini.

Nel visitare la grande chiesa fu affascinato dal maestoso organo di Donato Del Piano che un piccolo monaco era capace di ammaestrare e di suonare melodie celestiali. Goethe ammirò via Etnea, salì anche sull’Etna, insomma non si fici mancari nenti. Era solo angustiato dal cibo di quelle locande e lo scriveva anche alla sua amica Gertrude Stein. E dire che oggi la cucina catanese è apprezzata in tutto il mondo, soprattutto con la pasta alla Norma che quando ci metti sopra la ricotta salata somiglia alla cima dell’Etna imbiancata di neve durante l’inverno.

Naturalmente Goethe allargò i suoi orizzonti e si recò a Taormina che allora cominciava ad essere conosciuta nel mondo per via dei racconti dei viaggiatori tedeschi. Racconta il mio amico Dino Papale, custode dei ricordi della storia taorminese, che Goethe prese un carretto e si fece portare dalla spiaggetta di Villagonia fino in cima al teatro greco. E ne rimase talmente affascinato che vi restò tutta la notte ammirando il cielo stellato e la mole possente dell’Etna incombente. In quelle giornate di sole fece i bagni a mare, dormì benissimo nelle prime locande taorminesi (che con il passare dei secoli divennero hotel a 5 stelle) e assaggiò le delizie della campagna, i fichidindia, i limoni e tante altre delizie. Quindi, anche se nelle locande di Catania aveva mangiato male e dormito peggio, alla fine il viaggio di Goethe in Sicilia, dalle nostre parti risultò positivo. La Sicilia ha sempre affascinato viaggiatori, poeti e artisti in genere. Goethe fu uno dei suoi primi cantori. E gliene siamo grati.

Tony Zermo

 

Percorrere i dintorni di via Garibaldi di notte, in piazza Bellini, via Vittorio Emanuele, piazza San Francesco, è come fare un tuffo nella storia di questa città. Le atmosfere son quelle, le luci dei lampioni sotto ai palazzi pure. Per questo, camminando dopo una cena nei tanti locali in zona, si può immaginare di incontrare Verga che si accasa in via Sant'Anna, Bellini di ritorno da una delle sue scorribande amorose o Goethe che torna stanco al Leon d'Oro.

 

 

 

Sempre in Piazza S. Francesco, la chiesa di S. Francesco e l’Immacolata. Il percorso rosso che segnala i monumenti della Catania barocca comprende anche la chiesa di S. Francesco e dell’Immacolata preceduta da un’ariosa scalinata e dal sagrato chiuso da una balaustrata (1850 ca.) sulla quale poggiano le statue di S. Giuseppe da Copertino, S. Chiara, S. Agata e S. Bonaventura. La facciata in pietra calcarea è chiusa, ai lati, da due torri quadrangolari che conferiscono alla costruzione un ardito slancio verticale. La storia della chiesa è strettamente legata alla figura della regina Eleonora d’Angiò, moglie di Federico Il d’Aragona e sorella del minorita S. Ludovico da Tolosa. Una lapide ricorda che nella chiesa sono custodite le spoglie della regina che morì nel 1343; in una tela di pittore anonimo del Settecento (a sinistra dell’ingresso) è rappresentata la regina in compagnia di S. Chiara fondatrice dell’ordine delle Clarisse. 

 L’interno della chiesa e ampio e luminoso, tra le opere di interesse artistico si possono ammirare (navata destra): una statua dell’immacolata attribuita al palermitano Bagnasco (XVIII secolo); l’immagine dell’immacolata corrisponde all’iconografia barocca con la Vergine vestita di azzurro, eretta sul globo terrestre, con ai piedi la mezzaluna e una corona di dodici stelle intorno alla testa. Al primo altare è I ‘immacolata con S. Francesco e le anime purganti di P. Liotta (1850-1912); sull’altare successivo è S. Giuseppe da Copertino in estasi di G. Rapisardi (1799-1859); di G. Zacco (1786-1843) è il S. Ludovico da Tolosa e S. Bonaventura sul terzo altare. Al quinto altare è una interessante tavola (pittore ignoto) quattrocentesca che rappresenta S. Antonio. Alla fine della navata è la cappella con l’Immacolata chiusa da un cupolino. L’ampia area presbiteriale, coperta da una finta cupola con i pennacchi dipinti da Francesco Sozzi, pittore palermitano padre del più famoso Olivio, ha, al centro, un bellissimo altare cinquecentesco; sullo sfondo è un grande affresco di F. Battaglia (1701-1788) con l’episodio dell’indulgenza della Porziuncola. A destra dell’altare è l’organo sul quale si esercitava il piccolo Vincenzo Bellini che era nato nel palazzo Gravina-Cruyllas che si trova proprio di fronte alla chiesa. Oggi nella casa natale di Bellini è stato allestito un museo che conserva manoscritti e memorie del grande musicista catanese. Lungo la navata sinistra si dispongono tre altari in marmi policromi: al secondo è un’opera particolarmente interessante: la Salita al Calvario (1541) di Jacopo Vignerio che fu recuperata dalle rovine del terremoto del 1693; è la copia di una famosa opera di  Raffaello conosciuta con il nome di Lo Spasimo di Sicilia perché fu realizzata per la chiesa palermitana dello Spasimo. Agli ultimi due altari sono le tele: lo Sposalizio della Vergine, opera settecentesca del Gramignani Arezzi e un S. Francesco che riceve le stimmate del Guarnaccia (1770). Alla fine della navata è la cappella del Crocefisso.

A ridosso di San Francesco comincia Via Crociferi con l’Arco dei Benedettini dove, se non fosse per i resti romani e il Museo Belliniano tutto parlerebbe dello stile per eccellenza della città: il barocco del Settecento. E risalendo cominciamo a percorrere il salotto artistico per eccellenza di Catania.

 

 

Il Palazzo Gravina Cruyllas si trova a Catania ed è noto per avere dato i natali a Vincenzo Bellini e per ospitare il museo a lui dedicato; sorge all'angolo tra Piazza San Francesco e Via Vittorio Emanuele II (chiamata anticamente "Il Corso").
Fu costruito all'inizio del Settecento sulle rovine di un più antico palazzo dei Gravina Cruyllas, nobile casato dei Principi di Palagonia, demolito dal terremoto del 1693 e dove erano stati ospitati nel corso dei secoli re e viceré.
L'impianto attuale, poggiante in parte sulle mura del Teatro Romano e abbondantemente alterato da superfetazioni edilizie successive, presenta la forma tipica dei palazzi catanesi del tempo. In origine il portone principale prospettava sulla via Vittorio Emanuele ma in seguito ai lavori di livellamento del piano stradale che interessarono Catania a partire dal 1870, l'antico portone fu chiuso da botteghe e quello laterale prospettante sulla piazza San Francesco fu elevato a principale e a tutt'oggi la facciata sulla piazza appare in effetti molto più spoglia rispetto a quella sulla strada. Non si conosce l'architetto, o meglio gli architetti, dell'opera.

Le decorazioni a volute, bugne e grottesche del portale e delle mensole della tribuna soprastante sono riferibili ai primi decenni del settecento, accostabili come sono alle decorazioni di Palazzo San Demetrio ai Quattro Canti o ad altri esempi catanesi, mentre le mostre delle finestre del piano nobile sono riferibili alla maniera di Girolamo Palazzotto o, più probabilmente di Francesco Battaglia: quest'ultimo preferito anche in considerazione della splendida loggia all'interno del cortile, così simile per stile e struttura a quella, certamente successiva, di Palazzo Reburdone, opera certa del Battaglia.

 

 

La scalinata principale, che prima dello sbarramento del più antico portale sulla strada appariva in prospettiva con esso (prospettiva che ora, da Piazza San Francesco, privilegia la loggia), adesso appare, un po' illogicamente, laterale, mantenendo solo in parte la monumentalità e la funzionalità originarie. Moltissime sono le modifiche che ha subito l'edificio: oltre al già citato sbarramento del portale su Via Vittorio Emanuele II, infatti, una delle tre arcate della loggia è stata tagliata a metà da costruzioni successive, dovute probabilmente dalla trasformazione dei piani abitativi e non; il terzo piano fu aggiunto verso la fine dell'Ottocento e completato solo dopo il 1924 (foto d'archivio dell'IDAU, l'Istituto Dipartimentale di Architettura e Urbanistica di Catania, infatti, mostrano a quella data come parte del palazzo conservasse ancora il livello originario) e ulteriormente modificato da altre aggiunte nel corso del XX secolo soprattutto nella corte interna le cui proporzioni sono state alquanto alterate. Di recente è stato sottoposto a vari lavori di ristrutturazione parziale per adeguare maggiormente il palazzo a sede dei musei Civico Belliniano ed Emilio Greco.

http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Gravina_Cruyllas

 

 

 Al centro della piazza c’è il monumento dedicato al cardinale Dusmet e di fronte un palazzo ottocentesco al cui interno è allocato il Museo Belliniano di Catania, inaugurato il 5 maggio 1930. Nato per iniziativa del prof. Benedetto Condorelli, è stato via via ingrandito e arricchito di cimeli e documentazioni riguardanti la vita e le opere del grande musicista catanese Vincenzo Bellini. Il nucleo principale del museo è costituito dalla casa natale del Bellini: annessa al museo la biblioteca con un ampia raccolta di opuscoli e opere critiche. E' anche disponibile un impianto di riproduzione stereofonica per l'ascolto delle incisioni discografiche delle opere del musicista. Morì giovanissimo Vincenzo Bellini, a soli 34 anni. 

Ma il suo astro era già molto famoso, grazie sia alla Norma sia alla Sonnambula composte nel 1832. Aveva cominciato a musicare a soli 10 anni, rivelando subito un estro  eccezionale. E proprio alcune sue partiture autografe sono fra le scoperte che si fanno in questa casa-museo, dedicata a un altro degli ambasciatori di Catania nel mondo. Assieme a strumenti musicali, brani di composizioni incompiute e appunti legati a questo genio musicale, sono conservati oggetti appartenuti alla vita di Bellini come lettere, quadri, documenti e una raccolta di fotografie. Il museo ospita anche spartiti di musicisti italiani e stranieri dal Settecento al Novecento (Piazza San Francesco d’Assisi, 3 – Tel. 095-7150535 - Orari: 9-13 dal lunedì alla domenica; 15-18 il martedì e il giovedì).

Così lo descrisse Ercole Patti nel suo "Diario siciliano"

"Domenica mattina, per accompagnarvi il mio amico Mario Soldati di passaggio a Catania, sono tornato a visitare la casa natale di Vincenzo Bellini. [...] Dopo pochi gradini ripidi, attraverso una porticina incassata in un muro spesso, entrammo nella prima saletta che, nonostante da tanti anni trasformata in museo belliniano, conserva sempre quell’aria intima di casa privata; sembra di entrare in uno di quegli appartamenti della vecchia Catania abitati ancora oggi da piccoli impiegati. Nella luce calma e malinconica che arriva dai balconi che si affacciano sulla via Vittorio Emanuele, i cimeli sono disposti con cura nelle piccole stanze. Ecco l’alcova dove nacque Vincenzo. Adesso c e il suo cembalo che la riempie quasi tutta. Ha la tastiera coperta come se Bellini vi avesse suonato poco fa. I piccoli oggetti personali appartenuti al giovane maestro conservati dietro il vetro di una reca, in questa luce di casa catanese, sono ancora pieni di intimità". Così Ercole Patti nel suo Diario Siciliano (1971) descrisse l’atmosfera familiare e un po’ decadente che aleggia dentro la casa-museo di Vincenzo Bellini. Il museo è ospitato nella casa natale del musicista catanese che si trova all’interno del settecentesco palazzo Gravina-Cruyllas, in piazza 5. Francesco; gli anni che il musicista passò nella casa furono circa sedici.

Si conserva anche una piccola scultura di Bellini, opera dello scultore Salvatore Grimaldi. L’alcova è il locale dove, secondo le testimonianze dei discendenti dell’artista, nacque il musicista. L’intero spazio è occupato dal clavicembalo del cugino Vincenzo che fu suonato dall’artista durante un successivo soggiorno catanese. Sulla parete di fondo spicca un bel ritratto giovanile di Bellini. Nella Sala B, che forse costituiva il soggiorno della casa, sono custoditi moltissimi oggetti personali: sulle pareti sono esposti molti ritratti del maestro, dei Duchi di Sammartino suoi benefattori e i due tappeti ricamati da Giuditta Turina ed altre dame milanesi. Al centro della stanza è una vetrina piena di cimeli con la maschera di cera conforme al calco del volto di Bellini. La Sala C contiene pannelli che permettono di ricostruire i periodi principali della vita del compositore e cioè il periodo catanese: 1801-1819; il periodo napoletano: 1819-1 827; il periodo milanese: 1827-1833; Palermo: 1832; Londra: 1833; il periodo parigino: 1833-1835. La Sala D, che, forse, non fu abitata da Bellini, contiene manoscritti e partiture musicali; si conservano sia le opere giovanili, sia quelle della piena maturità artistica. Tra gli altri reperti è un pianoforte a tavolino di legno giallo di produzione viennese.

 

 

LA CASA DI VINCENZO BELLINI (di Ercole Patti da "Diario siciliano ")

Domenica mattina, per accompagnarvi il mio amico Mario Soldati di passaggio a Catania, sono tornato a  visitare, dopo alcuni anni che non c'ero più stato, la casa natale di Vincenzo Bellini.

Era il primo giorno di tempo sereno dopo un lungo periodo di pioggia. Avevamo percorso la bellissima e solitaria via Crociferi con le sue quattro chiese raggruppate una di fronte all'altra e i monasteri dalle fitte grate panciute.I vecchi muri e i lastroni di lava erano ancora saturi della pioggia recente. Avevamo vagabondato per le strade della vecchia Catania intorno a piazza Mazzini, lungo i negozi di ferrarecci e di lampadari di via Garibaldi e di via Vittorio Emanuele, ci eravamo soffermati davanti all'alto portone della casa di Giovanni Verga in via Sant' Anna e al negozietto di porcellane funebri che c'è di fronte.

Anche il cortile settecentesco del palazzo dove nacque e visse gran parte dei suoi anni Bellini, era ancora zuppo di umidità. Una donna in ciabatte che sfaccendava sotto l'ombrellone ci indicò familiarmente la scaletta che porta all'appartamento.

Dopo pochi gradini ripidi,attraverso una porticina incassata in un muro spesso, entrammo nella prima saletta che,nonostante da tanti anni trasformata in museo belliniano, conserva sempre quell'aria intima di casa privata;sembra di entrare in uno di quegli appartamenti della vecchia Catania abitati ancora oggi da piccoli impiegati.Nella luce calma e malinconica che arriva dai balconi che si affacciano sulla via Vittorio Emanuele, i cimeli sono disposti con cura nelle piccole stanze.Ecco l'alcova dove nacque Vincenzo. Adesso c'è il suo cembalo che la riempie quasi tutta.Ha la tastiera scoperta come se Bellini vi avesse suonato poco fa.I piccoli oggetti personali appartenuti al giovane maestro conservati dietro il vetro di una teca, in questa luce di casa catanese, sono ancora pieni di intimità. I due orologi da panciotto con la loro chiavetta per caricarli, le spille da cravatta, lo snello bastoncino con un bottone d'argento al posto del manico, le scatoline cesellate, i posacarte e i calamai e fra queste piccole cose quel cartoncino con sopra disegnata una lira musicale;la lira ha cinque corde delle quali una è costituita da un autentico capello di Vincenzo Bellini incollato sulla carta. È un capello chiaro quasi evanescente. Un'altra ciocca di capelli biondi di Bellini è custodita dentro un minuscolo astuccio rotondo.

Sulle pareti accanto ai cartelloni dei teatri dell'epoca che annunziano prime e repliche della Sonnambula, della Norma, dei Puritani e di tutte le opere belliniane ci sono le riproduzioni dei principali teatri che videro trionfare o cadere la musica di Bellini.

Il modesto appartamento è pieno di testimonianze di gloria che sembrano conservati da un padre orgoglioso dei successi del figlio morto giovane.

Una luce simile,da una strada uguale a questa (la via Garibaldi a pochi passi da qui);riceve lo studio di Giovanni Verga.

Mentre ci attardiamo per le stanze scorgo in un camerino piccolissimo, seduto ad un tavolo che riempie quasi tutto l'ambiente, un signore. Il suo volto è seminascosto dietro una cartella infilata nella macchina per scrivere. Questa apparizione accresce il senso di domicilio privato che c'è in giro. Sembra di essere capitati in casa di qualcuno e ci si stupisce di non vedere quel signore riscuotersi al rumore dei nostri passi e chiederci che cosa vogliamo. Ma poco dopo vengo a sapere dal custode che si tratta dei maestro Pastura ordinatore e direttore del museo belliniano. Mi presento e gli presento Soldati. Il maestro è lieto della nostra visita. Intelligente, modesto e competentissimo Pastura ci accompagna in giro per le stanze e dalle sue parole si capiscono subito la serietà e il grandissimo amore che egli mette in questa sua occupazione. Col suo pacato accento siciliano egli ci parla di Bellini come se lo avesse conosciuto personalmente sfatando anche con semplicità alcuni luoghi comuni che corrono su Bellini, sulla vita privata e sulla sua morte.

Mario incantato dall'ambiente e dalle limpide spiegazioni che ci fornisce Pastura è già entrato in quel leggero stato di ebollizione che gli è familiare. Nella stanza dove sono custoditi gli autografi delle opere di Bellini l'interesse di Soldati si è fatto ancora più intenso. Egli,cosa che io ignoravo,sa leggere la musica  lo sento accennare motivi sbirciando gli spartiti aperti dietro le vetrate. Il maestro Pastura ha trovato pane per i suoi denti. Insieme intrecciano una conversazione inframmezzata da brevi cantate.

I manoscritti ingialliti, un po' accartocciati, mostrano i segni delle note tracciate rapidamente dalla mano di Bellini, le sue cancellature.Il primo riordinamento di queste carte fu fatto, subito dopo la morte di Bellini, da Gioacchino Rossini;si vedono infatti qua e là le numerazioni e le annotazioni fatte di pugno di Rossini con una calligrafia regolare e inclinata, da scrivano.

Ma ecco il pezzo forte della raccolta soprattutto per Mario:un quaderno di appunti musicali. In esso Bellini annotava uno dietro l'altro e senza che avessero alcun rapporto fra di loro, anzi spesso essendo di natura diversissima uno dall' altro ,i motivi che gli venivano in mente, Le frasi musicali sono trascritte di seguito, l'unico segno che le divide una dall'altra sono dei leggeri trattini che a prima vista non si notano nemmeno. Da questo quaderno Bellini traeva poi brani che inseriva nelle sue opere. Il sistema di lavoro era ordinato e previdente inteso ad evitare qualsiasi spreco. Egli metteva da parte duetti, frasi d'amore, marce funebri, descrizioni in attesa che gli potessero servire.A mano a mano che qualche frase era da lui utilizzata la cancellava con un metodo quasi burocratico con pochi tratti in modo da evitare di doverla adoperare distrattamente in qualche altra opera. Ecco due motivi cancellati che furono inseriti nella Norma, un altro nei Puritani e altri ancora. Molte però sono le frasi che non furono mai adoperate forse perché la morte arrivò troppo presto per il giovane musicista.

Soldati legge avidamente canticchiando, il maestro Pastura gli fa eco e canticchia a sua volta facendo qualche osservazione. Io,incompetente di musica, assistito ammirato e invidioso dell'abilità di Mario a questa conversazione canora e tuttavia riconosco dai loro accenni a bocca chiusa l'inconfondibile accento della musica di Bellini.

Così fra quelle carte ingiallite e quegli oggetti personali è passata sotto i nostri occhi vivissima la breve vita di questo giovane catanese di eccezionale talento, pieno di entusiasmo e anche di voglia di arrivare, che quasi ragazzo vide trionfare la sua musica in tutto il mondo e morì in pochi giorni a trentatré anni di una misteriosa malattia viscerale in una villa di campagna nei dintorni di Parigi dove si era ritirato per lavorare.

Vado guardando attraverso le teche alcuni autografi. Ad un tratto fra tante calligrafie ottocentesche minute piegate e un po' scolorite vedo su un leggio ricoperto da vetro scoppiare un autografo ampio, clamoroso, notissimo. È una lettera di D'Annunzio diretta al Sindaco di Catania nel 1901 con la quale il poeta accompagna l'invio di una sua lunga poesia dedicata a Bellini. Si leggono le prime quartine vergate con la ben nota calligrafia, altre cinque o sei grandi cartelle fanno capolino sotto.

La visita è stata lunga, il tempo è trascorso senza che ce ne accorgessimo, l'ora di colazione è già passata. Mentre Pastura ci accompagna alla porta con l'aria di un ospitale padrone di casa antico stampo ,passiamo davanti allo sgabuzzino in penombra dove è custodita la bara entro la quale il corpo di Vincenzo Bellini fu riportato solennemente a Catania nel 1876 dopo quarantun anni di permanenza in Francia. Una bara corta ,scura,un po' scrostata;accanto c'è una delle maschere che furono ricavate dal cadavere e nastri ,corone, fronde d'alloro ed altre reliquie municipali di quel trasporto. Ma questa roba non ha nulla di mortuario;ha piuttosto l'aria cordiale dei vecchi oggetti in disuso che si custodiscono affettuosamente nei solai di certe antiche case siciliane.

Giungono dal cortile i familiari suoni del palazzo nell'ora di colazione. Richiami di voci femminili, una porta sbattuta, il pianto di un bambino. Usciti dalla breve e ripida scaletta ci ritroviamo nella corte illuminata da un sole velato in quella luce di via Vittorio Emanuele che era così familiare a Giovanni Verga. Da una delle porticine che sboccano sul cortile, abitata forse dal portiere, giunge un leggero odore di pesciolini fritti che accresce e conferma in noi l'illusione affascinante di essere stati a casa dei giovane musicista catanese Vincenzo Bellini vivente e di non averlo visto di persona per combinazione forse perché era uscito o in viaggio.

 

 

 

Via Giuseppe Garibaldi è una delle vie più importanti di Catania e del suo centro storico; si snoda in rettilineo, da ovest ad est, tra la porta Garibaldi e la piazza del Duomo.

La via venne progettata e realizzata, sulla base di un tracciato antecedente, nell'ambito della ricostruzione della città distrutta dal terribile terremoto del 1693. Ha cambiato nome più volte: è stata infatti "via San Filippo", "via Ferdinandea" (dopo la costruzione della porta omonima) e infine dopo il 1860 via Garibaldi.

Il suo tracciato è perfettamente rettilineo ed ha origine nella centralissima piazza del Duomo, proprio in corrispondenza della fontana dell'Amenano. Non molto distante da questa sorge la caratteristica piazza Mazzini. Lungo la via sorgono numerosi i palazzi settecenteschi nobiliari e della borghesia mercantile del secolo successivo. Nei pressi della via Sant'Anna sorge la casa-museo dello scrittore Giovanni Verga con i mobili e gli arredi, i libri e gli oggetti dello scrittore. Poco prima del termine incrocia l'importante via del Plebiscito. Fino al 1949 era percorsa da una delle linee tranviarie cittadine. Lungo la maggior parte della via sorgono numerosi negozi e attività commerciali che costituiscono da secoli il cuore pulsante del centro storico.

 

 

 

Palazzo Asmundo di Gisira fu edificato dopo il terribile terremoto del 1693 che rase al suolo Catania e i suoi palazzi, le sue chiese, i suoi monasteri. Eppure, appena qualche anno dopo, i privati ancor prima del governo e della Chiesa, iniziarono la ricostruzione che avrebbe reso la città celebre nel mondo per il suo barocco nero, costruito con blocchi estratti dalla lava distruttrice e progettato dai maggiori architetti del tempo a imperitura memoria del passato.

Palazzo Asmundo fu tra i primi palazzi a essere edificato in quella che i viaggiatori stranieri dichiararono la più bella piazza di Catania: piazza San Filippo, oggi Mazzini.

Posta ad interruzione di via Garibaldi, la piazza - unica “porticata” della città per volere degli Asmundo e degli Scammacca della Bruca – è racchiusa da quattro corpi angolari ornati con un peristilio di 32 colonne di età romana, cui fa da sfondo da un verso la facciata del Duomo e dall’altro la porta Ferdinandea.

Il Palazzo è posto all’angolo sud-est e il suo portone è sovrastato da un magnifico stemma con l’emblema del casato Asmundo di Gisira.

Come testimoniato dai documenti d’archivio, l’inizio dei suoi lavori è databile al 1704 su progetto del celebre architetto Giuseppe Palazzotto e disposizione di Adamo Asmundo - nipote del Giuseppe che affiancò Giuseppe Lanza, vicario generale per la ricostruzione del Val di Noto – e di sua moglie Maria Landolina, titolare dei feudi di Bonfalà e di Gisira posti in territorio netino.

Contatti

Via Gisira n° 40

95121 Catania (CT)

Tel: 0039 095 093 3009

Cel: 0039 346 63 77 676

info@palazzoasmundocatania.com

www.palazzoasmundocatania.com

 

https://www.mimmorapisarda.it/2022/253.jpg

 

 

CHIESA ed ex CONVENTO DI SANT'AGOSTINO

 

Nascosta in un Palazzo di via V.Emanuele adiacente all'attuale Chiesa di Santa Rita e Sant'Agostino, si trova il sito dove il Biscari trovò numerosi reperti archeologici tra cui il famoso "Torso monumentale ".

Scrive Francesco Ferrara :-Questo convento fu edificato nel secolo XIV sopra le rovine del Foro antico. Nel 1577 essendovi per mancanza di diligenze ripullulata la peste che desolata avea la città l'anno prima, e che allora ammazzò tutti i monaci, il Senato vi fece appiccare il fuoco,e fu ridotto in cenere insieme alla libreria, all'archivio, e a quanto vi era di buono e di ricco. È stato riedificato dopo con chiesa decente-

Altre informazioni offre l'editore Galatola:

-Salendo per la Strada del Corso (oggi via V Emanuele )s'incontra la Chiesa ed il Convento dei p.p. Agostiniani ,fabbricati sulle rovine dello antico Foro e della Basilica nel secolo decimoquarto.Nel 1577 ripullulando la peste che l'anno innanzi avea desolato Catania, il Senato fece appiccare fuoco all'edifizio e fu ridotto in cenere insieme alla libreria all'archivio e a quanto vi era di buono e di ricco. Nella chiesa si ammirano un crocifisso sopra tavola e Madonna del Buon consiglio di antica scuola, un S.Emiddio del "Vasta",un S.Agostino di Mignemi il vecchio. Gualterio Manfredo confessore del re Alfonso appartenne a questo convento, come pure Geronimo da Catania, Andrea di Urso,Giovanni dell'Oro,Agostino Sorito illustri nelle lettere, e Bonaventura Attardi scrittore della storia del suo ordine in Sicilia.

Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

Chiude la storica libreria Prempolini. Cala il sipario su un pezzo di città

 di Fernando Massimo Adonia

 La notizia arriva dalla pagina Facebook ufficiale tra le lacrime, condivisioni e i commenti di follower rimasti evidentemente disorientati.

CATANIA - Prossima fermata capolinea, o lì vicino. “La libreria Prampolini è chiusa per inventario e in seguito sarà messa in vendita al miglior offerente! Interessati?”. L’annuncio arriva dalla pagina Facebook ufficiale tra le lacrime, condivisioni e i commenti di follower rimasti evidentemente disorientati. E c’è da comprenderli. Con i suoi 124 anni di storia e l'arredo proveniente da un’altra epoca, la Libreria Prampolini è sicuramente la più antica di Catania. Un luogo senza dubbio storico. Un passo lì dentro vale quanto una viaggio nella Delorean di Ritorno al futuro.

In attesa però che la macchina del tempo sia brevettata, il sipario rischia di calare definitivamente su un pezzo di città. È sempre una pena quando una libreria chiude i battenti, a Catania come altrove. “Auguriamoci che non sia un addio – è la rassicurazione social – La libreria, con tutto il suo patrimonio di volumi, è al momento in vendita e non si prevede a breve l'apertura di un'altra sala scommesse. La nostra scommessa è che venga rilevata da un privato o da una cordata di volenterosi (come finora è stata gestita) e la Prampolini continuerà a vivere, con tutti i necessari aggiustamenti e cambiamenti che il/i nuovo/i proprietari/o riterranno opportuni”. Già, ma potrebbe andare anche diversamente.

La chiusura della Prampolini come simbolo di un mondo in estinzione. Quello delle librerie appunto: sempre meno in città, mentre in provincia è quasi un deserto. Le poche che resistono sembrano quei soldati giapponesi rimasti a difendere la propria postazione inconsapevoli della resa imperiale. Forse è vero che si legge sempre meno e che è sempre più internet a soddisfare la sete di conoscenza dei più; ma il rapporto di forza tra le vecchie botteghe librarie e il dilagare degli store di catena, ormai, è troppo sbilanciato. Mettiamola cosi: se i centri commerciali hanno sfiancato molte piccole imprese familiari, i monomarca hanno spazzato via ogni altra forma di concorrenza, per non dire resistenza.

Se poi chiude un salotto storico, va da sé, la questione non può non toccare – oltre il mondo dei lettori – la città in quanto tale. Perché di posti così, non ce ne sono più. Che fine faranno quei testi, quegli arredi? Che se ne farà il prossimo proprietario di tutto quel capitale immateriale? Chiedere l’intervento della politica avrebbe il sapore del qualunquismo più pruriginoso. Vade retro, che è meglio. Arrivati a questo punto, solo un’idea “moderna” potrà salvare quello scrigno della memoria.

Martedì 07 Agosto 2018

https://catania.livesicilia.it/2018/08/07/chiude-la-storica-libreria-prempolini-cala-il-sipario-su-un-pezzo-di-citta_469527/

 

 

 

 

DA SETTE SECOLI LA BIONDA REGINA DORME IL SONNO ETERNO IN S.FRANCESCO D'ASSISI

(Saverio Fiducia da "Passeggiate Sentimentali ")

 

-Non è la prima volta che la necessità spirituale di respirare l'aura dei secoli nei rapporti della nostra Catania, mi conduce in San Francesco d'Assisi. Dianzi lo Spasimo di Sicilia (cioè a dire la più drammatica composizione di Raffaello,copiato dal pittore siciliano Jacopo Vignerio),mi fece evocare lo spirito dell'Urbinate;oggi è il Fantasma di Eleonora d'Angiò che mi attira;Eleonora, moglie di Federico II d'Aragona, le cui spoglie giacciono dal 1343 sotto i muri del tempio da essa fondato.

Tempi assai duri per la Sicilia quelli che coincisero con la nascita e la prima giovinezza di Eleonora, figlia di Carlo II d'Angiò.L' anno 1282 ,sterminati al grido di <<Morte ai francesi >>gli sgherri e i soldati del primo Carlo ,e chiamati dal Parlamento siciliano--per sostenere con la forza delle armi le ragioni--gli Aragonesi, la guerra divampava nell'Isola e nelle Calabrie,funesta e feroce. Andato in fumo, per la frode palese dei francesi, il duello tra Carlo e re Pietro, che avrebbe dovuto combattersi come un <<giudizio di Dio>>a Bordeaux, mallevadrice l'Inghilterra, lunghi negoziati portarono alla Pace di Caltabellotta, ove si convenne che le figlie di Carlo II succeduto al padre ,Bianca ed Eleonora, andassero spose , rispettivamente, a Giacomo e Federico, figli di Pietro;ai quali sarebbero toccati, il regno d'Aragona al primo e quello di Sicilia al secondo. Vana speranza dei siciliani di allora, come del gregge umano di tutti i tempi, quella di vedere mitigata e contenuta l'insaziabile cupidigia dei potenti!Passata la breve euforia dei primi anni, la guerra tra Federico e Carlo riprese con rinnovato accanimento;una guerra di dinastie divenuta ben presto guerra tra parenti;e chi ne andava di mezzo era la dolce isola nostra.

Nullameno Eleonora d'Angiò, un anno dopo la firma della pace di Caltabellotta, sbarcò,angelo di pace,in Sicilia.

L' incontro tra Federico e Eleonora, avvenuto a Messina l'anno 1303,si veste dei seducenti colori della leggenda, o se più piace di un romanticismo avanti lettera. Bello di una maschia ed altera bellezza, --dice il cronista del tempo Nicolò Speciale nella Historia Sicula--era Federico, e giovane d'anni;grande, ben fatta e bionda Eleonora. Ansioso di vederla e parlarle,il giovane re strinse i tempi:l'incontro doveva avvenire alle porte della città;ma egli, accompagnato da pochi fidi ,attese la fanciulla e il suo seguito sulla spiaggia del Paradiso, e una volta tanto nella storia di nozze simili, tessute sulla trama malfida della politica, i due giovani si amarono al primo vedersi.Compagni del re nella sentimentale avventura, Blasco Alagona,Alaimo da Lentini e Ruggero di Lauria;costellazione di eroi.Eleonora portava in retaggio l'educazione di una corte raffinata che si sarebbe fregiata dei nomi eccelsi di un Boccaccio e di un Petrarca.

Malgrado qualche piccola infedeltà di lui,fu un'unione felice, Angelo di pace,Eleonora la cercò, la invocò sempre;guidando, con dolci preghiere, l'impetuoso marito nel pelago delle lotte e dei raggiri. Spirito francescano, quando il re--1337--morì,indossò la tonaca di Santa Chiara, fondò chiese e monasteri in Sicilia, e a Catania il tempio di San Francesco d'Assisi, disponendo che vi fosse,alla morte,sepolta.

La tomba era di una estrema semplicità. Il terremoto del 1693 la ridusse in frantumi;ma le ossa della Regina, pietosamente raccolte dai superstiti, vennero tumulare nella cripta sotto l'altare maggiore del nuovo tempio. L' anno 1926 ,per le provvidenze della duchessa Domenica Gioeni d'Angiò e d'Aragona, e per l'amore alle antiche e nuove fortune catanesi di Vincenzo Casagrandi,quel che rimane della bionda regina clarissa ha trovato pace nello spessore del pilastro sinistro della Cappella dell'Immacolata. La lapide è di Gaetano Grassi ,e l'iscrizione del Casagrandi medesimo.

 

 

 

Nulla si sa delle attività di Eleonora d'Angiò negli ultimi anni di vita di Federico. L'unica informazione attendibile rivela che il 9 febbr. 1337 a Catania essa conferi il feudo di Morju ad un certo Tommaso de Turtoreto.

 Il 25 giugno Federico III mori presso Paternò, presente Eleonora, che provvide poi a far portare la salma a Catania. Federico fu sepolto nel duomo catanese, poiché il caldo estivo impediva il trasporto fino a Palermo. Il testamento nominava E. esecutrice insieme col vescovo di Siracusa, con Francesco Ventimiglia, conte di Gerace, con Raimondo Peralta, gran cancelliere del Regno, e col maestro giustiziere Blasco Alagona.

 Dopo la morte del consorte Eleonora cercò di uscire dall'ombra e di acquisire maggiore influenza sulla politica siciliana, aiutata anche dal fatto che Pietro II non dimostrava interesse per gli affari di governo. Un primo successo le arrise quando riusci ad imporre il ritorno del suo più stretto confidente, Giovanni Chiaramonte. Sebbene egli si trovasse temporaneamente al servizio del nemico angioino, la magna curia, convocata a Nicosia, lo riabilitò e un diploma di Pietro II del 30 dic. 1337 gli restitui quasi tutto il suo patrimonio.

 Ben presto, tuttavia, Eleonora trovò una rivale nella consorte di Pietro II, Elisabetta di Carinzia, che cercava di acquisire crescente influenza sul marito e di spianare alla famiglia dei Palizzi, da lei favorita, la strada verso le cariche più elevate. Elisabetta riusci a prevalere: i Palizzi divennero i più stretti confidenti di Pietro e occuparono le posizioni chiave di gran cancelliere e maestro razionale.

 Poco dopo il rientro del Chiaramonte riesplose l'antico contrasto tra il suo casato e i Ventimiglia. Cosi nel 1338 il castellano di Lentini, Ruggero Passaneio, fu accusato di voler rilasciare, dietro riscatto, Francesco (II) Ventimiglia, che era stato affidato alla sua sorveglianza. E. in persona si recò immediatamente a Lentini cercando di mediare, ma il Passaneto rifiutò di accoglierla nella roccaforte, che cercò addirittura di cedere agli Angioini. Falli cosi l'ultimo tentativo compiuto da Eleonora per mediare tra i Chiaramonte e i Palizzi; la crisi fu risolta solo dall'intervento di Blasco Alagona, che intavolò trattative col castellano di Lentini.

Affranta da questi insuccessi politici, Eleonora condusse negli ultimi anni una vita ritirata.

Risiedette prima in una piccola villa ai piedi dell'Etna presso Belpasso e poi nel villaggio La Guardia, presso Catania, da cui si recava spesso nel vicino monastero di S. Nicolò d'Arena a Nicolosi, partecipando alla vita monastica e agli esercizi di penitenza.

Mori il 10 agosto 1341 in una piccola cella di questo monastero e fu sepolta nella chiesa di S. Maria dell'Immacolata, in piazza S. Francesco, a Catania.

http://www.treccani.it/enciclopedia/eleonora-d-angio-regina-di-sicilia_(Dizionario-Biografico)/

 

 

 

 

 

 


 

 

 

L’Arciconfraternita dei “Bianchi”

 (del “Santissimo Crocifisso e delle anime purganti”) fu fondata a Biancavilla il 2 novembre 1791 e ha sede nella chiesa delle Anime del Purgatorio; lo Statuto è stato approvato con decreto Regio e successivamente fu sottoposto alla dipendenza della diocesi di Catania durante l’allora vescovo Monsignor Corrado Maria Deodato de’ Moncada (1773-1813). Il fine dell’Arciconfraternita è quello di rendere lode, onore e gloria al “Santissimo Crocifisso” e alla “Madonna Addolorata”. Possono far parte della Congregazione “tutti i laureati in qualsiasi professione, i professori, i discendenti dei confrati appartenenti alle primarie famiglie civili del paese” (articolo 2 dello Statuto). L’Arciconfraternita ha per insegna un labaro raffigurante a sinistra la Vergine Maria ai piedi della Croce; a destra le anime purganti. I Confrati, durante le processioni, indossano una cappa bianca stretta in vita da un cordone, il tradizionale berretto (‘a scuzzetta) nero con decoro in filo di seta, oro e argento.

Inoltre dietro le spalle viene portato l’antico cappuccio bianco, che in passato veniva adoperato per assistere i condannati a morte.

Come segno di appartenenza all’Arciconfraternita portano sul petto un medaglione ovale in argento raffigurante il Crocifisso. L’Arciconfraternita partecipa con le insegne all’annuale “Missa in Coena Domini” il Giovedi Santo e cura le due processioni della Vergine Addolorata del Venerdi Santo, in modo particolare con le proprie insegne partecipa alla solenne processione serale dei “Tri Misteri”. La statua della Madonna Addolorata (‘a Ddulurata), realizzata nel XVIII secolo ha il volto, le mani e i piedi in cera e gli abiti in seta con ricami in oro zecchino ed é attribuita alla bottega Rosselli di Messina. Viene anche solennizzata la festa liturgica della Madonna Addolorata il 15 settembre all’interno della chiesa delle Anime del Purgatorio. Ogni anno, inoltre, nel Campo Santo di Biancavilla, all’interno dell’omonima cappella, il 2 novembre (commemorazione dei fedeli defunti) ha luogo una Santa Messa in suffragio delle anime dei Confrati scomparsi. Ogni due anni si svolgono le elezioni per il rinnovo delle cariche, nell’ultima ha riconfermato Governatore Salvatore Furnari, incarica dal 2000, sino al 2012. I Confrati si riuniscono quattro volte durante l’anno in preparazione alle attività sopracitate.

 

La Chiesa dei Bianchi

 risalente alla prima metà del XVIII secolo, dalla deliziosa curvilinea facciata,realizzata in marmo rossastro ed in stile barocco, opera dell'architetto Stefano Ittar,si trova sul lato destro della via V.Emanuele, direzione Duomo ed in passato era appartenuta alla Arciconfraternita dei Bianchi, nobili governatori della città di Catania, compagnia risalente al 1570,il cui sodalizio è antecedente al terremoto del 1693.

Il prospetto della chiesa è concavo,con al centro una fattura in marmo, mentre ai lati è a forma convessa con due finestre rettangolari dotate di inferriate, precedute da cancellata sormontata dalle insegne di San Martino Vescovo, cioè da mitra leggermente inclinata ad est e da un baculo,con al centro, circondata da ghirlande, una targhetta, intorno alla quale girano le parole :"Arcidiocesi Dei Bianchi ".Subito dopo il cancello, a disegno, segue la gradinata composta da otto scaglioni, di cui,i primi due sono di lava,poi segue la porta con una nicchia vuota cinta da una piccola balaustra.

La parte superiore sopraelevata è raccordata ai corpi laterali con due volute,mentre la chiesa al suo esterno non presenta sculture, a rappresentare quella freddezza neoclassica verso cui si dirige il secolo. La prima novità all'interno della chiesa dei Bianchi è il vestibolo con duplice e breve scalinata in marmo rosso,congiunta sul piano da un massiccio tramezzo con al centro uno scudo tra due angeli raffrontati, sostenuto da due colonne. Una originale trovata adottata da Ittar per colmare il dislivello tra il piano della chiesa e quello stradale. Al suo interno la chiesa ad unica navata ha un aspetto assolutamente unico, giacché si discosta totalmente dalla fisionomia naturale di un luogo di culto,a cui, di norma,siamo stati abituati a concepire. L'atrio funge da vestibolo alla chiesa, con panche in legno per i confrati ed il pubblico lungo le pareti. Sulle pareti perimetrali spiccano 28 dipinti su tela (7 per lato),mentre fra le due eleganti porte che,dal vestibolo immettono in chiesa, si staglia il ritratto dell'ultimo governatore defunto, mentre ai lati sono collocate due pile d'acqua lustrate,con in alto un vistoso lampadario settecentesco.

La chiesa, malgrado le otto finestre, è dominata da una penombra misteriosa e di raccoglimento, le pareti sono rivestite in tutta la lunghezza da alti pannelli sormontati da candelieri scolpiti,con ai lati due file di panche (44)per i confrati. Il tavolo del governatore per le solenni adunanze è dietro il vestibolo, sotto la cantoria, mentre in alto, fra due medaglioni in stucco bianco madreperla, rappresentante Santa Caterina con un'altra Santa non identificabile, trionfa un caniglio con lapide dedicata a Santa Caterina consacrata dal Vescovo Maurizio, il 17 agosto del 1126,lo stesso giorno in cui le spoglie di Sant'Agata fecero ritorno da Costantinopoli a Catania. Lateralmente sono altresì esposti 37 ritratti, su tela di buon pennello, di alcuni antichi e moderni governatori, di cui,l'ultimo, rappresenta Antonino Ferrarotto Alessi.Sulle pareti si alternano otto gran bassorilievi in stucco bianco lucido entro cornici grigio-oro in muratura, in contrasto con un fondo azzurro e fiancheggiati da semipilastri aderenti alle pareti, rappresentanti da destra a sinistra :La Pace,la Temperanza, la Speranza, la Fede,la Carità, la Giustizia, la Fortezza, la Mansuetudine.Sul vestibolo si trova l'organo con la cantoria ed in alto è collocato un quadro ovale su tela raffigurante San Giovanni Battista con altre figure di contorno. Sul lato sinistro è collocato l'altare con un dipinto dell'Addolorata, mentre ai lati del pavimento si trovano due eleganti pile di panche (44 posti )con alte spalliere in legno.

L'altare maggiore sotto l'abside contiene un quadro col SS Crocifisso senza simulacri,ma con quattro putti intorno ,mentre sul trono dell'altare troviamo un busto ligneo inargentato di San Martino ed un pergamo.Nel presbiterio vi sono archi e lunette intorno all'altare maggiore ,in fondo al quale troneggia un grande Crocifisso settecentesco, mentre il balaustrino con gratine in ferro battuto corona la gradinata che ripete la gentile trama del cancelletto.

Una delle due porte del presbiterio dà sulla sacrestia (con preziosi arredi e suppellettili sacre,severi scranni,sedie rivestite di bloccati d'oro ed un archetipo in legno della facciata ),la quale comunica con un gran salone quadrato delle adunanze, al quale si accede tramite una scala in marmo ed in cui trovano collocazione settanta ritratti su tela dei vari governanti della città, fra cui:

Tommaso Paternò Castello, Abate di San Giuseppe in Biscari morto nel 1650;Giuseppe Maria Gioieni Asmundo;Don Michele Asmundo Andolina;Ludovico Tornabene e Scammacca;Don Pietro Maria Tedeschi e Gravina;Fra' Michele Maria Paternò e Bonajuto;Monsignor Corrado Deodato e Moncada;Don Federico Vespasiano Villaroel e Trigona;Fra' Giovanni Trigona e Grimaldi; Don Giuseppe Paternò Castello e Corvaja;Don Antonio Paternò e Caracciolo; Don Antonino Grimaldi di Serravalle.

L'altra porta accede alla galleria del governatore, ove si trovano 127 dipinti su tela di illustri personaggi dell'epoca, fra cui i Biscari, i Paternò Castello, gli Asmundo, i Già ora,gli Uzeda, i Manganelli, appartenuti alle famiglie nobiliari che hanno governato la città di Catania, affiliati, altresì ,alla Confraternita dei "Bianchi ".Sulla medesima galleria si affacciano, l'uno frontalmente all'altro,i busti di San Martino Papa e San Martino Vescovo di Tours,unitamente ad uno dei troni delle Gallie,mentre sotto l'arco dell'abside, infine, è collocato uno scudo dorato .

Sotto la volta della chiesa, dipinta color verde chiaro a stucco lucido, si trova un affresco di grandi proporzioni (45 mq.)raffigurante l'Apoteosi di San Martino, del pittore catanese Alessandro Abate,che eseguì sotto il cupolino dell'abside l'affresco raffigurante l'Apoteosi di San Giovanni con 24 seniori adoranti l'Agnello Divino.Dal cornicione pendono,poi,molti piccoli lampadari dorati, così come molti altri dall'arco dell'abside ed uno dalla grande volta, mentre sui muri sono collocati 26 candelieri a tre branche.San Martino ai Bianchi, con la sua linea spezzata e le volute laterali, tendenti a non appesantirne la costruzione, è l'epilogo della fervida attività di Stefano Ittar.-

 

Salvatore Barbagallo

 

 

SAN MARTINO ai Bianchi

 La Chiesa “San Martino di Tours, Vescovo”, sede dell’Arciconfraternita dei Bianchi, è filiale della nostra Cattedrale e fa parte del Primo Vicariato Urbano. Rientra nella nostra rubrica mensile “Vediamo un po’ ”, anche questa, quale rinnovata speranza di poterla vedere aperta al Culto. La causa di tale mancata riapertura sta nelle continue infiltrazioni d’acqua e dunque per i necessari lavori sul tetto -già avviati alcuni anni addietro- e ancora non del tutto conclusi. La sua attuale fabbrica, sull’antica strada Del Corso o Reale, oggi Via Vittorio Emanuele, risale a dopo il terremoto del 1693. Mentre la precedente, intitolata a Santa Caterina d’Alessandria, la cui dedicazione risalirebbe al 17 Agosto 1126, ad opera del Vescovo abate -conte Maurizio di Catania- sarebbe stata edificata sui ruderi romani –del cosiddetto- arco del console Marcello.

La Nobile Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso dei Bianchi, si trasferì in tale Chiesa nel 1610, poiché venne abbattuto l’Oratorio di San Martino, fondato nel 1570, che si trovava in Piazza Duomo, dove c’è in atto Palazzo De’ Chierici, espropriata dal vescovo Bonaventura Secusio, che la assegnò lo stesso giorno alla Confraternita dei Bianchi. La Chiesa, successivamente, venne ricostruita sullo stesso sito, su progetto di Stefano Ittar, con prospetto concavo al centro e convesso ai lati. Originale la musicalità cromatica creata dall’alternanza delle fasce di marmo di Taormina -rosso tenue e più acceso-. Sulla cancellata le insegne iconografiche di San Martino. Nel 1610, dunque, la Compagnia dei Bianchi ne aveva fissato la propria sede in S.Martino, che venne eletto Patrono del pio sodalizio nobiliare.

Alla Confraternita, che aveva il compito di assistere i condannati a morte, potevano accedere soltanto i rappresentanti della “mastra nobile”, ovvero i signori che governavano la città. I Bianchi, chiamati così per via del saio bianco che indossavano, furono presenti nella nostra città sotto l’episcopato di Antonio Faraone ed adottarono il motto latino: “ Deabalbuntur in sanguine Agni”- tratto dall’Apocalisse- che si legge nel cartiglio, nella chiave dell’arco, ovvero: “Saremo purificati nel sangue dell’Agnello “. La Chiesa ospita la delegazione cittadina dei Cavalieri del Sovrano Ordine di Malta ( o Ordine Militare e Ospitaliero di San Giovanni di Gerusalemme- SMOM-).

 

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Ad unica navata l’oratorio, nelle cui panchine siedono, secondo un preciso ordine, i confrati ed i novizi da un lato e le dame e le oblate dall’altro. Il Governatore pro-tempore siede al centro- tra il primo ed il secondo assistente. Le Casate che facevano parte della Confraternita prima del grande terremoto erano circa 60, oggi ne rimangono solo 17,perché molte scomparse sotto le rovine. Alcuni anni addietro e per diversi anni la Confraternita ha sentito la responsabilità di riaprire questa sede, per assistere le famiglie ed i ragazzi del quartiere- attraverso la distribuzione di derrate alimentari, in convenzione con il Banco Alimentare e la loro tutela sanitaria, in collaborazione con il CISOM, Corpo Italiano Soccorso Ordine di Malta, Cliniche e Professionisti del Settore, previa schedatura degli abbienti aventi diritto. Lo facevamo ogni Sabato, subito dopo il pranzo,con molta discrezione e grazie al minore traffico di auto in circolazione,con i confrati,amici e volontari, sotto le direttive del precedente Governatore Marchese Michele Gravina e quindi con l’attuale, Barone Raffaele Zappalà . La caritatevole attività, che sentivamo come obbligo e devozione noi tutti, per i motivi esposti in alto, in premessa, venne momentaneamente sospesa ed in atto si attende il giusto ripristino per i bisogni del circondario.

All’esterno due lesène di marmo bianco affiancano due finestre rettangolari. Al centro è posto un nicchione vuoto e chiuso da due colonnine e da una balaustrata. Il vestibolo, molto elegante, è impreziosito da un pianerottolo e da un doppio scalone di marmo rosso. Sulle pareti sono affisse alcune tele raffiguranti i Governatori dell’Arciconfraternita, alcuni dei quali sono dovuti alla maestria del pittore catanese Alessandro Abate. All’interno,lungo le pareti, senza dipinti, sono poste due file di panche e sotto i finestroni si alternano otto bassorilievi, entro cornicioni grigio-oro raffiguranti: la Pace, la Temperanza, la Speranza e la Fede a destra; mentre a sinistra si notano la Carità, la Giustizia, la Fortezza e la Misericordia. Un piccolo altarino in marmo ospita il simulacro, grazioso, della Vergine Addolorata.

Dello stesso maestro pittore catanese Abate, domina sulla volta l’affresco policromo dell’ “Apoteosi di San Martino” e la scena dei 24 vegliardi che adorano il Vivente profetizzato da S.Giovanni nell’Apocalisse, posta sulla lunetta dell’abside quadrata. Si legge il motto dei Bianchi sull’Arco, fermato al centro da uno scudo dorato. In marmi pregiati si staglia il simulacro imponente del SS.Crocifisso, posto sull’Altare maggiore.

C’è tutta una storia dunque da ammirare per poter meditare sullo spirito della Confraternita dei Bianchi, nata nel periodo della Controriforma, quando la Sicilia era parte dell’Impero Spagnolo degli Asburgo. Ne vale davvero la pena sollecitare gli Enti ed i Preposti per la riapertura della struttura e Vediamo un po’ se ce la faremo a potere offrire al visitatore tali preziosità. L’ideale potrebbe essere rappresentato dalle prossime imminenti funzioni religiose del periodo pasquale che per molti anni -cronista compreso- poterono ammirare il Giovedi Santo -durante la Visita agli Altari della Reposizione. Ci speriamo in tanti.

 

Piero Privitera

 

 

 

Dal libro "Osservazioni sopra la Storia di Catania cavate dalla Storia generale di Sicilia "scritto dal Cavaliere Vincenzo Cordaro Clarenza (Catania 1793-1860)e pubblicato nel 1855 per il vescovo Riggio

È considerato un capolavoro neoclassico e la sua collocazione in un cortile settecentesco dinanzi all'ingresso del Palazzo impreziosito da colonne in stile ionico ,rende la fontana ancor più spettacolare.

È carismatica e chiunque passi davanti al Palazzo nobiliare trovando il portone aperto,non può fare a meno di entrare in cortile come se fosse attratto da una sorta di magnetismo. ..in punta di piedi chiunque entra e resta a bocca aperta ad ammirare l'opera che regna sovrana al centro del cortile ...seppur non funzionante ....ogni volta rimango stupita di trovare turisti e curiosi a far foto e giusto ieri un gruppo di inglesi urlavano "It's beautiful. ..very very beautiful "e ovviamente il mio cuore gioisce di orgoglio. ...

La Fontana settecentesca è la perla dello storico Palazzo Bruca ,ex residenza dei principi Scammacca della Bruca ,edificio costruito ai primi del '700 a circa 200 metri da piazza Duomo ed oggi privato e suddiviso in tante famiglie e sede anche di un B&B

Il soggetto rappresentato è Nettuno anche se le solite voci di popolo catanese credono sia il poeta Micio Tempio ...leggenda senza nessun fondamento e forse dovuta ad una vaga somiglianza e alla nudità. ......

 Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

LA PRIMA FONTANA REALIZZATA A CATANIA DOPO IL TERREMOTO DEL 1693

Opera di Antonino Amato,fu progettata per il cortile di palazzo Bruca in via Vittorio Emanuele

(Articolo di Salvatore Maria Calogero, ingegnere e studioso del recupero di edifici storici e monumentali in ambienti sismici)

 

-Fra il 1695 e il 1696 il Senato di Catania concedette ai Benedettini <<un pezzo di terreno fuori le mura di questa città >>,compreso fra la Porta del Re e il Bastione degli Infetti (oggi via Bambino),con l'obbligo da parte dei monaci di lasciare fruibile una strada della larghezza di 8 canne(oggi via Plebiscito) <<per servigio del publico e della festa di Sant'Agata >>,con l'impegno altresì <<che venendo l'acqua della licatia al monasterio sia tenuto il nostro monasterio darcene denari sette d'acqua per servizio del publico >>,dovendo <<erigere ne' luoghi publici di questa nuova reedificata città molte fontane, non solo per renderla abbellita con sì dilettevole invenzione, ma pure per renderla feconda d'acqua corrente in tutte le parti>>.

Quindi dopo il terremoto del 1693,oltre ai provvedimenti di Protezione Civile volti a evitare altre vittime per mezzo di strade larghe da quattro a otto canne,edifici non troppo alti e piazze più ampie,il piano di ricostruzione previde l'inserimento di fontane per "ornato e pubblico decoro"della città.

I senatori riuscirono a realizzarne solo due:quella dell'Elefante in piazza Duomo (1736)e quella della Dea Cerere in piazza Università (1757),quest'ultima poi spostata in piazza Cavour al Borgo alla fine del '700.

Negli Atti del notaio Vincenzo Arcidiacono, conservati nell'Archivio di Stato di Catania, si trova quello di "Staglio"stipulato il 22 novembre 1711 con cui lo scultore messinese Antonino Amato si impegnò con don Arcaloro Scammacca e Perna, Barone della Bruca e Cruscunà ,a <<farci una fontana di marmo bianco di Genova uguale detto marmo a quello marmo delle colonne del Claustro del monasterio di S.Nicolò la Rina quale fontana si deve collocare nel mezzo del Baglio del tenimento di Case di detto Sig. Barone sopra il quale l'istesso scalone copiato e tiene detto d'Amato stagliante>>.

 

La statua di Nettuno, priva del forcone tridente. Una leggenda metropolitana catanese vuole che la statua simboleggi le virtù sessuali di Micio Tempio, che le cronache descrivevano superdotato e "prostituto" della nobiltà femminile catanese. Quindi, secondo i catanesi più spiritosi, il Dio sarebbe il famoso poeta che dice "cu stu ...zzu, mi fici n'palazzu!". In effetti, Tempio era molto povero e non possedeva nemmeno una casa. Viveva di sussidio comunale.

 

Il riferimento al chiostro del monastero dei Benedettini non è casuale in quanto fu lo stesso scultore a realizzarlo entro il 1711,su progetto dell'architetto Giovan Battista Contini redatto nel 1704,rimontando le 52 colonne in marmo del vecchio chiostro di ponente crollato con il terremoto del 1693,progettato a sua volta ai primi del '600 dal regio ingegnere Giulio Lasso, lo stesso che progettò i famosi "Quattro Canti" di Palermo. Oltre al materiale da utilizzare, nel contratto si legge che:<<sotto li 4 cavalli marini e sotto la figura del Nettuno,l'iscaloni di fuori e le basi seu zoccolo....devono essere di pietra di Taormina bianca uguale a quella pietra dello scalone della fontana di detto monasterio >>,inoltre, <<quale figura di Nettuno cavalli marini ed altri devono essere a proporzione di detta fontana e come richiede l'arte>>.

Quindi i disegni della fontana e delle sculture in essa contenute, soprattutto la statua di Nettuno e i cavalli marini, furono ideati dallo scultore messinese, che si impegnò a <<mettere detto marmo e pietra detto di Amato stagliante, con doverla spedire e consegnare di tutto punto a detto Barone nello suddetto baglio per tutti il mese di Luglio prossimo venturo 1712:dovendo poi assettare detto di Amato quando si colloca detta fontana e farci tutto quello sarà necessario e questo con essere bene e magistrevolmente fatto come richiede l'arte d'ottimo perito e maestro >>.

Il palazzo Bruca, che occupa l'isolato delimitato dalle vie V.Emanuele ,S.Martino,Garibaldi, della Lettera ed è posto in un angolo di piazza Mazzini, fu uno dei primi a essere costruito dopo il 1693 e venne preso come modello nelle decorazioni lapidee realizzate dai "lapidum incisores "durante la ricostruzione di Catania. Don Arcaloro Scammacca, barone della Bruca e Crusciunà,faceva parte dell'aristocrazia catanese e aveva ricoperto la carica di Capitano di Giustizia e Patrizio della città. Si tramanda che, avvertito dell'imminente terremoto da una popolana, la sera dell'11 gennaio del 1693 andò a dormire nella sua casa "baraccata"nella contrada del Borgo, riuscendo così a salvarsi con la famiglia. Tale evento fu ricordato in un quadro che lo raffigura con un orologio che segna l'ora del sisma.

Ma chi era Antonino Amato, e quale ruolo ebbe nella ricostruzione dopo l'evento sismico della fine del Seicento?Il primo a scoprire la sua attività a Catania fu Francesco Fichera, che riscontrando il suo nome in molti contratti notarili lo definì "indiavolato ".Egli ebbe la possibilità di lavorare, tra il '600 e il '700,per conto dei più importanti architetti operanti all'epoca in Sicilia. Ad esempio, solo per citare i più importanti, per don Carlos De Grunembergh (definito dai contemporanei il più importante ingegnere d'Europa)nel 1679 realizzò,insieme al cognato Domenico Biundo,una delle porte della cittadella di Messina;nel 1697,su disegno dell'architetto gesuita Angelo Italia, eseguì le decorazioni e le sculture in pietra bianca nel prospetto della chiesa Collegiata di Catania (di questo prospetto non esiste più nulla perché nel 1769 l'architetto Stefano Ittar realizzò al suo posto l'attuale prospetto-campanile).Nel 1703 intervenne nel più importante cantiere catanese, quello del monastero di S.Nicolò l'Arena (progettato nel 1686 e modificato nel 1704,insieme al grandioso Tempio,dall'architetto Giovan Battista Contini, principe dell'Accademia romana di San Luca e allievo di Gian Lorenzo Bernini),nel quale Antonino Amato, svolgendo il ruolo di architetto, disegnò e poi eseguì le decorazioni lapidee dei prospetti sud ed est.

Altri suoi interventi sono documentati nel palazzo del principe Biscari alla marina e in diversi monumenti in marmo "commesso"presenti in numerose chiese in Sicilia e Calabria, tra cui la cattedrale di Catania.

Tra gli atti del notaio Vincenzo Arcidiacono senior del 20 marzo 1710 si trova inoltre il contratto di <<Staleum>>fra il <<Rev. do Sac.te don Nunzio Nicolosi >>e <<magister Antonino de Amato>>,con cui quest'ultimo si impegnò a <<farci ed intagliarci una porta di pietra bianca uguale a quella del venerabile convento di San Domenico fuori le mura di questa suddetta città (di Catania)che guarda al ponente>>.

Il portale fu realizzato nella chiesa di Maria SS.delle Grazie nel Piano di Tremestieri, apportando delle modifiche al modello di riferimento e inserendo un <<fenestrone>>con la statua di Santa Maria delle Grazie e,sopra le paraste del portale, le statue dei santi Pietro e Paolo, anch'esse in pietra bianca. Pertanto l'autore della prima fontana realizzata a Catania dopo il 1693,con la statua di Nettuno inserita nel "baglio"di palazzo Bruca, fu uno dei protagonisti indiscussi della ricostruzione post-sismica della città, capostipite di una schiera di "lapidum incisores "e architetti che operarono nella Sicilia orientale nel corso del '700 ,fra i quali i figli Andrea e Tommaso, il nipote acquisito Francesco Battaglia e la famiglia di quest'ultimo, di cui fecero parte anche Stefano Ittar, Carmelo Battaglia Sant'Angelo e Antonino Battaglia Amato.

(Di Salvatore Maria Calogero)

Grazie a Milena Palermo di Obiettivo Catania Facebook

 

 

 

SANTA MARIA DELLE GRAZIE

Nel 1231 Federico II di Svevia era giunto in Sicilia per assoggettarla. Molte città si ammutinarono e Catania fu tra queste. Federico II furente ne ordinò la distruzione, ma i catanesi ottennero che, prima dell'esecuzione di quello sterminio, in cattedrale venisse celebrata l'ultima messa, alla quale presenziò lo stesso Federico II. Fu durante quella funzione che il re svevo, sulle pagine del suo breviario, lesse una frase, comparsa miracolosamente, che gli suonò come un pericoloso avvertimento: Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est.

Immediatamente abbandonò il progetto di distruzione, revocò l'editto e si accontentò soltanto che il popolo passasse sotto due spade incrociate, pendenti da un arco eretto in mezzo alla città. A Federico bastò un atto di sottomissione e lasciò incolumi i cittadini e Catania, salvata per l'intercessione della Madonna delle Grazie e di Sant'Agata.

La città ricorda questo evento con un bassorilievo di marmo che si trova oggi all'ingresso del Palazzo comunale e raffigura Agata, seduta su un trono come una vera regina, che calpesta il volto barbuto di Federico II di Svevia.

L’attuale cappelletta di S. Maria delle Grazie a Catania (ononima via, in Catania), fu costruita sui ruderi di quella che Federico volle costruire per rispetto alla Madonna delle Grazie per celebrare il suddetto evento (siamo a pochi passi dal suo Castello Ursino).

Federico II, pur concedendo la grazia, volle ugualmente punire la popolazione catanese. Fece costruire nel centro della città una stretta e bassa porta in muratura; su di essa vennero appese due spade incrociate e si impose a tutti i cittadini di sfilare fra due schiere di soldati come atto di sottomissione e di obbedienza all'imperatore. Quella porta prese il nome di Porta di mezzo .

Il luogo dove sorge il santuario della Madonna delle Grazie, non era altro che la volta della Porta di mezzo fatta erigere da Federico II. Poco dopo fece erigere un'icona in onore della Vergine Maria, chiamata Madonna della Vota.

L'antica edicola venne più volte rifatta nei secoli. Nel 1848 venne posto un quadro della Madonna delle Grazie, opera del pittore sac. Antonio Gramignani. Venne restaurata nel 1892 dall'achitetto Carmelo Sciuto Patti con nuovo altare e con prospetto in marmo bianco di Carrara. Il 4 luglio 1926 venne murata una lapide dettata dal prof. Vincenzo Casagrande del seguente tenore: Nella fausta ricorrenza dell'VIII centenario della traslazione di S. Agata — il Popolo Catanese - con memore gratitudine - alla Santa Patrona liberatrice - in questo pietoso sacello - sacro alla Madonna delle Grazie - che ricorda da VII secoli - la liberazione dell'eccidio della città - ordinato da Federico II Imperatore - ma divinamente impedito - dal minaccioso comando della Vergine Cittadina - non offendere la Patria di Agata -per eternare nel marmo - il ricordo del patriottico avvenimento - questa lapide pose.

 da "Catania - Dal Quaternario al terremoto del 1693" - Giovanni Merode e Vincenzo Pavone - Edizioni Greco CT - 1993

 

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PORTALE PER L'EDICOLA DI SANTA MARIA DELLE GRAZIE (1903-1905)

- La Cappella della Madonna delle Grazie è inglobata in un edificio novecentesco sito nell'omonima via, nell'area in cui sorgeva una preesistente edicola risalente al 1232,in prossimità della Porta di Mezzo,una delle numerose porte della cinta muraria medievale di Catania.

La leggenda narra che quando l'imperatore Federico II di Svevia iniziò la sottomissione della città di Catania questa insorse ed i capipopolo che rifiutarono la sottomissione si rifugiarono nel Duomo, dove furono raggiunti dal Sovrano che pur avendoli condannati a morte concesse loro di partecipare ad un'ultima celebrazione della messa. Nell'occasione,nel libro delle preghiere, al Sovano apparve la scritta:<<Noli offendere la Patria di Agata perché è vendicatrice delle ingiurie >>.Il miracoloso evento si ripetè per ben tre volte, inducendo l'imperatore a desistere dall'attuare le sanguinose e devastanti ritorsioni minacciate,limitandosi ad imporre ai capipopolo la pubblica gogna dell'attraversamento sottomissivo della Porta di Mezzo.

A perenne memoria della grazia ricevuta,i catanesi costruirono l'edicola intitolata alla Madonna delle Grazie ed a Sant'Agata, ma conosciuta anche come MADONNA DELLA VOLTA, con esplicito riferimento all'adiacente porta voltata,detta Porta di Mezzo che, resistendo al devastante terremoto del 1693,protesse l'architetto Alonzo di Benedetto,che ivi aveva cercato rifugio, e che fu artefice della ricostruzione urbana post-sismica.

L' antica edicola e le immagini sacre ivi contenute andarono distrutte .Successivamente al 1693 ,fu ricostruita l'attuale edicola ad una quota superiore rispetto a quella preesistente, della quale tuttavia permangono i resti del Sacello e,nella stanzetta limitrofa, quelli d'una colonna medievale.

L' attuale Santuario consta di una minuscola navata con copertura voltata, e di un vano sulla sinistra dell'ingresso, in cui una lapide muraria commemora il miracolo dello scampato eccidio.

Nella seconda metà dell'Ottocento, su una lastra d'ardesia ,il sac.Francesco Gramignani dipinse un'icona di Maria SS.delle Grazie col Bambino, che campeggia nell'altare dell'odierna cappella. Il quadro della Madonna è veneratissimo nell'intera Arcidiocesi ed è stato oggetto delle peregrinatio Mariae .

Nel 1892 Carmelo Sciuto Patti descriveva l'edicola di Santa Maria delle Grazie come <<uno fra i più cari e venerati Santuari della Madonna a Catania.

Il progetto per il prospetto, probabilmente fu reso necessario a causa dell'aggressione edilizia delle costruzioni adiacenti. Il portale, di gusto eclettico con richiami rinascimentali, fu progettato nel 1903 da Salvatore Sciuto Patti, utilizzando un'apertura a serliana caratterizzata da una incorniciatura costituita da due paraste aggettanti e da una ricca trabeazione. In corrispondenza dei risalti delle paraste nella parte sommitale due fregi ad omega racchiudono altrettanti cherubini in bassorilievo. Al centro dell'architrave ,nella zona del fregio, campeggia una lapide che reca incisa la scritta Mater Gratiae.

Il progetto dello Sciuto Patti viene arricchito da una elegante cancellata in ferro battuto con motivi curvilinei fitomorfici .

L' insieme delle volute proietta un effetto merlettato che nella versione realizzata viene replicato anche nelle aperture laterali. I fianchi dell'arco sono decorati da geni festanti che sostituiscono gli angeli in preghiera previsti nel progetto. Il portale viene realizzato nel 1905 ,come ricorda l'iscrizione posta nell'intradosso del concio di chiave dell'arco:"ING.S.SCIUTO PATTI ARCHITETTO/SALV.GRIMALDI SCULTORE/1905"

 (Matteo Di Stefano da "Archivi di architettura tra 800 e 900")

 

 

 

 

 

 

Catania vista da Palazzu Stidda, il progetto di Giovanni Girbino

Palazzo Stella e vicolo della Lanterna, adiacente al Vico Castro  http://www.palazzu-stidda.com/reception.html

Artista catanese di terza generazione, figlio di un maestro scultore, nipote di un futurista, autore del bozzetto di una scultura per Lady Diana e Dodi Al Fayed al Ritz, dieci anni fa Giovanni Girbino avviava in un quartiere scomodo di Catania un progetto di vita a tutto tondo.

di Lucia Russo - 14 Marzo 2011

 

Giovanni Girbino e la sua compagna francese Patrizia hanno pensato di rinominare in dialetto le origini proprietarie del palazzo ottocentesco: Palazzu Stidda

Le valigie in cerca di lavoro, lui, non le ha fatte. Piuttosto, le ha disfatte in seguito a quei giri che dopo la maturità classica lo avevano portato fin in Senegal e a Parigi. Il mestiere lo aveva appreso fin da piccolissimo, alla bottega del padre Domenico, un apprezzato maestro scultore autore di tante opere decorative di piazze, chiese e cattedrali della provincia di Catania.

La porta laterale del Duomo di Taormina, ad esempio, l’ha forgiata proprio Giovanni, insieme a suo papà, artefice di quella centrale. Anche il bozzetto della testa di lady Diana e Dodi Al Fayed, per il Ritz di Parigi, esce dalla mano di questo trentottenne catanese, anni prima di virare inaspettatamente sulla sua città.

Da passanti, il primo sobbalzo all’attenzione lo suscita un reticolo di piccoli fiori bianchi e tralci sottili, steso sull’intera facciata dello stabile angolato tra via Auteri e il Vicolo della Lanterna, in un quartiere storico della vecchia Marina. Sembra essere cresciuto da chissà quanti anni, e invece, quel rampicante venuto su così rigoglioso come per mano di un abilissimo giardiniere, sapremo dopo che ha appena sette anni di vita. Un falso centenario, che chiameremmo d’autore, perché chi l’ha piantato insinuandolo tra le basole laviche del marciapiede, è uno scultore. Il nome affisso alla porta ci sorprende. Giovanni Girbino e la sua compagna francese Patrizia hanno pensato di rinominare in dialetto le origini proprietarie del palazzo ottocentesco: Palazzu Stidda (Palazzo Stella). Legalmente, è il marchio depositato per la struttura di ricezione turistica di loro creazione. Nei propositi, molto di più.

La singolarità, prerogativa degli artisti, nella vita raccolta attorno a questo palazzo, si manifesta in varie forme. Originalità di scelte estetiche, di vita, di senso civico, d’impegno e amore per la propria terra. Una passione tenace, a prova di botte e conseguente coma, fortunatamente superato e lasciato alle spalle o almeno sulla cronaca che il 5 ottobre 2010 registrò l’aggressione a Giovanni, scultore trapiantato nel quartiere storico e popolano del Castello Ursino di Catania dopo avere acquistato e recuperato nel 2001 un antico stabile degradato quasi come al tempo era la zona. L’hanno malmenato perché ha cercato di evitare lo scippo a due turisti. Ma proprio di brutto! Solo l’intervento di un vicino di casa l’ha sottratto ai colpi in testa che stavano per fermare il suo respiro. Nel 2010, il premio di Cittadino Esemplare conferitogli dall’ex sindaco Enzo Bianco, ma non è da lui che apprendiamo la notizia, quanto dalla stampa.

Quando comprò l’edificio a fianco del quale sorse poi Palazzu Stidda, Giovanni rientrava nella sua città dalla permanenza di un anno a Noto (SR). Ma, per quanto catanese e figlio d’arte da generazioni, questo giovane aveva la pecca di non essere del quartiere. Cresciuto in un altro angolo urbano, che guarda più all’Etna che non al mare, per quelli di qui, era uno che veniva da fuori. A un passo dal Duomo, dalla rinomata e folcloristica pescheria, dalle vie Garibaldi e Vittorio Emanuele con i loro palazzi settecenteschi, dal Teatro Romano, come dal trecentesco Castello Ursino.

Vicinissimi al porto, sostituto moderno dell’antica marina, dove la città ha visto nascere uno dei suoi primi aggregati urbani, e il tessuto umano tiene le sue maglie fitte attorno ai nativi. Il Comune è immobile e squattrinato da alcuni anni, ma pur senza una regia pubblica, in città c’è un rigoglio di privati, piccoli e medi, che promuovono l’arte e l’architettura proprio nei quartieri più antichi, prima inaccessibili, quasi 'proibiti' a chi veniva da fuori, come Giovanni.

Insieme a un mastro e un pittore, e alla sua compagna, creatrice di decori per bambini, lui ha ristrutturato prima la casa acquistata come abitazione e poi, lo stabile attiguo, divenuto nel 2008 un apparthotel.

“Lo abbiamo pensato come base ideale di turisti che vogliono davvero scoprire e visitare agevolmente le bellezze della città, non di sfuggita o dal bus stile Londra che il Comune ha approntato. Le guide turistiche, specie quelle internazionali, definiscono Catania come un sito di passaggio. Ma i professionisti e gli stranieri che qui ospitiamo sono unanimi nel definirla invece un museo a cielo aperto, la cui visita richiede giorni. E questo, è un punto ottimale di osservazione e di facile esplorazione a piedi”. Così ci dice Giovanni, quando lo intervistiamo per sapere dei dettagli della sua impresa.

 Perché, gli chiediamo, sei venuto a vivere e investire qui tutto quello che avevi?

In realtà, io volevo andare a vivere in campagna. Passavo per caso, e la visione di questo palazzo mi ha rapito. Con Patrizia, ho deciso di cambiare programma e la nostra vita ha preso tutto un altro corso.

A quando risalgono gli stabili e com’erano quando li hai acquistati?

Rispettivamente al Settecento il primo e Ottocento il secondo. Ho dovuto smantellare e rifare tutto. In questi anni, ho lavorato solo su questo.

Mentre giriamo tra i locali di Palazzu Stidda, lo scopriamo come un regno dell’eco-design. Quello che non acquista nulla e reinventa ogni cosa. La strada, la spiaggia, i rifiuti del quartiere o di altre parti della città sono le fonti delle materie prime utilizzate. Travi, arredi della scuola, mobili dismessi, riutilizzati e assemblati a nuova vita, dai chiodi, ai vetri, al legno, alle lavagne. Non trapelano orientamenti architettonici o stilistici.

Solo l’inventiva, l’aderenza alla natura dei materiali, un valore estetico e funzionale dato alle cose più povere dal gusto e l’ingegno di due giovani, e su tutto, un tono delicato che si stende insieme alla luminosità delle stanze. Scorgiamo però un rimando letterario. Mirate sempre alla Luna... anche se la mancate, atterrerete tra le stelle. La frase, di Les Brown, Giovanni e Patrizia l’hanno scelta e affissa su un muro, come motto della casa.

Quali ostacoli hai incontrato in quest’attività da artista-artigiano ormai decennale?

A parte l’aspetto edile, abituare i vicini ad alcune regole di civiltà e rispetto che ritengo facili da mettere in pratica. Io ho piantato dei gelsomini in strada a fronte dello scetticismo generale dei vicini. Vedi il risultato? Il verde ha cambiato un angolo di strada.

Quanto è stato impegnativo tutto questo… e ci campi?

Diciamo, che alla fine il messaggio è arrivato. Per il resto, recupero le spese.

Sei stato da poco premiato da Compro siciliano insieme ad altri giovani imprenditori della città, anche per la scelta di restare, anziché cercare fortuna altrove. Nel tuo caso, è d’obbligo parlare di coraggio!

Per me, l’aggressione è una storia passata. Sono qui perché ho fiducia. Vedo già dei cambiamenti nella città e nel quartiere, più sicuro e vivibile.

Tu nasci scultore, ma a Palazzu Stidda hai sviluppato più di un’arte. Cos’è per te, essere artista?

L’artista per me, più che dare forma al malessere dell’esistenza, deve creare bellezza, nelle cose, sul territorio, fra la gente, nella vita, propria e altrui.

Qual è il tuo rapporto con la gente della zona?

Ormai Patrizia ed io siamo stati accolti e accettati. Noi vorremmo aprirci ancor più, in parte già lo facciamo, agli altri. Ci piacerebbe fare un laboratorio artistico per i bambini, avanzare delle proposte turistiche che valorizzino il costume locale, privandolo alla clandestinità.

Un esempio concreto?

Le corse dei cavalli. Qui c’è una grande tradizione di allevamento. Questa gente cura i cavalli come figli. Perché non istituire un palio regolarizzato dal comune, o un servizio di visite turistiche in calesse?

Se qualcuno accogliesse la vostra proposta e volesse mettersi in contatto con voi per realizzare questa o un’altra idea, sareste disposti a fare rete?

Certo! Credo che nessuno, mai, realizzi qualcosa di veramente valido senza il concorso di altri.

 http://www.ilcambiamento.it/persone/giovanni_girbino_palazzu_stidda_catania.html

nella foto sopra, vico Castro

 

 

 

 

 Il palazzo Auteri Perrotta è un palazzo privato, situato nel centro storico di Catania, tra le terme dell'Indirizzo e il castello Ursino. Fu costruito nel XVIII secolo per volere di Michele Auteri, ricco produttore e commerciante di seta. Dell'edificio si vedono già delle tracce nella mappa catastale dell'Orlando, risalente al 1761.
Nel 1826 Michele Auteri era proprietario di una delle seterie più importanti d’Italia[senza fonte], con sede proprio nel Palazzo Auteri, dove curava la produzione dei bachi e la lavorazione della seta.
La seteria fu in seguito ereditata dal figlio Giuseppe Auteri Fragalà, per poi diventare, nel 1841, proprietà dei fratelli Benedetto, Francesco, Vincenzo e Salvatore, figli di Giuseppe.
Nella seconda metà del XIX secolo, l’architetto Carmelo Sciuto Patti, sposatosi nel 1861 con Maddalena Auteri Berretta di Paola, ricevette l’incarico da Salvatore Auteri, nonno di Maddalena, della ristrutturazione del palazzo. La perizia, datata 1851-1865, venne realizzata dall'architetto stesso. In quell'occasione venne ricomposto il portale d’ingresso, opera del maestro scalpellino di Acireale, Brusà.
Nel cortile interno di uno degli appartamenti fu ricavata una feritoia nel muro che serviva a tenere d’occhio le scale e a sparare ad eventuali nemici. Dietro la feritoia vi era una stanza segreta che collegava l'appartamento del barone con l'appartamento del piano inferiore. Si apriva un armadio, si sollevava una botola che fungeva da finto pavimento, giungendo alla stanza segreta del piano di sotto. In questa stanza venivano nascoste persone e preziosi, specialmente nel periodo dello sbarco dei Mille al comando di Garibaldi (1860).
Durante la Seconda guerra mondiale il palazzo rimase quasi vuoto. L’unica persona che vi alloggiava fu la cameriera, Agata Torrisi, inserita nello stato di famiglia della famiglia Auteri. Si pensava che, essendo vicino al porto, l'edificio avrebbe potuto essere bombardato o danneggiato, come d'altronde sarebbe accaduto per molti palazzi dell’epoca.
Vi era inoltre un pozzo, dal quale si attingeva l’acqua dal fiume Amenano, utile soprattutto alla seteria. Le scale interne erano di granito. Al terzo piano era un cancello terminante con delle punte, a protezione delle famiglie che vi abitavano. Le famiglie Perrotta e Auteri, sia per motivi di sicurezza che per evitare le esalazioni provenienti dalla fabbrica di seta del piano terreno, non abitavano il secondo piano, notoriamente definito il “piano nobile”. La scala degli Auteri venne costruita in un secondo momento, insieme all’ammezzato del quarto piano.
L'edificio si colloca nell'area di un antico insediamento greco-romano. Nei suoi dintorni sono infatti presenti innumerevoli ruderi, attribuibili a diversi periodi storici: dall’insediamento della colonia calcidese nell'VIII secolo a.C. fino al tardo periodo romano, conclusosi nel V secolo d.C.
P.S. La foto rappresenta soltanto una delle vecchie abitazioni di Via Auteri, strada catanese intitolata all’omonimo Palazzo.

 

 

 

 

 

Una traversa di Via Garibaldi, la via Auteri conduce a sinistra al Castello Ursino, il "segno" per eccellenza del passaggio in città dell'imperatore Federico II di Svevia; gli spazi interni, semplici e razionali come tutta l'architettura sveva, fanno da cornice al Museo civico, ricca collezione che dall'epoca romana si spinge sino al Settecento.

Fu eretto nel 1239, per volontà di Federico II, dall'architetto Riccardo da Lentini. Esso faceva parte di un insieme di fortificazioni a difesa della Sicilia orientale. Fu poi sede parlamentare e residenza dei re angioini ed aragonesi sino al XV secolo. In seguito, dai Vicerè che vi dimorarono, fu parzialmente trasformato in carcere. Tale rimase anche con i Borboni e il governo italiano fino al XIX secolo. Fu restaurato nel 1934.

A pianta quadrata, con torri cilindriche angolari e torri semicilindriche a metà dei lati e circondato da un fossato. Porterebbe il nome di un console romano (Arsinius), oppure quello della famiglia romana degli Orsini, rifugiatasi qui nel Medioevo dopo essere stata cacciata da Roma per essersi schierata dalla parte dei Ghibellini (sostenitori dell'imperatore).

Altre fonti dicono che venne denominato Castrum Sinus (Castello della spiaggia per via dell’allora sua vicinanza al mare), che per corruzione dialettale divenne Castrussìnu, e quindi "Castello Ursino".

APPROFONDISCI SUL CASTELLO URSINO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si passò quindi alle rifiniture, ricostruendo finestre arbitrariamente trasformate in balconcini, ricomponendo pezzo per pezzo le linee ogivali delle porte, ripristinando i conci di pietra mancanti, reali zzando intonaci armonizzanti con la patina del tempo, adattando gli ambienti alla funzione di museo, sistemando, infine, l'esterno con il ripristino del medievale fossato, con la sistemazione della piazza e delle strade di accesso.

In definitiva, un'opera notevole, in tutto degna della dimensione storica del maniero, voluto sette secoli prima dal grande Federico, e realizzato a tamburo battente su disegno dell'architetto militare Riccardo da Lentini.

La storia del Castello fu compiutamente delineata da Federico De Roberto che, negli ultimi anni di vita, «posò gli occhi irrequieti sulle mura erte e lisce», contro le quali la lava del 1669 si era rudemente appoggiata come alla parete di una montagna.

Pur dubitando dell'affermazione secondo la quale vi ebbe a soggiornare l'artefice del maniero stesso — rileva il De Roberto  — è storicamente accertato che per oltre un secolo l'edificio tu ad un tempo fortilizio e reggia, sede della Corte, del Governo, del Parlamento. «i Qui pose la sua residenza Carlo D'Angiò: qui , dopo la guerra del Vespro, fermò il suo volo e formò il suo nido l'aquila aragonese. I Re di quella stirpe vivevano e regnavano nel castello catanese, rendevano giustizia nel suo gran cortile, ricevevano nella gran sala dei Parlamenti, pregavano nella cappella di San Giorgio.

 

 

In una di queste sale, la regina Iolanda partorì il principe Luigi, che fu Re di Napoli, e la regina Elisabetta i due principi Ludovico e Federico...»

Ma la gloria del Castello non consiste soltanto nell'avere accolto i primi va giti regali. Le sue sale conobbero avvenimenti politicamente e socialmente significativi come le riunioni dei Parlamenti in generale, la firma del trattato di pace fra il reggente Giovanni e la regina Giovanna di Napoli nel 1347. Le sue sale, inoltre, furono testimoni degli inquieti sonni dei viceré, dei rapimenti di regine e di cortigiane, del doloroso invecchiare dei prigionieri politici.

Questo passato carico di nomi. di date, di eventi ebbe un rude epilogo nel 1831, quando Ì Borboni cancellarono il Castello dal ruolo dei fortilizi e lo spogliarono dei cannoni, delle bandiere, dei privilegi fin allora goduti. Poi, il Comune di Catania le pensò tutte per definitivamente affogarlo nella palude della più mortificante indifferenza.

Nel 1860, il Castello fu destinato a caserma...; "ma la retrocessione non fu accettata da Federico De Roberto, abituato a leggere nel monumenti di Catania con l'abilità e l'emozione di chi sa leggere una lettera attraverso una busta chiusa.

Fu De Roberto a proporre per primo il restauro del Castello e il trasferimento del museo biscariano in quella sede, e Guido Libertini, Vincenzo Finocchiaro e Francesco Fichera Io appoggiarono nella proposta che sembrava irrealizzabile, Infine, sotto la spinta della Società di Storia Patria furono abbattute le ultime remore frapposte dalla burocrazia militare, e i sospirati lavori di restauro potevano cosi essere avviati.

Volgeva il 1932.

 

da  “CATANIA ANNI TRENTA”  Lucio Sciacca - Cavallotto Edizioni www.cataniaperte.com

 

Nel cuore della parte vecchia della città, a sud delle mura di Carlo V, nella strada (via San Calogero) che collega via Zurria con piazza Federico di Svevia, si apre il cortile Gammazita con i resti del pozzo nel quale si lanciò a capofitto.

La leggenda narra di una fanciulla catanese di nome Gammazita, bellissima e di grande virtù. Di lei si invaghì un soldato francese, le cui avances furono però disprezzate dalla giovane, che era già fidanzata. Proprio nel giorno del suo matrimonio, mentre Gammazita si recava come sempre a prendere l’acqua, il soldato la aggredì violentemente e la ragazza, vistasi preclusa ogni via di scampo, preferì gettarsi nel vicino pozzo piuttosto che cedere al disonore.
Versioni successive arricchiscono il racconto, romanzandolo e aggiungendo altri personaggi di contorno. In esse si fa preciso riferimento all'anno in cui si sarebbe svolto tale avvenimento, il 1278, e si racconta di donna Macalda Scaletta, bellissima e orgogliosa vedova del signore di Ficara, che attirava la corte di tutti i cavalieri francesi e siciliani. Essa, tuttavia, innamoratissima del suo giovane paggio Giordano, sfuggiva a tutte le proposte amorose. Un giorno però Giordano vide la giovane Gammazita intenta a ricamare dinanzi alla soglia della sua casa e se ne innamorò perdutamente. L'amore dei due giovani destò le ire e la folle gelosia della perfida Macalda, che si accordò con il francese de Saint Victor per tendere loro un tranello: questi avrebbe dovuto far capitolare Gammazita e Macalda sarebbe stata sua.
De Saint Victor fece numerose imboscate, approfittando in particolare delle volte in cui Gammazita si recava ad attingere acqua alla vicina fonte. Un giorno riuscì infine ad afferrare la fanciulla, ma essa si divincolò dalla sua stretta e non vedendo altra via di scampo, per il suo onore preferì gettarsi nel vicino pozzo[3]. Giordano, appreso quanto accaduto, in preda alla disperazione assalì il suo nemico, uccidendolo a pugnalate dinanzi al cadavere dell'amata.
La fine orrenda della fanciulla e la sua virtù destarono in tutti i catanesi profonda commozione e furono sempre citati come esempio del patriottismo e dell'onestà delle donne catanesi, mentre i depositi di ferro che creavano macchie rosse sulle pareti del pozzo furono spiegati tradizionalmente come tracce del sangue di Gammazita.
A questa patetica storia, si affiancano altre leggende che spiegano diversamente l’origine del toponimo "Gammazita". La prima si trova nel panegirico scritto da don Giacomo Gravina in onore del duca di Carpignano, don Francesco Lanario, dal titolo La Gemma zita[4]: in esso si racconta la storia delle nozze fra la ninfa Gemma e il pastore Amaseno (o Amenano). Il dio Plutone (secondo il Gravina, Polifemo) si invaghì della ninfa, scatenando la gelosia di Proserpina, che la trasformò in una fonte. Gli dei, toccati dalla disperazione di Amaseno, trasformarono anch’egli in una fonte: il pozzo sarebbe dunque il luogo in cui si uniscono le acque dei due sfortunati amanti. Secondo questa versione, il nome Gammazita nascerebbe dunque dall’unione delle due parole gemma e zita ("fidanzata", "sposa"), modificate poi dall’uso comune.
Un altro racconto parla di un uomo con una gamba rigida che abitava in una grotta vicino alla fonte, che dunque prenderebbe il nome da questo suo difetto fisico (iamma zita), mentre una terza spiegazione lega il toponimo a due misteriose lettere dell’alfabeto greco, una gamma e una zeta, che sarebbero incise sull’antico muro che fiancheggia la fonte.

Storia del sito

Prima del 1669. La parte della città dove sorge il pozzo nel Medioevo era la sede della Judeca Suttana (il quartiere ebraico, detto anche Judeca di Jusu) ed era piuttosto ricca di attività commerciali, in particolare concerie e macellerie, che sfruttavano le numerose sorgenti d’acqua, forse diramazioni del fiume Amenano che scorre nel sottosuolo catanese e che qui prendeva il nome di Judicello. Le mura in questo tratto costeggiavano i ruderi di antiche fabbriche che prendevano il nome di Muro rotto e vennero identificate dal Bolano quale l'antica naumachia e il circo, segno che in età antica l'area era impegnata da grandi strutture pubbliche monumentali.
In tutte le piante e disegni di Catania, a partire da quella di Michelangelo Azzarelli (1584), la cortina muraria che si congiungeva a gomito con la Porta dei Canali e con il Bastione di Santa Croce, viene chiamato Gammazita e lì sono segnate queste fonti, inizialmente come dei rivoli che si perdevano nel mare.
Nel 1621, don Francesco Lanario, duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, volle risistemare anche la zona della fonte[1]. Le acque di Gammazita furono così imbrigliate e congiunte a quelle dell’Amenano, realizzando una serie di fontane pubbliche che arricchirono e resero più gradevole la passeggiata a mare, anche grazie alla realizzazione di una strada lastricata, munita di panchine.
Dopo il 1669. Questa piacevole sistemazione però ebbe vita breve. L’11 marzo 1669, da una frattura sopra Nicolosi cominciò la più imponente eruzione dell’Etna di epoca storica che abbia raggiunto Catania e, dopo aver distrutto orti e casali, giunse alle mura della città, riuscendo a superarle da nord-ovest, nella zona del Monastero di San Nicolò l'Arena, per poi dirigersi verso il Bastione di San Giorgio a sud.
Il 16 aprile, il fiume lavico circondò il Castello Ursino, colmandone il fossato[6], e invase tutta l’area del quartiere dell’Indirizzo, ricoprendo, nonostante gli sforzi di difesa messi in atto dai catanesi, anche le sorgenti, fra cui quella di Gammazita. La fonte rimase così sepolta sotto uno strato di 14 metri di lava, ma la sua importanza nella vita e nell’economia cittadina fece sì che fin già verso la metà del XVIII secolo fu riportata alla luce. Venne a crearsi così un singolare pozzo artificiale, ricavato nella sciara del 1669 e costituito dalla profonda scarpata delle mura civiche cinquecentesche che terminava sul fondo dove si accumulava una sorgente, ciò che rimaneva delle tre fonti pre-eruzione. Al fondo si giungeva con una pittoresca scalinata ricavata nel Settecento la quale si addossava alle lave e alla cortina muraria.
La riscoperta e la fama della fonte, in quest’età, si devono soprattutto agli intellettuali europei che visitarono Catania nell’ambito del Grand Tour, in particolare Patrick Brydone, l’abate Richard de Saint-Non, Jean Houë, Dominique Vivant Denon. Saint-Non e Houël, in particolare, hanno lasciato anche delle raffigurazioni che testimoniano lo stato del pozzo nel Settecento e il suo aspetto pittoresco e nel pieno della ricerca della fascinazione della decadenza di concezione romantica, che tanto affascinava i viaggiatori stranieri. In tali immagini, soprattutto in quella di Saint-Non, si nota tuttavia una distorsione delle proporzioni, che fanno apparire il pozzo più grande di quanto non sia in realtà, e soprattutto l'inserimento di uomini intenti alla pesca, come se la vasca di raccolta delle acque fosse adibita anche a peschiera. Non sappiamo se questo corrisponda a verità o se sia un elemento aggiunto dall'autore per accentuare il carattere pittoresco del sito.
Fra coloro che visitarono la fonte, merita di essere ricordata la descrizione che ne lascia Charles Didier che, fra i monumenti visitati in città, dice che "fra le più curiose è un frammento delle antiche mura della città interamente coperto di lava: ai piedi di esso una fontana che manda acqua di una freschezza e di una limpidezza che sono degne di Aretusa"
Stato attuale. Il Pozzo di Gammazita si apre in un cortile fra case terrane ottocentesche di via San Calogero, a due passi dal Castello Ursino. L’accesso avviene attraverso una scala di sessantadue gradini che sostituisce quella originaria in pietra lavica e ciottoli, distribuiti in cinque rampe, interrotte da pianerottoli rivestiti di pietra lavica e cotto siciliano, che portano ad un livello di circa 12 metri sotto il livello stradale. Alla base della scala si apre uno stretto spazio, anch’esso pavimentato in cotto siciliano chiuso da un tratto residuo della cortina muraria cinquecentesca: qui scorreva l’acqua sorgiva, in una vasca su cui incombe l’imponente massa lavica.
Altre costruzioni e superfetazioni moderne accerchiano il pozzo, accentuando l'impressione di una profonda voragine scavata nel basalto.
Delle strutture esterne è rimasta ben poca cosa; inoltre il tempo "ha cancellato l'illusione delle macchie di sangue, visibili sul fondo fino a una settantina di anni or sono (fino a quando cioè il fonte non venne inesorabilmente murato): incrostazioni di magnesio di ferro, certamente, che il popolino riteneva autentico sangue, attribuendolo alla fanciulla che vi si lanciò dall'alto per difendere il proprio onore".
Nel 1982 il comune annunziò l'imminente restauro di questo antico monumento e la sua valorizzazione sotto il profilo storico, culturale e turistico: ma fino ad oggi l'iniziativa non è stata realizzata.

Gammazita nell'arte e nella poesia La tragica storia di Gammazita ha dato anche spunto ad una famosa poesia popolare anonima catanese: « Tu di lu cori sì la calamita, La mia palora non si cancia e muta; Ti l'hè juratu e ti saroggiu zzita, Chista mè porta ppi l'autri è chiujuta: Cala li manu si mi voi pi zzita, l'ura di stari 'nzemi 'un è vinuta: si cchiù mi tocchi, comu Gammazita, Mi vidi 'ntra lu puzzu sippilluta.»
Una rappresentazione di questa leggenda si trova in uno dei candelabri bronzei di Piazza Università a Catania, opera di Mimì Maria Lazzaro e D. Tudisco su disegno dell'architetto V. Corsaro (1957).
http://it.wikipedia.org/wiki/Pozzo_di_Gammazita

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/297.jpg

 


Nella Catania Romana, sia nel circo (che si trovava nei pressi del Castello Ursino e poi coperto dalle lave dell'Etna), sia nell'Anfiteatro Romano si svolgevano anche le naumachie, battaglie navali con navi e combattenti all'interno delle arene riempite con l'acqua dell'antico acquedotto catanese.

 

Le naumachie erano simulazioni di battaglie navali svolti in bacini naturali o artificiali allagati per la circostanza, dove si rievocavano famose battaglie storiche. I naumacharii, cioè gli attori combattenti, erano nemici caduti schiavi, o gente assoldata al momento, o marinai pagati o criminali condannati a morte cui veniva risparmiata la vita se dimostravano abilità e coraggio. Questi dovevano guerreggiare indossando le armature del paese rappresentato, incitati alla lotta dai pretoriani. Questi spettacoli erano chiamati navalia proelia, battaglie navali, mentre il termine greco naumachia, generalmente adottato, indicava sia lo spettacolo sia il sito che le ospitava.
Questi spettacoli, ideati a Roma e raramente furono eseguiti altrove, in quanto costosissimi, poiché le navi erano autentiche, e manovravano come vere navi in battaglia, rovinandosi o addirittura affondando.
In origine i giochi erano gestiti dai sacerdoti per questioni di culto e duravano, come le famose corse dei cavalli, solo un giorno. Dai 77 giorni di ludi proclamati ufficiali tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero si arrivò nel quarto secolo a ben 177 giorni all’anno dedicati agli spettacoli.
Le naumachie spesso rproducevano famose battaglie storiche, come quella dei Greci che vinsero i Persiani a Salamina, o quella degli abitanti di Corfù contro la flotta di Corinto. Gli spettacoli erano vari, fantastici e dispendiosi. In una naumachia si costruì una fortezza al centro del bacino che simulava Siracusa, così che gli "Ateniesi" potessero sbarcare ed espugnarla. Si dovevano seguire le fasi della vera battaglia, ed il pubblico si esaltava alle manovre dei soldati e alla vista delle macchine da guerra, tifando per la fazione preferita con urla e invettive, come oggi nei campi di calcio.
L'introduzione di tecnologie nuove inizialmente portò all'incremento delle naumachie. Le prime tre naumachie si tennero a circa 50 anni di distanza; le sei seguenti, la maggior parte delle quali ha avuto luogo in anfiteatri, si tennero a distanza di 30 anni. Delle circa venti rappresentazioni di naumachie nell'arte romana, quasi tutte sono del IV stile pompeiano, all'epoca di Nerone e dei Flavi.
I naumachiarii (combattenti nella naumachia) e non come spesso si crede i gladiatori, salutavano prima della battaglia l'imperatore con una frase famosa: "Ave Caesar, morituri te salutant." Almeno così salutarono l'imperatore Claudio che non desiderando il massacro di tutti fece un cenno di negazione che fu però interpretato come una grazia dal combattimento. Claudio si infuriò, gli uomini combatterono, parecchi morirono, la folla andò in visibilio e tutti i sopravvissuti vennero graziati. Poichè era andata bene la frase venne ripetuta.
L'alternanza tra spettacoli terrestri ed acquatici nello stesso sito stupì non poco i romani, come riferisce Cassio Dione per la naumachia di Nerone; Marziale fa lo stesso parlando di quella di Tito nel Colosseo. Però purtroppo se ne ignorano le modaltà di passaggio da un modo all'altro.

http://www.romanoimpero.com/2010/09/le-naumachie.html

 

Nei pressi dell’attuale Castello Ursino, vicino la Chiesa di San Giuseppe, si trovava un tempo la Naumachia, una imponente opera pubblica della quale oggi non rimane alcuna traccia.

Si trattava di un colossale edificio atto a riprodurre al suo interno le battaglie navali e giochi acquatici; era circondata da un ricco boschetto e conteneva anche una vasca adibita ad acquario. Il lago, largo centoventuno metri e lungo centosettantadue, era incavato nell’argilla e tutto intorno era circondato da numerosi alberi di ginepro e pioppo. I due muri paralleli dell’edificio erano lunghi oltre duecento metri e distanti circa 131 metri l’uno dall’altro; si trattava di una costruzione in puro stile romano, nata per replicare le più importanti battaglie navali dell’impero e ricordare al popolo la grandezza di Roma.

Accanto alla Naumachia sorgeva anche un ippodromo, lungo 1872 piedi, nel quale si svolgevano le corse durante la festa di Bacco. A delimitare il punto di partenza e quello di arrivo erano stati posti due obelischi; uno di questi è possibile ancora oggi ammirarlo in Piazza Duomo, proprio sopra l’elefante che adorna la fontana.

Durante l’eruzione del 1669, le ultime tracce di queste colossali opere, rimasero per sempre sepolte sotto l’imponente colata lavica.

 Dalla rubrica a cura di Zaira La Paglia

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NAUMACHIA

- L' illustre Naumachia era attigua all'unico ippodromo ed è degno di fede il fatto che senza interruzione sia d'inverno che d'estate essa conservasse allo stesso livello la summenzionata portata d'acqua. Davanti alla Porta delle decime questa era allestita per i combattenti per continue vittorie, affinché, dovendo questi sconfiggere nuovi regni attraversando il mare con le navi,li addestrasse a tenere a bada i campi di battaglia, anche se mutevoli ed instabili, definiti alcuni tipi di assalto, e stimolasse alla salvezza con l'abilità nel nuoto coloro a cui fosse accaduto di affrontare le onde, in modo che alla fine nessun catanese perisse, pur vincitore ,qualora i catanesi avessero vinto in battaglia. Infatti anche coloro che cadevano in mare,messisi in salvo a nuoto,facevano ritorno in patria con i vincitori con uguale splendore di vittoria e quanto a essi fosse stato utile l'esercizio nella naumachia, riconoscenti verso le pubbliche spese,riferivano a nome della patria. I resti di questa si vedono fuori le mura della città davanti alla Porta delle decime, precisamente si trova sul lato occidentale della strada un antichissimo e spesso muro, intercalato da certe sue interruzioni, al quale corrisponde uno a meridione,non dissimile ma più alto:essi si incontrano in un edificio comune contiguo alle antiche mura della città. Era la larghezza della Naumachia da meridione a settentrione di 488 palmi (125,95 m.),la lunghezza da oriente a occidente di 696 palmi (179,64 m).

 

 

IPPODROMO (CIRCO MASSIMO )

- Un unico ippodromo a Catania fu sufficiente per far esercitare i propri cavalli, sia singoli, che a bighe che a quadriglie, al fine di respingere verso il loro accampamento e disperdere le schiere in disfatta dei nemici. A questi scompaginavano lo schieramento degli eserciti posti a meridione e a occidente necessario ad acquisire la vittoria, che invece conservando nel frattempo gli abilissimi catanesi, conseguivano ogni successo. Si trovava questo presso la Porta delle decime (è il suo arco diroccato oggi chiamiamo "muro rotto")e le pubbliche fabbriche di vasi,largo da oriente a occidente 384 palmi (99,11 m)e lungo da meridione a settentrione 1872 palmi (483,16 m);era bellissimo come quelli dei romani e i suoi ancora ammirevoli resti denotano un grandissimo impiego di risorse. Supporrei che vi sia un obelisco ricoperto dalla terra e non visibile da nessuna parte, non essendo insorta alcuna necessità di modificare la tipologia della costruzione, dal momento che Catania imitava Roma o forse piuttosto Roma lo faceva con Catania

Traduzione e fonti del professore Vincenzo Ortoleva

Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

LA CATANIA ROMANA

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Più o meno tutti i Catanesi conoscono le meraviglie della propria Basilica Cattedrale. In particolare nei giorni dei festeggiamenti agatini, questo splendido esempio dell’arte barocca si apre agli occhi di devoti e turisti diventando così, quasi per incanto, la casa di tutta la cittadinanza. Non tutti sanno, però, che questo imponente edificio, la cui cupola fa da richiamo a chi viene dal mare, nasconde sotto di sé un tesoro di inestimabile valore. Stiamo parlando delle Terme Achilliane, che, come altre monumentali opere d’arte del capoluogo etneo, devono la loro fruibilità ad un famoso protagonista del settecento catanese: Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari.

CATANIA ROMANA. La Città di Catania è, al giorno d’oggi, crocevia di popoli e culture provenienti da tutte le parti del Mondo, rispettosa così della tradizione multietnica della Sicilia, la quale ricordiamo essere stata continuamente soggetta, nel corso dei secoli, a dominazioni delle più svariate civiltà del Mediterraneo, ma che allo stesso tempo è aperta alle prospettive di rinnovamento che i tempi moderni impongono. Risulterà quanto mai difficile, a tutti noi, immaginare le affollate strade del centro storico attraversate da uomini in toga o che scorrazzano in biga. Eppure, anche il capoluogo etneo beneficiò dei fasti, della gloria e dei costumi dell’Impero Romano. Prova solenne ne è l’anfiteatro che sorge a Piazza Stesicoro, che nonostante sia stato ridotto, per le più svariate vicende storiche, a mero rudere, è, e resta, uno dei più grandi che i Romani edificarono all’interno dei loro domini.

I COMPLESSI TERMALI. L’area sulla quale si estende il capoluogo etneo, anticamente chiamato Càtina (o Càtana), fondato da alcuni coloni greci, divenne possedimento romano nel 21 a.C.. Da quel momento la città si dotò di grandi edifici pubblici che la trasformeranno in uno dei più ragguardevoli centri dell'Impero e che nei secoli successivi, fino ad oggi, condizioneranno il suo sviluppo urbano. La città antica era ricca di acqua. Al posto della Via Etnea, scorreva un fiume, ora sotterraneo, l’Amenano. Ciò permise la costruzione di ben tre complessi termali, di cui il meglio conservato è quello detto della Rotonda, una sala circolare, sormontata da una cupola, che nel corso del VI secolo, fu trasformata in una chiesa. Sempre in una chiesa erano state trasformate le terme dette dell'Indirizzo, (IV - V secolo d.C.) di cui sono ancora visibili gli impianti di riscaldamento delle acque. Il terzo complesso, meglio conosciuto come Terme Achilliane non è stato trasformato in una chiesa, bensì ne è stata costruita una su di esso lasciandolo in parte immutato. La chiesa sovrastante non è altro che Basilica Cattedrale di Sant’Agata.

LE TERME ACHILLIANE. Poco si conosce circa le reali dimensioni del grande complesso termale che si trova a Piazza Duomo, poiché quanto oggi è visitabile, il tutto completamente sotterraneo, è appena una piccola porzione della sua estensione. Dell'impianto originale delle Terme Achilliane si conserva una camera centrale il cui soffitto a crociere è sorretto da quattro pilastri a pianta quadrangolare. L'epoca di fondazione dell'edificio è ancora discussa, ma è probabile che fu costruito nel II sec. d.C. Nel 1088 l'area occupata dalle terme viene scelta dal vescovo Ansgerio per ricavarne la Cattedrale (completata ed inaugurata nel 1094) e il relativo monastero benedettino (in seguito sede della badia femminile di Sant'Agata), mentre nel 1508 viene completata la Loggia Senatoria che vi si addossava per la sua lunghezza. L’impianto termale, praticamente sepolto, fu scoperto nel XVI Secolo e nel 1767 fu messo in luce e studiato da Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari, che realizzò anche il primo ingresso all’edificio. Durante il secolo scorso, tuttavia, le terme attraversarono un periodo di decadenza. Nel 1974, infatti furono chiuse al pubblico perché considerate insicure. Vennero riaperte dopo un restauro nel 1997 e nuovamente richiuse per problemi di allagamento. Dopo i lavori di pavimentazione di Piazza Duomo, intervenuti tra il 2004 e il 2006, nel corso dei quali si è ritenuto di coprire l'impianto con una poderosa piastra d'acciaio per rinforzare l'impiantito della piazza stessa, l’edificio termale è stato nuovamente riaperto al pubblico e alla realizzazione di eventi. Fortunatamente, a differenza di tanti altri tesori nascosti e purtroppo non fruibili, questo splendido esempio del glorioso passato della nostra Città, ancora oggi, continua a stupire tantissimi visitatori. Una consapevolezza fa da padrona: Catania può

Simone Centamore La Sicilia 19.2.2018

 

La bottega della famiglia Napoli

di Sergio Corona

Le luci si spengono, si apre il sipario e i pupi entrano in scena. Orlando, Rinaldo, Angelica, Clarice, Carlo Magno, Gano di Magonza, Papa Martino, Subrino, Brandimarte: ci sono tutti. Le loro storie si intrecciano con la vita della famiglia dei pupari, i Napoli, che arrivano su una scialuppa in balia dei marosi: stanno cercando di mettere in salvo l’Opera dei Pupi, riconosciuta nel 2001 dall’Unesco patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Il pubblico segue rapito le gesta dei paladini e assiste al naufragio culturale di un Paese incapace di salvaguardare e valorizzare un tesoro di inestimabile valore.
Stasera la compagnia Fratelli Napoli mette in scena L’oro dei Napoli: la storia di una delle più antiche e famose famiglie di pupari raccontata dagli stessi protagonisti.
Prima che il regista convochi gli attori nei camerini per dare loro le ultime indicazioni, approfittiamo di un momento di distrazione del nostro nuovo amico e andiamo a salutare due protagonisti dello spettacolo: la signora Italia Chiesa, una delle più apprezzate interpreti catanesi, e suo figlio Fiorenzo Napoli, direttore artistico della compagnia, nonché principale parlatore e maestro costruttore dei pupi.
L’idea di un reportage sui Napoli ci era venuta in mente un paio di mesi fa, dopo una mattinata trascorsa con Fiorenzo nel laboratorio della compagnia. Ci aveva tenuti incollati alla sedia per tre ore con i suoi racconti straordinari, che ci scorrevano davanti quasi come un film. E lo stesso effetto ci avevano fatto le storie di Italia Chiesa, che quello stesso pomeriggio ci aveva accolti nella sua casa alle porte di Catania. Tutto ha inizio nel 1921, quando Gaetano Napoli decide di abbracciare il teatro popolare fondando la Marionettistica Napoli. Il successo è immediato. Una prima crisi però arriva nel 1934, in seguito alla scomparsa del figlio diciannovenne Rosario. Don Gaetano si defila, ma l’attività della compagnia continua grazie agli altri due figli, Pippo e Natale. Con lo scoppio della guerra tutto diviene ancora più difficile. Ma la vita va avanti. Natale conosce Italia Chiesa, figlia di attori, e se ne innamora. Dal loro matrimonio nascono Gaetano, Salvatore, Giuseppe e Fiorenzo. 

 

Gli anni del dopoguerra sono i più duri. Ma anche dopo, con l’avvento della televisione e il successo dei cinematografi, non è facile. Ci si mettono anche i proprietari di alcuni cinema che, preoccupati perché l’Opera dei Pupi toglie loro spettatori, boicottano gli spettacoli della compagnia. La scelta di andar via da Catania si rivela vincente: dai primi anni Cinquanta fino al 1970 i fratelli Napoli girano senza sosta tutta la Sicilia, e fanno anche tantissime tournée in Italia e all’estero, raccogliendo ovunque successo e popolarità. A Misterbianco e a Paternò i cinema sono costretti a chiudere perché i Pupi fanno ogni sera il tutto esaurito (non avevano tutti i torti, i poveri proprietari di cinema, a boicottare la Marionettisca Napoli…). Poi però i gusti del pubblico iniziano a cambiare e negli anni Settanta e Ottanta l’Opra viene snobbata anche dal popolo. La signora Italia ci rivela la storia che sta dietro il nome del figlio minore: la passione di Natale per il ciclismo. Fiorenzo si sarebbe dovuto chiamare Fausto, ma la storia d’amore tra Coppi e Giulia Occhini, la “dama bianca”, aveva destato così tanto scalpore in quell’Italia bigotta e intollerante che alla fine Italia e Natale decidono di optare per Fiorenzo, in onore di un altro grande campione di quegli anni: Fiorenzo Magni. E nei primi anni del dopoguerra come si sposta la compagnia? In bicicletta, naturalmente. Poi arrivano la Vespa e quindi, in pieno boom economico, la Fiat 1100. L’appartamento di Italia Chiesa non sembra la casa di un’artista: non c’è traccia di locandine, poster o ritagli di giornale. C’è solo qualche fotografia che nulla però ha a che fare con l’Opera dei Pupi o con il Teatro. Ma quando la signora ci racconta, con un misto di orgoglio e malinconia, di aver recitato negli anni Sessanta e Ottanta nel musical di Garinei e Giovannini Rinaldo in campo, uno dei più grandi successi teatrali italiani di tutti i tempi, allora vengono fuori le fotografie che la ritraggono accanto a Domenico Modugno, Delia Scala, Paolo Panelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Massimo Ranieri, Laura Saraceni, Carlo Croccolo. Parliamo anche della malattia di suo marito Natale e delle sofferenze che dovette affrontare durante una tournée, prima di morire di aneurisma cerebrale nel 1984. Ma torniamo allo spettacolo. Tutto è pronto. Giuseppe, capo maniante, e Fiorenzo, parlatore principale, sono ai loro posti. Così come i figli di Fiorenzo: Davide, maniante e secondo parlatore, e Marco, maniante. Salvatore, che si occupa delle luci e delle musiche, è accanto al regista Elio Gimbo. La moglie di Fiorenzo, Agnese Torrisi, direttore di scena, è dietro le quinte con l’altro figlio Dario, assistente di palcoscenico. Forse avremmo dovuto raccontare la storia di questa straordinaria famiglia di artisti parlando di pupi, fondali e cartelloni. Ma abbiamo preferito fare un viaggio in un’Italia che non c’è più, per ricordare a tutti da dove veniamo. E poi un libro sui pupi catanesi è già stato pubblicato qualche anno fa. Lo ha scritto un antropologo siciliano. Si chiama Alessandro Napoli, è cugino di Fiorenzo, e anche lui fa il maniante in questo spettacolo.

http://www.dirittinegati.eu/?p=440

 


 

Tutti i membri della famiglia Napoli prendono parte alla messinscena degli spettacoli ricoprendo con maestria i ruoli tipici dell'Opera: Italia Chiesa Napoli parratrici, Fiorenzo direttore artistico della compagnia, parraturi principale e maestro conduttore dei pupi; Giuseppe capo manianti e scenografo; Salvatore ideatore delle luci e fonico; Gaetano parraturi; Davide manianti e secondo parraturi; Dario assistente di palcoscenico; Marco manianti; Alessandro antropologo, manianti e addetto al fabbisogno degli spettacoli; Agnese Torrisi, direttore di scena.

 

Antica Bottega del puparo: Via Reitano, 55 - 95121 - Catania  (zona Castello Ursino) Tel. (+39) 095 34 10 52 http://www.fratellinapoli.it/

 

 

Si sviluppa attraverso il centro storico, dal mare, a Piazza dei Martiri, alla parte alta della città, in piazza Risorgimento.

Lungo il percorso di Via Vittorio Emanuele (già Strada Reale) si trovano numerosi luoghi e monumenti simbolo della Storia di Catania, a testimonianza del crocevia di culture e dominazioni che, nel corso dei secoli, hanno interessato la città. All'esatta metà della sua estensione si incrocia con via Etnea e, quindi, con Piazza Duomo, costituendo il setto stradale su cui si affaccia Palazzo degli Elefanti. A est della piazza, ancora nei pressi della Cattedrale, si trova la Badia di Sant'Agata, uno splendido esempio del barocco di Vaccarini. Proseguendo verso il mare, ci si imbatte in piazza San Placido, in cui sorgono l'omonima chiesa tardobarocca di San Placido - opera di Stefano Ittar nel 1769 - e, in prossimità, il prestigioso Palazzo Biscari; il lungo protrarsi dei lavori negli anni successivi al terremoto del 1693 (fino al 1763) ci dà oggi modo di apprezzarne la varietà di stili architettonici.

Ingresso del liceo "Boggio Lera".Poco distante, ai piani inferiori del palazzo Bonajuto, si trova la Cappella Bonajuto, d'epoca bizantina (VI-IX sec.) e di struttura molto simile alla cuba. Il Convitto Cutelli, progettato da Francesco Battaglia e Gian Battista Vaccarini su commissione di Mario Cutelli, è un nuovo esempio di grande architettura settecentesca (1761). I due si occupano, nel 1776, anche della realizzazione del monumentale palazzo Reburdone, oggi sede (insieme a Palazzo Pedagaggi) della facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Catania, a poca distanza dal Convitto e dalla omonima piazza Cutelli. Nei pressi, Vaccarini realizzò anche Palazzo Valle e Palazzo Serravalle.

A ovest di piazza Duomo, invece, lo scenografico scorcio di piazza San Francesco, con il Museo belliniano, la Chiesa di Santa Maria Immacolata e la statua del cardinale Dusmet, introduce la storica via Crociferi. Risalendo ancora, ci si imbatte in due testimonianze della Catania romana: il teatro romano e l'Odeon, questo semicircolare e probabilmente destinato alle prove per gli spettacoli dell'adiacente teatro. Più avanti, alle spalle del grande complesso monastico dei Benedettini, si trova il Monastero della SS. Trinità, oggi sede del liceo scientifico "Boggio Lera".

http://it.wikipedia.org/wiki/Via_Vittorio_Emanuele_II

 

Il palazzo Fassari Pace si trova a Catania e può essere considerato come splendido esempio di architettura civile settecentesca, nella ricostruzione di Catania dopo il disastroso terremoto che totalmente la distrusse, l’11 gennaio del 1693.

Ubicato nella parte alta di via Vittorio Emanuele, già strada del Corso reale, asse viario il più vetusto della Catania sin dall’antichità ellenica, il palazzo si apre su quest'ultima nella sua facciata ariosa e semplice di barocco classicheggiante, angolando tra le vie Santa Barbara e della Palma, rivolto a sud; al nord è costeggiato dalla via San Barnabà, da cui si accede per via della Palma; nel settecento era nella parte interna ornato da un giardino, oggi scomparso. Si trova accanto all’ex convento della Trinità, oggi sede del liceo scientifico Boggio Lera, impreziosito dalla omonima chiesa.
La sua costruzione si può far risalire con certezza al primo trentennio del XVIII secolo: tuttavia sin da prima del devastante terremoto e dalla eruzione dell'Etna del 1669 che invase il perimetro urbano (ma non il luogo ove sorge il palazzo), erano ivi presenti, seppure il vecchio Corso aveva un tracciato non lineare ma leggermente sinuoso, abitazioni di fattura similare. Ciò può vedersi nella pianta di Catania pubblicata dal Cluverio[1] nel 1619. La presenza del severo e maestoso palazzo settecentesco, nei suoi due primi ordini, terrano con le botteghe, e piano nobile caratterizzato dalle cornici degli otto balconi che si affacciano nella pubblica via, con disegno rettangolare sovrastante, è rintracciabile nelle due piantine di riferimento, che lo vedono con esattezza delineato: quella di Giuseppe Orlando, stampata nel 1760, e quella (del medesimo periodo, poiché l’autore moriva nel 1762) che è inserita nel testo Lexicon topographicum siculum, dell’erudito abate Vito Maria Amico Statella. In tali disegni ................

http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Fassari_Pace

 

 

 

 


Questo edificio termale, ancora in buono stato di conservazione, deve il suo nome al fatto che si trova parzialmente incorporato nell’ex convento di S. Maria dell’Indirizzo, oggi utilizzato come edificio scolastico. A sua volta il convento carmelitano prende il nome dalla chiesa che sorse, secondo la tradizione, nel luogo dove era avvenuto un miracolo. Nel 1610 si recava, per la prima volta a Catania, il viceré di Sicilia Don Pietro Girone, duca di Qssuna, a bordo di una nave spagnola. Una terribile tempesta lo colse mentre si avvicinava alle coste catanesi e, preso dalla disperazione, invocò il nome di Maria; all’improvviso vide un raggio di luce che gli diede "l’indirizzo" da seguire per potere approdare sano e salvo dentro il porto di Catania; quando scese a terra poté verificare che la luce proveniva da un’icona della Madonna del Carmine. Al posto dell’icona, nel 1635, sorse una chiesa che, distrutta dal terremoto del 1693, fu riedificata insieme al convento dei padri carmelitani. Il grande edificio termale che si trovava nelle vicinanze del convento, venne inglobato nella costruzione e (forse anche per questo) si è conservato in ottime condizioni fino ai nostri giorni.
La struttura architettonica e i materiali

 

 

Dell’antico edificio termale si conservano circa dieci ambienti chiusi dalle coperture originarie; alcuni gradini conducono a due locali rettangolari, collegati fra di loro; da essi è possibile raggiungere un complesso di vani situati a un livello più basso. Tra tutti questi ambienti il più grande, che mostra alcune aperture di forma rettangolare, ha forma ottagonale ed è coperto a cupola. In basso sono alcune nicchie. Una delle caratteristiche più interessanti di questo monumento è che esso conserva, anche se in modo frammentario, resti di fornaci che servivano per il riscaldamento degli ambienti termali, condotti per la circolazione dell’aria calda e canali per il deflusso delle acque. Le mura sono costituite da un’anima in malta cementizia e un rivestimento in blocchi squadrati di pietra lavica; molto presenti i mattoni che sono stati utilizzati soprattutto nei passaggi ad arco. Per quanto riguarda la cronologia delle varie fasi dell’edificio non vi sono ancora ipotesi molto convincenti; per alcuni studiosi va datato all’età imperiale avanzata. Le terme dell’Indirizzo, insieme alle terme della Rotonda e alle terme Achilliane, sono testimonianza di quanto fosse avanzato il grado di civiltà della Catania romana e tardo-romana.

L’importanza delle terme nell’antica Roma

Le terme erano edifici pubblici comuni a tutte le città dell’antica civiltà romana; servivano per i bagni, ma erano anche luogo di incontri, di lettura e di esercizi per il miglioramento del corpo e dello spirito; esse avevano, pertanto, un rilevante ruolo sociale. Di solito constavano di tre sale fondamentali: il frigidarium (per il bagno freddo), il calidarium (per quello caldo) e il tepidarium (zona intermedia per l’assuefazione dei bagnanti).

 

 

 

L’area del foro si trova nel cortile S. Pantaleone dove si arriva percorrendo la via Vittorio Emanuele e svoltando per via Porro e la via Orfanelli.

Sul lato meridionale a sette metri e mezzo sotto il livello della strada, sono visibili otto ambienti divisi in due parti; sul lato orientale, invece, si può intravedere un lungo corridoio sopra il quale, a due metri e mezzo sotto il livello della strada, si apre un porticato largo sette metri.

Proprio da queste parti sono state rinvenuti resti della città imperiale: il Convento di S.Agostino per esempio, è stato costruito a ridosso di antiche volte e porticati e al suo interno sembra esistano ancora i resti di un pavimento lastricato.

Inoltre da qui provengono le 32 colonne utilizzate per i portici di piazza Mazzini e che certamente appartennero ad un edificio pubblico romano.

Ecco perché, alla luce di questi ritrovamenti, gli studiosi hanno individuato in quest’area l’antico foro romano.

A pochi passi, in via della Rotonda, si trova il complesso termale, di cui è rimasta solo una sala circolare coperta da una cupola sostenuta da otto archi. Il complesso innalzato il suo livello di due metri, venne utilizzato come chiesa cristiana e così le nicchie destinate alle vasche termali vennero utilizzate una come abside e due come cappelle laterali.File:TermeRotondaCT.JPG

Una interessante curiosità è che qualche guida chiama questo edificio il "pantheon" perché, a causa della sua forma circolare creò, nell’immaginario di alcuni studiosi, l’idea che fosse servito di ispirazione per la costruzione del panthoen romano.

Ma esiste ancora un altro complesso termale, conosciuto col nome di "Terme dell’Indirizzo". Si trova a piazza Currò, così chiamate perché si trovano in parte incorporate al Convento di S.Maria dell’Indirizzo. Qui di suggestivo interesse gli ancora riconoscibili impianti di funzionamento delle terme cioè le fornaci che riscaldavano le sale, i condotti per l’aria calda e i canali di deflusso delle acque.

Una curiosità: Perché Terme dell’Indirizzo? Prendono il nome dal Convento Carmelitano di S.Maria dell’Indirizzo che a sua volta lo assume dall’omonima chiesa che fu costruita, secondo tradizione, in seguito ad un miracolo ricevuto nel 1610 da Don Pietro Girone, Duca di Ossunia.

Questi infatti si stava recando per la prima volta a Catania a bordo di una nave spagnola ma, colto da un’improvvisa tempesta non riusciva a guadagnare la riva. Fu così che, invocando nella disperazione il nome di Maria apparve alla sua vista un raggio luminoso che gli mostrò l’indirizzo, cioè la retta via per guadagnare l’ingresso al porto di Catania sano e salvo.

Al suo arrivò si accorse che la luce proveniva da un’icona della Madonna del Carmine e pochi anni dopo, nel 1635 proprio lì fece erigere una chiesa, poi distrutta del terremoto del 1693 e nuovamente riedificata insieme all’attuale Convento.

 

 

CURIOSITA’

Dopo il terremoto del 1693 lo sviluppo urbano fu regolato in un modo molto complesso che segnò per sempre il destino della città. Il governo cittadino stabilì infatti di creare una sorta di mercato dei terreni, al fine di incentivare la ricostruzione, e divise la città in due parti: i lotti della zona di est, per intenderci quella di piazza Duomo e via Vittorio Emanuele, vennero venduti a prezzi più alti; nella zona di ovest, al di là della via Plebiscito e la zona dell’antica acropoli, i terreni furono praticamente "svenduti" a prezzi d’occasione.

E’ per questo che nella parte più prestigiosa sono nate grandi strade e importanti palazzi oltre che gli edifici amministrativi e l’area ad est fu destinata ad essere abitata da nobili, religiosi e famiglie agiate; a ovest invece finì per concentrarsi quella parte di popolazione meno abbiente che occupò tutta l’area attorno alle vecchie rovine medioevali, ma lo fece in modo selvaggio, senza tener conto delle regole urbanistiche allora dettate dal Duca di Camastra, edificando oltre alle case, povere ed essenziali, gli edifici destinati alle attività sociali, ospedali ospizi, penitenziari.

 

 

La città antica ebbe anche un Ginnasio, che se non fu istituito da Caronda 680 anni prima dell'Era volgare, fu restaurato da Marcello in premio della fedeltà serbata dai Catanesi a Roma nella guerra contro Siracusa; ma non ne resta altra memoria fuorchè nei libri. C'era anche un grande acquedotto che recava le acque di Licodia, lungo non meno di sedici miglia; ma non se ne vede altro che qualche altro misero avanzo. Tanta copia d'acque era necessaria ad alimentare la Naumachia — i cui ultimi resti sparvero sotto le lave dianzi citate — il Ninfeo eretto da Ero Apolline e restaurato da Arsinio, prefetto in Sicilia, a cura di Flavio Ambrosio, e le moltissime Terme, parecchie delle quali si vedono ancora conservate discretamente.

La chiesetta di S. Maria della Rotonda è anch'essa l'avanzo e probabilmente l'atrio od il laconico d'una gran terma, molti cimelii della quale, come pezzi di mosaico, frammenti di lapidi e d'iscrizioni, si conservano nei due musei cittadini. Altri minori ruderi di terme si trovarono in altri punti della città; l'avanzo più ragguardevole, quasi un intero stabilimento termale, esiste ancora sotto il convento di Santa Maria dell'Indirizzo: da una prima stanza si passa all'apoditerio o spogliatoio, ad una specie di bagno appartato, ad una seconda stanza comunicante col laconico e ad una terza di pianta ottagonale ai lati della quale sono disposti i clipei. Esistono ancora le fornaci, una conserva d'acqua, varii condotti per l'aria rarefatta, il sito della sedia stercoraria, l'emissario delle acque luride, gl'incavi dove erano confitte le condutture di piombo serbate nel museo Biscari.

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

 

 

 

 

Per potere visitare in modo ottimale il monumento seguite il percorso delle passerelle di legno che vi condurranno fin dentro gli ambulacri del teatro antico. Prima di penetrare all’interno dell’edificio osservate ciò che resta dell’antica via Grotte che congiungeva la via V. Emanuele alla via Teatro Greco. Essa è stata costruita su robuste arcate in pietra lavica. Le strutture più in basso del teatro di Catania sono, attualmente, bagnate dall’acqua del fiume Amenano, la stessa che veniva, secondo le ipotesi di alcuni studiosi, convogliata per consentire spettacoli con giochi d’acqua. Proprio la presenza di questo fiume, che scorre sotto la città antica, è il più grande impedimento alla fruizione e all’utilizzazione delle antiche strutture teatrali. Agli ambulacri si accede per mezzo dei vomitoria, termine latino che indica le bocche di ingresso interne al teatro. Il teatro è addossato al versante meridionale della collina dove sorgeva l’antica acropoli di Catania. Nel passato poteva ospitare circa 7.000 spettatori. 

 La cavea, nome latino dell’emiciclo che contiene le gradinate per gli spettatori, poggia su alti corridoi coperti a volta. Essa è costituita da ventuno serie di sedili, divisi orizzontalmente da due passaggi (che tecnicamente si chiamano praecinctiones) e verticalmente da nove cunei e Otto scalette. Il grande semicerchio dell’orchestra èstato recentemente liberato dalle sovrapposizioni più recenti. Gli scavi archeologici di questi ultimi anni (1980) hanno messo in luce: la porta orientale dell’edificio scenico (quella centrale si trova in corrispondenza dell’attuale ingresso da via V. Emanuele), il muro del pulpitum (parte della decorazione architettonica è ancora in posto) e una nicchia sul fronte del pulpitum nella quale venne sistemata una statua di marmo forse di Venere. È stata anche messa allo scoperto una balaustra di marmo che divideva l’orchestra dalla cavea. I sedili, in pietra calcarea, erano, in origine, rivestiti di lastre di marmo, le scale che dividono la cavea in nove cunei sono in pietra lavica. L’alternanza cromatica del bianco e del nero, caratteristica di quasi tutti gli edifici catanesi, conferiva al solenne monumento una preziosità che, oggi, è andata irrimediabilmente perduta. Le gradinate della zona superiore sono state ricostruite dai restauratori che hanno liberato una parte delle abitazioni moderne che insistono sulle strutture del teatro.

I muri portanti dell’edificio sono costruiti con un impasto di malta cementizia mista a pietre e tegole fratte; il paramento esterno è formato da grossi blocchi squadrati di pietra lavica.
Il gusto per le rappresentazioni teatrali ebbe in Roma origini antichissime. Lo sviluppo di questa forma d’arte si deve anche a un forte apporto di idee derivanti dalla letteratura teatrale greca che, spesso, ispirò le tragedie e le commedie latine. I romani dei tempi della Repubblica ebbero, comunque, un atteggiamento molto diffidente verso il teatro; gli attori, infatti, erano sempre liberti o schiavi, poiché era proibito a un civis esercitare tale professione. L’edificio teatrale romano mostra alcune sensibili differenze rispetto a quello greco. La cavea, per esempio, non veniva scavata nella roccia ma diventava un edificio autonomo. Nel caso del teatro di Catania le strutture romane hanno sfruttato una zona probabilmente occupata da edifici più antichi. La scena adibita alle rappresentazioni teatrali, e che nel teatro di Catania è stata inghiottita dalle costruzioni settecentesche, presentava una ricca decorazione costituita da nicchie, colonne e statue.

 

Da Lun. a Sab.9.00/13.00- 14,30/19.00- Dom e fest 9.00/13.00
http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/il_filo_di_arianna/la_citt%C3%A0_antica_l'et%C3%A0_greca_romana_e_bizantina/Teatro_Romano.aspx

 

 

Un teatro greco romano con tanto di odèon in pienissimo centro storico, cosa può offrire di meglio una città turistica?
Incollato alla casa di un musicista famoso in tutto il mondo, Bellini. 
Nella stessa casa un disegnatore nominato da Picasso il migliore nella sua categoria in tutta Europa, Emilio Greco..a 100 metri la casa del massimo esponente del verismo, Verga..a 20 metri una delle vie più belle al mondo, Via Crociferi..in meno di due minuti Piazza Duomo con tutto ciò che la circonda..scusateci se è poco.

 

 

Fra le rovine dei pubblici edifizii nobilitanti l'antica colonia calcidese altre ve ne sono, ancora più notevoli. Il primo posto per antichità spetta senza dubbio al teatro, che è detto greco, ma che più propriamente dovrebbe chiamarsi greco-romano. Di costruzione romana sono indubbiamente le parti appariscenti; ma è probabile che l'edifizio romano sorgesse su fondamenta greche, perchè ai tempi greci si legge nelle storie che Catania ebbe appunto un teatro, dove Alcibiade, come uno dei comandanti dell'esercito ateniese venuto a conquistar Siracusa, arringò i cittadini per volgerli al suo partito.

Se Diodoro e Cicerone non fanno più menzione del teatro catanese, la cosa è stata spiegata coi terremoti e con le lave che probabilmente lo abbatterono e ricopersero: sugli avanzi è probabile che i Romani erigessero poi la loro mole sontuosa, della quale anch'oggi si può avere un'idea da ciò che ne resta, allo scoperto in parte, ed in parte sotterra: tre ordini di corridoi, le scale per le quali si passa dall'uno all'altro, quelle che dividono la cavea in cunei, il pavimento dell'orchestra di marmo bianco e rosso sul quale alzavansi i sedili, ed i frammenti di sculture e di architetture custoditi nel museo Biscari: una graziosa figura di Musa, rottami di statue, capitelli e piedistalli, il maggiore dei quali ha effigiati nel dado una vittoria e due guerrieri senza cimiero nè celata nè asta; rocchi ed architravi, uno dei quali ha scolpiti nel fregio una Nereide vinta da un Ercole.

 

 

Alla scena ed alla loggia appartennero anche le colonne che furono trasportate in altri punti della città, le sei che ornano la facciata del Duomo, le due del Palazzo comunale e l'altra della piazza dei Martiri; i marmi bianchi e rossi dei sedili furono adoperati per pavimentare il Duomo. Oltre che per la ricchezza degli ornati, il teatro catanese fu dei più notevoli per ampiezza: conteneva il doppio degli spettatori dell'ateniese e poco meno di quanti ne entravano nel siracusano.

Ma la maggiore sua importanza è dimostrata dall'Odeo che gli era ed è ancora annesso. Mario Musumeci, valente architetto e dotto archeologo fiorito un secolo addietro, diede una bella illustrazione di questo secondo edifizio e ne rilevò l'importanza. Mentre di pochissimi altri Odei restano troppo scarsi vestigi, undici cunei del catanese, su diciassette, si vedono ancora; gli altri sei, distrutti, sono indicati dal perimetro dell'edifizio. Alla testata di levante della precinzione, che è allo scoperto, s'appoggiavano tredici gradini scendenti fino all'orchestra, circoscritta, dalla parte del pulpito, dal muro oltre il quale non si vedono altre costruzioni.

Il rivestimento esterno è formato da pezzi di lava squadrati e disposti in file orizzontali e parallele di diseguale altezza, alla maniera pseudo-isodoma: c'è una sola comunicazione fra l'interno e l'esterno, attraverso il cuneo centrale: prova che l'Odeo non poteva servire a grandi riunioni popolari, ma solo a ristrette adunanze, ai concorsi degli autori drammatici e alle prove dei cori, come è confermato dalla mancanza della scena. Anche qui terremoti e vandali hanno lasciato i loro segni: perdute le colonne che ornavano il pulpito, distrutti i pezzi ornamentali del muro di precinzione e di quello esterno dalla cimasa in su: solo qualche frammento se ne volle trovare nella decorazione della porta settentrionale del Duomo, come si dirà a suo luogo.

L'edifizio, pertanto, appena si riconosce: mutilato, squarciato, convertito nelle parti ancora resistenti in abitazione di umile gente, con gli archi dei cunei trasformati in orribili terrazzini ed in luride stamberghe.

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

 

 

Il teatro romano di Catania sorge sul fianco meridionale della collina di Montevergine al centro di un quartiere ricco di testimonianze archeologiche che rappresenta ancora oggi il cuore pulsante della città.

 L’area, frequentata sin dalla preistoria, accoglieva in età greca un importante santuario urbano dedicato a Demetra e Kore che ha restituito migliaia di oggetti ed ex-voto offerti in dono alle divinità.

 L’edificio originario risale probabilmente proprio ad età greca ma di esso si conservano solo pochi resti murari scoperti nel corso delle numerose campagne di scavo. Secondo lo scrittore romano Sesto Giulio Frontino, infatti, il celebre generale ateniese Alcibiade, trovandosi in Sicilia durante i tumultuosi anni della guerra del Peloponneso, pronunciò un discorso al popolo catanese proprio dal palcoscenico di un teatro.

 In età romana il quartiere fu interessato da un’intensa attività edilizia con la costruzione di edifici pubblici, terme, ninfei e ricche dimore. L’edificio che oggi ammiriamo appartiene nella quasi totalità proprio all’epoca romana e mostra i segni dei profondi cambiamenti che lo hanno interessato nel corso dei secoli.

 La costruzione dell’edificio romano risale al primo secolo d.C., ma la struttura architettonica ha subito nel corso dell’età imperiale numerose trasformazioni che hanno fatto raggiungere il massimo splendore e monumentalità nel terzo secolo dopo Cristo. Il teatro romano di Catania si articolava in una cavea, del diametro di 98 metri, divisa in 9 cunei da 8 scale radiali.

 Due passaggi, detti praecinctiones, collocati a diversa altezza, la suddividevano in tre settori (maeniana) secondo la canonica ripartizione in ima, media e summa cavea. Le sedute che accoglievano gli spettatori, in gran parte oggi scomparse, erano realizzate in calcare, mentre le scale che dividevano i cunei erano in pietra lavica.

 Il contrasto cromatico generato da questa alternanza di colori conferiva all’edificio monumentalità e costituirà nei secoli successivi una delle peculiarità dell’archttps://www.mimmorapisarda.it/2023/458.jpghitettura della città. L’ima cavea, direttamente poggiata sul pendio naturale della collina, era destinata ai membri dell’élites cittadina.

 Le sedute in pietra calcarea, infatti, erano rivestite in marmo e due grandi lastre marmoree con delfini dovevano decorare il parapetto esterno sottolineando così il ruolo di prestigio degli spettatori che sedevano in questo settore. La media e la summa cavea, invece, poggiavano su due ambulacri collegati tra loro da scale e muniti di accesso ai vari settori delle gradinate.

 L’aggiunta di un terzo grande ambulacro in epoca antonina modificò l’aspetto generale del teatro con l’eliminazione del loggiato che era posto in origine a coronamento dell’edificio. Questa trasformazione determinò l’ampliamento della cavea e la realizzazione di nuove gradinate nella parte sommitale dell’edificio aumentandone la capienza.

 La circolazione all’interno del teatro era efficacemente organizzata attraverso un sistema di scale radiali e di corridoi di collegamento. Gli spettatori potevano agevolmente raggiungere ogni settore della cavea e accedere a quello più alto attraverso una serie di rampe di scale addossate al muro esterno del terzo ambulacro.

 L’ingresso al teatro avveniva attraverso delle semplici porte ad arco poste lungo il perimetro dell’edificio scandito da esedre. Due coppie di scale rampanti addossate al muro esterno garantivano l’accesso direttamente alla sommità della gradinata, mentre nel settore nord-occidentale era situato un ingresso a galleria che permetteva al pubblico di raggiungere la parte più interna del teatro.

 La scena fu in gran parte ricostruita in età severiana, trasformazione che ne mutò profondamente l’aspetto. Essa fungeva da vera e propria quinta teatrale e si articolava in tre ordini dall’aspetto monumentale scandita da tre grandi porte: la regia, centrale e più ampia, e le hospitalia, poste ai lati. Esse erano fiancheggiate da colonne corinzie poggiate su grandi plinti in marmo bianco. Quelli che fiancheggiavano la porta regia erano decorati con un bassorilievo che rappresentava un trofeo con Vittorie inginocchiate ai lati, mentre sui fianchi erano rappresentati barbari e soldati. Gli altri, di minori dimensioni, eranhttps://www.mimmorapisarda.it/2023/257.jpgo decorati con ghirlande e bucrani, delfini contrapposti e strumenti sacrificali.

 L’intero corpo scenico era ricco di fregi decorativi e statue che celebravano avvenimenti pubblici e temi mitologici tra cui una statua di Leda con cigno, copia romana di originale greco dello scultore Thimoteos. Davanti alla scena si sviluppava l’area del palcoscenico (pulpitum), decorato con una serie di piccole esedre in marmo. Qui si svolgevano le rappresentazioni teatrali tipiche del mondo greco e romano come le tragedie e le commedie, ma anche forme di spettacolo più leggere, parodie, mimi e danze. Questa parte del teatro era organizzata con strumenti per la spettacolarizzazione delle rappresentazioni come botole e passaggi sotterranei che gli attori sfruttavano per apparire improvvisamente sul palco.

 A ridosso del palcoscenico si trovava l’orchestra, l’area solitamente riservata al coro, caratterizzata da una pavimentazione in opus sectile, articolata in una serie di quadrati in marmo con dischi in pietra lavica. Questa decorazione, oggi coperta da un originale stagno naturale, rappresenta solo una piccola testimonianza della monumentalità che l’edificio possedeva in origine. Il teatro romano, insieme ad altri importanti monumenti, costituisce un preziosissimo documento dell’antico splendore di Catania e al tempo stesso il testimone diretto della complessa storia di questa città, costantemente attraversata da grandi cambiamenti culturali e trasformazioni urbane.

http://www.siciliapress.com/la-meraviglia-del-teatro-romano-di-catania-la-sua-storia/

 

L’Odeon di Catania, insieme al grande teatro, è inserito in un contesto urbano di grande ricchezza e complessità. La crescita urbana dopo il terremoto del 1693 fu regolata dal Senato cittadino che decise di organizzare il mercato delle aree (ai fini della ricostruzione) dividendo la città esistente con una linea convenzionale: a est (zona di piazza Duomo e via V. Emanuele) il valore dei terreni era più alto, a ovest (oltre la via Plebiscito e nell’area dell’antica acropoli) il valore era nettamente inferiore. Nella parte est, la più prestigiosa, l’apertura delle strade principali (oggi conosciute con i nomi di via Etnea, via V. Emanuele, via Garibaldi) contribuì a valorizzare maggiormente i terreni già destinati ad essere occupati dai nobili e dai religiosi più facoltosi. Durante tutto il Settecento e nella prima metà dell’Ottocento sorsero numerose residenze nobiliari e borghesi e i principali edifici civili amministrativi e religiosi. A ovest, invece, si concentrò un tessuto residenziale povero che si sviluppò attorno a ciò che restava dei tracciati medievali senza tenere conto delle regole urbanistiche dettate dal duca di Camastra; in questa zona vennero anche edificati, sempre nel Settecento, edifici destinati ad attività assistenziali (ospedali, ospizi, reclusori, case di educazione). 

All’interno di questa fitta maglia di isolati, di strade e di vicoli sono racchiusi alcuni tra i monumenti più significativi della Catania antica: il Teatro romano e l’Odeon, l’edificio termale in piazza Dante (di fronte l’ingresso monumentale del complesso dei Benedettini), resti delle fortificazioni normanne (presso il Liceo Spedalieri), un bastione cinquecentesco conosciuto con il nome di bastione "degli infetti" e due torri di rafforzamento aragonesi (quella detta del Vescovo è visibile all’altezza della via Plebiscito). Confusi nell’intrico di palazzi antichi e moderni questi resti del passato prendono forma man mano che ci si addentra nel dedalo delle stradine e dei cortili.

L’Odeon (piccolo edificio destinato all’esecuzione di musiche e di danze) si trova a ovest del grande teatro. E anch’esso soffocato dalle alte costruzioni che invadono interamente la scena e che oggi sono utilizzate per sorreggere il fondale dipinto che viene innalzato durante le manifestazioni musicali estive. La collocazione di un teatro e di un odeon è presente anche in altre città greche e romane; la differenza tra le due strutture consiste principalmente nel fatto che l’Odeon era fornito di una copertura. L’orientamento del piccolo edificio è uguale a quello del teatro e cioè verso l’attuale via V. Emanuele; differisce, però, il livello della costruzione, infatti l’odeon si trova all’altezza della parte più alta del teatro e cioè la sommità della collina di Montevergine che costituiva l’acropoli di Catania. L’emiciclo dell’odeon è formato da 18 muri che si allargano fino a formare cunei stretti e lunghi all’interno dei quali sono stati ricavati 17 vani ricoperti a volta. L’uso o la funzione di questi vani, che furono restaurati negli anni Sessanta del nostro secolo, non è ancora chiara. Il materiale da costruzione è costituito, per la maggior parte delle strutture, dalla pietra lavica; l’orchestra (e cioè lo spazio semicircolare tra la cavea e la scena) è, come si puo ancora osservare, pavimentata in marmo. Come nel teatro si usarono i mattoni e il marmo che, accostati ai neri conci di pietra lavica, conferivano alla costruzione la tipica policromia dei monumenti catanesi.

http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/dirbenicult/database/page_musei/pagina_musei.asp?ID=148&IdSito=29

 

 

 

Agli inizi del Novecento, l'Odeion Romano di Catania appariva come una sequenza ritmata di povere abitazioni costipate in un solo edificio, ma scandite dalle paraste romane lungo una facciata curvilinea che seguiva l'impianto semicircolare dell'antico edificio.

Ma alle spalle dell'edificio, esisteva già l'ottocentesco palazzo del Barone Sigona, costruito esattamente sopra l'edificio scenico dell'Odeion.

Il Barone Sigona, un nobile di provincia del quale ci saremmo sicuramente dimenticati, acquistò per intero le povere case che sin dal tardo Medioevo avevano occupato l'Odeion, le quali, come nel vicino e assai più grande Teatro, ricalcavano la forma semicircolare dell'edificio romano.

Il suo intento era quello di abbattere case e Odeion, e ricavare spazio per ingrandire il suo palazzo.

Il nostro Barone chiese pertanto il permesso alle autorità di spianare l'Odeion. Il permesso, per fortuna, gli venne negato. Ma il nostro Barone non si arrese e riempì di dinamite il monumento che fece poi esplodere. Per sua sfortuna, e grazie alla potenza delle strutture romane, capaci di resistere a qualsivoglia terremoto, ed evidentemente anche alla dinamite, riuscì soltanto ad abbattere uno dei fornici, che a memoria dei posteri, e di quello che non si deve mai fare, si trova ancora a terra accanto all'Odeion.

Al tempo della triste vicenda era Soprintendente era un certo Paolo Orsi, nato asburgico e fattosi siciliano, il quale prese e portò il Barone Sigona in tribunale, lo fece condannare ad una pesante pena, che venne scontata per intero, e gli fece confiscare l'Odeion, che provvide subito a liberare dalle casette, affinché lui, o i suoi eredi, non avessero più alcuna proprietà da pretendere ed eventualmente da abbattere insieme al monumento romano.

E così liberato, dal Barone e dalle casette, l'Odeion Romano di Catania esiste ancora, pieno di acciacchi e di problemi. Ma tutto intero, a parte il fornice abbattuto dalla dinamite.

Catania Antica https://www.facebook.com/CataniaAntica/

 

 

IPOGEO QUADRATO

Il monumento funerario, conosciuto con il nome di "Ipogeo quadrato", è ubicato dietro la via Ipogeo e ricade nella vasta area che, dalla fine del V secolo a. C. fino ad epoca tardo-antica e cristiana, fu destinata ad uso funerario. La zona, nota fino al secolo scorso con il nome di "Selva del convento di S. Maria di Gesù", era compresa tra le colline del Giardino Bellini ad est, la via Plebiscito a sud e il viale Regina Margherita a nord, nei pressi del quale si trova il sepolcro a pianta circolare, detto "Mausoleo Modica". Dell'ipogeo si hanno notizie precise dal Principe Biscari, che lo descrive con una copertura a piramide, rimane anche un acquerello dell'Houel e il rilievo eseguito dall'Ittar. Numerosi studiosi si sono occupati del monumento, fra questi Ferrara, il duca Serradifalco e, di recente, Bernabò Brea e Frasca. Si tratta probabilmente di un edificio a due piani, del quale non vi sono più tracce, con destinazione funeraria, attestata dalla presenza del loculo e delle nicchie all'interno del vano ipogeico.

L'ipogeo, ancora oggi visitabile, si apre sul lato ovest e vi si può accede tramite una scaletta, della quale rimangono in situ solo i tre gradini inferiori. Il vano è a pianta quadrata, sulla parete est, opposta all'entarata, è ricavato un loculo, ormai rovinato; ai lati dell'ingresso sono due nicchie per vasi cinerari. La copertura originaria doveva essere costituita da una volta a botte, poi restaurata in mattoni ma oggi fortemente danneggiata.

Sulle pareti che fiancheggiano la scala si notano tracce di intonaco. L'importanza architettonica e l'ubicazione del monumento funerario fanno ipotizzare che appartenesse ad un esponente della classe elevata, che in Sicilia, tra il II e il III secolo d. C., godeva di ottime condizione economiche. Questa considerazione e la tipologia costruttiva del monumento suggeriscono una datazione non precedente alla prima metà del II secolo d. C.

Maggiori Info: 0957150508, Catania, via G. Sanfilippo (trav.via ipogeo).

 

 

 

 

Portico dell'atleta

Al di sotto di via dei Crociferi a Catania, nell’area antistante palazzo Zappalà, si trova un edificio romano del I secolo d.C. costruito lungo il cardo che collegava il Teatro con l’Anfiteatro. Non è del tutto chiara la funzione di questo edificio, che venne distrutto nel VI secolo d.C. e che completava, in modo scenografico, il monumentale complesso del Teatro-Odeion che includeva un famoso santuario dedicato a Demetra.

 

 

VILLA SCABROSA

Nel 1669 parte di Catania fu sommersa dalla lava durante la terribile eruzione dell’Etna.Tutta la zona che dal castello Ursino arrivava fino alla vecchia via della Concordia risultò poi costellata di "terrazze laviche" sensibilmente più elevate rispetto al piano della "vaddazza".Una di queste terrazze aveva una vasta conca presso la quale scorreva una grossa vena d’acqua che si perdeva fra le sabbie della non lontana spiaggia:Il principe Ignazio di Biscari,ottenne dalle autorità demaniali il permesso di costruirvi un giardino di tipo architettonico,ma durante la realizzazione cambiò idea.Ordinò che il rustico della villetta venisse lasciato allo stato iniziale,fece piantare quanti più alberi poté ,fece deviare il vicino corso d’acqua riempiendo la conca e creando un pittoresco laghetto.Nacque così la Villa Scabrosa,luogo solitario e romantico che fu il ritrovo della nobiltà catanese e della gioventù dorata cittadina.La Villa Scabrosa dovette rappresentare in quell’epoca un oasi di verde e di felicità in un deserto di sciare grigie e tetre,ma per i catanesi rappresento quasi un simbolo della tenacia e della volontà di restituire alla vita la loro città così duramente colpita dalla furia del vulcano.Non per nulla le autorità cittadine vollero che l’unica stampa che riproduceva questo gioiello fosse esposta alla "Mostra del giardino italiano" che nell’aprile del 1931 fu tenuta a Firenze,assieme ad alcune visioni della Villa dei Paternò Castello principi di Biscari,quella stessa che doveva poi diventare l’attuale Giardino Bellini.

Sotto quelle "ignivome lave"capricciosamente forgiate dalla natura a mò di grotte e ponticelli si forma un lago di acqua dolce alimentato dal fiume imbrigliato sottoterra.E poi come in un moderno acqua-park quelle immense vasche divengono gremite di pesci ed uccelli acquatici e la sciara diviene giardino, popolato di piante d'ogni genere.Lo sperone di lava, che fionda nel mare, sul quale viene costruita Villa Scabrosa diventa il salotto della Catania bene,quella colta,letterata e snob. Quella che sa apprezzare tanta originalità.Quella che lode il padrone di casa,il Principe Biscari. Per altri catanesi,invece, questa creazione suscita avversione,ripugnanza e la convinzione che le vasche dei pesci siano la causa di malattia e di morte per gli abitanti della zona.Dopo la scomparsa del Principe,avvenuta nel 1786 Villa Scabrosa venne abbandonata,gli eredi Biscari vendettero a lotti i terreni,le vasche d'acqua vennero interrate ed il tutto venne adibito alla semina.Il tempo ha cancellato anche il ricordo della Villa Scabrosa,che di certo doveva il suo nome alla sua "scandalosa"location.Quel nome è la sola cosa che ci rimane, in un dedalo di stradine a qualche centinaio di metri dal porto di Catania,proprio in quella lingua di terra che un tempo si versò in mare c'è ancor oggi la via Villa Scabrosa.

http://www.skyscrapercity.com/showthread.php?t=369861&page=6

 

Una volta chiamata Porta Ferdinandea, richiama assolutamente l’idea di arco trionfale o di una porta di frontiera, è stata realizzata nel 1768 per opera di Stefano Ittar allo scopo di festeggiare in forma solenne il matrimonio di Ferdinando IV di Borbone con Carolina d’Austria. .

In alto, nel posto che è ora occupato da un orologio si trovava un medaglione con i ritratti dei due sovrani, e altre iscrizioni ricordavano l’evento ma furono tutte barbaramente danneggiate o asportate per odio contro i regnanti, tanto che dopo la dominazione borbonica, la porta fu dedicata a Garibaldi, sebbene i catanesi continuino ad identificarla col nome di "fortino", associandola erroneamente al fortino del duca di Ligne che si trova in via Sacchero, nello stesso quartiere. 

Ma il gioco del bianco e nero torna anche in un'altra struttura, questa volta un palazzo, al n°11 di via Lanolina, da dove si apre una grande entrata che conduce nel cortile dell’ex convento di San Placido, una delle strutture maggiormente rappresentative del barocco catanese.

La Porta Garibaldi (inizialmente chiamata Porta Ferdinandea) è un arco trionfale costruito nel 1768, su progetto di Stefano Ittar e Francesco Battaglia, per commemorare le nozze di Ferdinando I delle Due Sicilie e Maria Carolina d'Asburgo-Lorena. Si trova tra piazza Palestro e piazza Crocifisso, alla fine di via Giuseppe Garibaldi. Il quartiere è chiamato in dialetto catanese U Futtinu (il Fortino).

 


La zona è chiamata u Futtinu in ricordo di un fortino costruito dal duca di Ligne dopo l'eruzione lavica del 1669 che colpì la città su tutto il lato occidentale annullandone le difese medievali. Dell'opera di fortificazione avanzata che sorgeva a sud di piazza Palestro, ormai scomparsa, rimane solo una porta in via Sacchero.
Di tutto ciò oggi rimane ben poco. Alcuni palazzi collegati alla porta furono demoliti negli anni trenta, altri oggi sono abbastanza poveri e tutt'altro che simmetrici. La riqualificazione della piazza ha dato sicuramente un altro aspetto alla porta, ma è comunque tutt'altro rispetto ai progetti originari.

 

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scene girate a Villa Cerami, Piazza San Francesco d'Assisi, Piazza Dante, Monastero dei Benedettini, Piazza Palestro, Palazzo Biscari

 

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PORTA FERDINANDA

-Nel 1768 re Ferdinando con Maria Carolina di Austria il 7 aprile in matrimonio congiungendosi,il sollazzo ed il festeggiare nuovamente moltiplicaronsi in Sicilia; ma i Catanesi emulando gli antichi Romani che ergevano archi trionfali ne'fausti avvenimenti dei loro imperadori, una gran porta innalzarono a dover servire di prezioso monumento storico e di testimone perenne dell'amore e del rispetto della città di Catania verso i suoi sovrani.

O quanto tali opere non arrecano immortalità a chi sono dirette ed a coloro da cui sono state architettate!

La direzione ai sullodati principi Ignazio Paternò Castello Biscari e Domenico Rosso Cerami venne affidata, formandone il disegno l'architetto Stefano Ittar.

 

 

Fattamentesi' tale porta al fine dell'allora nova strada che a ponente conduce e guarda il prospetto della cattedrale fu situata :chiamasi FERDINANDA dal nome del re ,anche tal denominazione alla strada tutta partecipando.

Questo monumento ha due ordini l'nferiore toscano, il superiore attico;il primo nell'interno viene addobbato da 4 colonne di marmo e di 2 nicchie destinate per 2 statue;nel secondo evvi un'aquila di marmo bianco che ebbe nel decorso del tempo un'ala da un fulmine mozza.

Nell'esterno la prospettiva è considerata come bellissima, trovandosivi un eccellente ordine di balaustri allegati insieme con alcuni piloni e posti in conveniente distanza; e sopra, vari trofei con questi motti LITTERIS ARMATUR,

ARMIS DECORATUR,e nel centro due mezzi busti del re e della regina coll'iscrizione OPTIMO PRINCIPI S.P.Q.C. AEDILIUM CURA FAUSTO CONJUGII ANNO 1768.

Devono fare spalla a questa magnifica porta per vie maggiore ornamento 2 torrioni dell'istesso gusto che dalla parte esterna con tutte le fabbriche simmetriche renderanno leggiadra quella semicircolare piazza -

Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

COME UNA FIABA DI ANDERSEN

(articolo di Salvatore Nicolosi)

 -Molti conservarono il ricordo per lunghi anni,e forse qualcuno se ne rammenta ancora, del caso patetico di ORAZIO OTERI,l'uomo che governava l'orologio del Fortino. Quel caso ha la stessa atmosfera incantata e desolata di certe fiabe di Andersen.

L' orologio di Porta Garibaldi aveva un precedente famoso. A venti metri dal suolo, con un quadrante del diametro di oltre due metri, nel '43 era stato rubato. Per le strade, nel più forte delle incursioni di guerra, mentre la città era prossima a cadere il 5 d'agosto nelle mani degli inglesi, i ladri s'aggiravano in libertà.

Razziavano di tutto, farina, zucchero, vestiti, gomme di automobili abbandonate.Ma ce ne fu un gruppetto tutto di giovani bizzarri, che, inerpicandosi su per la stretta scala a chiocciola scavata entro uno dei piedritti dell'arco,arrivò fin lassù, smontò a pezzo a pezzo gli ingranaggi e se li portò via;bilanciere,sfera, denticuli,girelle, troclee. Più tardi i ladri furono tutti arrestati ma gli ingranaggi non si poterono recuperarehttps://www.mimmorapisarda.it/altro/fort54.jpg

Siccome la gente del Fortino premeva, anni dopo il municipio fece restaurare, anzi ricostruire di sana pianta, l'orologio.

Nel '46 ,quando esso aveva appena ricominciato a funzionare, una cooperativa di lavoratori agricoli del quartiere chiese al Comune, e ottenne,di poter usare come propria sede uno stanzino al piano terra di uno degli elementi dell'arco. Dall'interno di quel piccolo vano parte la scaletta che conduce all'orologio;a un quarto della salita c'è un bugigattolo. In quei due vani a diversa quota si installò Orazio Oteri, custode di quella cooperativa che non funzionò mai,assieme alla sua famiglia,moglie e tre bambini;di bambini, più tardi lì stesso ne sarebbe nato un quarto. Oteri era un ometto basso,tarchiato, forte,mite e di capelli biondicci;dopo che la cooperativa si dissolse, si mise a lavorare in un'agenzia di <<disbrigo documenti >>

Il Comune gli conferì l'uso dei locali a patto che, senz'altro compenso, egli accudisse all'orologio.

Ogni mattina, alle 8 in punto, Oteri saliva a caricarlo, regolando con lunghi giri di manovella i grossi contrappesi di pietra;e di tanto in tanto ripuliva anche il macchinario.

Un giorno di dicembre del '52 ,mentre Orazio era assente, un vigile urbano capitò lì e,trovate alcune bombole su un carrettino lasciate lì da un suo amico perché gliele custodisse,stilò un rapporto: detenzione abusiva, e forse anche vendita abusiva, di gas liquido.

Lui,tornato, corse dai vigili per protestare;e fu sul punto d'essere arrestato. Finì con uno sfratto. Era un guaio;se sei anni prima per lui,come per ogni altro, era difficile trovare una casetta libera, ora per lui,come per pochi altri diseredati, era difficile pagarne la pigione. Gli abitanti del quartiere presero le sue parti ,ma l'unico risultato che ottennero fu un rinvio dell'esecuzione.

Arrivò infine la data fatale, 10 luglio 1954.Dove trovare un tetto?Oteri non lo sapeva. La moglie per giunta ora aspettava il quarto figlio. Frastornato e dispiaciuto, accumulò comunque su un carrettello le poche masserizie. La sera del 9,in piazza del Fortino, s'incontrò dinanzi a un bar coi vigili <<nemici >>,strinse loro la mano, tornò per l'ultima volta a dormire nel suo rifugio, programmò l'ultima carica dell'orologio, alle 8 come sempre. Chi ci avrebbe pensato a partire dal giorno 11?Forse pensò a questo per una parte della notte.

Quando, svegliatasi poco dopo l'alba, la moglie gli diede un'occhiata, si stupì della sua immobilità. Le ci volle un attimo per capire che era spirato. Sul certificato di morte il medico non esitò a motivare l'improvviso decesso, non dovuto nè a malattia nè a infarto, e, poiché Oteri aveva solo 33 anni, neanche all'età. La probabile causa era un <<forte dispiacere >>.

Poiché nessuno quel giorno lo caricò,l'orologio fece fino a sera il suo dovere, poi si fermò.

La Ferlita fece subito ricoverare i 3 orfanelli in un ospizio e la donna in una clinica ostetrica.

Alcune settimane dopo, questa, che aveva dato alla luce l'ultimo figlio, <<ereditò>>l'incarico di custode dell'orologio di Porta Garibaldi. Tornò così nel bugigattolo con la nidiata. Non l'avrebbero più sfrattata; almeno un tetto ora lo aveva-(Salvatore Nicolosi)

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IL FORTINO (L'AUTENTICO)

 

La parrocchia di S. Lucia al Fortino festeggia solennemente la propria santa patrona e titolare per le vie del quartiere.
Al tramonto, intorno alle ore 17,00, l’artistico simulacro, posto sul fercolo, ha fatto la sua uscita dalla chiesa per l’inizio del pellegrinaggio per le case e le strade del quartiere, per la visita e la benedizione delle famiglie, per portare pace e gioia a tutti loro e a tutti quanti vi partecipano, anche provenienti dai quartieri vicini.
Durante la processione hanno avuto molto spazio ed importanza i momenti di preghiera, sopratutto durante la sosta della processione davanti alla chiesa del Sacro Cuore e la chiesa di Maiorana in piazza Palestro.

 

Chiesa SS. Crocifisso Majorana, in Piazza Palestro

Questa l’iscrizione, la sola non in latino e tra le prime delle nove cittadine che ricordano il terremoto del 1693, della lapide che, recuperata dalla demolizione dell’edificio precedente, campeggia sul prospetto del teatro Sangiorgi (1900) in via Antonino di Sangiuliano.

La tragedia aveva sfiorato la città non molto tempo prima: l’eruzione dei Monti Rossi del 1669 produsse una colata di quasi un miliardo di metri cubi che raggiunse una Catania spopolata per paura; deviata dalle mura cinquecentesche sino al bastione San Giorgio, presidio sud orientale, la lava si riversò in mare, la battigia avanzò di centinaia di metri, il porto fu invaso, la costa mutò l’andamento lungo il fronte urbano, circondato da un deserto fumante terra di nessuno. Colmati i fossati, l’Ursino non fu più “castello a mare” presidio del porto come i coevi di Augusta e Siracusa. La città fu risparmiata, la popolazione vi fece ritorno e numerosi profughi vi cercarono asilo dai distrutti paesi del versante meridionale dell’Etna, le cui terre invase dai basalti non furono coltivabili per decenni.

Non così nel 1693: le scosse della sera di venerdì 9 gennaio causarono una decina di morti e ingenti danni al patrimonio edilizio, procurando allarme nei cittadini ma non sufficiente, forse memori dello scampato pericolo di pochi lustri prima, per lasciare la città; con quelle del pomeriggio di domenica 11, sedicimila abitanti su diciannovemila, secondo fonti d’epoca, furono sepolti dalle macerie di Catania e dei suoi secoli di storia. Condivisero quella sorte le città del Val di Noto, interessato dal sistema di faglie ibleo maltese da cui originano i terremoti della regione, e molte del Val Demone, raggiunte dall’onda sismica, furono gravemente danneggiate.

Con non pochi contrasti, governo, nobiltà e clero si impegnarono, animati dalla volontà di autorappresentazione, ma anche di protagonismo a fianco di una popolazione afflitta da lutti e distruzioni, in un imponente progetto ricostruttivo unitario, tendente a inserire la nuova Catania nei più aggiornati circuiti culturali europei, offrendole una rinnovata memoria storica e una nuova identità di carattere non più o non soltanto localistico, che trasformò la catastrofe in una grande occasione di riscatto economico e sociale delle popolazioni interessate.

http://www.rotarycataniaest.it/

 

"Facevano a gara i cittadini per ricostruire case e palazzi" scrive lo storico benedettino Vito Amico. Egli riporta così un dato importante:la dimensione autonoma, in parte popolare, degli sforzi compiuti per riempire di realtà edificate il tracciato che le autorità avevano predisposto. Ne resta memoria nella tradizione che assegna la decisione di ricostruire Catania all'energico attivismo di un canonico della cattedrale, Giuseppe Cilestri, e di suo nipote Martino.

Il fervore della ricostruzione dà il tono alla vita di Catania settecentesca; per decenni essa è tutto un cantiere, che attrae popolazione e maestranze, che mette in moto l'economia, che apprende nuove tecniche e le dissemina a sua volta. Una esperienza preziosa per gli architetti, come i catanesi Alonzo di Benedetto e Francesco Battaglia, Girolamo Palazzotto da Messina, il palermitano Giovan Battista Vaccarini, e poi il toscano Stefano Ittar e tanti altri. Tra tutti il Vaccarini è forse quello che ha lasciato il segno più netto, sia per il gran numero di edifici da lui curati che per il lungo periodo del suo operare a Catania.

Il segno più certo di tale vitalità, oltre all'espansione stessa del tessuto urbano, è la vicenda della cultura. Vi è innanzitutto l'accresciuta importanza dello "Studio" - l'Università -, che sotto il prevalente impulso di medici e giuristi già fin da prima del terremoto aveva posto le basi per una nuova sede e una espansione; il suo palazzo è ora tra i primi a dare nuovo prestigio alla riorientata via Uzeda (oggi via Etnea), collocandosi a mezzo tra il palazzo comunale e la chiesa della élite dirigente, quella di S. Maria dell'Elemosina (Collegiata), ricostruita sullo stesso luogo ma riorientata in modo da affacciarsi sulla nuova strada principale. L'Università è terreno di conflitto tra la direzione ecclesiastica e quella laica, in un'epoca in cui i governi cominciano ad avocare a sé il controllo della cultura. Proliferano perciò i centri privati di studio, le biblioteche private, le associazioni, le accademie. La terribile esperienza del terremoto e l'incombere del vulcano indirizzano il dibattito culturale verso un progresso concreto delle scienze geologiche, mineralogiche, vulcanologiche; si supera così la strettoia della disputa tra scienza e fede, e con l'opera del canonico Giuseppe Recupero  si pongono i fondamenti di un ricco patrimonio nelle scienze naturali che sarà continuato nell'Ottocento.

Personalità dominante è quella del principe di Biscari, Ignazio II Paternò Castello. Figura di livello europeo, archeologo, antiquario, predispose una biblioteca e soprattutto un Museo che riscossero l'ammirazione di tutti i visitatori e divennero centro di studio e di ricerca. Gareggiava con questa gran collezione privata la biblioteca e il museo dei Benedettini, anch'essi centro di discussione e di studi classici, filosofici, storici, naturalistici. Lo storico Vito Maria Amico e più tardi il naturalista Emiliano Guttadauro(1759-1836) ne sono tra i nomi più rappresentativi.

Né è da sottovalutare l'attività del vescovo Salvatore Ventimiglia, fondatore di una ricca biblioteca poi lasciata allo Studio; così come meritano un ricordo figure quali Nicola Spedalieri, l'ingegnere Giuseppe Zahra Buda, proveniente da Malta,che riuscì a risolvere il problema della costruzione di un molo nel porto; o il naturalista Giuseppe Gioeni d'Angiò , cui si intitolò una celebre Accademia. Giuseppe Geremia, musicista amico di Paisiello rappresenta la continuità di una cultura musicale che avrebbe dato i suoi frutti nel secolo successivo.

Si viene formando così un ambiente culturale vivace, che soprattutto verso la fine del secolo sarà percorso dai fermenti innovatori, laici e democratici sintetizzati dal periodo catanese del grande riformatore Giovan Agostino De Cosmi. Grazie a questi ambienti, Catania viene definendosi come la città giacobina, borghese e democratica che si manifesterà nel secolo successivo.

Certamente l'immane sforzo di ricostruzione si dovette ai cospicui investimenti edilizi resi possibili dalle rendite feudali accumulate dalle grandi famiglie, dalla Chiesa, dagli ordini religiosi (particolarmente impressionante l'impegno dei Benedettini nel riedificare il monastero di San Nicolò l'Arena col tono di una vera e propria reggia). Ma fu così che la città poté superare la crisi dei primi decenni del Settecento, che vide la Sicilia passare dal dominio spagnolo ai Savoia (1713-1720), poi agli Austriaci (1720-1734) e infine alla nuova dinastia borbonica, e ciò non senza l'inizio di grandi cambiamenti e grandi speranze, e conflitti anche nell'ordine religioso, tra Stato e Chiesa.

 

 

 

Gli architetti lavorarono in completa armonia ed è impossibile distinguere il lavoro di Alonzo da quello dei suoi assistenti. Il lavoro è valido ma elementare, con bugnati decorati nello stile siciliano del XVII secolo, ma spesso la decorazione dei piani nobili è superficiale. Questo è tipico del Barocco di questo periodo immediatamente seguente al terremoto. Nel 1730 Vaccarini arrivò a Catania come architetto della città e immediatamente impresse sui nuovi lavori lo stile Barocco Romano. I pilastri perdono i loro bugnati e sostengono cornicioni del tipo romano e timpani, e trabeazioni o timpani curvilinei, e colonne a tutto tondo a sostegno di balconi. Vaccarini sfruttò anche la locale pietra lavica come elemento decorativo piuttosto che come un generico elemento costruttivo, utilizzandola in alternanza ritmica con altri materiali, e spettacolarmente per il suo obelisco posto sul dorso dell'Elefante, simbolo di Catania, per una fontana nello stile di Berini di fronte al nuovo Palazzo di Città. La facciata principale di Vaccarini per la Cattedrale di Catania, dedicata a Sant'Agata, mostra forti influenze spagnole anche a questo stadio tardo del Barocco Siciliano. In città si trova anche la Chiesa della Collegiata di Stefano Ittar, costruita intorno al 1768 ed esempio di Barocco Siciliano colto nella sua massima semplicità stilistica.

http://it.wikipedia.org/wiki/Barocco_siciliano

I GRANDI ARCHITETTI DELLA RINASCITA DI CATANIA

 

 

FRANCESCO BATTAGLIA

Battaglia iniziò la sua carriera come Lapidum incisor, in pratica come scultore degli apparati decorativi lapidei che sono una delle caratteristiche più appariscenti dell'architettura barocca siciliana. La sua prima formazione avvenne, quindi, nei cantieri edilizi della ricostruzione avvenuta dopo il famoso terremoto del 1693. Da semplice scultore, però, la straordinaria bravura di Battaglia nell'interpretare i temi e gli stilemi dell'architettura barocca gli consentì una rapida ascesa nella professione, stavolta, di architetto. A Catania divenne, quindi, soprintendente ai lavori dell'Almo Studio dal 1759, professore di geometria pratica e architettura civile presso l'Università (1779-88), architetto della Deputazione Opere Pubbliche e del Real Patrimonio (1763-78). Con Stefano Ittar, altro importante architetto di origine polacca, costituirà un sodalizio fondamentale per il barocco catanese, in quanto si fonderanno nelle loro opere la tradizione architettonica barocca di respiro europeo con quella siciliana. Tale sodalizio si rafforzerà ancora di più col matrimonio di una delle figlie di Battaglia con Ittar.

Partecipazione al cantiere del Monastero di San Nicolò l'Arena di Catania; Chiesa della Santissima Trinità a Catania (dal 1745), insieme a Ittar Intervento attribuito nella chiesa di San Camillo a Catania; Progettazione del prospetto della chiesa madre di Militello; Restauro della chiesa madre di Caltagirone (1766); Chiesa madre di Aci Castello (fine 1760 e con prospetto del 1774 ca.); Basilica di Aci San Filippo (dal 1759); San Michele ai Minoriti a Catania (dal 1760); Facciata della chiesa del Carmine a Catania (attr., 1766): porta Ferdinandea a Catania (1768), insieme a Ittar; Piazza San Filippo a Catania (1768-'69); Sovrintendenza dei lavori di ampliamento del Palazzo Biscari a Catania (gli viene attribuita la scala dei musici); Tondo Vecchio a Caltagirone; Chiesa di San Giuseppe ad Aci Catena, in provincia di Catania

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STEFANO ITTAR

 nacque a Owrócz (oggi Ovru?) una cittadina della Volinia, che al tempo faceva parte della Confederazione Polacco-Lituana, mentre oggi è nel territorio dell'Ucraina.

Quasi nulla conosciamo della prima parte della sua vita. Tra il 1754 e il 1759 si trasferì a Roma dove perfezionò la sua preparazione e dove risiedette fino al 1765, quando giunse a Catania. Qui nel 1767 sposò Rosaria, figlia di Francesco Battaglia, importante architetto, che all'epoca, oltre ad essere il pubblico architetto della Città di Catania, sovrintendeva anche i lavori di ampliamento del palazzo appartenente a Don Ignazio Paternò-Castello Principe di Biscari, che nel frattempo era diventato il protettore di Ittar. Ebbe nove figli, tra cui Sebastiano (1768-1847) ed Enrico (1773-1850), che intrapresero la professione paterna. Insieme al suocero, con cui costituirà un sodalizio artistico fondamentale per il barocco catanese, Stefano realizzò  la porta Ferdinandea (1768),  la piazza di S. Filippo (1768-69) la chiesa della Trinità. Gli si attribuiscono i prospetti della Basilica Collegiata (dal 1768) S. Martino dei Bianchi (1774)  S. Placido (1769). Per il monastero benedettino di San Nicolò l'Arena realizzò la cupola (1768-80) e l'attuale piazza Dante (1774-75). Gli sono stati attribuiti, inoltre, il completamento del Palazzo di Città di Catania, il prospetto del Priorato della Cattedrale, i palazzi Pardo e Misterbianco, la chiesa e una parte del monastero della SS. Annunziata di Paternò (dal 1768) e la ricostruzione della cupola del duomo di Noto, poi crollata nel XIX secolo. Nel 1785 si trasferì a Malta dove realizzò la Biblioteca per l'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni e dove morì nel 1790.

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GIOVAN BATTISTA VACCARINI 

L'architettura tardobarocca più viva ed interessante si trova in Sicilia. Avendo il terremoto del 1693 devastato la maggior parte delle città orientali dell'isola, ebbe inizio un lungo periodo di ricostruzione e Catania fu il centro dell'elaborazione architettonica. Assai fecondo fu l'architetto Giovanni Battista Vaccarini, le cui opere, di alto livello qualitativo, costituiscono molta parte del paesaggio urbano. Nato a Palermo nel 1702, fu chiamato nella città terremotata dal vesovo Galletti, quando aveva ventisette anni. Aveva studiato a Roma, dove aveva conosciuto Vanvitelli e Carlo Fontana ed approfondito le opere di Bernini e di Borromini. A differenza dello Juvara, l'esperienza romana lo manterrà vicino all'architettura berniniana. Il barocco vaccariniano è rielaborazione delle forme e del ritmo classici, insieme all'uso dei materiali e degli stilemi del repertorio tradizionale catanese. F. Fichera, architetto degli anni trenta, così scrive di Vaccarini: Egli aveva il segreto del ritmo, un dono che Dio offre ai grandi architetti ed ai grandi musicisti ed ancora: Con Vaccarini si rinnovò il miracolo italiano, per cui ciascuna delle cento città nostre ha una sua figura ed un suo privilegio: Firenze ha quello di rappresentare il Rinascimento, Catania il Barocco. A trentun'anni gli fu assegnato il prospetto della Cattedrale di Catania con il compito di restaurarlo, inserendovi le colonne marmoree dell'Odeon greco e del Circo romano. Innumerevoli sono le opere che ci ha lasciato, ma il suo capolavoro è la Chiesa della Badìa di Sant'Agata, edificata in Piazza Duomo, proprio dove costruì in seguito la fontana dell'Elefante ed il Palazzo Senatorio. Su corso Vittorio Emanuele realizzò i Palazzi Valle e Serravalle; su via Crociferi Collegio dei Gesuiti, la Chiesa di San Giuliano; in piazza degli Studi partecipò ai lavori dell'Università e del Palazzo Di Sangiuliano; realizzò ancora il Collegio Cutelli,Casa Vaccarini,intevrenti sulla biblioteca del Monastero dei benedettini e S: Nicolò e la Badìa delle monache di San Benedetto.

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Intorno all’anno 1372 esisteva in Catania una chiesa dedicata ai Santi Apostoli Simone e Giuda presso l’antico cortile di N.S. della Misericordia, dietro l’attuale salone parrocchiale di S.Maria dell’Aiuto, un tempo chiesa di S. Giacomo. Nel 1635 vi era una Congregazione sacerdotale che zelava il culto della Madre di Dio nella chiesa di Santa Marina sita all’epoca nell’attuale via Pozzo Mulino. Nel 1641, il 3 novembre, la Congregazione sopracitata portò solennemente nella chiesa di SS.Pietro e Paolo una preziosa tela della Vergine che per i miracoli fatti al popolo,dalla pubblica icone dove si trovava venne invocata col titolo di Madonna dell’Aiuto.

“L’immagine di Nostra Signora dell’Aiuto il 3 novembre 1641 dalla parte di fuori della Strada per la frequenza dei miracoli fu trasferita solennemente in chiesa come si rivela dal De Grossis Carrera, Privitera e Amico.

Da questa scrittura dunque si rileva in termini assai chiari che la preziosa Effigie sino all’anno 1641 stava esposta in una edicola della pubblica strada ed era assai venerata dal popolo. I fedeli sostavano dinanzi all’Icone a gruppi, e spessoerano talmente numerosi da impedire il traffico.

Questa, secondo la tradizione, è stata una delle ragioni per cui il Senato abbia sollecitato l’autorità ecclesiastica a trasferire la sacra Immagine in una chiesa vicina.

 

 

Fu scelta quella dei SS. Apostoli Pietro e Paolo non per il solo motivo che fosse la più vicina, ma ancora perchè la più adatta allo svolgersi delle funzioni e delle grandi solennità.

Interessa però far rilevare come il vero motivo della traslazione sia stato quello espresso nella memoria su riferita, dove si legge: per la frequenza delli miracoli. Miracoli che sono valsi alla diffusione del culto, miracoli storicamente ricordati dai diversi scrittori, i quali mettono in risalto l’avvenimentoi del trasferimento della sacra tela e lo citano come un fatto da non relegarsi nel silenzio.

Il De Grossis in proposito scrive : ” Dopo che fu disegnata come parrocchia (SS. Pietro e Paolo) fu sempre frequentatissimadi popolo. Ai nostri tempi è assai più frequente il concorso di popolo, sia amotivo di Religione, sia per la sacra Immagine della Madre di Dio, chiamata dell’Aiuto, ivi trasferita nell’anno in cui scriviamo queste cose, 1641 a 3 novembre, la quale immagine opera tutti i giorni assai illustri miracoli. ( perillustria miracula in dies operante)“.

Ecco un’altra testimonianza dell’ abate Amico. Egli dice che la Chiesa dei SS. Ap. Pietro e Paolo fu riedificata dopo il terremoto ed aggiunge : “oggi viene chiamata col titolo di S. Maria dell’Aiuto, per essere trasferita in detta chiesa, l’anno 1641, 3 novembre l’Immagine assai devota della Madre di Dio, la qualeè onorata con grande concorso di Popolo, che va a sciogliere i suoi voti ai piedi di Essa”.

Testimonianza di maggiore rilievo è quella del Privitera, considerato non solo come storico, ma ancora come testimonio oculare.Egli scrive così:

“L’anno 1641 a 3 Novembre detta chiesa fu decorata con l’immagine di N. Signora dell’Aiuto, trasportata dalla parte di fuori della strada pubblica, dove per la frequenza delli Miracoli alla pietosa devozione de confluenti fu condotta in detta chiesa con solennità alle 3 di Novembre l’An. predetto, essendo io anco presente da figliuolo”.

Egli era presente e tiene a far risaltare che la cerimonia si svolse con solennità.

Ne dobbiamo quindi dedurre che vi abbia preso parte una grande folla, essendo molti i beneficiati da quella cara Madonna.

Oltre al numeroso popolo sappiamo che anche il clero ed il Senato parteciparono con la loro rappresentanza.

Era allora vescovo di Catania S. E. Mons. Ottavio Branciforte, insigne letterato, eletto nel 1638. Egli acconsentì volentieri alla proposta del trasloco della prodogiosa Effigie e diede pure disposizioni perchè non mancasse alla funzione la nota della solennità e della devozione.

La preziosa tela scampata al terribile terremoto dell’11-1-1693 è stata sempre oggetto di venerazione; il popolo catanese volle costruire un tempio in suo onore ed affidò il progetto all’architetto A. Battaglia.

la facciata della chiesa, a cui si accede da un’ampia scalea, ha dieci colonne a rocchi con capitelli corinzi e festoni. Due statue in pietra calcare rappresentano i S. Apostoli Pietro e Paolo. Nel centro del timpano troviamo il monogramma di Maria circuito da una gloria di sei angeli in marmo.

Sul portone trovasi una riproduzione in marmo dell’immagine della Madonna dell’Aiuto.

Ad occidente si erge maestosa la torre campanariacon l’orologio ripristinato nel 1986. L’interno del tempio è costituito da una luminosaed ampia navata. La volta è decorata da stucci zecchinati con scritte e simboli mariani.

Nell’interno troviamo quattro altari laterali: il 1° a sinistra possiede una tela di S. Francesco di Sales del secolo XVIII; il 2° ricco di reliquie, è quello del Crocifisso;

il 1° a destra è una copia del martirio di S. Agata, opera di F. Paladini conservato nella Catterale; il 2° riproduce gli apostoli Pietro e Paolo.

 

 CAPPELLA DEL LORETO

Il culto della Madonna di Loreto è antichissimo, una cappella sotto il titolo di S. Maria di Loreto esisteva a Catania nella contrada della Giudecca inferiore. Una Santa Casa trovasi a Catania, fatta eseguire nel Settecento per devozione da Giuseppe Lauria, canonico della Chiesa cattedrale. Le sue mura esterne- scrive l’abate Amico- “sono incrostate e adorne con sculture di marmo pario”. Essa è sita nellla chiesa omonima, contigua alle due chiese dei SS.Apostoli Pietro e Paolo (dal 1641 titolata S.Maria dell’Aiuto) ed all’altra della Beata Vergine della Misericordia (dal 1754 oratorio dei SS. Giacomo e Cristoforo).

 Esterno cappella

 Da alcuni atti notarili si ricava che la nuova chiesa della Santa Casa fu esguita “secondo il disegno fatto dai maestri Antonio Taormina, Domenico Arancio, Nicola Bombara e Antonio Tomaselli”; e, come narra lo storico settecentesco Vito Amico, il celebre studioso benedettino autore della “Catania Illustrata”(1740-1746). essi costituirono “il dammuso della Santa Casa, con suo cubbolino e cornicione giusta il disegno stampato, la nicchia e antinicchia dove vedesi situare la statua della Vergine con quelli fiori, stelle e serafini d’intorno come nel disegno, di più innalzare la Santa Casa di dentro di marmo…” Le due facciate di mezzogiorno e di tramontana furono affidate per l’esecuzione a D.Michele Orlando scultore palermitano. Il lavoro doveva essere in tutto corrispondente al disegno ordinato: “non riuscendo tutto di perfezione e secondo il disegno o pure mancando il detto Orlando e non potendo e non volendo finire il tracaglio, come sopra dopo che sarà fatto e non piacerà alle persone deputande dal Lauria, a questi sia lecito di farlo rifare e dallo stesso Orlando o da maestri di Catania e di Messina….”. Il contratto era “a ragione di onze 175 di danari di giusto peso.L’interno della cappella è ricco di vivaci affreschi. All’altare dentro una nicchia si trova il simulacro della Madonna di Loreto (sec. XVIII) rivestito col suo caratteristico mantello. La cappella dopo gli ultimi restauri è stata riportata al suo splendore originale.

 

fonte: http://www.santuariomadonnaiuto.it/

 

 

 

 

 

La Catania settecentesca nasconde dei misteri sconosciuti a molti degli abitanti di questa meravigliosa città. Tra questi vi è, indubbiamente, la Casa di Loreto. Si tratta di una replica della chiesa originale ubicata, per l’appunto, a Loreto, in provincia di Ancona. La chiesetta si trova in un vano rettangolare attiguo alla chiesa di Santa Maria dell’Aiuto, nell’omonima piazza, nei pressi di via Giuseppe Garibaldi. Edificata nel 1740 per volere del canonico don Lauria, che dopo aver visto l’originale Santuario volle a Catania una copia della stessa, che la leggenda voleva fosse stata trasportata dagli angeli.

La storia della Santa Casa di Loreto narra che nel 1291, dopo l’invasione dei Musulmani in Palestina, la Casa dove Maria era nata e dove aveva ricevuto l’annuncio dell’arcangelo Gabriele, fosse stata trasportata dagli angeli a Loreto. Da questo episodio leggendario nasce il mito sopra citato. La copia di questa chiesa si narra fosse stata trasportata sempre dagli angeli anche a Catania. Quest’ultima, rispecchia tantissime analogie con la struttura principale e per alcuni versi è nutrita di nuove conoscenze teologiche. Bellissimo è il rivestimento marmoreo esterno con la rappresentazione dei personaggi del Vecchio Testamento. Su di esso vi sono dei pannelli che rappresentano le fasi salienti della vita di Maria. Tra questi la Natività, l’Annunciazione e la Natività di Cristo. In uno di questi pannelli viene rappresentato anche l’episodio in cui gli angeli trasportano la casa dalla Palestina a Loreto.

L’interno della casa è davvero una fotocopia dell’edificio originale. L’unica dissonanza è percepibile dando uno sguardo agli affreschi. Se nella Casa di Loreto, questi ultimi ricalcano interamente l’era medievale, in quella di Catania la sensazione è che si sia scelta una maniera più moderna.

Probabilmente, lo stesso Don Lauria, vissuto nel Settecento, volle modificare con degli affreschi maggiormente pertinenti a quel periodo.

Magnifico è l’altare tutto in marmo policromo che dà un effetto decorativo molto gradevole. Su di esso troneggia l’immagine di Maria Regina del Cielo con la veste dalmatica che da una sensazione di sacro. il Santuario dedicato alla Madonna dell’Aiuto: un tesoro nascosto all’interno di un altro gioiello settecentesco.

Un mix di marmi e di rappresentazioni scenografiche che ti rapisce e ti da la sensazione di essere trasportato da un epoca ad un altra, da un luogo ad un altro.

Un’emozione decisamente da provare.

 

Davide Villaggio

https://catania.italiani.it/la-casa-di-loreto-la-chiesa-trasportata-dagli-angeli/

 

 

 

 

Era il quartiere dei diecimila. L'esodo dei nuovi "cursoti" ha ridotto i residenti a 3mila il rione originario. È sommariamente individuabile attraverso i monumentali complessi religiosi attorno ai quali esso è sorto.


Legenda della cartina in alto al centro relativa all'individuazione del quartiere: 1. Complesso Benedettini, 2. Vecchia Giundacca, 3. Osp. Vittorio Emanuele, 4. Dep. Tranvie, 5. Liceo Spedalieri, 6. Vecchio Bastione, 7. Torre del Vescovo, 8. Osp. S. Bambino, 9. Complesso Purità, 10. Istituto Pio IX, 11. Osp. S. Marta, 12. Terme della Rotonda, 13. Case Esedra, 14. Minoritelli, 15. Ex Chiesa Idria, 16. Verginelle, 17. Casa dei Marescialli, 18. Case popolari Legenda cartina in basso sui presunti confini del quartiere e i nuclei abitativi: 1. Torre del Vescovo, 2. Idria, 3. Purità-Santa Marta, 4. Minoritelli, 5. Vecchia Giudecca, 6. Castromarino, 7. Botte dell'Acqua

 

di GAETANO D'EMILIO

L'Antico Corso fa parte di uno dei sobborghi, di modesta edilizia di carattere popolare, considerati subalterni alla città, diventate col tempo sacche centrali di degrado urbano ma mano che la città li scavalcava, estendendosi nel territorio.
Nel caso di Catania, lo scavalco urbano è stato accelerato dalla conurbazione dei vari quartieri periferici: Cibali-Susanna, Borgo-Consolazione, Barriera-Canalicchio, Picanello-Guardia, Ognina-Carruba, S. Giovanni Galermo- Trappeto ed anche Mario Rapisardi-Nesima e Zia Lisa-Acquicella. Creando nell'intera città un degrado generalizzato come ebbe a fare osservare alla fine dell'ottocento al Consiglio Comunale il Gentile Cusa: "Le vie e le case delle sezioni non centrali…si trovano in condizioni edilizie ed igieniche molto infelici, poiché in quasi tutte le sezioni ci sono gruppi di case e perfino interi quartieri in uno stato, sotto tutti i profili, deplorevolissimo", attorno a cortili invece che di piazze, lontani quindi dalle direttive camastriane e delle necessarie regole edilizie quali assegni di linea e di livello.
E se in altri quartieri (Civita, S. Cristoforo, Cibali, Ognina) fino a poco tempo fa si riusciva ancora ad identificare con certezza il vecchio nucleo di abitanti per senso di appartenenza, aiutati anche da un residuato sociolinguistico, per il Corso oggi diventa più difficile, soprattutto per i confini incerti con il Fortino e con S. Cocimo, tenuto anche conto dello spostamento di molti cittadini del vecchio nucleo di abitanti quasi del tutto disperso, per frammentazione o immigrazione, i cui fattori contribuiscono alla difficoltà di individuare le radici di appartenenza e la verifica dei residenti delle nuove generazioni, che hanno cambiato usi e tipi di attività lavorative.
Molti di questi cursoti di origine si sono spostati anche fuori città, in alloggi più confortevoli di quelli rimasti nel quartiere in pessimo stato di conservazione e con servizi privati e generali inadeguati ai nuovi tempi; per cui molte di queste costruzioni restano abbandonate e vuote. Infatti negli ultimi venti anni le statistiche riscontrano che gli abitanti del quartiere da diecimila, oggi si sono ridotti a non oltre tremila e, tendono ancora a diminuire, contemporaneamente all'aumento di pendolari interessati a risiedervi, a periodi, per la presenza delle strutture culturali universitarie.

 

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Non ci sono più in vita gli anziani a dirci se nel quartiere, era più frequentata la putia di don Saru o la putia di don Aitinu. Chi cessava per ultimo l'attività per i clienti che si attardavano la sera o chi iniziava prima la mattina per i clienti che si muovevano all'alba.
Così come nessuno oggi è in condizioni di informarci sul salone (di barba e capelli) di don Niculinu u vabberi (al Borgo vavveri), della via Plebiscito, sempre affollato di domenica dove, in attesa con chitarra e mandolino a disposizione, si parlava di ogni cosa, mai di famiglia e, se disponeva, come altri barbieri, delle sanguisughe per i salassi che, in momenti di pericolo, abbassando repentinamente la pressione sanguigna, evitavano "la botta" (ictus) e se si adoperava ad estrarre qualche dente cariato o di latte, sostituendo in stato di emergenza, il dentista.
Il barbiere a quel tempo, in camice bianco, apprezzato "parasanitario" era richiesto a domicilio per servire quotidianamente i signori anche per l'assistenza alla cura della gotta, durante il raffinato lavoro eseguito, teneva aggiornati sulle notizie e sui pettegolezzi del quartiere (quale persona di fiducia era addirittura mezzo di ambasciate e saluti tra clienti).

 

CATANIA. Risulterebbe impossibile immaginare Catania senza la sua Santa Patrona, ma sarebbe altrettanto difficile immaginare un devoto di Sant’Agata senza indosso il tradizionale sacco. “U saccu”, per intenderci. Catania, infatti, durante le celebrazioni agatine si tinge di bianco. Una vera esplosione di devoti che con il loro tradizionale sacco bianco partecipano alla processione trainando il fercolo della “sant'aituzza” lungo le strade della città. E’ una tradizione ormai consolidatissima che non conosce distinzione di età o sesso: adulti, bambini e ragazzi tutti con indosso il sacco.

Le scuole di pensiero riguardo le origini del sacco sono più di una: qualcuno afferma che il sacco - oggi indossato dai devoti in occasione della festa - richiami la camicia da notte indossata dai catanesi nella notte del lontano agosto del 1126, durante la quale accorsero ad accogliere le reliquie di Sant’Agata riportate a Catania da Costantinopoli. Altri, invece, sostengono che si tratti di un saio penitenziale i cui colori bianco del sacco e nero del copricapo simboleggerebbero rispettivamente la purezza e l’umiltà dei devoti in segno di rispetto per la Santa. Ma qualsivoglia sia l’origine o la storia del sacco poco importa per il catanese dotato di un amore viscerale per la sua “piciridda” e impegnato a prodigarsi senza riserve per i festeggiamenti.

LiveSiciliaCatania ha fatto un giro per i negozi nel cuore della città per saperne di più e ha conosciuto Paola Cutuli, titolare di un’attività situata nella p.zza di San Placido, la quale spiega: “ Non è un tipo di commercio sul quale siamo soliti speculare. Il sacco costa relativamente poco, la spesa si aggira intorno ai 20/38 euro al massimo: il prezzo varia in base alle taglie. Ci guadagniamo pochi euro, è una comodità che offriamo più che altro ai catanesi in occasione della festa. Effettivamente – rispetto agli anni scorsi – quest’anno abbiamo registrato un lieve calo delle vendite, ma il catanese difficilmente rinuncia a venerare la propria Santa”.

Dunque, il sacco, la lunghissima processione urlando a squarciagola “cittadini W Sant’Agata”, le mostre, le iniziative, la preghiera: non si risparmiano i catanesi che amano venerare lo loro Santa Patrona senza rinunciare ad essere anche veri protagonisti.

http://catania.livesicilia.it/.../u-saccu-il-rito-della.../

 

 

QUARTIERE ANGELI CUSTODI

Inizi del 1669, pochi mesi prima della imponente eruzione lavica dell'Etna che avrebbe distrutto,lungo il suo cammino dai Monti Rossi di Nicolosi verso il mare,oltre una decina di paesi e cambiato l'orografia di Catania,troveremmo qui uno splendido mare azzurro,popolato da pesci e sentiremmo lo scrosciante rumore delle sue piccole onde,battere lungo parti di una suggestiva battigia sabbiosa.

Proprio quell'anno,il 1669, la mostruosa massa incandescente di lava,alta ben oltre cinquanta metri e larga decine di chilometri, aggirò il Castello Ursino e durante la sua corsa dentro il mare,trasformò quelle onde azzurre in una ruvida,nera e tagliente roccia lavica.

Si formarono,di conseguenza,nuovi terreni che furono acquisiti dalla Chiesa,considerato che Ruggero II concesse,con investitura feudale,tutti i terreni compresi tra la foce del Simeto e la cima dell'Etna al primo vescovo di Catania.

Anni dopo la devastante eruzione,nel 1760,questi terreni furono assegnati al Municipio di Catania per oltre 100 ettari,al principe di Biscari per 24 ettari e i 17 ettari rimanenti alla Chiesa parrocchiale dei Santissimi Angeli Custodi,a patto che venissero ceduti con un canone simbolico ai privati per trasformarli in suolo edificabile.

Da qui nacque il quartiere degli "Angeli Custodi" di Catania che considero uno dei piu' suggestivi della città e che andrebbe recuperato dal punto di vista architettonico,creando un punto di equilibrio tra il bello che esiste con molti manufatti in questa parte di Catania ed il brutto che anche qui ci accompagna.

Franz Cannizzo

 

 

 

 

LA STRADA DEL CORSO

-Per storia, posizione, tracciato e architettura, siamo probabilmente nella strada più importante della Catania settecentesca.

Ideata dal Duca di Camastra come una delle quattro fondamentali arterie della ricostruenda città, l'attuale via Vittorio Emanuele si chiamò STRADA DEL CORSO perché vi si svolgevano le corse dei bèrberi, i famosi cavalli di razza africana, destinati alle gare con o senza fantino (prima del 1693,essa venne chiamata STRADA NOVA;e successivamente STRADA DEL CAMPANARO,forse per l'alto campanile che vi si affacciava, quel campanile fatto costruire dal vescovo Simone del Pozzo nel 1387 <<il quale (campanile) dopo alquanti secoli,venne portato a smisurata altezza, per lo che additavasi come una delle meraviglie della vecchia Catania.....>>).

Dopo l'attuazione del piano regolatore del Camastra, il principe Giovanni Rosso di Cerami, patrizio della città nel 1755,promosse l'apertura di nuove strade sopra la lava del 1669 e,in particolare, realizzò il prolungamento della strada Etnea,dalla porta di Aci al Borgo;della Ferdinanda, dal piano S.Filippo al Fortino;della strada del Corso, dall'attuale piazza Cutelli al mare.

Già sul finire del Settecento, questo rettifilo si collocava fra le più suggestive strade di Catania barocca, assieme a via Etnea e a via Crociferi. E vi si collocava con pienezza di titoli per la preziosa sua architettura, soprattutto.

<<......Se chiudo gli occhi, la vedo lo stesso la bellissima strada;vedo la colonna e la statua stagliarsi nell'azzurro mare.....il palazzo Reburdone che ospitò re,i palazzi Valle e Serravalle del Vaccarini, il monastero di San Placido di Stefano Ittar, la Badia di Sant'Agata con l'aerea cupola, capolavoro del Vaccarini e del barocco catanese;vedo la piazza del Duomo, la fontana dell'Elefante, S.Francesco d'Assisi e la casa di Bellini, Sant'Agostino, la Trinità.....una miracolosa fuga di fabbricati incastonati di gioielli e d'oro>>.

Se vogliamo chiudere gli occhi anche noi,se proviamo a immaginarla senza l'ingombrante presenza delle macchine, dei pali della segnaletica, delle insegne pubblicitarie, e con tanta gente a passeggio nei dorati pomeriggi d'ottobre, quando il sole la prende d'infilata dal quadrivio di SARDO a piazza dei Martiri, ci accorgeremo allora che il <<miracolo>>,l'<<oro>>,i <<gioielli >>di cui parla Saverio Fiducia sono immagini e sensazioni reali,e non già concessioni alla letteratura o al sentimento.

Forse,non facile sarebbe - anche ad occhi aperti - immaginarla com'era durante le feste patronali di due secoli fa, allorché l'ex STRADA DEL CAMPANARO tutta s'animava per la sfilata delle candelore, tutta s'illuminava di lumi e lampioncini, tutta s'affollava per la presenza dei cavalli bèrberi che vi correvano <<dapprima con i fantini bastardelli, e dopo come liberi corsieri con i pungoli ai fianchi, a partire dalla casa del principe Reburdone sino al Monastero della SS.Trinità......>>.

Forse difficile sarebbe - andando più a ritroso nel tempo - immaginarla come si presentò agli occhi spauriti dei suoi abitanti quando, nel marzo del 1647,il popolo affamato correva verso le case patrizie di quel rione per scardinare e incendiare;o come apparve nella Pasqua del 1513,quando una torma di scalmanati bruciò vivo ,a ridosso della Cattedrale, il sarto G.B.Rizzo,pazzo e sacrilego.

Ma non era quella la strada che noi amiamo;quella non era ancora la bellissima strada settecentesca sfarzosamente vestita dal Vaccarini.

Egli è qui presente più che altrove;qui egli profuse le doti eccezionali del suo ingegno, lasciandoci opere fra le più significative del barocco siciliano.

La Badia di Sant'Agata che cos'è, infatti, se non <<il più bel gioiello della corona sacra che il Vaccarini impose alla giovine città?>>.

La realtà urbanistica (e non soltanto urbanistica)era quella che era,a Catania;e nella prima metà dell'Ottocento non fece un passo avanti, o ne fece qualcuno assai breve.

La Strada del Corso aveva allungato il suo tracciato a levante e a occidente, ma era rimasta anch'essa col fondo allo stato di natura.

Bisognerà attendere il 1875 per veder muovere qualcosa in questa direzione.

Non che prima fossero mancate le parole. Anzi.

Da una ventina d'anni si andava parlando di un fantasioso prolungamento della strada verso occidente, al fine di creare un passaggio nella zona delle CASE SANTE. <<.....se stendiamo l'occhio per la bellissima via del Corso, via a torto abbandonata ,verso la parte di ponente si scorge in fine un'elevazione del suolo che impedisce allo sguardo di spaziare nelle retroposte colline. Se per poco si appianasse quella piccola erta, ci si presenterebbe come per incanto un poggio delizioso. Questo poggio, proseguendo la via del Corso, potrebbe servire benissimo alla creazione di un boschetto....che darebbe vita alla magnifica via, lustro alla città, e servirebbe come luogo di diporto e di passeggio per tutte le classi sociali.....>>

Le parole con le quali nel 1859,rivolgendosi ai consiglieri comunali, il Marchese del Toscano amò condire le sue belle intenzioni, restarono parole.

Dopo quasi vent'anni - come dicevo prima - si avrà la definitiva sistemazione a basole laviche della strada (questo,si);ed anche le vie Calì e Porta di Ferro e la piazza Cutelli furono in quella stessa occasione sistemate.

In piazza Cutelli, anzi,venne elevata una monumentale fontana, con vasca circolare, zampilli, base e stele di marmo finemente intagliate;un artistico globo al vertice, un'aiuola. Una fontana, insomma, con le carte in regola.

Poi,per l'avverso destino comune a tutte le fontane catanesi, si inaridirono i zampilli e aiuola. Non fu una parentesi di breve durata;fu qualcosa di più e peggio. Fu il principio della fine.

Non si sa come, un mattino del gennaio 1920,anche la vasca era infatti scomparsa. E nel 1924,a completamento dell'opera, il monumento, poco alla volta, era già stato rosicchiato e distrutto fino all'ultima briciola di marmo.

Negli anni Cinquanta, quando Catania fece toeletta e si abbellì anche di nuove fontane, la civica amministrazione ne volle una in piazza Cutelli, al posto di quella distrutta.

Luci e zampilli, nei primi tempi. E anche dei pesciolini rossi,nella vasca.

Poi,spentesi le luci e inariditisi gli zampilli, i pesci morirono, e al loro posto s'allogarono cartacce e pezzi di legno........-

(da "Catania com'era " di Lucio Sciacca)

 

 

 

U Cursu

patria di tutti gli abusivi e delle bellezze dimenticate di Desirée Miranda, Federica Motta - 8 dicembre 2011

L’Antico Corso, di giorno sede universitaria e la notte frontiera poco raccomandabile, mette insieme cultura e degrado. Affitti in nero, venditori ambulanti, arrusti e mancia e parcheggiatori abusivi. Ma anche impegno sociale e un intero patrimonio artistico mai valorizzato

L’Antico corso, meglio noto come U Cursu, è tra i quartieri più antichi di Catania. Ricco di monumenti artistici, in troppi casi però abbandonati a loro stessi e all’incuria della gente. «E’ il caso del Bastione degli infetti, chiuso da anni. Altre, come le Terme della rotonda sono proprio sconosciute», afferma Valentina Riolo, consigliere della prima municipalità. Un quartiere un po’ dottor Jekyll e mr. Hyde. Di giorno sede universitaria e di notte zona di frontiera. «Basterebbe illuminare correttamente certe piazze per restituirle alla loro bellezza ed evitare che diventino simbolo di degrado e abbandono. Ma comunque devono esserci interventi concreti», sostiene la Riolo. Attività per cui l’amministrazione comunale non vanta certo titoli a tutta pagina. Nota alle cronache è invece la chiusura del centro popolare Experia, occupato sì, ma da un gruppo di ragazzi che faceva attività sociali, dopo scuola, ciclofficina, palestra.

«Di giorno qui è pieno di studenti e di professori. E’ un via vai di automobili. Ma la sera si spengono le luci, la piazza diventa buia e sembra di stare nel Bronx» racconta uno studente che abita vicino all’ex monastero dei Benedettini. Da anni ormai il quartiere ospita l’università in piazza Dante, in piazza Montessori e, da febbraio, anche in via Roccaromana e prolifico è il mercato dell’affitto di camere a studenti, per la maggior parte in nero. «Vivo nella zona di piazza Dante per studio e in cinque anni ho cambiato tre volte appartamento. Ma nessun proprietario mi ha mai proposto di registrare regolarmente il contratto di affitto», racconta Alessia, laureanda in Lingue.

U Cursu è stato rinominato il quartiere universitario, ma non per questo ha perso il suo titolo di quartiere della carne di cavallo. Parliamo degli arrusti e mancia in via Plebiscito che occupano buona parte della strada a discapito della legalità e della viabilità. La zona infatti è tra le più trafficate della città, anche per le numerose scuole e gli ospedali che vi si trovano. «La viabilità intasata, la concentrazione di servizi e la mancanza di ordine pubblico facilitano il lavoro degli scippatori che si muovono a piedi o in sella ai motorini e collezionano furti dopo furti», racconta un operatore del commissariato di polizia giudiziaria di San Cristoforo. «E’ evidente che, dove manca l’intervento dell’amministrazione, la popolazione regredisce. Purtroppo le interrogazioni fatte dal nostro Consiglio di municipalità sono sempre cadute nel vuoto» lamenta Valentina Riolo.

Ma il quartiere vanta anche delle forze positive e attive. Nonostante gli abitanti abbiano risentito della chiusura dell’Experia, il cpo non era il solo centro di attività sociale nella zona. Da dieci anni, infatti, presso l’Istituto Pio IX di via Montevergine, c’è L’ala di riserva, un’associazione di volontari che nei giorni feriali si dedica al recupero scolastico ma anche ad attività di intrattenimento per i minori allontanati dalle proprie famiglie. Un occhio vigile sulle problematiche del quartiere è poi quello del Comitato Antico Corso. Tutte realtà nate però dall’aggregazione spontanea dei cittadini. Un’energia che si scontra con la latitanza dell’amministrazione comunale.

(dal web)

 

 

 

VIA PLEBISCITO COAST TO COAST

 

Dal Porto comincia la salita. A sinistra si va per il vecchio macello di Via Zurria (adesso piscina comunale dedicata al povero Ciccio Scuderi) e poi l'Angelo custode. E' la zona più vicina al mare e si vede dalla vendita di esche, vermicelli ballerini, spagnoli, coreani e americani. Più avanti, fra i muri delle strade spruzzati "a sostegno di una fede", tanti chioschi di fede rossazzurra tappezzati da poster del nostro amato Catania e raffiguranti immagini a me molto familiari: provengono dal mio sito web !

Siamo in Via Plebiscito, nell'autentica Catania. Confesso che io ci vivrei; molto meglio di silenziosi condomini pieni di verde e cinguettii. Certe volte, invece di perdermi in un caotico e inconcludente centro commerciale, preferisco farmi un “via Plebiscito coast to coast”. Mi ci immergo volentieri divertendomi ad ascoltare la sua gente, sentirmi dentro la storia della mia città per la vicinanza di numerose testimonianze rimaste su quelle strade e sconosciute da parecchi. Le dominazioni in Sicilia qui si toccano con mano. Diverse, man mano che si cambia il quartiere: da quella sveva e normanna dell’Angelo Custode a quella araba di San Cristoforo, a quella aragonese e barocca dai Cappuccini fino all’Antico Corso.

Siamo in un mondo a parte. Nel suo contesto sociale e storico, è un quartiere bellissimo dove poter ritrovare le proprio origini, l'essere catanese. Come in una Matrioska, scoprire quartieri infilati in altri quartieri con splendidi cortili degni delle sceneggiature recitate da Angelo Musco e Giovanni Grasso. Sono come li lasciò il Gen. Montgomery nel luglio del 1943, in alcuni edifici sono rimaste anche le scritte del ventennio fascista!

Nonostante la triste e falsa nomea, io non ho mai avuto problemi. Ogni volta ne rimango stregato. Senza che nessuno mi abbia mai infastidito, percorro in piena tranquillità strade interne come via Stella Polare, Gramignani, Mulini a vento, del Principe, Cordai, Villa Scabrosa. Ogni tanto esagero e tento di entrare in quei cortili ma, non conoscendomi, vengo bloccato puntualmente all’ingresso con un immancabile “prego?” spuntato fuori all’improvviso.

Eccomi sulla strada maestra. Sul marciapiedi davanti al suo ingresso, una farmacia suggerisce di misurare la glicemia a solo un euro. Però qualcuno, con una “disinteressata” quanto geniale idea pubblicitaria, aggiunge "e 'cu n'euro ta luvatu u scantu e ti po iri a mangiari a raviola ni Lanzafami". Translate: “e con un euro ti sei tolto lo spavento e puoi andarti a mangiare la raviola fritta da Lanzafame”.

Il fatto che il titolare della farmacia - ormai assuefatto alla mentalità del quartiere - non l’abbia più cancellata decreta la suddetta frase aggiuntiva che, di fatto, diventa un'opera d’arte marca Liotru! Questa non potevo farmela scappare.

C'è tanto da fotografare, ci sono chicche che nemmeno a Forcella a Napoli. Percorro via Plaja e vedo un vecchio stabilimento ormai smantellato, pieno di macerie. Mi accosto e, mentre mi appresto a fotografarlo, un colpetto sulla mia spalla blocca il mio entusiasmo: un anziano signore mi fa un cenno con il suo dito indice che si muove come un metrometro. "Lei cca non po' fotografari! C'è gente ca s'avissi a stari a casa e inveci s'attrova peri peri" (è più forte di loro, non ce la fanno a rimanere ai domiciliari con tutto quel ben di Dio che c'è fuori). Il signore continua: "appoi ci su autri ca pigghiunu u redditu di cittadinanza e vinnunu i muluni strada strada.....m'ascutassi, chi voli sapiri ciu cuntu iu!".

E mi racconta che in quell'edificio esisteva il pastificio Maione, la pasta consumata dalla maggior parte della cittadinanza fino al Dopoguerra. Fallì a causa del benessere degli anni Sessanta e l'avvento della Barilla & Co. Un racconto affascinante, proveniente da quegli occhi pieni di storia, di sofferenze, di guerra, di anni difficili e che si muovevano assieme a tutte quelle rughe che mi spiegavano anche del deposito dei vini semidistrutto dai bombardamenti, della fabbrica di ghiaccio antistante per farci i gelati e le granite di una volta. Tutti quegli edifici, in rigoroso stile architettonico del famoso ventennio, sono ancora in piedi. Malconci ma presenti come vecchi fantasmi che sovrastano centinaia di ricevitorie di scommesse frequentate da una gioventù balorda che, devo dire, a casa sua è davvero molto "arucata"! Mi sono sentito più sicuro qui che davanti all'Altare della Patria. Bello, bello, bello! Quella mezz'ora è stata per più soddisfacente del report fotografico.

Ecco perchè qui non faccio più click. Faccio un esempio: tempo fa stavo fotografando un vecchio edificio in via Di Giacomo (regno di Santapaola) e non mi accorsi che nell'inquadratura stavo riprendendo anche una donna anziana che si prendeva il fresco pomeridiano annusandosi le ascelle su una sdraio, fuori dalla sua casa che era ormai quasi da demolire. Inconsapevolmente stavo per acchiappare un capolavoro, ma lei si accorse di me. “Lei cu iieeèèè? Chiamu a me figghiu!”. Insomma, m’assicutau. Ciò significa che, come dice una famosa frase, "ti piace? guarda ma non si scatta!"

Ad angolo con via Cordai c'è una trattoria col suo slogan che campeggia sulle tende davanti all'ingresso: "si picca vo pavari e bonu vo mangiari, na Zia ..... ta fimmari". In zona, sono tante le zie che diventano tali per nipoti e pronipoti. Il massimo della loro carriera è il caravan dei panini al Lungomare di Catania, lì fra zii e zie esiste una grande dinastia!

 

 

Ci passo e scopro qualcosa nel locale che in città non sono mai riuscito a trovare: lumache già cucinate, da asporto. A Catania le lumache le vendono dovunque, purtroppo a casa non me le fanno cucinare e nemmeno me le cucinano perchè si impressionano. Addirittura, mia moglie ha organizzato in passato evasioni bibliche, sui vasi del terrazzo, quando le ho portate a casa.

Sto per prenderle ma non mi fido tanto. Più in là scorgo un'altra trattoria con tutta l'esposizione della mercanzia: costate suine, bovine, equine e tanta gastronomia "Made in Catania" da far storcere il naso a chi è abituato a cucina vegana, vegetariana e gourmet. Chiedo anche a questa trattoria se hanno lumache da asporto.

- "Vaccareddi? no, non ni facemu"

- "Ce li ha la Zia, più sopra. Mi dica, mi posso fidare?"

- "Assira, vossia .... chi mangiau?"

- "Che c'entra? Va bè, una caprese"

- "U viri? nuatri da zona semu vaccinati e non ni succeri nenti, inveci lei finisci 'o spidali! Ci luvassi manu !".

L'avrei abbracciato !

Comunque, la risposta del gestore è anche invidia, cuttigghiu e folklore catanese, perchè qui si fa teatro anche in queste cose. La trattoria che racconto non sarà luccicante come il Pavillon Leodoyen a Parigi, ma è semplice e senza fronzoli come si legge in questa brevissima recensione in rete che dice proprio tutto: "Potete assaggiare la vera, tipica saporita cucina catanese. Fantastica, gustosa, semplice e ignorante al punto giusto"

Lungo la via, moltissimi sono gli esercizi commerciali, tutti con enormi immagini di Sant'Aituzza e racchiusi fra loro in duecento metri. Nessuno di loro ha difficoltà economiche per la breve distanza col rivale, tanta è la densità di popolazione. Oltre al pane vendono anche tavola calda della tradizione catanese. Tanta, tanta, tanta da produrre tonnellate di trigliceridi ben evidenti nella ciccia traboccante dai jeans della gioventù del luogo.

Qui non puoi mai sentirti solo; sono moltissimi, spumeggianti, estrosi, geniali e pieni di colori come dentro la "Vucciria" di Guttuso. Amano la vita in tutti i sensi, nel bene e nel male e comunque vada. Per essere chiari, prendere il quartiere un sabato sera, squartarlo come un cappone a Natale e poggiarlo all'angolo fra via Belfiore e Via Plebiscito, poi entrarci dentro e vedere quel capolavoro prendere vita come quei libri per bambini che aprendoli cominciano ad animarsi. Lo si sentirà parlare, ansimare, litigare col venditore di carne arrosto, scacciare il cane "spettu" che sa dove fare la questua. E poi decine di Malaguti che sfrecciano come missili fra quarti di carne equina disossata per strada, fra braci di carne e carciofi accanto a mercanzie di ogni genere. Un dipinto !

Affondo sempre per via Belfiore fino a Via Tripi, al "Traforo", alla famosa macelleria equina dei F.lli Foti, inconfondibile per il tendone biancorosso. Percorro via Testulla e arrivo al Locu, piccola zona che in confronto via Plebiscito rappresenta via Veneto a Roma. Oggi molto degradato, questo spazio si trova nella parte finale del traforo ferroviario, a ridosso di Via della Concordia. Ci voglio entrare perchè mi ricorda quando, giovane sottufficiale di Capitaneria, alla fine degli anni Settanta mi inviarono qui per notificare un verbale a qualcuno (non ricordo se navigante o pescatore). Quella mattina ero in divisa, entrai in quelle stradine e fui subito circondato da un branco di cani, molto aggressivi nei confronti del sottoscritto.

A mia difesa arrivò una voce "Cumannanti, si luassi u cappeddu. I cani su addestrati ppi muzzicàri i vaddia!". Così mi tolsi il berretto, i cani si calmarono e alla fine riuscii a completare il mio compito. Pazzesco, no?

Lungo via Juvara torno indietro in Via Plebiscito ed entro in un bar. All'ingresso è affisso il manifesto del prossimo concerto di Gianni Vezzosi; special guest "Savvo Zauddu" e Matteo, dodicenne cantante neomelodico che è già una star!! L'arredamento è rimasto simile a quello degli spot dei gelati Algida nei Caroselli. Non pensate di trovarci tavolini in granito, aperitivi che fanno trend o gente che se la tira (a Catania lo chiamano "spacchiamento"). Di stuzzicherie nemmeno a parlarne, al massimo un pugnetto di arachidi e un paio di olive. Vi serviranno le bevande ancora nei lunghi e scomodissimi bicchieri del Bitter San Pellegrino che solo una cicogna ci può bere, e se chiedete un Negroni vi risponderanno che fuori ce ne sono a decine in ogni angolo di strada!

Ordino il mio aperitivo (questo lo conoscono) che di solito preferisco con ghiaccio e senza limone. Al banco c'è una donna che nemmeno mi ascolta perchè impegnata in chat, mentre si distrugge i pollici e le unghie disegnate con luccicanti paesaggi stellari. La massima aspirazione in carriera per le ragazze è il diploma di ricostruttrice di unghie, estetista oppure (il sogno) velina; per i ragazzi diploma all'Alberghiero, calciatore (possibilmente il compagno della velina) o cantante neomelodico.

La donna al banco sarà sulla quarantina, probabilmente è già nonna perchè canta al cellulare "Battiamo le manine, ca ora arriva u papa’, ni potta i cioccolattini e Kevin si mancirà". E' rilassata, continua a fottersene del sottoscritto ma dal retro arriva un giovanotto, forse il compagno: "au Aitina, chi fai, ti movi? U vo sevviri u chistianu?" .

Gli sguardi delle donne sono una condanna che Dio ha inflitto a noi uomini, ogni volta che li incrociamo. Quindi gela il suo uomo con uno di questi sguardi, accompagnato dal noto "Quannu iu parrava che chistiani tu sgaggiavi mobili co girellu!". (translate: "quando io parlavo già con la gente tu graffiavi i mobili col girello".

Mentre vengo servito nervosamente dalla donna (aperitivo caldo e con una fettona di limone, nemmeno mi rischio di protestare), vedo che l'uomo si arrende e le dice: "Amore, vita do me cori, lo sai che a quest'ora dò i numeri". Un esempio di come, nella vera Catania, si può mettere a posto una persona solo con le parole!

Esco con quello schifo nello stomaco e risalgo lungo la Route 66 della catanesità. Appagato, continuo per la piazza di fronte la Chiesa San Cristoforo dove, gentilissimi, mi spiegano tutte le procedure per cucinare, ancora lì bollenti, il sangeli, la matruzza e il quarume. Lì davanti inizia via Velis (dove visse il grande Micio Tempio) e in uno splendido cortile all'aperto che sembra il sipario di una commedia, mi imbatto in un battibecco fra una madre di famiglia e un bambino di 10 anni che le risponde ad ogni rimprovero come in un'opera di Martoglio, fra le risate della gente presente. Meglio di andare al cinema!

Continuo per San Cosimo alle Chianche in cui è rimasto qualche residuo del vecchio Bastione di San Giovanni, la Giudecca, la Vigna del Sardo, la zona del Fortino piena zeppa di scomodissimi divani, pessimi arredi e rosticcerie che attendono di accendere le loro luci al passaggio di Sant'Agata nella notte del prossimo 4 febbraio.

E poi i Cappuccini Nuovi, il vecchio Ospedale V. Emanuele spesso teatro di nervose rimostranze al pronto soccorso, l'Istituto Ippico, l'incrocio col Fortino, il Bastione degli infetti, quello del Tindaro e la Torre del Vescovo e, alla fine, annusando l'aria, capisco che sono quasi arrivato alla fine, cioè all'interno di quel gomito puzzolente e gustoso che si chiama Antico Corso (U Cussu, in dialetto catanese), tappa finale a nord nella sezione "Terme dell'Itria" e famoso per il cosiddetto "arrusti e mangia" della carne di cavallo, preparata in rigorosa maniera "street food" dai numerosi osti presenti in zona.

Ecco, secondo me, via Plebiscito. Sono sicuro che molti altri più bravi di me la saprebbero descrivere meglio, nel dettaglio e nella sua storia.

Io la vedo così. Basta saperci guardare dentro col cuore, la curiosità e la fantasia per farla diventare un'autentica giostra.

Mimmo Rapisarda

 

 


Si narra anche che i tre edifici dell'Esedra (perché posizionati ad emiciclo) dirimpettai della Chiesa di S. Nicola individuabili con i civici 9-16-23, di dignitosa valenza architettonica, inserite tra le istituzioni religiose ed affiancate da una marea di costruzioni popolari diverse in qualità costruttive e volumetriche, appartenessero a ricchi congiunti di frati benedettini del Convento. I congiunti, soprattutto se di distante residenza, per affetto familiare o per ammorbidire il loro distacco dal mondo in cui erano cresciuti con agiatezza, in quel modo davano la sensazione di essere sempre vicini alla loro casa, accogliendoli in diverse occasioni in quelle residenze, facendoli partecipare a giornate gioiose per loro organizzate.

I malpensanti raccontavano anche opportunità di serate trasgressive; si arrivava ad ipotizzare fantomatici tunnel sotterranei di collegamento con la struttura conventuale, mai riscontrati.
La individuazione. Il quartiere originario, in via presuntiva, è individuabile dai monumentali complessi religiosi del passato attorno ai quali è sorto: il Convento dei Benedettini con l'annessa Chiesa di S. Nicola, l'Ospedale Vittorio Emanuele, i conventi /monasteri con le annesse Chiese, della Purità, dei Minoritelli, delle Verginelle, di S. Maria della Provvidenza, dell'Ospedale S. Marta e Villermosa, del Collegio Pio IX, il Bastione degli Infetti , preziosa residua testimonianza della Torre del Vescovo le cui aree si compenetrano, provenienti da quella torre che nel 1370 la città donò al Vescovo Antonio de Vulpone e che durante la pestilenza venne utilizzata quale lazzaretto per ricoverarvi gli infermi, di cui parte dell'area di tali testimonianze oggi comprende l'Opera Pia Mariannina Magrì. Ma altre importanti testimonianze storiche ci aiutano e ridefinire tale quartiere, quali i tre edifici ad Esedra frontali alla Chiesa di S. Nicola, che chiudono sul lato est la piazza Dante, la Casa delle Verginelle, la Casa della Nutrizione e ad ovest la casa dei marescialli (cosiddetta perché vi abitavano le famiglie dei militari della vicina caserma) tra le vie Teatro Greco, Quartararo,l'Ospedale, e tante istituzioni religiose assistenziali primo tra tutti quello dei Benedettini di S. Nicola.
Il presunto perimetro. Un suo perimetro esterno, lo si può individuare iniziando da un nucleo di case a sud ovest della piazza Dante lungo la via Teatro Greco, nei pressi delle Terme della Rotonda, compresa nella zona dell'antica Giudecca (confinante con i quartieri dei Crociferi, di S. Cocimo e del Fortino), per risalire fino alla zona Lumacari - Ospedaletto; verificandosi in quei luoghi una soluzione di continuità di struttura viaria per il rapido cambio di livello, insieme alla presenza dell'Ospedale Vittorio Emanuele, che confina con il quartiere dei Cappuccini Nuovi.
Il proseguimento, in linea d'aria verso nord, va ripreso lungo la via del Plebiscito a scendere, all'altezza di tale Ospedale. Percorrendo l'ampia arteria cittadina, l'ipotetico confine, continua lungo tutta la strada sia sul lato destro che sinistro. Dalla parte destra penetrando all'interno del quartiere lungo le vie Osservatorio e Botte dell'Acqua per raggiungere la piazza Annibale Riccò. Scendendo dalla parte sinistra, all'altezza del vecchio deposito delle tranvie elettriche, dal vico Mavilla e la Villa Francica Nava in poi (oggi centro sociale del Comune e sede di scuole), si prosegue incontrando il popoloso nucleo attorno alle vie Castromarino e Petriera, con conclusione nella piazza Fucinato, al confine con le zone Nicita e S. Domenico per proseguire lungo la restante via Plebiscito.

 

 

L'EX FABBRICA DELLA LIQUIRIZIA NEL QUARTIERE  SAN CRISTOFORO

<<IN TUTTO IL MONDO I BASTONCINI PRODOTTI A CATANIA >> cenni storici da un articolo del quotidiano La Sicilia del 13 Agosto 2010

 

-Non tutti sanno che Catania fu,a fine '800,una delle "capitali "della liquirizia, con diversi stabilimenti che oggi fanno parte dell'"archeologica  industriale ".

Una ricerca meritoria sull'argomento è stata fatta, nell'anno scolastico 2008-2009,

dagli alunni dell'allora classe V della scuola elementare San Giovanni Bosco Salette e veicolata poi su La Sicilia attraverso le pagine del Newspapergame, il gioco del giornalismo promosso dalla nostra testata.

Nei primi anni dell'800 a Catania iniziò un processo di sviluppo che facilito' la rinascita economico-culturale della città. A partire dagli anni '30 importanti personalità dell'imprenditoria catanese promossero la costruzione di mulini e fabbriche. Tra i vari rami produttivi, Catania, nel periodo 1889-1895 fu la maggiore fornitrice di liquirizia. La liquirizia era esportata in piccoli bastoncini verso grandi città come Trieste, Livorno, Genova, Marsiglia e in alcuni importanti nazioni come Inghilterra, Olanda, Germania e persino in Giappone e in Australia.

Questa era utilizzata per produrre il colore di diverse penne e per le sue rimanenti proprietà medicinali.

Nonostante la fortuna incontrata da questo prodotto, anche sul mercato internazionale, i processi produttivi continuarono su livelli artigianali. La maggior parte di queste fabbriche sono sorte nell'antica  zona industriale di Catania, oggi ubicata nei quartieri di San Cristoforo e del Fortino.

I maggiori imprenditori che impiantarono le fabbriche di liquirizia sono stati i fratelli Caflish, originari di Trin (Svizzera ),che iniziarono la loro attività nel 1894.

Da citare anche le fabbriche di Ritter e di Bernardo Fichera. In particolare nella fabbrica di quest'ultimo, sorta nel 1934 e ubicata in via Mulino a vento,lavoravano inizialmente 20 persone.

Nel dopoguerra l'attività si ingrandi' considerevolmente tanto da dare occupazione a circa 100 persone tra uomini e donne. Solo 25 anni fa questa fabbrica che lavorava questa preziosa radice dal materiale grezzo al prodotto finito  (pastiglie, sciroppi,ecc.)chiuse definitivamente l'attività.

La mole del palazzo conserva tuttora il suo fascino. Molte persone del vicinato raccontano del profumo che fuoriuscita dai camini ;le radici della liquirizia venivano infusi in acqua calda fino ad addensarsi ,in modo da ricavarne l'estratto per poi produrre pastiglie o sciroppi che, distribuiti nelle farmacie, servivano per asma, tosse,infezioni polmonari, difficoltà intestinali e cicatrizzazione delle ferite.

La radice di liquirizia  (liquirizia glabra)è una pianta officinale conosciuta dall'uomo fin dai tempi più remoti per l'estratto che da essa si ricava. I libri di medicina cinese e l'antica tradizione indiana sono concordi nell'annoverare la liquirizia tra le sostanze che avevano effetto divino sul corpo umano; grande quantità di liquirizia è stata trovata tra i tesori della tomba di Tutankhamen.

Proprietà benefiche venivano elencate nei documenti del medico Ippocrate. -

 

 

 

PICCOLA STORIA DELLA MANIFATTURA TABACCHI

(Articolo del giornalista Giuliano Consoli)

 

-Come in tutte le città siciliane, a Catania l'esclusività statale per la fabbricazione e la vendita del tabacco arrivò nel 1865,con tre anni di ritardo cioè rispetto al resto del nuovo regno d'Italia. Il monopolio del sale non fu invece mai applicato.

Anche se l'anno coincide con la fine della guerra di Crimea,durante la quale i soldati si erano abituati a fumare quelle che allora si chiamavano "spagnolette"(i sigari avevano fatto la loro prima apparizione nel 1820),il gruppo finanziario privato che dal 1869 al 1883 aveva gestito per conto dello Stato la produzione e la vendita dei prodotti per il fumo, pur ripetutamente sollecitato a farlo,non ritenne di dovere impiantare una fabbrica a Catania. Lo stesso avvenne del resto negli anni della direzione delle gabelle.

Quando però nel 1893 s'istituì la direzione delle privative-che precede il monopolio statale nato nel 1927- fu ritenuto opportuno aprire nella città etnea una manifattura. Questa intenzione fu peraltro favorita dal fatto che risultava libera quella caserma della cavalleria borbonica che apriva i suoi battenti sulla via Garibaldi e che aveva alle spalle una vasta area che ne costituiva, in futuro, l'eventuale ampliamento. Sul vecchio fabbricato s'innestò così il nuovo, per il quale i lavori durarono quasi un decennio.

Nei primissimi anni del XX secolo, Catania ebbe così il primo edificio capace di spalancare le porte alla manodopera femminile, che fino a quel momento s'era dovuta accontentare d'incassettare stagionalmente agrumi e d'imbottare pesce salato.

Le prime sigaraie (erano ben 523 ,contro solo 44 uomini)furono quasi tutte mogli e figlie di pescatori e di marittimi che impararono presto ad arrotolare quei sigari fermentati che si chiamarono "toscani"e che costavano dieci centesimi. Questi sigari,che uscivano dalle svelte mani delle donne catanesi col capo protetto da cuffie ingraziosite da riccioli inamidati, diventarono ben presto richiesti ed apprezzati per la morbidezza del "ripieno ",per la combustibilità e per l'essenza delle due costole delle foglie. Quando poi, nel 1907,la manifattura tabacchi ottenne alla "Esposizione agricola siciliana di Catania "un clamoroso successo, soprattutto per la fabbricazione delle "spagnolette ",si decise di affidare alle operaie catanesi le macchine confezionatrici "Universal" e le imbustinatrici "D'Alessandri "che, collegate,potevano produrre venticinquemila sigarette all'ora.Mentre altrove si fabbricavano le Orientali, le Uso russo e le Uso russo egiziano, le Serraglio e le Giubek ,a Catania si affidò la produzione delle Macedonia.

Dal primo dopoguerra in poi la manifattura tabacchi di Catania ebbe così un evolutivo incremento di personale che continuò fino al secondo dopoguerra, quando, con la ripresa del lavoro dopo lo "sfollamento "di Randazzo, l'organico toccò le quasi mille unità. Si cominciò a produrre le sigarette "Nazionali ",(alla fine della giornata lavorativa, gli impiegati tutti, uomini e donne, venivano accuratamente perquisiti perché non uscissero "di straforo "sigari e sigarette)mentre la richiesta di sigari cominciava a scemare, riducendo a poco a poco la manodopera fino a fare scomparire del tutto la figura della sigaraia che lavorava "a cottimo",pagata cioè in proporzione alla personale capacità produttiva.

La manifattura tabacchi cessò l'attività nel 1998 .

Il 6 aprile 2006 con un decreto di vincolo (n.7790)Il palazzo della Manifattura Tabacchi, veniva dichiarato "di interesse storico ed architettonico "e a marzo del 2007 diventa parte del Demanio culturale indisponibile della Regione Siciliana e adibita a sede del Museo archeologico regionale Ignazio Paternò Castello V principe di Biscari. -(Giuliano Consoli)

 Ps ho da aggiungere all'articolo di Consoli che l'ex Manifattura Tabacchi in precedenza fu Quartiere militare borbonico e che, nonostante oggi ospiti un'area museale archeologica,non è ancora ufficialmente un Museo archeologico regionale, né tanto meno mi risulta che sia stato intitolato al gran mecenate principe di Biscari

 grazie a Milena Palermo per Obiettivo Catania https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

 

NEL REGNO DELLA BELVA TRA COMPARI E CAVALLI

 

CATANIA - Le case basse di pietra lavica e le prime teste di cavallo sui banconi delle macellerie segnano il confine con Catania. Poi comincia San Cristoforo. Si sale da via Plebiscito, si prende dal vicolo Fra' Diavolo, dopo l' oratorio dei salesiani e la segheria si scende in un altro mondo. Popolato da cinquantamila siciliani con le loro leggi e le loro regole, una città nella città dove è nato e dove ha regnato Benedetto Santapaola. Il giorno dopo la cattura del boss di Cosa Nostra siamo entrati a San Cristoforo, quartiere storico della malavita catanese, un labirinto di viuzze e di cortili, palazzotti diroccati, strade sudicie che attraversano mercati vocianti, una gigantesca casbah con quattro edicole e ventiquattro botteghe che vendono soltanto "pregiata carne equina". Il nostro giro è partito da un portoncino di ferro al numero civico 32 di via Di Giacomo. Una volta qui abitavano Benedetto Santapaola e sua moglie Carmela. Qui a San Cristoforo "Il Cacciatore" è diventato il capo della mafia di Catania. La via Di Giacomo è una stradina lunga e stretta con tante saracinesche che chiudono garage, magazzini, stalle. Davanti la vecchia casa di Nitto Santapaola ci sono a mezzogiono sei uomini immobili. Il più giovane indossa una camicia di seta gialla e un paio di pantaloni neri. Al collo porta un pesante medaglione d' oro massiccio, al mignolo della sua mano destra brilla il "coccio di calia", una pietra rossa incastrata sull' anellino d' argento. Si avvicina lentamente, si sfila gli occhiali a specchio, si accende una sigaretta. E' uno del quartiere, uno di quelli "che Nitto l' ha conosciuto". Parla lui ma è come se parlassero pure gli altri cinque suoi compagni. Niente nomi sul taccuino, niente registratori, niente riprese tv. E la voce di San Cristoforo porta la scontata verità sul più feroce uomo d' onore della Sicilia orientale. L' arresto di Nitto Santapaola? "E' male quello che è successo ieri, è molto male... signori si nasce... e Nitto era il migliore di tutti noi, per la sua gente si faceva il cuore in quaranta pezzi...". Una piccola folla arriva in via Di Giacomo. Ci sono anche i vecchi che raccontano la storia di una famiglia di "saccari", raccoglitori di sacchi e di farina. E' la storia di Vincenzo Santapaola, il padre del boss. Si fruga nella memoria, si torna indietro nel tempo. Fino ai primi anni Settanta, "quando ogni tanto a San Cristoforo venivano anche Pippo Calderone insieme a quel gran cornuto di suo fratello". Si parla di Nino, il pentito, "il confidente, lo sbirro, la cosa fitusa che ha pure parlato di quei quattro picciriddi morti... un' infamità... ai bambini al massimo si possono tirare le orecchie...". La gente di San Cristoforo vuol far sapere al suo capo che anche oggi - dopo la cattura - il quartiere è con lui, San Cristoforo non tradisce. Anzi, la gente del rione cerca di esorcizzare il colpo duro sferrato dalla polizia, dice di non credere all' arresto, è pronta a giurare che "Nitto si è fatto prendere per non accollarsi certe cose che potrebbero succedere". Chiacchiere del giorno dopo nella terra dei Santapaola. Per cancellare la fine di una latitanza che sembrava eterna. Per tentare di giustificare una cattura che sembrava impossibile. E quindi arresto voluto dal capomafia, deciso sempre da lui, da Nitto Santapaola. E non dallo Stato italiano che l' ha preso in trappola. Ma questo è il quartiere di San Cristoforo. Da lontano si vede un' insegna bianca con una scritta nera: Bar Portorico. E' proprio all' angolo fra via Abate Ferrara e via del Plebiscito. Il bar è chiuso, era di Pippo Ferrera "U Cavadduzzu", soprannome conquistato dal mafioso per la sua passione per i cavalli. A due metri dal bar Portorico c' è la pizzeria "La Capricciosa", titolare Turi Santapaola, fratello di Nitto e cognato del "Cavadduzzu". Anche la pizzeria è chiusa. Come un altro caffè sullo stesso marciapiedi, come la sezione della Democrazia Cristiana "Nino La Rosa" e il negozio di frutta e verdura che si affaccia su via del Quartiere Militare. Era il territorio di Nitto Santapaola quando era ancora un picciotto, quando l' avevano appena combinato nella "famiglia" di Catania. Una dozzina di uomini vaga nei budelli che tagliano San Cristoforo. Si passa sotto archi e dentro cortili, si arriva "alla casa di Alfio Ferlito", un altro boss del quartiere, quello ammazzato sulla circonvallazione di Palermo con i kalashnikov che avrebbero poi ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela. Ancora duecento metri e comincia "la zona" di Santo Mazzei, il capo dei "carcagnusi", altro terribile gruppo mafioso dell' inferno di San Cristoforo. Dietro un muro c' è un caseggiato pericolante, sei mesi fa i carabinieri lì dentro hanno trovato fucili, pistole, bombe a mano. E anche un lancia-missili, quelli che bucano la corazza delle auto blindate. Via del Plebiscito è alla fine. Se si va avanti c' è una curva, dopo la curva finisce San Cristoforo e si entra nel corso che porta alla cattedrale, la terra di origine dei "cursoti", il primo clan organizzato di Catania. Si torna indietro fino a via Santa Maria delle Salette, si imbocca un altro vicolo che si ferma davanti un grande edificio color mattone. E' l' istituto dei salesiani. C' è un asilo, ci sono scuole elementari e medie, c' è un campo di calcio con il fondo in cemento, un porticato e poi un corridoio che porta all' oratorio. Nitto Santapaola ha studiato qui. Fino alla quinta elementare. E ha fatto anche il chierichetto nella cappella vicina. Il frate che c' era allora c' è ancora. Si chiama Innocenzio Bonomo. Ma non risponde ai giornalisti. "Sta male, sta molto male, nei giorni scorsi ha avuto un ictus... ha quasi ottanta anni", fa sapere padre Enzo, un altro salesiano. Ricordi di Nitto da ragazzo? "Era vivace, molto vivace... sua madre è religiossima, una buona donna". Dall' istituto dei salesiani si ritorna fra via Di Giacomo e via Abate Ferrara, il cuore di San Cristoforo. Si gira e si rigira ma un angolo del quartiere è off-limits. "In via Belfiore non si può andare, non vi conviene andare...". Perché? "In via Belfiore è meglio di no...". Resta il mistero di via Belfiore prima di addentrarci nella strada delle macellerie, delle trattorie che servono la carne rossa e dolce dei cavalli, delle griglie che arrostiscono bistecche all' aria aperta. Il simbolo di San Cristoforo è proprio il cavallo. Di sera il quartiere si svuota, si aprono le stalle e si aspetta la notte. Quando carovane di calessi sfilano da San Cristoforo verso la parte bassa della città. Fino alla Plaja, fino a Librino, fino all' imbocco dell' autostrada per Palermo. All' alba cominciano le sfide, le corse dei cavalli lungo i grandi viali che costeggiano il mare. E qualche volta anche sulle corsie dell' autostrada. Con un servizio d' ordine che blocca il traffico. E la gente di San Cristoforo che punta tutto sui suoi cavalli.

ATTILIO BOLZONI

 

 

 

CHIESA SANT'AGATA ALLE SCIARE

Questa piccola chiesa ad unica navata si trova in via V.Emanuele di fronte piazza N.Machiavelli.

È forse poco conosciuta ma ha grande importanza perché legata al culto agatino e pare sia stata interessata da un miracolo di Sant'Agata.

Prima dell'eruzione del 1669 sorgeva qui un altarino votivo con l'immagine di Sant'Agata al Carcere .L'eruzione iniziata a marzo del 1669 e partita dai Monti Rossi arrivò in aprile proprio qui travolgendo l'altarino votivo ma deviando poi il suo percorso allontanandosi dal centro della città. Miracolamente sepolto dalla lava fu trovato intatto il quadro di Sant'Agata al Carcere e fu subito edificata la chiesetta che successivamente fu distrutta dal terremoto del 1693 ma ricostruita a fine '700 con il risultato che vediamo.

La Chiesa è gestita dalla Confraternita di Sant'Agata alle sciare e Santa Barbara la cui sede è nel caseggiato accanto e viene aperta a chiunque lo richieda .

Al suo interno è custodito al centro del presbiterio il quadro seicentesco miracolosamente salvo dall'eruzione del 1669 a cui è stata aggiunta l'Etna fumante sullo sfondo

 Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/


Risalendo per la via S. Maddalena fino a raggiungere la via Gesualdo Clementi e da questa, inglobandovi l'Ospedale S. Marta, dirimpettaio dell'Istituto Minoritelli con l'omonima Chiesa, di seguito ad essa, sorpassando i nuclei dell'Idria e le piazze Riccò e Dante si incontrano i cortili Licciardello e Beritelli, che incrociano le vie Gesuiti e Nutrizione prima di ritrovarsi sulla iniziale via Teatro Greco nel vecchio quartiere della Giudecca.

Quel disordine urbano che rischia di cancellare preziosi "pezzi di storia"

I confini. Il quartiere oggi. Per valutare, all'interno del prefigurato perimetro individuato, quello che è rimasto del vecchio quartiere, sembra opportuno iniziare l'esplorazione dall'inizio della via Antico Corso, che rappresenta ancora il punto di riferimento del vecchio quartiere, partendo dalle case popolari della via Torre del Vescovo realizzati negli anni '50 e dall'Ospedale del S. Bambino degli anni '80. Si incontra subito la strettoia stradale dovuta al numeroso gruppo di vecchie abitazioni cadenti ed antigieniche del civ. 24, all'intorno di un ampio cortile, che risultano, né in linea né al livello con l'attuale piano stradale, più ampio e più abbassato rispetto, sia alla via Plebiscito (da dove di fatto inizia) che dell'attuale piano di campagna della nuova scuola che coincide con quello delle piazze
Riccò e Dante. Va ricordato che, negli anni ottanta, lungo il prospetto della scuola, vennero piantumati una fila di alberi d'alto fusto, quale quinta naturale di difesa per un opportuno isolamento urbano con la istituzione culturale; alberi che, poco alla volta, sono stati eliminati dai parcheggiatori abusivi perché di intralcio ai "loro spazi di lavoro".
Per il resto dell'importante area archeologica del Bastione degli Infetti vale riportare quanto dichiarato dai responsabili istituzionali dall'Ammnistrazione del tempo, riportato in data 24.09.2002 dal quotidiano "La Sicilia": "Liberata la zona di stalle, animali e abitazioni abusive, ci sarà un'unica grande area che collegherà il Bastione degli Infetti al camminamento spagnolo e alle cosiddette Cave Daniele, cioè al grande banco lavico, che tuteleranno come zona di interesse ambientale facendone una sorta di giardino di pietra dal quale si potrà accedere al rifugio antiaereo usato nella seconda guerra mondiale…Nell'ambito dei programmi di più ampio respiro…. va inserito anche il progetto di risanamento di tutta la zona…".

 

Il quartiere Cappuccini Nuovi

 

Ma si resta ancora in attesa. La posizione geografica della piazza Annibale Riccò, rappresenta un nodo importante
di smistamento perchè dà l'ingresso al Liceo Spedalieri , all'Università, alla Biblioteca Civica Ursino Recupero, all' Ospedale S. Bambino, l'accesso alle via Tindaro e dell'Idria, il collegamento delle vie Osservatorio e Botte dell'Acqua con la via Plebiscito ed attraverso le vie Mascali ed Idria, alla piazza Dante.
Di livello più alto di quello della piazza Riccò, il nucleo della ex cadente Chiesa dell'Idria da decenni puntellata ed inattiva che, in tempi passati costituiva un centro vitale per quella parte dell'Antico Corso; oggi sono ancora presenti importanti nuclei familiari che cercano di tenersi al di fuori del flusso automobilistico di transito, salvaguardando tradizioni e caratteristiche del passato.
Il quartiere prosegue alle spalle delle tre importanti costruzioni ottocentesche ad Esedra fino al confine con la zona dei Crociferi, per risalire lungo la via Teatro Greco. confinante con i quartieri di San Cocimo e Fortino. Dalla via Rotonda in poi si riscontra un importante nucleo di vecchia città: viuzze e cortili all'intorno della via Rotonda, comprendente le vie Nutrizione, Gesuiti, Ardizzone, Verginelle. Continuando per la via Acquedotto Greco e sorpassando le vie Verginelle, Quartarone, S. Barbara, della Palma fino a raggiungere il nucleo Lumacari con i numerosi affollati cortili e le vie finali,

 

Via Santa Maria Della Catena, 2

Chiesa Sacro Cuore Ai Cappuccini

 Di questa chiesa sita nella popolosa via Plebiscito, a poca distanza dall'ospedale Vittorio Emanuele, si sa che essa fu iniziata, insieme alle fabbriche dell'attiguo convento, nei primi del 1887 da padre Alessandro da Viagrande e che fu pagata dai Frati Cappuccini della Provincia di Messina, con le offerte dei fedeli e con il ricavato della permuta dei locali e della chiesa di S. Maria Della Speranza, abbattuta nei primi decenni del Novecento per far posto all'attuale Palazzo della Borsa (la chiesa appare ancora in una foto del 1913 scattata in occasione dei festeggiamenti agatini). La chiesa del Sacro Cuore ai Cappuccini fu consacrata da mons. Ferrais nel 1928.

 

Ospedale Vecchio e Spedaletto. Rientrando nella via Plebiscito, dopo la discontinuità consistente dalla presenza dell'Ospedale Vittorio Emanuele ed il forte dislivello tra i diversi piani territoriali.

scendendo dal lato sinistro a partire dal vico Mavilla si incontra il Centro Sociale del Comune allogato nella citata Villa dei Francica Nava e l'antico deposito delle tranvie elettriche. Seguono una serie di modeste costruzioni alcune vuote, altre utilizzate a botteghe e scarsamente a civili abitazioni; oltrepassando lo slargo di via Del Vescovo, di fronte all'inizio della via Antico Corso, dopo la Casa Arcidiacono Bocchi al civ. 885, prima di raggiungere la via S. Maddalena a confine con la zona Nicito e S. Domenico, si trova il nucleo della via Castromarino che comprende alcune strette e affollate stradine attorno alle vie Daniele, Petriera, Fiorentino che si esauriscono nella piazza Fucinato, già in quartiere Nicito.

Sul lato destro all'altezza delle vie Osservatorio e Botte dell'Acqua, si incontra un consistente anonimo e malandato patrimonio edilizio ottocentesco con maldestri tentativi abusivi di renderlo più fruibile alle più moderne esigenze dei proprietari. Il rientro nella via Plebiscito è caratterizzato da costruzioni, in parte utilizzati ai piani terra per piccole attività commerciali ed artigianali, con molti lotti abbandonati, in particolare quelli dell'Opera Pia ai 694-702; 716- 718 ; alcuni edifici, in quella zona, riportano l'inclinazione delle vecchie mura della città, costituendo una importante testimonianza storica; tra questi, al civ. 724, fa bella mostra l'ottimo palazzo Zuccarello per il suo equilibrio architettonico e volumetrico. Sullo stesso lato della strada si incontrano le assai economiche case popolari addossate sull'Opera Pia M.

 

 

CHIESA CAPPUCCINI

Guardatela quanto è bella e luminosa!!!Oggi vi ho mostrato la sua cantoria che avete molto apprezzato, quindi vi mostro adesso l'interno di questa struttura religiosa meravigliosa e poco conosciuta ,se non dai residenti del quartiere dei Cappuccini Nuovi!

È la chiesa del Sacro Cuore ai Cappuccini di via Plebiscito, costruita a fine ottocento per volontà di 3 Cappuccini che vivevano nella chiesa di Santa Maria della Speranza che sorgeva in piazza Stesicoro al posto dell'attuale Palazzo della Borsa!

A sinistra un pulpito in legno intarsiato e decorato opera di un grande maestro Frate Gregorio da Mascalucia tra i tre fautori della costruzione di questo edificio! Cosa rimane della vecchia chiesa dei Cappuccini Vecchi?Ho chiesto ,dopo la messa,a Frate Teodoro e mi ha detto che non è rimasto nulla.....

La precedente chiesa dei Cappuccini Vecchi conservava opere pregevoli e chissà dove saranno finite ....

Comunque anche questa chiesa conserva belle pale d'altare ,tra cui due opere di Alessandro Abate ed oltretutto qui riposa Fra Liberato ,ovvero l'architetto Palazzotto ,tra gli artefici della ricostruzione della città distrutta dal terremoto del 1693.

Buonanotte

 Giordano Della Valle: Sotto la chiesa o accanto ad essa vi è una grotta formata dallo scorrimento lavico dell'eruzione dell'Etna del 1693 e che durante la seconda guerra mondiale veniva utilizzata come ricovero antiaereo. Vi si accede da via Grotta Magna proprio da i locali che appartengono ai Cappuccini, però alcuni anni fa, a quel che mi hanno detto, l'ingresso della grotta è crollato e quindi adesso è inagibile.

 

Magrì, realizzate negli anni '50; attorno al Bastione degli infetti, il nuovo Ospedale del S. Bambino di anonimo stile architettonico confinante con la cadente inutilizzata Chiesa omonima e la moderna sede del Liceo Spedalieri. Inserimento risultato invasivo perché non accompagnato da uno studio urbanistico complessivo dell'intera area, causando rottura di precedenti equilibri sociali per cui restano ancora oggi, evidenti le cicatrici urbane dell'iniziativa, scollegata con la parte bassa della città di epoca (via Crociferi), anche attraverso la valorizzazione della via Gesuiti.

Ancora sul lato destro, prima di raggiungere la via S. Maddalena, superandolo slargo sulla via del Vescovo e la via del S. Bambino si incontra l'ex Reclusorio della Purità, oggi sede della scuola Manzoni, subentrata ai locali già occupati, durante il periodo fascista, dalla Casa della Gil (Gioventù Italiana del Littorio o casa del Balilla); il complesso prosegue (a salire) lungo la via S. Maddalena dove l'ex Chiesa di S. M. della Purità di futuro utilizzo dell'Università viene individuata dal civ. 37, complesso, in quella via prospettante con la Chiesa di S. Maria La Vetere, che va attribuita all'area dei " Crociferi".

 

 

 

nelle vicinanze

 

VANEDDA "CUCCHIARA"

Per i Catanesi Via Carlo Forlanini è sempre stata " 'a vanedda cucchiara", che - nonostante la sua larghezza limitata - è una delle arterie più percorse, perché permette di collegare facilmente Via Plebiscito, Via Giuseppe Fava e, quindi, Cibali.

Diverse sono le teorie che tentano di spiegare l'origine di questa curiosa espressione. Secondo alcuni si dice "vanedda cucchiara" per via della forma che la strada assume (simile a quella di un cucchiaio, cioè appunto " 'na cucchiara"); per altri questa espressione dipende dalla vicinanza con l'Ospedale "V. Emanuele" e quindi dalla degenza dei malati che ivi erano imboccati col cucchiaio. Probabilmente l'ipotesi più plausibile è che nella "vanedda cucchiara" esistesse in passato una trattoria, che aveva forse per insegna un cucchiaio.

 

MUNTI PIROCCHIU E PASSAREDDU

Prima dell'eruzione vulcanica del 1669, fuori le mura di cinta c'era una piccola borgata, con una chiesetta sulla collina, ma la colata lavica del 1669 coprì tutto.La piccola collinetta argillosa, dov'era la chiesetta, fece da argine alla colata, per cui si formò un accumulo di lava che si innalzò fino a seppellire tutto il quartiere, per poi proseguire verso il castello Ursino.

Il luogo chiamato "munti pirocchiu" si trova in via Acquicella, vicino piazza Palestro, si tratta di una storpiatura dialettale della frase "monte parrocchia". L'accumulo di lava di oltre 40/50 metri sotterrò pure via Poulet detto: "u passareddu"(piccolo passaggio). Il quartiere si trovò isolato dalla città, i cittadini si misero all'opera a suon di picconi creando un piccolo passaggio, detto "u passareddu". Ancora oggi i catanesi identificano i due quartieri con questo nomignolo.

(Rocco Mendola)

 

 

STORIA DELL'ISTITUTO PER L'INCREMENTO IPPICO di via V.Emanuele

Da un articolo di Iorga Prato pubblicato da Urbanlife il 2 giugno 2013

Storia di vigne ,frati e cavalli (di Iorga Prato )

Nel 1635 la comunità gesuitica di Catania, presente in città da poco meno di un secolo, iniziò l'acquisto delle vigne del Sardo,appartenute cento anni prima a tal Erasmo il quale era il latifondista del grande feudo a occidente delle mura civiche. Tale feudo era noto anche come "vigne dell'Arcora"per via dei ruderi di quel ponte -acquedotto che i Romani edificarono per portare in città la leggera acqua di Licodia,e difatti nel 1640 appare la menzione agli "Archi"che trovavasi vicino. L'imponente archeggiato romano (di cui rimangono resti ormai sempre piu frammentari e per nulla tutelati)apparteneva all'opera idraulica piu grande mai eretta in Sicilia, ma le sue dimensioni non parvero limitare il Senato civico che nel XVI secolo ne autorizzò l'abbattimento per cavarne materiale da costruzione per le mura e nel secolo successivo per ricavare la splendida passeggiata alla Marina.

Le vigne presero dal 1566 il nome di Sardo, nome poi esteso anche all'omonima Porta urbica che si aprì nel Cinquecento sulle mura aragonesi e demolita nel 1792 per la realizzazione della strada del Corso (odierna via V.Emanuele ).

Secondo la regola gesuitica, una volta a settimana gli studenti dei collegi erano tenuti ad un giorno di svago e di pausa dagli studi da effettuarsi in piena campagna, in modo da "ricrearsi"e la funzione delle vigne dovette essere inizialmente questa :si ha notizia di un casolare e di una cisterna.

Nel 1669 l'imponente fronte lavico scaturito dai Monti della Ruina (oggi Monti Rossi),presso l'antico cenobio benedettino ,giunse alle vigne del Sardo sconvolgendole e inghiottendo gran parte dei terreni e dei casolari qui situati,comprese le proprietà gesuitiche.Di queste però dovette sopravvivere una torre, menzionata per un restauro avvenuto nel 1749.Non è chiaro in quali circostanze, ma i Gesuiti riacquistarono parte dei terreni ormai a sciara, su cui edificarono alcune "stanze"restaurate nel 1699 dopo che il sisma di tre anni prima le aveva "vessate".Il sito non doveva essere tenuto in gran considerazione dai frati,se solo nel 1720 appaiono le prime notizie per bonifica e realizzazione di servizi Questo disinteresse si potrebbe giustificare con l'impegno oneroso che il ricostruendo Collegio in centro stava in quegli anni catturando la priorità dei frati.

Pochi anni più tardi si ha notizia dell'acquisto di altri terreni, segno di un aumento delle finanze disponibili e dell'intenzione di ampliare le "vigne "sulle sciare seicentesche ,forse con l'intento produttivo, come si evincera 'dalle prime fabbriche inaugurate nel ventennio seguente. Infatti dal 1746 al 1765 abbiamo notizia della costruzione dei corpi di fabbrica destinati a Casa degli Esercizi Spirituali, ma già nel 1748 si procede alla costruzione della cantina e dal 1753 del parlamento.

Nel 1745 inizia l'acquisto del materiale per costruire il ritiro di cui la prima pietra fu posta l'anno seguente. In questo ritiro andavano eseguite meditazioni e contemplazioni individuali o collettive rivolte ai frati e ai laici.

Nasce quindi il bisogno di realizzare una serie di ambienti ospitali dove poter riposare e pregare,viene edificata la cappella per le preghiere comuni nel 1751.

L'edificio si presenta ad angolo retto e si adagia sulla strada del Corso (detta anche di Sardo)già tracciata sulle sciare e nella campagna suburbana. Spicca la lunga galleria con loggia interna, destinata ad ospitare le celle dei frati e dei laici durante il loro ritiro spirituale. Qui una singolarissima balconata del 1763 testimonia il legame ancora forte con il tardo-barocco,creando una scenografia quasi teatrale di cui le aperture nei due vani costituiscono le ritmate quinte,sconvolgendo lo spettatore mediante una serrata processione di mensoloni da esterno ,creando una forte sensazione di straniamento dovuta alla coesistenza di elementi architettonici canonicamente di diverse destinazioni. Rende ancora più sottile il gioco scenografico l'onda della ghiera metallica che rifluisce nei gigli di ferro battuto.

Il 1767 è l'anno della soppressione dell'Ordine e della cacciata dei Gesuiti dal Regno operata da Bernardo Tanucci il quale applicò la bolla di Clemente XIV sui regni di Ferdinando di Borbone. La Casa degli Esercizi Spirituali venne conclusa appena due anni prima, costituita dalla casina dov'erano le camere dei frati, dalla cappella e dalla sua anticamera, dalla torretta con scala in legno per l'accesso alla loggia, un camerone, la camera del rettore, la cucina, un magazzino e una pagliera, la casa del massaro e diversi ripostigli e ambienti.

Dal 1777 le vigne del Sardo vengono lottizzate e come appare da una planimetria di Ittar del 1833 il complesso,sebbene conservi un ampio vigneto, è letteralmente inserito nella maglia urbana tardo settecentesca e ottocentesca.

Nel 1822 la casa è sede della Real Gendarmeria, mentre la grande confisca dei beni patrimoniali ecclesiastici operata dal nascente Regno d'Italia ne decreterà l'uso quale "Deposito dei cavalli stalloni".

Tra la fine dell'800 e gli inizi del '900 l'edificio vedrà una serie di pesanti manipolazioni per essere adattato ad ospitare i cavalli. L'abbassamento nel 1869 del livello stradale per parificare le strade comporterà la creazione di un pianterreno in sostituzione delle fondamenta e la realizzazione di una lunga rampa per l'accesso alla galleria originale.

"STALLONE"come viene definito dai catanesi,è il più grande maneggio al chiuso da Napoli in giù,oltre a costituire una rarità, essendo una struttura pienamente urbana. (Iorga Prato )

Negli ultimi anni diverse associazioni ne hanno tentato il recupero organizzando persino mostre ma credo con scarsi risultati

 

 

 

Oltrepassata la sede dell'Archivio Notarile, all'altezza della via Montevergine, dirimpetto lo slargo di S. Elena e Costantino si ha, al civ.17, l'Istituto S. Pio IX attuale sede della Caritas; proseguendo sulla stessa via, al civ. 7 si riscontra l'interessante testimonianza di architettura di transizione di una delle famiglie dei Paternò Castello, anche se infelicemente inserita in un contesto architettonico ottocentesco, per ritrovarsi nel risvolto in salita, per la via Gesualdo Clementi, nella piazzetta dei Miracoli, subito dopo l'Ospedale S. Marta, dirimpettaio del restaurato Complesso dei Minoritelli con Chiesa omonima, per rientrare nella parte popolare del quartiere, all'altezza del Cortile Licciardello e raggiungere le spalle della piazza Dante. Considerazioni di sintesi. L'attuale frammentato residuo quartiere dell'Antico Corso viene individuato, in larga massima, dai vari nuclei abitativi, alcuni dei quali scollegati tra di loro perché distanziati dagli interventi pubblici. 

 

 

 

foto Franz Cannizzo

 


CHIESA SANTA MARIA DELL'IDRIA

 

Da anni a rischio crollo con un'impalcatura a sorreggere la struttura ed il relativo ex-convento con un cantiere aperto da anni e mai completato ,ma stendiamo un velo pietoso e puntiamo solo sulle poche notizie storiche.

La chiesa sorge nel quartiere Antico Corso a due passi da piazza Dante dove è collocato l'antico monastero benedettino.

Fu eretta per volontà del vescovo Andrea Riggio nel '700 .Inizialmente fu usata dall'ordine dei francescani ma con la legge eversiva del 1866 fu requisita.

Successivamente ospitò la parrocchia "Immacolata dei Minoritelli "che dal 1948 sposta la propria sede nell'omonima sede di via Gesualdo Clementi. Da quel momento la Chiesa S.M.Idria (nome leggibile su un'incisione )diventa una rettoria ,abbandonata ma ancora attiva fino al risultato odierno vergognosamente incomprensibile dove ovviamente si fa a scarica barile sulle responsabilità.

Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

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CHIESA DI SAN GIOVANNI BATTISTA in via Francesco Rancore

Ieri durante la mia passeggiata alla scoperta di via Plebiscito cercavo proprio questa chiesetta vista di sfuggita tempo fa.Si trova in fondo via Rancore che è una stradina vicino alla chiesa dei Cappuccini. Non indica il suo nome ma accanto al portale è posta un'epigrafe marmorea datata 2006 da dove comprendo che la Chiesa appartiene alla Confraternita di San Giovanni .

Nessuna fonte storica e quindi chiedo ai residenti del quartiere che mi indirizzano dai Cappuccini. Ebbene parlando con alcune fedeli della parrocchia dei Cappuccini vengo a sapere che le due Chiese son collegate perché i Cappuccini festeggiano annualmente San Giovanni Battista il cui fercolo è conservato in questa chiesetta di via Rancore a lui dedicata e che da qui uscirà il 24 giugno per la grande festa del quartiere presenziata da monsignor Cristina.

Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

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I SEGRETI DELLA STRADA LUNGA OTTANTA PALME

Oggi Via della Concordia inizia dal "Passo dei ladroni",dove il turista che ci passa non s'ha fimmari mai ...Venne realizzata nel 1955 sulla spinta del sacerdote Salvatore Pignataro, un parrinu spertu.

Se chiedete a un catanese nato nel secondo dopoguerra dove si trova il quartiere della Concordia, lui indicherà il rione attorno all'omonima via che inizia dalla piazzetta Caduti del Mare di fronte alla parrocchia Maria SS Assunta e si compenetra con una incerta estensione geografica con gli agglomerati urbani di S.Cristoforo ,Angeli Custodi, Palestro, Castello. Nella direzione nord confina con la parte bassa di via Plebiscito, nella direzione ovest con il cimitero e la stazione ferroviaria di Acquicella,nella direzione sud con il quartiere di Zia Lisa e a est con via Domenico Tempio. Ma se voi parlate con i cristiani nati nella prima metà del secolo scorso, quindi abbastanza anziani, loro di quel quartiere ricordano altri nomi,di quando via della Concordia si chiamava a strada di 80 palme,che più correttamente doveva essere chiamata 80 palmi.

Nella mia totale ignoranza del quartiere e dei rudimenti di costruzione credevo che la sede stradale misurasse proprio 80 palme ,un palmo dopo l'altro, una mano dopo l'altra. Solo di recente ho appreso con meraviglia alcuni dettagli:la strada che doveva collegare facilmente il porto e la stazione ferroviaria di Bicocca è nata abbastanza ampia rispetto alle altre strade. E considerato che un palmo corrisponde tecnicamente a cm 25,80 la larghezza della strada risulta di metri 20,65;una rarità a quel tempo rispetto alle altre strade dai 6 agli 8 metri,stritti stritti, appena sufficienti a far transitare due carri o carrozze che si incontravano.

In effetti il progettista del tempo (1887)del piano regolatore e di risanamento, Bernardo Gentile Cusa,ne stabilì la larghezza in metri 16,80 e lunghezza in metri 1450,prevedendo un'ampia piazza tra le vie De Lorenzo e Cordai che non venne mai realizzata. La strada 80 palme superò comunque i 20 metri e venne realizzata nel 1955 sulla spinta del sacerdote Salvatore Pignataro, un parrinu spertu, ma devoto, nativo di Adrano, che da parroco si rivelò vero catanese e vero operatore di fede e carità in quelle squallide strade:è in corso la causa di beatificazione.

La via Ottanta Palme inizia dalla piazzetta del Tondicello della Playa, ca tutti canusciunu come il Passo dei Ladroni ,dove il turista che ci passa non s'ha fimmari mai, anche se gli dicono che ha una gomma a terra. A Nord il quartiere va riferito all'ex via Gallazzo ,poi della Vittoria (di Sant'Agata sulla lava)è oggi via Plebiscito. A Ovest ci sono il cimitero che i vecchi catanesi chiamano ancora i Tre Cancelli e la ferrovia di Bicocca, nome derivato da una roccaforte saracena esistente in quei luoghi. A Sud il quartiere confina con via Acquicella Porto così 'ntisa per la presenza di un porticello con la funzione della difesa delle barche dei pescatori alla foce del torrente Acquicella. A est il quartiere della Concordia arriva al Faro Biscari e alla via Gazometro:ai catanesi piaceva chiamarla così quando all'altezza della via Cristoforo Colombo (prolungamento della via Domenico Tempio)installarono il Gazometro.

Un grande quartiere per estensione, ma in buona parte periferico ,costituito da piccole industrie e grandi magazzini ad uso depositi ,falegnamerie, stalle e ricoveri di carri e carrozze, alcune industrie di pelle e suola come quella degli Aleo al civico 58 sulla via Domenico Tempio da decenni abbandonata.Al di là della via Domenico Tempio, ex via Gazometro, si incontrava il mare che d'estate veniva goduto dai proprietari frontisti. A quel tempo il lavaggio dei carretti ,delle carrozze e dei cavalli veniva utilizzata la parte di mare sotto gli Archi della Marina, perché più vicina alla città e con il fondo del mare dove si appiricava.

Tornando alla via Ottanta Palme piena di negozietti di tutti i tipi,siccome la zona era abitata anche da famiglie povere,la suora catanese Maria Marietta nel 1921 fondò al numero civico 75 l'istituto religioso Madonna della Provvidenza per accogliere ragazzi e ragazze emarginati. I fanciulli venivano avviati alla scuola pubblica, invece di andare a lavoro da piccoli,e le fanciulle seguivano corsi per ricamatrici ,stiratrici,occhielliste, parrucchiere. Allo stesso modo si operava all'istituto Santa Angela Merici di via Cordai e soprattutto in via delle Salette dove i Salesiani accoglievano i maschietti, seguiti inizialmente dal fondatore cardinale Dusmet e poi da don Bonomo.

Un cinema che si chiamava immancabilmente Concordia venne acquistato una ventina di anni fa dal Comune per fare una biblioteca di quartiere che tutti continuano a chiamare <<Biblioteca Concordia >>,

mentre la denominazione assegnata dal consiglio comunale era quella di <<Biblioteca Alberto Sordi >>.

Non chiedete quindi dove si trova la Biblioteca Alberto Sordi perché vi risponderanno che è a Roma. -

(Tony Zermo)

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/023.JPG

CHIESA SANTA MARIA DE "LA SALETTE"

Una grande targa ne riassume brevemente la storia:

-Voluta dal Cardinale Dusmet

Costruita dall'Arch.Sciuto Patti Carmelo nel 1872-74

Distrutta dai bombardamenti del 1943

Ricostruita nel 1945-49:Arch.Raffaele Leone.

Affidata ai Salesiani nel 1949-

Ma per avere maggiori informazioni bisogna attingere al Rasà Napoli che la descrive com'era all'origine:

-Sorge nella via omonima, col prospetto di pietra calcare quasi completo e rivolto ad oriente. Esso è, come la chiesa, di elegante architettura gotica su disegno del catanese prof.Carmelo Sciuto Patti, di cara rimembranza.La costruzione è stata a spese dei fedeli e con largo contributo di S.E.il cardinale -arcivescovo palermitano Giuseppe Benedetto Dusmet tanto venerato dai Catanesi, il quale finì i suoi giorni il 4 aprile 1894.

Questo tempio venne aperto al culto il 26 aprile 1874 ed il 1°luglio 1897 vi fu fondata una Congregazione, come rilevasi da una tabella esposta nell'Oratorio festivo salesiano contiguo allo stesso tempio e per la compra del quale oratorio sua Eminenza il Card.Nava contribuì L.647.

Appena varcata la soglia della porta maggiore il visitatore osserva un vestibolo sul quale è la tribuna destinata alla collocazione di un organo ed illuminata ,oltrechè da quattro finestre piccole, da un finestrone circolare a foggia di rosone.

A sinistra di questo vestibolo è murata una lapide con la seguente epigrafe :

D.O.M. Alla venerata memoria del Card.Gius.Benedetto Dusmet del titolo di S.Pudenziana Arcivescovo di Catania che sin dal 1874 la costruzione di questo tempio largamente sovveniva ed al sacro culto apriva. Nel 1884 il vicino dormitorio S.Giuseppe a proprie spese erigeva .Nel 1892 il contiguo orat.festivo salesiano istituiva

 

 

 

 

La stazione di Catania Acquicella è la seconda stazione ferroviaria della città di Catania.

È situata tra il Cimitero monumentale di Catania dal quale è separata da una delle arterie viarie più importanti e trafficate della città, la via Zia Lisa, che è l'asse di ingresso della città per chi proviene da tutte le direzioni dell'interno della Sicilia e l'area dei Mercati Generali e dell'Aeroporto di Fontanarossa. L'edificio principale di stazione è posto ad est dei binari, lato mare, e si affaccia su di una piazza dalla quale è possibile raggiungere il porto di Catania e la Plaia.

La stazione è la prima ad essere incontrata dai treni che provengono dalla Stazione di Catania Centrale per le linee ferroviarie per Siracusa, Caltagirone e Caltanissetta Xirbi, Agrigento e Palermo. Un tempo molto frequentata da viaggiatori pendolari oggi ha vista pesantemente ridurre la sua importanza, a seguito della chiusura degli importanti impianti ferroviari adiacenti che davano lavoro a migliaia di lavoratori dell'indotto. Adiacente alla stazione sul lato est è ancor oggi visibile il grande impianto dell'Officina Veicoli di Acquicella in cui venivano effettuate revisioni integrali e grandi riparazioni dei rotabili ferroviari e fino ad un certo periodo anche di automotrici. Dal lato ovest invece sono visibili i capannoni della Squadra Rialzo delle FS.

Catania Acquicella venne costruita nell'ambito del programma di costruzione di ferrovie conseguenti alla costituzione della Società Vittorio Emanuele e proseguiti con la Società per le Strade Ferrate della Sicilia, detta anche Rete Sicula.

Faceva infatti parte del progetto per connettere mediante la strada ferrata le aree del siracusano e quelle interne della Sicilia con il porto di Catania necessario per le zone zolfifere dell'area centro-orientale dell'Isola e per il convogliamento dei prodotti agricoli della Piana di Catania. La stazione venne costruita in prossimità dell'imbocco della Galleria dell'Acquicella, costruita per sottopassare la zona sud della città e venne inaugurata il 1 luglio 1869 in concomitanza con l'apertura all'esercizio della tratta ferroviaria Catania-Bicocca di 7.468 metri. Il 1 luglio 1869 era anche la data in cui la Stazione di Catania Centrale veniva collegata al fascio binari del porto mediante un raccordo in discesa lungo 914 metri.
La stazione di Catania Acquicella consiste di un notevole fabbricato, in austero stile ferroviario con un corpo unico elevato a due piani posto in prossimità dell'inizio della galleria dell'Acquicella.

Il fascio binari comprende un binario di transito e tre binari di precedenza, di cui tre per servizio viaggiatori. Solo il primo binario è munito di una pensilina classica con struttura in ferro e colonne di ghisa. I binari per servizio merci e di ricovero si trovano sul lato est della stazione; dallo stesso lato si dipartono i raccordi per le ormai inattive Officine Grandi Riparazioni di Acquicella e per l'ormai abbandonato fascio merci di San Giuseppe la Rena con la carbonaia e i Mercati generali all'ingrosso. Dalla stazione, in direzione di Siracusa ha origine il breve tratto a doppio binario per la successiva Stazione di Catania Bicocca.

http://it.wikipedia.org/wiki/Stazione_di_Catania_Acquicella

Disse di lui Alessandro Baricco: "Pietro Anastasi finì per essere il simbolo vivente di un'intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del nord."
Pietro Anastasi, soprannominato Petru u tuccu, Pietruzzo e anche Il Pelè Bianco per la sua grande classe, nasce a Catania il 7 aprile del 1948, e il suo ruolo era centravanti.

Lo rese speciale la conquista del Campionato Europeo 1968 con la nazionale italiana, e l'essere ancora oggi il miglior cannoniere della storia della Juventus in Coppa Italia (30 reti), oltre al titolo di capocannoniere (10 reti) nella Coppa delle Fiere 1970-71, unico italiano ad averlo mai vinto e ad ever segnato l'ultima rete nella storia della competizione.
Pietruzzo inizia la sua carriera giovanissimo in Serie D con la Massiminiana di Catania, mettendosi in luce nel suo secondo campionato, il 1965-66, segnando 18 reti.

 

Fu così acquistato dal Varese in Serie B, squadra con la quale conquistò la promozione nella massima serie segnando 6 reti in 37 partite, esordendo in Serie A il 24 settembre 1967 contro la Fiorentina, non ancora ventenne. Nella prima stagione nel massimo campionato italiano segna 11 reti, 3 delle quali nella vittoria del Varese sulla Juventus 5-0 del 4 febbraio 1968, che gli valgono la prima convocazione in azzurro.
Passato poi proprio alla Juventus nell'estate successiva, per una cifra pari a 6.460.000 Euro attuali (record del mondo per un trasferimento di un giocatore dal 1968 al 1973), ne diventò uno dei protagonisti per tutta la prima metà degli anni settanta, dando un grosso contributo ai titoli del 1971-72, 1972-73, 1974-75.
Nell'estate 1976, dopo essere stato messo "fuori rosa" dalla squadra in seguito ad incomprensioni con l'allora allenatore Carlo Parola, fu ceduto all'Inter nell'affare che portò Roberto Boninsegna a Torino, ma in nerazzurro dimostrò segni di precoce invecchiamento, non riuscendo più a segnare come un tempo. Comunque in nerazzurro riuscì a vincere una Coppa Italia nel 1978.
Fu così ceduto all'Ascoli nel 1979, squadra nelle cui file militò in serie A per altre 3 stagioni . Benché il periodo di maggior splendore per lui fosse già finito, nel triennio in provincia riuscì ad aggiungere 9 ulteriori segnature al suo "bottino" personale maturato tra Varese, Juventus ed Inter, togliendosi la soddisfazione, con 105 reti totali in Serie A, di entrare tra i grandi cannonieri di sempre. Nella stagione 1981/82 ha militato nel Lugano in Svizzera.

Dopo le presenze in Under-21 e nella Nazionale B, esordì con la Nazionale maggiore l'8 giugno 1968 nella finale europea contro la Jugoslavia, finita in parità. Nella ripetizione segna il gol del 2-0, laureandosi così a pieno titolo campione d'Europa.
Nel 1970 fu incluso nella rosa di giocatori che avrebbe disputato i mondiali in Messico ma, a causa di uno sciocco scherzo con un massaggiatore che lo colpì con un asciugamani bagnato ai genitali, fu costretto ad operarsi ai testicoli e quindi a saltare i mondiali. Al suo posto furono convocati due attaccanti, Boninsegna e Pierino Prati , con conseguente eliminazione dalla rosa del centrocampista Giovanni Lodetti.
Attualmente è opinionista come ex calciatore di fede juventina sulle trasmissioni sportive di Telelombardia, dopo essere stato per diversi anni ospite a "Diretta Stadio...ed è subito goal " sull'emittente Italia 7 Gold. (Fonte: Wikipedia)
Ecco un altro esempio di vita dedicata interamente alla passione per il calcio, un altro esempio che nulla ha in comune coi spocchiosi giocatori nostrani attualmente alle luci della ribalta.

di Cristian Amadei

http://it.paperblog.com/e-lo-rese-speciale-pietro-anastasi-266522/

Dove nacque calcisticamente Anastasi. Si trovava qui.

 

 

Il Faro Biscari
E' chiamato così dal nome del punto in cui sorge, la sciara Biscari, sul lato ovest della rotonda della Plaia Progettato dall'ing. Enrico Maggiulli dell'ufficio Opere marittime del Genio civile, fu costruito in sedici mesi di lavoro e inaugurato il 28 luglio 1951; il precedente era stato costruito nel 1859 e demolito nel 1948. Era chiamato "Lanterna", sorgeva poco distante e funzionava a olio combustibile. Il suo numero progressivo di individuazione nell'"elenco fari" è il 2796; la sigla che lo contraddistingue è la E-1828, relativa al segnalamento internazionale riportata sul volume List of lights (lista delle luci). Essa si riferisce, in particolare, alla sua portata luminosa geografica che è di 28,7 miglia marine come massima e di 16 miglia marine come minima. L'altezza del faro, dalla base (4 metri di diametro) al vertice (2 metri di diametro), è di 32 metri. All'interno della costruzione conica esiste una scala a chiocciola, in marmo con ringhiera in metallo, che conta 101 gradini. La sua luce, che ha un'altezza media sul livello del mare di 30 metri e 60 centimetri, è caratterizzata da un lampo bianco ogni 5 secondi (0,7 secondi di lampo e 4,3 secondi di eclisse)
Essa è data da una lampada da 1000 watt, a filamento speciale in tungsteno, alimentata con energia elettrica (in caso d'emergenza entra automaticamente in funzione un impianto elettrogeno) posta all'interno di quattro lenti prismatiche, incorporate in un telaio rotante ad orologeria che ha una carica massima di poco più di quattro ore. Alla cura e alla custodia del faro provvedono un reggente e un vice-reggente, entrambi tecnici dei fari, che abitano con le rispettive famiglie in una palazzina limitrofa alla costruzione conica: dipendono dal comando di "Marifari", che, con sede a Messina, ha la direzione di tutti i fari marini esistenti in Sicilia e Calabria.

http://www.sicilie.it/sicilia/Catania_-_Faro_Biscari

La Plaia (anche scritto come Plaja o, più comunemente, Playa), è il nome del litorale costiero sabbioso che si estende per 18 km, nell'area compresa tra il porto di Catania e la località Agnone Bagni (frazione di Augusta, in provincia di Siracusa), con una profondità dell'area sabbiosa che varia tra alcune centinaia di metri e qualche km. Fino ai primi anni sessanta la parte adibita ad uso balneare si arrestava a un centinaio di metri a sud del Faro Biscari oltre cui vi era l'ampia zona di rimboschimento costiero che arrivava fino alla battigia.

 

 

 

 

 

 

QUATTRO ALBERI NELLA STORIA DI CATANIA

 

Forse non tutti sanno che quattro alberi fanno parte della storia di Catania:un carrubbo,un pino,un platano ed una quercia.

Il carrubo da il nome,CARRUBBA,al vasto quartiere che si è sviluppato nel dopoguerra tra Ognina e Cannizzaro. Ha piu' di un secolo e fiorisce nella scuola di via Scogliera 8, sorta nei decenni passati al posto di una casa di campagna. Nel 1968 fu colpito da un fulmine ed incenerito in buona parte,ma i valenti (allora) giardinieri del Comune di Catania riuscirono a salvarlo.

Il pino,da cui prende il nome la contrada PIGNO,si trovava nella proprietà Pulvirenti, all'estrema periferia sud-ovest della città,oltre Zia Lisa. Negli anni '50 dello scorso secolo fu tagliato alla base,ma germoglio' una nuova pianta che fu abbattuta da una tromba d'aria nel 1964.Sembra siano rimaste solo le radici.

Il platano,detto "ARVULU ROSSU",appunto perchè un tempo grande ed ombroso,si trova in via Dusmet,all'angolo con via Porticello,accanto allo sperone del palazzo Arcivescovile.E' ultracentenario e ha dato il nome a quella zona che fu in passato luogo di duelli rusticani ( ! ) e di incontri della malavita.

Dalla quercia,abbattuta circa 50 anni fa,ha preso il nome un quartiere a nord est della città,CERZA,al confine con il Comune di San Gregorio.

 


In seguito venne costruita una variante litoranea alla Strada Statale 114 che prese il nome del presidente americano John Fitzgerald Kennedy. Di fatto la variante canalizzò il traffico da e per Siracusa e favorì la costruzione di un grande e crescente numero di stabilimenti balneari, di colonie estive cattoliche, nonché di un camping internazionale e perfino di una pista di go-kart divenendo, per eccellenza, la meta balneare e ricreativa più frequentata nel catanese durante il periodo estivo: con un'affluenza di migliaia di persone soprattutto locali ma anche delle provincie limitrofe e turisti.

Oggi la Playa offre una certa quantità di stabilimenti balneari (comprendenti però solo tre o quattro spiagge libere), alcuni villaggi turistici, un acquapark, oltre a due alberghi, alcuni ristoranti e luoghi di ritrovo (in particolare discoteche) che si estendono lungo tutto il litorale. Il problema maggiore di fruibilità tuttavia rimane l'uso esclusivo delle spiagge ai clienti dei singoli lidi e delle innumerevoli ville e condomini costruiti a cavallo degli anni settanta.

Su un'area di circa 280 km² posta a nord-est delle spiagge, è presente il Boschetto della Playa, una macchia verde, frutto di un rimboschimento del periodo fascista (oggi ecologicamente protetta, dopo un lungo periodo di degrado ed abbandono), costituita in gran parte da pini marittimi e parzialmente trasformata in area attrezzata, che spesso ospita manifestazioni sportive agonistiche ed amatoriali.

A sud del litorale, invece, vi è l'area residenziale chiamata Villaggio Paradiso degli aranci, sede di una miriade di villette costruite, nella maggioranza dei casi, senza tener conto dei vincoli territoriali e ambientali della zona: molte delle abitazioni, di fatti, sono costruite a pelo d'acqua, ovvero a pochissimi metri dalle coste.
A giudizio di chiunque la visiti, la Playa rappresenta un'occasione perduta per la città: le sue sabbie dorate e la bellezza del mare avrebbero potuto trasformare quest'area in una vera e propria "riviera romagnola" siciliana. Per questo motivo, sono stati tentati numerosi interventi di riqualificazione della zona anche se a macchia di leopardo, ma la precarietà degli stessi, unita alla scarsa visione d'insieme, non hanno permesso di ottenere tangibili miglioramenti. I più critici rilevano che l'acqua è spesso sporca, o che la battigia si estende troppo in alcuni punti, non permettendo di nuotare davvero. Nonostante questo, però, la Playa rimane frequentatissima soprattutto dai catanesi stessi, di giorno quando affollano i lidi e di notte nelle varie serate organizzate dalle discoteche.

 


Stessa spiaggia, stesso mare a... la Plaia
I catanesi non rinunciano mai alla loro meta balneare preferita per godersi il relax a costi contenuti
La Sicilia - Domenica 27 Maggio 2012
 

I catanesi non rinunciano alla Plaia, come hanno fatto per tanti decenni i loro padri e i loro nonni. Ogni catanese ha il ricordo del primo bagno a mare alla Plaia, passeggiando su una sabbia così dorata come in nessuna parte al mondo. Anche quest'anno si vuole sfruttare le potenzialità della nostra terra e del meraviglioso mare catanese per arginare la crisi e proporre vacanze alla Plaia alla portata di tutti. La tradizione insegna che l'idea di prenotare la cabina, nello stabilimento che verosimilmente si frequenta da anni, non è mai tramontata e su questa linea i gestori dei 22 stabilimenti balneari aderenti al Cocap, il Consorzio Catania Plaia, continuano a lavorare a ritmo serrato e con il consueto entusiasmo, ma alla ricerca costante di situazioni sempre diverse e gratificanti da mettere a disposizione della propria clientela.
Alla Plaia si stanno ultimando i lavori di montaggio delle strutture in prospettiva dell'apertura degli stabilimenti, prevista per l'1 giugno (la stagione balneare si chiuderà ufficialmente il 9 settembre). L'estate è ormai quasi alle porte e si pensa al rilancio delle attività. La crisi esiste, impossibile negarlo. Una crisi che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci familiari: si tende dunque a tagliare le spese superflue e magari anche i costi per le vacanze; per questa ragione i gestori degli stabilimenti della Plaia hanno deciso di non aumentare i prezzi e ripresentare le proprie strutture come villaggi "all inclusive" dove chi vorrà godere di strutture sportive, discoteca e animazione potrà farlo senza costi aggiuntivi ed in base alle proprie possibilità economiche potrà usufruire di un ampio ventaglio di scelta.

 


«Le difficoltà in cui si vive oggi derivano per la maggior parte da un aumento vertiginoso del costo della vita che non si traduce quasi mai in un aumento proporzionato delle buste paga - dice Santo Zuccaro, presidente del Cocap - Proprio per questa ragione abbiamo mantenuto i prezzi stabili, senza aumenti immotivati per consentire a tutti un'estate al mare. Abbiamo voluto mantenere la diversificazione delle strutture, ognuna con una propria identità, affinché tutti possano trovare il luogo più adatto alle proprie esigenze, anche solo di gusto».
Una cabina e un posto sotto l'ombrellone con una serie di servizi in uno dei lidi balneari della costa catanese per tre mesi può variare dai 1.200 ai 1.800 euro che è anche possibile ammortizzare dividendo i tesserini (da uno ad un massimo di sei) tra famiglie o "invitando" un amico o un parente ad unirsi al gruppo. Inoltre ci sarà sempre la possibilità di usufruire di un ingresso giornaliero che oscilla tra i 2 e i 4 euro, che vanno dai 5 agli 8 usufruendo di tutti i servizi.
«Gli stabilimenti sono diventati dei piccoli villaggi dove il cliente può avvalersi di tutte le attrezzature e di un'animazione continua per tutte le fasce d'età, di giorno e di notte - ricorda Zuccaro -. Dal 2001 col Patto territoriale, tutti gli stabilimenti del litorale si sono ammodernati, sostituendo le vecchie cabine con strutture più leggere e diventando dei veri e propri villaggi turistici». La Plaia è anche punto di riferimento della movida notturna e anche quest'anno partiranno i progetti che negli anni passati hanno consolidato il nuovo andamento dei lidi al viale Kennedy.
«Un'attività che ogni anno viene aggiornata in base alle esigenze della clientela - aggiunge Zuccaro - inoltre anche per questa stagione garantiremo la sicurezza dei clienti in mare con il "Sistema di sorveglianza integrato" che consente allo stesso tempo la sicurezza in mare dei bagnati e la tutela dell'ambiente cosa a cui tutti i titolari degli stabilimenti tengono particolarmente stimolando sempre l'interesse dei bagnanti con incentivi e manifestazioni, soprattutto tra i bambini ma non dimenticando mai di coinvolgere anche gli adulti».

 

Alkamar
95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 75/A 095 341818 
Cled
95121 Catania (CT) - Viale Kennedy , 53/A 095 346557
Graziella
95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 63 095 341961 - 095 7233462
Nettuno

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 39 095 340983
Roma

95121 Catania (CT) - Viale Kennedy, 77 095 346925 o 095 281615
Vacarizos

95100 Catania (CT) - Via Pagaro, 88  095 295664 
Venere

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 73   095 341591 
Verde

95121 Catania (CT) - Viale Kennedy Presidente, 33   095 281603
Europa

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 46/47  095 341735
Arcobaleno

95121 Catania (CT) - Viale Kennedy, 19 095 7231072
Le Palme

95121 Catania (CT) - Viale Kennedy, 63

The Kings Vacans

95100 Catania (CT) - Contrada Vaccarizzo 095 295103

Coccoloba Club

V.le Presidente Kennedy 87, 95121 Catania 095 591522

Dome Beach

Viale Kennedy, 85 - Catania  Tel.

Tre Gabbiani

Viale Kennedy 57 - 95121 Catania  095 7231591

Souvenir

Viale Kennedy 71 - 95121 Catania  095 345440 
Internazionale 
Viale Kennedy 83 - 95121 Catania  095 592102

Tempo Libero 
Viale Kennedy, 93 - Catania (CT)   095 7357235

Villaggio Turistico Souvenir 
Viale Kennedy, 71 - Catania (CT)   095 341162

Belvedere

Viale Kennedy, 41 - Catania (CT)

Polifemo

Viale Kennedy 59, Catania  095 346521

Le Capannine

Viale Kennedy, 93 95100 Catania   095 7357235

 

 

America

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 89  095 591708

Aurora

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 37/A  095 340426

Azzurro

95121 Catania (CT) - Viale Kennedy, 11  095 349005

Delfino

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 91  095 592652 
Etna

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 69  095 341880

Excelsior

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 35  095 341508

Jolly

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 85  095 591730 
Niki Village

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 87  095 7357415 
Moa Beach

95121 Catania (CT) - Viale Kennedy, 7     095 346970 

Il Ciclope

95121 Catania (CT) - Lungo Mare Kennedy, 59/A   095 340155

Centro Balneare Polizia

V. Plaia, 95121 CATANIA (CT)   Tel: 095345701

Centro Balneare Esercito

V.le Presidente Kennedy 23,121 CATANIA (CT)  Tel: 095346573

Le Piramidi 

Viale Kennedy, 45 - Catania Tel

The Original Cucaracha

Lungo Mare Kennedy, 47 95121 Catania (CT) 095 7232195

Dopolavoro Ferroviario

 Viale Kennedy 21 - 95121 Catania 095 281036

Centro Balneare Enel 
Viale Kennedy 61 - 95121 Catania 095 340326

Patrizia 
Viale Kennedy 81 - 95121 Catania
 Tel.

Villaggio Turistico Europeo 
Viale Kennedy , 91 - Catania Tel. 095 591026 - 095 592007

Abatros

Viale Kennedy, 45 - Catania (CT)

La Pineta

Viale Kennedy, 71/a - Catania (CT)

Università

Viale Kennedy  Catania

Stella Del Sud

Viale Kennedy 87 Catania 095 591522

 

 

 

 

PORTO DI CATANIA - PHOTOGALLERY

 

 

 


 

Litterio al Bowling della Plaja

 

Auh, sig. La Rosa, ddu zzaurdu di me cucino Affio l'autru iorno mi dissi: Litterio chiù tardu ti vegnu a trovu a casa ca ti debbo parlari.

Affio - ci ho detto io - guarda che io devo "studiari ppi l'esami". "Ma io ti devo parlari ppi fozza". "E va bene" - ci dissi - ..."se sto studiando... arrusbigghiami"... Lui doppo pranzo passò (voce del verbo passato) e si misi ncurtu (a cimicia) ca mi vuleva purtari ppi fozza o Bulinghi... Io cci ho detto: "Affio non cci vogghio venere prima di tutto picchì soddi non cci n'haiu, e poi non ci ho stato mai (La Rosa: semmai, ci sono stato... Litterio: picchì, ci vinni macari Lei?). "E ppoi non sacclu iucari"...

 Iddu m'arrispunnivu "Non ti preoccupari picchi mancu iù cci ho stato mai, ma è giustu pruvari". "Ma soddi non ci ne ho" - ci dissi iù-  "Non ti preoccupare ca te lo offro io,... pago iù."

Ora, sig. La Rosa, siccome io non sono un tipo profitterolo, mi pareva un poco male, ma iddu insistivu tantu ma proprio tantu ca alla fine accittai l'invito.

Pattemu do' paisi cu 'du gran machinuni, a me Fiat 600. A misi a motu, u tempu di cuarialla e pattemu. Sig. La Rosa, dda machina è n'saittuni, un fulimine! Tempu quattru-cinc'uri arrivammu o posteggiu ddo Bullinghi! Lassai dda gran machinuna davanti, ci misi i catini di sutta e di supra u cofanu, e ppi stari cchiu tranquillu vicinu u stezzu ci misi a'mmagginetta ca me fotografia cu l'occhi a pampinedda, unni ci scrissi "ppi ffavuri, non t'ha futtiri!" Poi ciccai o posteggiatori, s'avvicinau e ci dissi "Gioia affezzionato del mio cuore, t'arreuli cchi ti stai lassannu? E iddu, mi taliau e m'arrispunnui "cchi fa, a lassa cca o s'ha pigghia cchiu taddu?" Sig. La Rosa, era propriu lisciu!

Mhi! Comu trasemu nta stu bulinghi, sig. La Rosa, rumore di palli ca arrotolavano annavanti, in un'altra fascia c'era una specie di saia con le palle ca turnavano annarreri, palli 'nda l'aria ca calavano girando per tutte le parti, insomma sig. La Rosa, era tutto un giramento di palle. Quantu paaalliii, sig. La Rosa, palli di tutti i colori, palli dure, ma dure ca si ponu abbiare, sbattiri comu voli, insomma non su palli che si possono rompere quelle... picchì ogni palla aveva tre buchi portusi.

Appena trasemu, ci fù unu ca pigghia mi chiamau e mi fa: "scusi le scappe".. "No, guardi non mi scappa affatto pecchè ho fatto due gocce precise prima di calari do paisi". Allora quello mi fa "ma signore vi dovete cambiare le scarpe, prego!". Sig. La Rosa chista fu a prima mala comparsa; allora subito mi ho scusato dicennici "cci deve scusari ma è che siamo primaioli, voglio dire mai ngignati per il bulinghi," e ni desunu mparu di scarpi a l'unu... scarpi a colori, belli, tipo anni trenta... Cincumila liri!!!! signor La Rosa, su s'accattari scarpi issi ddocu ca su boni e costunu picca!.

Appena me cucinu Affio si livò i scarpi pari ca scoppiò a guerra chimica, cci fù un curri curri generali: cu scappau a destra, cu scappau a sinistra, appunu a telefonare a chiddi da disinfestazione comunali; oh lu bestia! Nde peri cci aveva a stampa de scarpi ca pari ca non si l'ava livato mai.

Inveci, sig. La Rosa, quannu mi livai i scarpi iù, ciauru di carnuzza tenira, di neonato, un profumo ca s'allargaru i pommoni. A signurina da cassa di prima mi taliavu ntrigna,  mi canciai i scarpi e iemu pi pigghiari a palla.

 

Sig. La Rosa, cormi pigghiai a palla m'accorsi (voce del verbo accorrere) ca cci aveva dei buchi portusi, io però non sapevo e non capivo come ci dovevo nficcari i ita nde purtusa anche perché i ita su cinque e i purtusa erunu tri, e perciò mi assuppicchiavunu due ita e ho accominciato a ncaccari i ita, insomma vaio ppe tirare, sig. La Rosa, a palla mi partì annarreri ca cci fu u curri curri generali, e meno male ca non n''cagliai a nuddu. In quel momento preciso ddu zzaurdu di me cucinu Affio ca si aveva ncaccatu benissimo i ita ndei purtusa và ppi abbiari (voce del verbo abbaiare) a palla, partivu e iddu s'accorse ca ci avava arrestato 'aneddu intra u purtusu...,

pigghia e partivu a peri appressu a palla, ppi acchiapparla; sciddicavu, cascò nda pista affianco, a panza sutta, longu longu, cchi iammi aperti mentri arrivava una Palla ca pareva na cannonata, u ncagghiau ndegli organi genitori sottostanti e u trascinau nsino ndei birilli, fici STRIKE, su risucavu nda machina e dal quel mumento non si hanno notizie.

lo, sig. La Rosa, ca circava di nficcarici i cinque ita nde tri pirtusa pensai "ma non cridu ca cci su palli cu cinque pirtusa" perciò lassu na palla e vaiu pi pigghiarini un'altra; a quel momento preciso luvanu a luci, picchì a una certa ora ndo Bulinghi abbassano i luci picchi comincia il disco-bulinghi, perciò al buio c'era un cretino assittato vicinu unni arrivano i palli... chistu era un metro e deci, completamenti tignusu. Sig. La Rosa, 'cu ddu scuru scanciai a so testa ppa palla ci inficcai un jtu nda ucca e dui ndo nasu e accuminciai a tirari deciso; mi movevo tutto, bello ccu na bella sciolta, picchì lei u sapi che di corpo vado bene. Doppu dda mala cumparsa di Affio mi volevo dare un convegno di chiddu ca cci a fa troppu forti, così acchiappu a chistu, u tirai nda pista e ho fatto Strike!!! e mi desunu... venti punti a mia e deci a iddu... nda testa!
Nel Bulinghi successi il parapiglia e il bello è ca non ci posso entrare più picchì all'entrata ci misunu a foto di mia e di du zaurdu di me cucinu e c'è scritto "Attenti a quei due".

 

 

 

Mangeremo ancora spaghetti con le telline?

Spaghetti con telline e cannolicchi addio: dal primo giugno rischiano di sparire dalle tavole degli italiani per effetto dell'entrata in vigore del regolamento Mediterraneo dell'Unione Europea che detta nuove regole destinate ad avere un "impatto sulla pesca e sulla tradizione enogastronomica nazionale". A lanciare l'allarme è la Coldiretti che chiede una deroga all'entrata in vigore delle nuove norme. Il regolamento mediterraneo, spiega in una nota la Coldiretti, fissa nuove distanze per la pesca dalla costa a non meno di 1,5 miglia per le reti gettate sotto costa, che diventano 0,3 per le draghe usate per la cattura dei bivalvi, "impedendo di fatto la raccolta di telline e cannolicchi". "Con l'arrivo dell'estate - sottolinea la Coldiretti - non sarà più possibile gustare piatti come gli spaghetti con le telline o i cannolicchi se non interverrà al più presto la deroga richiesta. Le nuove norme non solo rischiano di provocare una brusca caduta di reddito per la pesca italiana ma anche di aumentare la dipendenza dell'Italia dall'estero da dove già arriva il 60% del pesce consumato a livello nazionale", afferma Coldiretti.

 

Il Boschetto

Su un'area di circa 280 Km² posta a nord-est delle spiagge catanesi, è presente il Boschetto della Playa, una macchia verde, frutto di un rimboschimento del periodo tra le due guerre mondiali, (oggi ecologicamente protetta, dopo un lungo periodo di degrado ed abbandono).

Il boschetto è costituito in gran parte da pini marittimi ed negli ultimi anni è stato trasformato in una vera area attrezzata, che oltre ad essere luogo di relax e meta di molti siciliani per trascorrere giornate intere a contatto con la natura, spesso ospita manifestazioni sportive agonistiche ed amatoriali.

Raggiungere il boschetto della Playa è molto semplice, in soli 15 minuti con il bus urbano, partendo dalla stazione, dall’aeroporto o dal centro storico di Catania.
 

 

Romano Palace

Parco Aragonesi

Le Dune

Gli stabilimenti balneari sono quasi tutti dotati di ristorante 

LIBRINO

Librino (Libbrìnu in siciliano) è un quartiere periferico a sud ovest della città di Catania, progettato intorno alla metà degli anni sessanta come città satellite modello. La progettazione venne affidata al famoso architetto giapponese Kenzo Tange. 

Attualmente conta circa 80.000 abitanti (librinesi o librinoti).

 

L'area in cui sorge il quartiere nelle antiche carte topografiche aveva il nome di Lebrino: il toponimo deriva dall'aggettivo latino leporinus (cioè "della lepre"). Il termine sostantivato leporinum è un evidente zootoponimo e costituisce una variante di leporarium o leporium, che identificava, nell'antica Roma, un "luogo dove abbondavano stanzialmente o venivano allevate le lepri in cattività a scopo venatorio". A tutt'oggi, infatti, nonostante l'abbondante urbanizzazione, vi sono presenti conigli selvatici e lepri.

La progettazione del quartiere fu prevista dal Piano Regolatore Generale di Luigi Piccinato, adottato nel 1964 e approvato nel 1969. Il progetto originale prevedeva l'accoglienza di circa 60.000 abitanti in un sistema moderno costituito da grossi anelli delimitati da larghe strade ed isole alberate, nonché strutture sociali, scolastiche, religiose ed amministrative tali da renderlo perfettamente autonomo dalla città.

Nel 1970, in esecuzione del decreto dell'Assessorato Regionale allo Sviluppo Economico, il Comune di Catania affidò al gruppo Kenzo Tange e Urtec di Tokyo la redazione di un piano particolareggiato e all'Italstat l'effettuazione degli studi preliminari. Il progetto di Tange fu consegnato nel 1972 e reso esecutivo come Piano di Zona nel 1976. Esso prevedeva anche la realizzazione di alcune lingue di verde, specificatamente dedicate ai vari gruppi di stabili abitativi e di un vasto parco di 31 ettari, un'area, dunque, di dimensioni tali da diventare meta di gite fuori porta per i cittadini catanesi. Librino, insomma, era stata pensata fin dall'inizio come una sorta di new town, collegata al centro da un asse viario. Il risultato fu ampiamente inespresso.

I primi problemi nacquero quando ci si accorse, in ritardo, che la zona prescelta risentiva del grosso problema del forte inquinamento acustico prodotto dall'andirivieni degli aerei che decollavano ed atterravano nel prospiciente Aeroporto di Catania-Fontanarossa; inoltre, da un punto di vista climatico e ambientale, la zona non era molto amata dai catanesi, essendo lontana dall'Etna. È evidente che non si poteva pensare ad un insediamento abitativo di pregio e di livello elevato, tanto che il quartiere modello finì per degradarsi ad insediamento di case popolari e cooperative edilizie. A ridosso della zona, inoltre, a partire dai primi anni settanta, si era sviluppata la costruzione di case abusive ai margini dei quartieri Fossa della Creta e San Giorgio, ambedue confinanti con Librino.

Il progetto venne quindi disatteso in diversi punti, fino ad essere completamente stravolto. Inizialmente fu necessaria una variante progettuale, poiché l'altezza di alcune torri previste non era compatibile con il corridoio di discesa di sicurezza degli aeromobili nell'attiguo aeroporto di Fontanarossa. In seguito, le varianti divennero una prassi; proseguiva la massiccia edificazione abusiva e la cattiva gestione del territorio da parte delle amministrazioni locali.

 

 

Dopo decenni di abbandono e degrado dei pur moderni edifici e delle strutture urbanistiche del quartiere, negli ultimi anni c'è stata un'inversione di tendenza che ha portato un relativo miglioramento della viabilità e dei collegamenti con il centro cittadino. All'interno del quartiere si distinguono alcune cooperative edilizie decisamente ribelli al fatto che Librino sia ritenuto sinonimo di delinquenza e sporcizia.

Il quartiere, nel corso del tempo è divenuto tristemente simbolo di criminalità (inferiore per intensità solo al quartiere di San Cristoforo), organizzata e non, che raggiunge l'apice nel "Palazzo di Cemento", vero e proprio covo della criminalità organizzata del quartiere, nonché centro dei principali atti criminosi (spaccio di droga, omicidi, traffico illegale di armi, ricettazione).

http://it.wikipedia.org/wiki/Librino

 

S. GIUSEPPE LA RENA - GORETTI - ZIA LISA. La Municipalità San Giuseppe la Rena copre l’intera periferia meridionale di Catania riunendo parti del territorio con caratteristiche assai diverse le une dalle altre, ma che presentano un aspetto comune: a fronte di una funzione residenziale complessivamente secondaria, la Municipalità è sede di grandi attrezzature di interesse cittadino, ma anche metropolitano o regionale, e della grande area industriale di Pantano d’Arci; qui, infine, si trova l’unica parte del territorio catanese che mantiene ancora caratteristiche naturali di rilievo sottoposte a tutela.

Il territorio della Municipalità ha inizio, a nord, dalla via Acquicella Porto che rappresenta il vero confine meridionale della città "compatta". Qui ricade anche il grande Cimitero e le due grandi aree residenziali pubbliche di Villaggio Sant’Agata e Zia Lisa che rappresentano, insieme al villaggio Santa Maria Goretti, il grande contenitore residenziale della Municipalità. La storia dell’urbanizzazione della periferia meridionale di Catania è abbastanza recente. Nel 1854 era stato approvato un piano d’ampliamento che aveva regolato l’edificazione a sud della città, con le modifiche apportate nel 1867, fino al piano di B. Gentile Cusa del 1888. Nel decennio successivo A. Zeno e G. Fiocca, quest’ultimo progettista del porto, avevano proposto alcuni interventi di sistemazione del litorale meridionale.

Ma sostanzialmente, con le scelte operate da Gentile, l’area meridionale della città veniva confermata come espansione da destinare alla realizzazione dei quartieri per le fasce più deboli della popolazione. Il confine stabilito da Gentile Cusa è proprio l’attuale via Acquicella Porto. Al tempo stesso l’ubicazione del Cimitero creava la prima grande attrezzatura pubblica in questo versante. Dopo il fallito tentativo di dotare la città di un Piano regolatore, è nel 1934, con l’elaborazione del Programma di fabbricazione, che il destino della periferia sud viene definitivamente segnato.

 

 

Il piano prevede un’ampia "zona ferroviaria e mercati generali" tra il "molo di Mezzogiorno" e l’attuale via A. Vespucci, compresa l’area attualmente occupata dal mercato ortofrutticolo; una zona industriale tra la strada ferrata e il boschetto della Plaja; l’area destinata a verde del boschetto ed una zona di edilizia estensiva a Zia Lisa, quest’ultima separata dal cimitero e dalla zona industriale per mezzo di aree destinate a orti e giardini. La scelta urbanistica non differiva molto da quella contenuta nel piano di Piccinato, Guidi e Marletta; piano che era stato tra i due vincitori del concorso del 1931. Qui, alla zona destinata alla ferrovia e ai mercati era stata destinata una superficie inferiore, a tutto vantaggio del verde pubblico per lo sport (il boschetto della Plaja) in cui era anche previsto il tiro a segno. Più ridotta era stata anche la superficie destinata a "zona agricolo-artigiana"; mentre una zona destinata ad edilizia economica e popolare era stata prevista vicino la fossa Fontana Rossa.
Nel 1951 il Comune decideva di riperimetrare la zona industriale inglobando in essa ben 130 ettari, in parte paludosi, chiamati Pantano d’Arci, e, dunque, ricchissimi d’acqua, compresi tra il Simeto, l’aeroporto e il Cimitero. Il Piano regolatore del 1954, mai approvato dalla Regione, confermava per la periferia sud di Catania la scelta degli insediamenti produttivi e dei mercati generali che potevano utilizzare la vicina stazione ferroviaria di Acquicella. Due anni dopo veniva approvato un piano per l’insediamento delle attività produttive che distingueva i lotti in funzione del numero di addetti (fino a 50; fino a 500; oltre 500), destinava una parte dell’area ad attività artigianali e commerciali, prevedeva l’ampliamento delle aree ferroviarie e le necessarie attrezzature pubbliche. Nel 1963 veniva istituito il Consorzio ASI. Negli anni successivi, fino all’anno 1967 in cui venne approvato il nuovo piano ASI, l’estensione dell’area destinata ad usi industriale è progressivamente cresciuta fino a divenire di circa 1900 ettari, e con questa estensione è stato recepito nel PRG Piccinato del 1969.

Oggi, trent’anni dopo il PRG, gran parte delle infrastrutture è realizzata, sebbene solo nel corso dello scorso anno è entrato in funzione il depuratore. Eppure, come ha riscontrato F. Martinico, il tasso di utilizzazione delle aree e di circa il 60%. Paradossalmente, in prossimità della grande zona industriale di Pantano d’Arci si trovano alcune delle aree più pregiate dal punto di vista naturalistico dell’intera Sicilia orientale, e soprattutto quella grande area della Plaja destinata fin dagli anni Trenta a scopi ricreativi e balneari. I lidi, presenti fin da prima della seconda guerra mondiale, si susseguono lungo viale Kennedy fino a ben oltre l’aeroporto di Fontanarossa. Tra il viale e il boschetto sono state create, nel tempo, una serie di attrezzature ricreative: l’ente fiera, l’albergo della gioventù, la piscina comunale, che si interrompono in corrispondenza del poligono militare. Più a sud è la Foce del Simeto, estuario del più grande fiume della Sicilia orientale, che, in parte per la distanza dal centro cittadino, in parte per la presenza di acquitrini, è rimasta a lungo fuori dagli interessi edificatori e speculativi, è utilizzata, quasi esclusivamente, come riserva di caccia.

Nel piano Piccinato veniva individuata, peraltro, una zona di vincolo assoluto proprio in prossimità del vecchio estuario; zona che a seguito degli interventi di bonifica, rettificazione e cementificazione dell’alveo del fiume e dei suoi affluenti, era stato abbandonato. Tuttavia, a partire dall’inizio degli anni Settanta, il ritardo con cui si dava attuazione al piano regolatore, diventa causa di un lento, ma inarrestabile, processo di violazione dell’area della Foce del Simeto per mezzo di insediamenti residenziali abusivi concentrati sul litorale e realizzati perfino sulle aree demaniali. Si tratta in generale di lottizzazioni abusive destinate a seconde e terze case, e solo in piccola parte utilizzate come abitazioni permanenti. Gli edifici ammontano ad alcune migliaia e investono una superficie di circa 1500 ettari in gran parte interna al perimetro della Riserva Naturale Orientata istituita nel 1984 per proteggere l’area, ed in particolare la flora e la fauna che vi si trovano.

Al danno ambientale e paesaggistico si è aggiunta la sottrazione sistematica all’uso pubblico del litorale, spesso recintato. Per quanto riguarda gli insediamenti residenziali legali, la gran parte origina dai tre grandi interventi di edilizia residenziale pubblica che risalgono a diverse fasi della urbanizzazione della periferia sud. Il più antico è il villaggio S. Maria Goretti realizzato dall’Ente Siciliano Case Lavoratori e dall’UNRRA-Casa per ospitare 1400 abitanti rimasti senza tetto dopo l’alluvione del 1951. Si tratta di un villaggio con caratteristiche da "Strapaese" in cui le uniche attrezzature pubbliche sono costituite da una scuola elementare, una chiesa e qualche piccola attività commerciale. Immediatamente a ridosso del villaggio esiste il campo di rugby. Pochi anni dopo, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, veniva realizzato dall’IACP il Villaggio S. Agata, chiamato anche Zia Lisa I, che, sviluppatosi sulla base di due progetti diversi, ospita poco meno di 10.000 abitanti.

 

 

La logica diversa che presiede ai due progetti è causa di alcune incoerenze proprio nella struttura urbana. Così nella parte nordoccidentale sono presenti lunghe stecche di case in linea, mentre a sud venne impostato uno schema a corte che non si potrà completare per i limiti imposti dal PRG. La viabilità non fu studiata attentamente in relazione all’andamento orografico del terreno e per questo è rimasta incompleta. Le aree destinate alle attrezzature sono di proprietà pubblica, ma la gran parte e in stato di abbandono. Circa dieci anni dopo è stato realizzato, non molto distante da Villaggio S. Agata, Zia Lisa II su progetto di M. Coppa destinato ad ospitare un totale di oltre 3.200 abitanti. Si tratta di un villaggio che occupa oltre 14 ettari di superficie, e nel quale in una prima fase non erano previste attrezzature pubbliche.

Nel 1969 è stato inglobato in un piano di zona che ne avrebbe dovuto consentire la realizzazione, e che invece ha condotto solo al completamento del programma costruttivo che verrà. ultimato nel 1975. Ma la decima Municipalità è quella in cui ha sede la vera porta della Catania del XXI secolo: l’aeroporto Filippo Eredia, "Fontanarossa". Benché esistesse fin dal 1924, in realtà l’areoporto rimane a lungo poco più che una pista di atterraggio, fino alla seconda guerra mondiale allorché venne potenziato per le esigenze belliche. In fase di approvazione del PRG di Piccinato del 1969, la Regione si espresse per una rilocalizzazione dell’aerostazione perché troppo vicina alla città e incuneata tra la zona industriale e il centro cittadino. L’attuale struttura fu realizzata sulla base di un progetto di Morandi risalente agli anni ’60, e venne inaugurata all’inizio degli anni ’80.

Contributo editoriale tratto dal volume :
"Catania - I quartieri nella metropoli" a cura di Renato D'Amico - ed. Le Nove Muse

http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/municipalit%C3%A0/s._g._la_rena_zia_lisa/Il_Tessuto_Urbano.aspx

 

"Catania intitoli a Paolone lo stadio di rugby 'Goretti'"
24 gennaio 2012 - Intitolare lo stadio di rugby di Santa Maria Goretti all’ex parlamentare di An Benito Paolone, morto ieri a Catania all’eta’ di 78 anni.

Questa la richiesta che il presidente della VII Commissione Sport Manlio Messina (PdL) avanza all’Amministrazione comunale del capoluogo etneo.

“Il rugby catanese – afferma in una nota Messina – e’ inscindibilmente legato alla straordinaria figura di Benito Paolone che, oltre a un grande uomo politico, e’ stato anche un vero e appassionato uomo di sport fondando negli anni ’60 l’Amatori Catania Rugby, di cui è stato giocatore e presidente”.
“Con l’Amatori, sua creatura prediletta, Paolone ha svolto per Catania un ruolo non solo sportivo – aggiunge Messina – ma soprattutto sociale, riuscendo a ‘salvare’ molti giovani dei quartieri difficili della città educandoli alla disciplina e alla lealta’ del rugby. Per tutti questi motivi – conclude – ritengo che sia doveroso per la citta’ di Catania onorare la figura di Benito Paolone dedicandogli lo stadio della sua Amatori”.

 

L'Aeroporto di Catania

(IATA: CTA, ICAO: LICC) è, al 2010, il sesto aeroporto d'Italia per traffico passeggeri ed il primo del Mezzogiorno.
Il 5 maggio 2007, alla presenza del Ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi, è stata inaugurata la nuova aerostazione intitolata a Vincenzo Bellini, nella quale si potrà accogliere, con elevati standard di qualità di servizio, il crescente incremento del traffico aereo che le previsioni prospettano per lo scalo etneo. Il vecchio terminale "Filippo Eredia" è rimasto in funzione fino alla sera del 7 maggio 2007, in concomitanza con l'apertura al pubblico del nuovo terminal (all'alba dell'8 maggio 2007).

Informazioni generali

È il principale aeroporto della Sicilia e il primo del Mezzogiorno ed uno dei maggiori fra quelli italiani. Il traffico è in continua espansione, con numerosi voli di linea e charter favoriti dalla posizione geografica, dalle condizioni climatiche e dai collegamenti stradali e marittimi.

L'aeroporto sopporta un notevolissimo traffico nazionale ma anche diversi collegamenti di medio raggio con importanti mete europee e, ultimamente, anche extraeuropee (come Capo Verde, Dubai e Tel Aviv). L'aerostazione è, inoltre, base logistica della compagnia aerea catanese Wind Jet e charter Mistral Air.
Vista l'inadeguatezza del precedente impianto, progettato negli anni settanta per accogliere un traffico massimo di un milione di passeggeri annui, negli scorsi anni è stata realizzata a fianco una nuova e più grande aerostazione. È stata, inoltre, ampliata l'area di sosta per i velivoli e realizzata una nuova via di rullaggio che collega il piazzale di sosta aeromobili con la testata pista 08. La consegna dei lavori del nuovo impianto e delle opere connesse è avvenuta il 21 dicembre 2006, con quasi due anni di ritardo rispetto a quanto inizialmente previsto (inverno 2005) ed è stato aperto al pubblico l'8 maggio 2007.

Lo scalo è soggetto talvolta a limitazioni operative o temporanee chiusure a causa delle ceneri vulcaniche che possono invadere lo spazio aereo e le piste durante le eruzioni dell'Etna obbligando, per motivi di sicurezza, a dirottare i voli nel vicino aeroporto di Palermo. A tale scopo, il Dipartimento della Protezione Civile nel gennaio 2010 ha installato nei pressi dell'aeroporto un innovativo radar in banda X in doppia polarizzazione per il monitoraggio delle nubi di cenere vulcanica emesse dall’Etna e supportare le autorità preposte alla regolamentazione e al controllo del traffico aereo. A seguito dei successi ottenuti in fase di sperimentazione, uno strumento identico è stato inviato alle autorità islandesi in occasione dell’eruzione del vulcano Eyjafjallajokull nell’aprile del 2010 per dare supporto all’ Icelandic Meteorological Office[4].
Altri operatori basati sullo scalo
12º Nucleo Elicotteri Carabinieri - Sezione Aerea Guardia di Finanza - Nucleo Elicotteri Vigili del Fuoco - Servizio Aereo Corpo Capitanerie di Porto/Guardia costiera - Aeroclub di Catania "Pino Tosto".
In prossimità dell'aeroporto si trova la base elicotteri della Marina Militare di Catania-Fontanarossa "Mario Calderara".
Storia
L'aerostazione civile venne ufficialmente inaugurata nel maggio 1924 e dedicata all'illustre meteorologo Filippo Eredia.
Il 5 maggio 1947 atterrò il volo inaugurale delle Linee Aeree Italiane Internazionali (che poi diverrà Alitalia) proveniente da Torino (aeroporto di Collegno). Alle fine degli anni '40 il governo stanziò diversi fondi per la costruzione di un'aerostazione più grande, che venne quindi realizzata ed inaugurata dal ministro Mario Scelba nel 1950. Tuttavia il traffico passeggeri stentò fino a tutti gli anni cinquanta.
Nel 1962, parte proprio dall'aeroporto di Catania il Morane-Saulnier MS.760 Paris per l'ultimo viaggio del fondatore e presidente dell'Eni Enrico Mattei, che si concluderà tragicamente a seguito di un attentato nei pressi di Bascapè a pochi km dallo scalo di Linate.
Negli anni sessanta si ebbe un notevole incremento dei viaggiatori, che già nel 1966 superarono quota 260.000. Questo rese l'infrastruttura nuovamente inadeguata e la pista si rivelò troppo corta per aerei sempre più grandi e veloci. Negli anni settanta, con un traffico passeggeri in continuo aumento (500.000 in media) si realizzò una nuova aerostazione unitamente alla torre di controllo, scalo merci, caserma dei vigili del fuoco e un allungamento della pista su progetto dell'architetto Manfredi Nicoletti.

 

IERI

OGGI


L'impianto, inaugurato il 5 agosto 1981 per una capacità di 800.000 passeggeri annui, risultò ben presto inadeguato ai nuovi sorprendenti tassi di crescita del traffico passeggeri ed aeromobili. All'inizio del XXI secolo, quindi, si dedicò tutta la vecchia struttura alle sole partenze realizzando, contestualmente, un piccolo terminal arrivi a fianco. Successivamente si è provveduto alla realizzazione di un nuovo terminal di 44.460 m² (di cui oltre 20.000 a disposizione del pubblico), articolato su due livelli (arrivi e partenze), dotato di sei pontili d'imbarco (loading bridges), venti gate d'imbarco ed una torre alta circa 30 metri (destinata ad accogliere uffici ed un ristorante panoramico). Tale struttura può assorbire un traffico annuo di circa 6.500.000 passeggeri.

 

Il 5 maggio 2007 l'aerostazione è stata intitolata a Vincenzo Bellini. La scelta ha fatto discutere, in quanto molti avrebbero voluto che l'aeroporto fosse intitolato ad Angelo D'Arrigo[senza fonte], aviatore originario di Catania, autore di numerosi record del mondo, quali il volo sopra l'Everest in deltaplano e molti altri.
Importanti opere sono state realizzate sull'air-side. La nuova via di rullaggio per la testata pista 08 (in uso dal 2006) ha elevato la capacità oraria a 16 movimenti. Nel gennaio 2007 sono stati aggiudicati i lavori per la realizzazione di una nuova via di rullaggio (che collegherà il piazzale di sosta aeromobili alla testata della pista 26) e di una bretella che consentirà agli aeromobili in atterraggio di liberare rapidamente la pista 08 elevandone la capacità oraria a 23 movimenti. Questo raccordo è stato ultimato ed è diventato operativo dal 15 gennaio 2009. È stato anche realizzato un primo ampliamento del piazzale di sosta, portato a 166.000 m², con una capacità di 26 aeromobili in configurazione standard. Il 26 aprile 2007, l'ENAV ha chiuso la gara a procedura ristretta relativa all'installazione di un sentiero di avvicinamento luminoso CAT I per la pista 08 e di uno semplificato (SALS) per la pista 26 (quest'ultimo in fase d'installazione).

http://it.wikipedia.org/wiki/Aeroporto_di_Catania-Fontanarossa

 

L'AMICO DELLE AQUILE

E' stato il primo uomo a percorrere in volo libero, senza ausilio di motore, il Sahara, ad attraversare la Siberia e ultimamente a sorvolare la montagna più alta della terra: l'Everest.
Un'incredibile esperienza umana, in luoghi ostili e spesso inesplorati che lo hanno visto protagonista di eventi straordinari dai quali sono stati tratti diversi documentari.
Questo misto di sport, avventura, scienza e tecnologia hanno reso possibile il sogno dell'uomo che, dai tempi di Icaro fino a quelli di Leonardo da Vinci, ha sempre sognato di volare come gli uccelli

Una petizione per intitolare l'aeroporto di Catania a Angelo D'Arrigo"

Il sito ufficiale di Angelo D'Arrigo, sta avanzando la proposta di intitolare proprio a lui il nome dell'aeroporto di Catania.
Per contribuire alla divulgazione di questa notizie è partito un giro di e mail che sta mobilitando milioni di persone con un passaparola internazionale.
Affinché la proposta venga accettata, è necessario inviare un messaggio email con la scritta
 EMAIL Aeroporto di Catania "Angelo D'Arrigo"
ai seguenti indirizzi di posta elettronica ENAC Catania :aero.catania@enac.rupa.it SAC Catania: info@aeroporto.catania.it Comune di Catania:ufficio.stampa@comune.catania.it Ministero dei Trasporti: urplp@infrastrutturetrasporti.it e per conoscenza (Cc): aeroporto@omnilog.info
 


 

 

PARROCCHIE

S. CRISTOFORO ALLE SCIARE Via Plebiscito 353 - 95124 Catania (CT) tel: 095 340715

S.AGATA LE SCIARE- Via V. Emanuele, 406 - 95124 Catania (CT)  tel: 095 313684
CAPPUCCINI NUOVI Via S. Maria Della Catena 2 - 95124 Catania (CT) tel: 095 455666
S.LUCIA AL FORTINO Via Gismondo 26 - 95122 Catania tel: 095 201641
S. CUORE DI GESU' AL FORTINO Piazza Palestro - 95122 Catania (CT) tel: 095 454107

S. LEONE VESCOVO Via San Leone 1 - 95122 Catania (CT) tel: 095 203647

S. MARIA DELLA SALETTE Via Santa Maria Delle Salette 116 - 95121 Catania (CT) tel: 095 341479

S. T. DEL BAMBIN GESU' Corso Indipendenza 146 - 95122 Catania (CT) tel: 095 203647

SS. ANGELI CUSTODI Via Sant'Angelo Custode - 95121 Catania (CT) tel: 095 345072
SS. COSMA E DAMIANO Piazza Nicolo' Machiavelli - 95124 Catania (CT) tel: 095 7159062
S. MARIA DELL'AIUTO Via S. M. Dell'Aiuto, 80 - Catania - tel: 095 345344
NATIVITA' DEL SIGNORE Piazza S.M.Ausiliatrice 1 - 95123 Catania (CT) tel: 095 363144

S. CROCE Vill.S. Agata Zona B  - Catania -  095 456603
S. M. GORETTI Via Dell'Iris 5 - 95121 Nesima (CT) tel: 095 577224
BEATA V. M.ALLA PLAIA Piazza Caduti Del Mare - 95121 Catania (CT) tel: 095 340222
MADONNA DEL DIVINO AMORE Villaggio Zia Lisa - 95121 Catania (CT) tel: 095 577157

BEATO PADRE PIO Stradale Cardinale 31 - 95121 Catania (CT) tel: 095 205751
S. CHIARA IN LIBRINO Viale Moncada 17 - 95121 Catania (CT)  tel: 095 203647
S. GIUSEPPE LA RENA Via San Giuseppe La Rena 116/B - 95121 Catania (CT) tel: 095 341889
DOMENICO SAVIO Stradale San Giorgio 5 - 95121 Nesima (CT)
 tel: 095 457561
S. MARIA DEL ROSARIO IN NESIMA Via Monte Po 33 - 95122 Catania (CT) tel: 095 475392

S. PIO X IN NESIMA SUPERIORE Piazza San Pio X - 95122 Catania tel: 095 474339
S. MARIA DEL ROSARIO Via Pavarotti - 95122 Catania (CT) tel: 095 2475392


 

 

  • FARMACIE

  •  

  • AI CAPPUCCINI V. Del Plebiscito, 534 095-454466

  • BELLOMO CARMELA L. V. Garibaldi, 24 095-341356

  • CARBONE FRANCESCO V. Garibaldi, 376 095-454545

  • CUTELLI V. Vittorio Emanuele II, 54 095-531400

  • DE GAETANI ANTONIO V. Vittorio Emanuele II, 114 095-326962

  • DEL C.so V. Carlo Felice Gambino, 56 095-327466

  • DUSMET V. Vittorio Emanuele II, 248 095-7150612

  • FARANDA NUNZIA C.so Indipendenza, 255 095-471664

  • FARINATO V. del Plebiscito, 391 095-281739

  • FISICHELLA ANTONINO V. del Plebiscito, 224 095-346423

  • FRANCAVIGLIA GIOVANNA V.le Medaglie d'Oro, 13 095-450649

  • GERBINO MASSIMO V. Plebiscito, 329 095-340264

  • GIUFFRIDA MICHELE V. San Gaetano alle Grotte, 40 095-322061

  • MONCIINO SALVATORE V. Garibaldi, 74 095-341730

  • NESIMA V. Antonio Pacinotti, 270 095-474326

  • PALERMO ANTONINO C.so Indipendenza, 99 095-203690

  • PARENTI FILIPPO C.so Indipendenza, 64 095-202347

  • RIZZO NERVO MARIA V. Plebiscito, 116 095-346004

  • S. ANTONIO V. Vittorio Emanuele II, 547 095-454185

  • SCALIA VENERANDO V. Garibaldi, 230 095-310704

 

 

 

in sottofondo     TUTTI LI COSI VANNU A LU PINNINU                          Alfio Antico