Imboccata la via Etnea e superata piazza Duomo, dopo poche decine di metri, si apre subito la spaziosa Piazza Università che è protetta ai lati da due mastodontici palazzi in barocco: il Palazzo Centrale dell’Università e il Siculorum Gymnasium.
Si tratta di edifici adoperati come sede del rettorato e di alcuni istituti dell’ateneo di Catania: ospitano, infatti, le aule in cui vengono svolte le lezioni di letteratura, filosofia e storia. Entrambi furono costruiti prima del XVIII secolo, anche se a seguito del terremoto del 1693 sono stati ristrutturati ad opera di architetti del calibro di Giovanni Battista Vaccarini e Francesco e Antonino Battaglia. Particolari della piazza sono anche i lampioni che la illuminano e che raffigurano quattro episodi tratti da alcune vecchie leggende popolari: quella di Colapesce, di Gammazita, Uzeta e dei Fratelli Pii.

 

 

 

I QUATTRO LAMPIONI DELLA PIAZZA

Nella bella piazza dell'Universita', Catania ha voluto raffigurare nel bronzo del basamento dei quattro candelabri che adornano e illuminano la piazza, opera dello scultore catanese Mimmo Maria Lazzaro, quattro episodi mitici, della tradizione cittadina.

 

Sul basamento del candelabro posto a nord-est e ricordato l'eroismo dei pii fratelli Anapia e Anfinomo. Una notte L'Etna incomincio' a tuonare e vomito' un fiume di lava che tutto travolgeva nella sua discesa verso il basso. La gente fuggiva terrorizzata. Solo i due giovani procedevano lentamente sostenendo gli anziani genitori che li seguivano a fatica. I due fratelli si fermarono sbigottiti e levarono al cielo una muta preghiera. E prodigiosamente la colata lavica si sperse in due e i due fiumi ardenti proseguirono la loro corsa rovinosa lasciando libera una striscia di terra su cui i due fratelli proseguirono fino a raggiungere Catania 

 Nel candelabro di nord-est e rappresentata la storia di Uzeta, un giovane popolano catanese che si innamoro' della bellissima figlia del re Cocolo, di nome Galatea. Ma la principessa lo respinse, indignata solo all'idea di sposare un pitocco. Uzeta per essere degno dell 'amore di Galatea compì tante di quelle imprese eccezionali che riuscì a diventare cavaliere di Federico II per la sua bravura. Quando gli venne chiesto di combattere contro gli Ursini, giganti saraceni, accettò e vinse. Dal nome dei giganti sarebbe derivato quello del Castello al centro del capoluogo etneo.

Nel candelabro di sud-ovest e' esaltato il sacrificio della bella virtuosa Gammazita.

Promessa ad un giovane catanese, ai tempi della dominazione francese in Sicilia, la ragazza era corteggiata da un giovane provenzale, la cui proposta di nozze aveva respinta. Il giorno delle nozze, mentre Gammazita era sola presso il pozzo nell 'orto il provenzale tento' di rapirla. La ragazza, non trovando altra via di scampo, per sfuggire al manigoldo si butto' nel pozzo.

L'eroe del quarto candelabro è il leggendario Colapesce, un vigoroso pescatore che trascorreva la sua vita sempre nel mare . Capitato a Messina il re del tempo, mise alla prova il pescatore. Questi esegui tutti gli ordini che il re gli diede, finche' questi non ancora contento, gli ordino' di raggiungere il centro dello stretto di Messina. Quando il giovane raggiunse il fondo i gorghi ribollenti del mare presentarono uno spettacolo tanto affascinante, che egli non ebbe la forza di staccarsene, e mori' miseramente affogato .

 

 

 

FASTI E DECADENZA DI PIAZZA UNIVERSITA’

Cominciamo, intanto, da questo, che mentre la decadenza della piazza ebbe inizio nella prima dècade del secolo attuale con lo spostamento del centro cittadino verso nord e nord-est, i fasti furono della seconda metà dell'Ottocento e precisamente dal '70 in poi; allorché per volontà di amministratori giovani e che all'occasione sapevano andare controcorrente e sapevan tenere duro, essa, da < fiera del lunedì » venne elevata al rango di piazza elegante e signorile, trasformata in salone da concerti e talvolta anche in teatro; tutto per l'elevazione spirituale del popolo. Difatti, tre volte la settimana vi suonavano la banda municipale e quella militare, e in agosto, durante le feste estive agatine, vi si svolgeva il cosidetto dialogo, l'audizione cioè di oratorii sacri o addirittura di melodrammi nei quali, come per Giuditta di Pacini - un esempio - la musica veste di note un soggetto che con l'oratorio sacro ha molte affinità. Ma v'è di più; spesso il dialogo di piazza Università fu qualche cosa come un teatro sperimentale riserbato a musicisti giovani catanesi, e grazie a tale nobilissima iniziativa affrontarono la prima volta il giudizio del pubblico Francesco Paolo Frontini e Filippo Tarallo, due musicisti di diversa statura per gli sviluppi in seguito presi dalla loro arte, il secondo quasi del tutto dimenticato.

 

Credo che il mio primo ricordo della piazza sia legato a uno di questi dialoghi; e come i lontani ricordi dell'infanzia sfumano quasi sempre nella dolce inconsistenza dei sogni, pensandovi, un sogno mi sembra: il palco per i cantanti e i musici, tutto vivaci colori, addossato al palazzo dell'Università; la piazza sfolgorante di luci; la folla in parte seduta, in parte in piedi, stipata fin nelle strade che nella piazza sboccano; la musica; le belle voci; gli applausi! Basta pensare alla passione dei catanesi d'allora per la lirica, per arguirne che quelle audizioni dovevano essere eccellenti, e io di una ho particolare ricordo, giacché ero giovinetto, quella del 1896, nella quale cantarono gli artisti del « Bellini », poco avanti impegnati in Otello e Aida la triade Zilli, Avedano, Minotti, tre celebrità.

 

 

Quella dei dialoghi e dei concerti era veramente l'ora di bellezza per la piazza Università; armoniosa piazza, quadrata, regolare, senz'altre incrinature architettoniche che il palazzo d'angolo a sud-est. Si sa che i due palazzi La Piana e Gioeni appartengono al periodo aureo del barocco catanese: quello nato dal cataclisma del 1693; che a tale periodo apparteneva fino al 1818, anno di un altro terremoto non meno violento, sebbene meno disastroso, e che l'attuale facciata neo-classica è un rifacimento, imponente ma non compiutamente felice, di quella settecentesca; che al medesimo neo-classico, infine, si ispirano il fronte a tramontana del palazzo del Comune e il palazzo ex Sangiuliano; del quale ultimo, tra parentesi, soltanto il partito centrale, firmato da Vaccarini, è settecentesco. Con tutto ciò, pur mancando la piazza divinità stilistica, la sua bellezza è sovrana; con questo in più: che non si sa per quale misteriosa circostanza, certamente non prevista, l'acustica ne è perfetta; sicché ai fini di quel suo ruolo di salone di concerti per il popolo tenuto per decenni, essa era un vero e proprio teatro all'aperto. Ed ecco perché la declassazione odierna da piazza a posteggio di auto, ci riempie di malinconia.

 

 

Di essa esistono non poche fotografie scattate negli ultimi del secolo passato e nei primi dell'attuale; una tranquilla e assolata piazza; con più segni di vita fino a mezzogiorno, che nel pomeriggio. Durante il periodo funesto della crisi che gravò per alcuni anni sulla città dopo il colera dell'87, vi si vedevano facce ansiose di operai e di artigiani in attesa di lavoro e di impiego: tanto che lo slogan coniato in quel tempo: « Guardare l'aquila degli Studi » (l'aquila aragonese che apre le ali sull'arco del balcone di centro), significava essere disoccupato. Ma anche. in tempi di crisi, col tramonto la piazza si popolava, e se vi suonava la banda, nelle sedie che si affittavano per un soldo, la gente vi si pigiava; commentando fra un « pezzo » e l'altro, gli avvenimenti del giorno, il fatto di cronaca, i tre o quattro duelli politici della settimana, strologando l'esito dei tre o quattro della settimana che doveva venire. Infine, alle ventuno se d'inverno, alle ventitrè se d'estate, la gente si squagliava, i chioschi si oscuravano, si oscuravano anche le quattro lampade ad arco che la ditta Piazzoli; Morosoli & C. aveva portato a Catania dal Nord, e la voce notturna della piazza, l'orologio dell'Università, sgranava ogni quarto d'ora i suoi colpi alternati.

La decadenza della piazza avvenne per gradi, mano mano che Catania cresceva, come ho detto, sui preistorici banchi di lava a nord e a nord-est;. e ciò malgrado anche la popolazione crescesse e ai modesti negozi, a qualche trattoria, a una fabbrica di gazzose, a delle botteghe di barbiere, succedevano nei pianterreni della piazza negozi e gioiellerie di lusso, banche e via dicendo.

L'anno 1838 un'ordinanza senatoriale ordinò che il Mercato del lunedì si tenesse sul piano di, Porta Aci, cioè a dire nell'attuale piazza Stesicoro; sicché, affrancata dall'incomposta confusione con annessi e connessi di un mercato sia pure settimanale, questa bellissima tra le piazze catanesi divenne il centro aristocratico della Città.

Purtroppo, però, il prospetto dell'Università non è più quello dovuto all'alta fantasia dell'architetto Vaccarini; interamente trasformato, dopo il.terremoto del 1818, da quel Carmelo Battaglia che fu uno dei più ostinati deturpatori dei settecenteschi monumenti della rinascita catanese; e come del Palazzo Di Sangiuliano, oggi appartenente al Credito Italiano, soltanto il partito centrale firmato e datato dal Vaccarini è settecentesco, come settecenteschi sono i due palazzi La Piana e Gioeni d'Angiò, il rimanente, fronte dell'Università compreso, è neo-classico. Insomma, l'unità stilistica originaria non esiste più nella piazza e ciò, malgrado, è una delle piazze più belle d'Italia.

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Saverio Fiducia- “Passeggiate Sentimentali” - Tringale Editore 1985

 

 

PIAZZA DEGLI STUDI

(Testo del giornalista Saverio Fiducia da "Passeggiate Sentimentali "

 

- Di un <<Piano della fiera del lunedì >>,sito presso a poco dov'è oggi la Piazza degli Studi o dell'Università, molto ne parlano le cronache e le descrizioni della Catania medievale.

Uno dei più cospicui edifici che prospettavano in esso era l'Ospedale S.Marco.

Di quest'antichissimo istituto di beneficenza catanese,forse il più antico di tutti, la prima notizia sicura ci viene fornita da un testamento portante la data del 4 agosto 1361,col quale il beneficio cittadino istituiva suo erede l'Ospedale suddetto.

Alcuni credettero individuare il generoso testatore nel grande Blasco Aragona, colui,cioè,che col figlio Artale sostenne i diritti di Federico II l'Aragonese e dei suoi discendenti e riempì delle sue gesta guerriere e politiche buona parte del 300 siciliano e catanese. Ma Blasco morì il 23 ottobre 1355,nè è concepibile che in epoca fortunosa come quella dimenticasse il figlio, erede del valore e dell'accortezza paterni.A noi importa sapere che l'edificio fu in parte ceduto all'Universita---anno 1684---la quale, fondata l'anno 1434,fino ad allora aveva occupato alcune stanze del palazzo Senatorio.

Esso in proposito quanto si legge nell'Annuale catanese del monaco Francesco Privitera :<<La Scola di studi fu innanzi la Loggia Senatoria, e correndo l'anno 1684,con ordine viceregio all'Illustrissimo Monsignor Vescovo Bonadies ,Cancelliero de' studi,fu trasferita in loco più cospicuo,detto la Fiera del Lunedì o Foro Lunare, nel che già era l'Hospidale de' Infermi >>.

In quel Foro Lunare, c'è tutto il Seicento. Era quello il secolo nel quale fiorivano in Catania le Accademie dei Chiari,degli Elevati, degli Anonimi, degl'Incogniti, degli Oscuri, financo degli Sregolati, ed il buon frate avrà creduto, in buonissima fede,di mettere un segno della propria distinzione ad un piano nello appioppargli un nome nuovo e ricercato, quando, al postutto,la località non sapeva che di compere,di vendite,di vocio, di baraonda, di rissa.

 

Ma coi leggiadri tempi che correvano il <<Foro Lunare >>sapeva anche d'altro.Aveva una sua triste rinomanza.In esso avvenivano le esecuzioni di giustizia.

Se dobbiamo prestar fede alle cronache del tempo, almeno per i delitti che più commossero l'opinione pubblica, gran folla di gente accorse a vederne l'epilogo.È fama altresì ,ed i nostri nonni raccontarono con orrore le ultime esecuzioni capitali consumate nell'atrio della <<Vicaria>>----l'attuale caserma delle guardie di finanza----che era consuetudine condurre a quei torbidi spettacoli della umana ferocia gl'innocenti bambini, ai quali a giustizia compiuta, veniva assestato a ricordanza e ammonimento un sonorissimo schiaffo.

La piazza, ricostruita dopo il grande terremoto, quasi come oggi la vediamo, prese il nome di Piano degli Studi, ma continuò ad ospitare fra le aristocratiche facciate dei suoi edifici, il mercato settimanale. Nel mezzo vi sorgeva la Fontana di Cerere ,opera dello scultore Michele Orlando, poi collocata nella piazza Cavour per cedere il posto, nella prima metà dell'Ottocento, alla statua di Francesco I di Borbone del catanese Antonio Dalì.

Di questa statua di Francesco I e di altre due dovute anch'esse al Cali,una rappresentante Ferdinando Ì e l'altra Ferdinando II di Borbone e rinvenute di recente acefale nei magazzini del Comune (che furono ben due volte abbattute durante i moti del 1848 e del 1860),parlerò in altra mia <<Passeggiata>>.-(S.Fiducia)

 

 

 

Palazzo Gioeni D'Angiò. E' all'angolo nord-est di piazza Università, su cui si affaccia l'ingresso principale. La costruzione fu avviata nel 1743, forse su disegno del Vaccarini. Policastro afferma che "il prospetto su via Fragalà fu liberato da antiche sovrastrutture manifestando un'altra facciata ben più antica, forse anteriore del 1693, ricca di decorazioni". Nel 1966, pur mantenendo integri i prospetti, il palazzo, nell'interno, fu demolito e riedificato per adattarlo alla nuova destinazione di grande magazzino (dal 15 ottobre di quell'anno ha ospitato l'UPIM e sul finire degli anni '90 la Benetton). In occasione della trasformazione in magazzino, fu rimosso dall'androne un pregiato bassorilivo di marmo dedicato ad Annibale Gioeni, dal fratello Ottavio nel 1590, bassorilievo probabilmente tolto da un sepolcro. "Quel guerriero sdraiato e col capo appoggiato sulla celata era un antenato del padrone di casa... Era stato un valoroso ed era morto giovane siccome dal marmo rivelasi, con la barbetta a punta... Il rilievo marmoreo di Annibale Gioeni, certamente un particolare della tomba di costui che fino al 1693 trovavasi nella cappella gentilizia inserita nel palazzo medioevale, venne in seguito murato nella scala del palazzo settecentesco e poi collocato nell'androne" (Saverio Fiducia). Sul prospetto è rimasto invece il monumento di bronzo che ricorda che nel palazzo nacque e morì Giuseppe Gioeni dei duchi d'Angiò (1747-1822). Ospite dello scienziato, "principe dei naturalisti", fu nel 1787 Wolfango Goethe al quale Gioeni sconsigliò di arrampicarsi fino al cratere dell'Etna: "Se volete seguire il mio consiglio salite di buon'ora a cavallo fino ai piedi del monte Rosso: montate su quest'altezza e godrete di una delle più magnifiche vedute. Il panorama è splendido ed è evidente: il resto vale meglio di sentirlo raccontare". E l'anno appresso fu Lazzaro Spallanzani a salire le scale di quella dimora patrizia per ammirare "la collezione del cav. Gioeni con le produzioni più curiose e più interessanti del mare siciliano e con esemplari di corpi vulcanici". Ma di questi episodi, nel palazzo non c'è testimonianza.

http://www.sicilie.it/sicilia/Catania_-_Palazzo_Gioeni_d'Angi%C3%B2

 

Palazzo Gioeni D'Angiò

 

Palazzo La Piana (da sud)

Palazzo La Piana (da nord)

 

 

GIOIELLERIA AVOLIO: UNA STORIA LUNGA 5 GENERAZIONI

 È un'icona del centro storico catanese presente ormai da oltre un secolo che ha visto succedersi ben 5 generazioni della famiglia AVOLIO.

Fu fondata nel 1883 da Agatino Avolio a cui è dedicata da sempre la magnifica antica insegna testimonianza delle lavorazioni del ferro in stile liberty .

Ma la gioielleria nacque all'origine in via V.Emanuele adiacente alla Chiesa della Confraternita dei Bianchi e solo nel primo novecento fu trasferita nella sede in cui la ammiriamo da anni e cioè ad angolo tra piazza Università e via Etnea .L' insegna liberty fu realizzata soltanto nel 1913 in ferro battuto.

Alla morte di Agatino, la gioielleria fu ereditata dal figlio Giuseppe creatore di gioielli prestigiosi che gli procurarono fama e successo anche fuori da Catania, tanto da ricevere nel 1920 un riconoscimento dai regnanti Savoia e cioè il "Brevetto della Real Casa".

Dopo Giuseppe l'attività passò nelle mani del figlio Agatino che attraverso studi in Belgio ,divenne profondo conoscitore di perle e pietre preziose, specializzando la sua competenza sulle ambre del Simeto per cui aveva una grande passione, tanto che ancor oggi la gioielleria è leader in questo settore.

Inoltre fu proprio Agatino Avolio ad introdurre nel 1932 a Catania la vendita dei rinomati orologi Rolex e nel dopoguerra le raffinate porcellane Rosenthal.

Alla morte di Agatino, sono i figli Vincenzo, Marco ed Ester a prendere le redini di una florida e nota attività centenaria e da oltre quarant'anni se ne occupano e nel frattempo una speranza per il futuro è rappresentata dai giovani figli dei fratelli, soprattutto Gabriele, Giulia e Vittoria che pare abbiano ereditato la passione del nonno per le pietre preziose ,fortificando le loro competenze con studi adeguati.

(Fonte gioielleria Avolio)

 

grazie a Milena Palermo per Obiettivo Catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

Catania, piazza dell'Università in un disegno della prima metà dell'ottocento di Salvatore Zurria. A quell'epoca nella piazza che si chiamava "della Regia Università" vi era la statua di Francesco I che attualmente si trova all'interno della villetta Pacini ed ha la testa mozzata e il braccio rotto.

FRANCESCO I – L’altezza della statua è di palmi 11 e mezzo, più di 3 metri. Originariamente si trovava in Piazza Università e fu innalzata il 14 aprile 1833. Ecco una descrizione dell’epoca, fatta da Lionardo Vigo sulla statua: “…vestir semplicissimo antico, nude braccia, gambe, ginocchio, testa, coverto il dorso di pallio, che un’ armilla ferma sul destro omero, il petto di corazza merlata, di cui sotto una tonicella mezzo gli vela le cosce, e i piedi di coturno..”.

(grazie a Salvatore Giordano)

 

 

Il Palazzo San Giuliano si trova sulla piazza Università di Catania di fronte al Palazzo dell'Università. Attualmente ospita gli uffici amministrativi dell'ateneo.
Il palazzo progettato dall'architetto Giovan Battista Vaccarini, fu costruito nel 1738 per i Paternò Castello Marchesi di San Giuliano. All'ingresso alcune lapidi ricordano gli ospiti illustri che vi hanno soggiornato. Fra questi il re d'Italia Vittorio Emanuele III con la regina Elena. Il palazzo è stato più volte rimaneggiato ma i prospetti esterni sono rimasti pressoché integri, solo la balaustrata che corona il tetto è completamento stilistico degli anni trenta quando il palazzo era sede del Credito Italiano. Nei primi anni del XX secolo ospitava il Teatro Machiavelli nel quale recitava il grande attore catanese Angelo Musco e dove mosse i primi passi (sul palcoscenico), come recita un'epigrafe posta su via Euplio Reina, l'altrettanto grande Giovanni Grasso. In quegli stessi anni una parte dell'edificio era occupato dal Hotel Bristol. Di particolare interesse è il partito centrale con il maestoso portone e la tribuna d'onore soprastante, di sicura ideazione vaccariniana (il progetto è del 1747). 

 

 

 

 

 

 

 

Costruito con vari marmi policromi, il portone è fiancheggiato da due colonne di marmo, recuperate a qualche edificio d'epoca romana, forse il Teatro. Al culmine dell'arco è posto un doppio stemma, a sinistra dei Paternò Castello, committenti del palazzo, a destra quello degli Asmundo, altra importante famiglia patrizia catanese, da cui era derivato a questo ramo cadetto dei Paternò il marchesato di San Giuliano nel 1702. Dello stesso Vaccarini è l'invenzione dell'originale scalinata a due rampe con portico a colonne posto in fondo alla corte interna in asse con il portone.

 

 

La"camera rossa"del Palazzo Sangiuliano - "u ddilittu ra barunissa"

Pochi catanesi sanno cosa successe davvero nel lato nord dell'università degli studi nel Palazzo Paterno Castello di Sangiuliano nel “piano della Fera Nova” (oggi piazza Università).

Come volle la leggenda dei balconi murati, dal figlio della baronessa Rosana Petruso Grimaldi,baronessa di Pullicarini, donna bellissima, rimasta orfana del padre, unica erede, e si trasferì con la madre daCastrogiovanni (oggi Enna) a Siracusa, e all’etàdi quattordici anni, si sposò con don Orazio Paternò Castello, con il quale andò a vivere proprio nel Palazzo Sangiuliano, e in pochi anni ebbero tre figli.

Ma dall'amore si passo alla gelosia di don Orazio e la baronessa si ritrovò segregata in casa. Ma il 15 marzo del 1784, in una violenta lite, don Orazio pugnalò la moglie al petto. Si è creduto che il delitto fosse stato compiuto al III piano ad angolo fra piazza Università e via ogninella oggi (via Euplio Reina).

Ma dal momento che don Orazio scappò, dalla fantasia popolare naquero aneddoti e leggende, infatti molti sentono ancora provenire da quelle stanze delle urla disperate della baronessa in punto di morte. In verità l'uccisione non avvenne nelle finestre murate (angolo N. O.) ma nella “camera rossa”, che fino al 1863 era una finestra, oggi è un balcone che ne modifica il prospetto.

Nella chiesa dei padri carmelitani si legge che nell’altare di Santa Lucia si trova un’urna con il cereo simulacro di Sant’Agata, il cui volto sarebbe della baronessa Rosana Petruso Grimaldi, baronessa di Pullicarini.

Pippo Costanzo

 

 

Il palazzo dell'Università di Catania situato nell’omonima piazza della città, deve il suo attuale aspetto ai lavori di ricostruzione eseguiti a partire dal 1696, per far fronte ai danni causati dal disastroso terremoto del 1693.
Realizzato per la prima volta su progetto degli architetti Francesco Battaglia, Antonino Battaglia, e Giovan Battista Vaccarini, l’edificio subì il primo intervento restaurativo nel 1818 ad opera dell'architetto Mario Di Stefano, realizzatore della meravigliosa facciata.
Il palazzo sede del rettorato dell’Università degli studi di Catania, presenta un cortile interno a forma di chiostro, una splendida Aula magna affrescata dal pittore Giovan Battista Piparo, ed infine una Biblioteca dove sono custoditi oltre 200.000 volumi tra codici, incunaboli, manoscritti e lettere autografe.
Il prospetto in gran parte ottocentesco, come del resto l’intero edificio, accoglie lo stemma di Aragona, il cui re Alfonso il Magnanimo fondò nel 1434 l'Università di Catania come unica università siciliana, composta da sei docenti, le cui lezioni si tennero in una struttura eretta in piazza Duomo accanto alla Cattedrale di Sant'Agata.
Trasferita nel 1684 all’interno dei locali dell'ospedale San Marco, l’Università raggiunse la sua attuale locazione subito dopo i lavori di ricostruzione dell’edificio.

 

 

 

 

 

 

La fondazione a Catania di uno Studium generale matura tra il 1434 e il 1444 come risarcimento alla città per il 'trasporto' a Palermo della capitale di Sicilia. Nel 1434 Alfonso d'Aragona emana il privilegio istitutivo che verrà assunto nella tradizione dell'Ateneo come la data di fondazione: ma bisogna attendere il 1444 perché - grazie all'iniziativa del domenicano di Palermo Pietro Geremia - siano rimosse le resistenze locali, ed il pontefice Eugenio IV si induca a firmare il breve istitutivo.
L'inizio dell'attività è fissato dal sermone del Geremia De laude scientiarum che egli tenne il 26 luglio 1445.

Privilegio del sovrano e breve del pontefice contengono i dati essenziali della costituzione dello Studium: cancelliere è il vescovo di Catania, assistito da giurati cittadini; le risorse finanziarie sono assicurate da tratte del locale caricatore dei grani e da fondi dell'Ospedale di S. Marco.

 

L'Università di Catania

 

Gli anni difficili

Dopo un buon avvio, travagliato ma positivo, nel secondo Quattrocento, lo Studium (ora Siculorum Gymnasium) vivrà nel Cinquecento forse il tempo più difficile della sua lunga storia. Dovrà difendere il privilegio da Messina (i gesuiti) e da Palermo, ma soprattutto vede modificarsi profondamente il contesto geopolitico di Catania - in seguito alla crescente presenza turca nel Mediterraneo: la città si separa dal mare, e conosce il deperimento del caricatore (dalle cui tratte dipende il bilancio del suo Ginnasio), e deve inoltre far fronte al costo ingente della cinta muraria.

Frattanto il vicerè, insieme tutore dei privilegi e dispensatore delle nuove grazie sovrane (di Carlo V e di Filippo II), è chiamato a mediare i costanti conflitti tra il Vescovo-cancelliere e il rettore degli studenti, in sostanza tra la Chiesa e l'aristocrazia cittadina. La vicenda della peste del 1575 sottolinea inoltre, e in modo clamoroso, la sfasatura tra la medicina accademica e la medicina sociale (Ingrassia): e il protomedicato erge barriere corporative alle irruzioni entro la fortezza munita di un privilegio che ha portata quasi esclusivamente fiscale.

 


Dal 1595 lo Studio ha lasciato frattanto il luogo dimesso che occupa da mezzo secolo, per occupare la casa palazzata, in "contrata della strata della luminaria" (la futura via Etnea): vi sarebbe rimasto - salvo brevi interruzioni - sino al 1684. Quando in seguito ad accorti acquisti e permute potrà insediarsi nel luogo del presente Palazzo centrale.

Il Seicento conosce un declino del patriziato, del potere economico cittadino: e Catania non pare in grado di ripetere il modello napoletano. Catania si stringe allora a Messina, la cui egemonia si espande nel territorio, nell'economia e nella politica: estende la sfida a Palermo anche sul terreno culturale (Borrelli, etc.).
L'iniziativa di Mario Cutelli in funzione 'olivaresiana' non serve a contrastare il controllo della Chiesa catanese sulla città e sull'Università. Da questa in ogni caso non viene alcun supporto tecnico-scientifico al piano di Alfonso Borrelli di fermare la lava del 1669: se il velo di S. Agata non basta ad arrestar la colata, bisogna accettarla come scelta della Provvidenza!
La città e l'Università saranno a vario titolo coinvolte nella 'guerra di Messina' (1674-79), pagano la nuova indipendenza ed il ritorno alla grande dei privilegi con i costi della guerra e della repressione: è la base dell'alleanza tra vecchia nobiltà e alto clero, che ha nell'Università il suo centro politico, e che dovrà guidare la ricostruzione di Catania distrutta dal sisma del gennaio 1693.

 


 

A loggia, il palazzo comunale che delle antiche logge o pergole, dove il civico consesso si adunava nei tempi di mezzo, serba il nome soltanto, sostituì il crollato palazzo senatorio, nel 1741; della metà del Settecento è anche il collegio Cutelli, ora trasformato in convitto nazionale: Mario Cutelli, gran signore e giureconsulto egregio, destinò le sue rendite alla istituzione di questo collegio «all'uso di Spagna», in un tempo nel quale la moda spagnuola imperava, e lo stesso fondatore scriveva in castigliano la sua curiosa Catania restaurada.

Prima del Cutelli, e dopo la lunga notte del medio evo, i buoni studii erano rifioriti in Catania, dove sorse la prima università di Sicilia, il Siculorum Gimnasium. Per concessione di Alfonso d'Aragona, il 28 ottobre 1434 fu decretata la fondazione dello Studio generale, eretto dieci anni dopo, quando il papa Eugenio IV spedì la bolla accordante alla scuola catanese tutti i privilegi largiti alle università italiane e particolarmente alla bolognese. Questo Studio fu per qualche secolo il solo dove la gioventù siciliana potè addottorarsi: di qui la nuova reputazione di sapiente che fu goduta dalla città e che il Tasso confermò nella Conquistata:

O di Catanea, ove ha il sapere albergo...

Il palazzo universitario, eretto dapprima dove ora s'allarga la piazza del Duomo, fu poi noi 1684 demolito e ricostruito nella piazza da allora detta degli Studii; ma dopo nove anni, quando l'interno dell'edifizio non era ancora assestato, il terremoto lo travolse dalle fondamenta; la nuova costruzione, di linee molto eleganti, più volte rafforzata ed in parte rifatta per l'altro terremoto del 1818, non ha ancora un secolo di esistenza. Ed una quantità d'istituti se ne sono a poco a poco, con l'accrescersi dei gabinetti, staccati; buona parte hanno posto la loro sede nel recinto del convento dei Benedettini.

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

Il recupero dei privilegi
Dopo la 'cancellazione' di Messina ribelle, che aveva coinvolto (1679) anche lo Studio messinese, l'Università catanese non ha rivali in Sicilia: e vede rafforzati i suoi privilegi.
Supera, non senza difficoltà, la frattura del terremoto (1693) che ha sconvolto l'assetto demografico e urbanistico della città e prende parte diretta alle scelte di prestigio nell'avviata ricostruzione.
Dopo le istruzioni del Santo Stefano (1679), imposte dal 'partito spagnolo' (nobiltà + Chiesa), interverranno a correzione le Istruzioni austriache del vicerè Sastago. Protettore dell'Università era (da Palermo) il consultore del vicerè; a reggerla il vescovo di Catania nell'ufficio di Gran Cancelliere; e il Patrizio della Città con la carica di Conservatore.
Tre le facoltà, dodici gli insegnamenti: teologia speculativa, teologia dommatica, teologia morale, diritto civile de mane e diritto civile de sero, diritto canonico, diritto feudale, istituzioni (instituta) romane, medicina de mane e medicina de sero, filosofia de mane e filosofia de sero, chirurgia, logica, matematica.

I docenti, scelti per concorso, avevano un incarico triennale: alla scadenza, potevano ricandidarsi, anche per discipline diverse da quella prima professata. La prevalenza, in numero e qualità di docenti e studenti, va alle facoltà di Legge e di Medicina: un prestigio che risale alle origini dello Studium, e che verrà posto in discusssione solo nel tardo XX secolo.
Nel 1737 l'Università aveva visto ulteriormente confermati i tradizionali privilegi. Conferma reiterata (1739) dal vicerè Corsini: "nessun Naturale del Regno che pretendesse esercitar in esso le Scienze o avere l'onori delli suoi gradi vada a studiare, nè a buscarsi il Privilegio di Dottore di fuori Regno [...], dovendo ogn'uno studiare [...] nella Università di questo Regno in Catania". "alcuna persona [...] in virtù di [...] privilegi forestieri potesse esercitare la Jurisprudenza, Medicina, Fisica, o Chirurgica, nè qualunque Officio attinente a Dottori di dette professioni, nè segli conferisca, nè permetta alcun atto onorifico ex vi di detto grado di dottore".
A metà del secolo XVIII la tensione tra Senato e Vescovo esplode in conflitto aperto: il vescovo S. Ventimiglia vorrebbe associare lo Studio ad una vasta impresa di riforma del Seminario e della cultura cittadina. Il Senato cittadino punta per contro alla difesa corporativa dei suoi privilegi, e gioca la partita del contemporaneo rigetto delle proposte curiali, e della domanda di riforme regie. Del '67 sono le Ragioni del Senato di Catania, del Patrizio, de' Collegianti, e de' Lettori dell'Università de'
studj di detta Città per l'osservanza delle leggi accademiche; del '71, dopo l'espulsione dei Gesuiti dal Regno le Leges a Ferdinando III ad augendum, firmandum et exornandum Siculorum Gymnasium latae. L'Università vive però come assediata dalle tante accademie, 'conversazioni', gabinetti e musei privati che nascono e prendono radice nella città, con una costante attrazione sulla nobiltà e borghesia provinciale - che trova impiego nell'Ospedale e nei tribunali.
L'epoca delle riforme
La riforma generale degli Studi si ha però nel '78, quando le risorse provenienti dall'Azienda gesuitica sono già destinate a finanziare un sistema generale di istruzioni. Allora G. A. De Cosmi presenta il suo Piano al vescovo-cancelliere: la Sicilia non è "tra le nazioni illuminate e polite", e sono soprattutto 'le discipline esatte' ad esser trascurate. "Si ha gran numero di teologi di scuola, ma pochissimi che coltivano le lingue dotte, l'ebreo, il siriaco, il greco, che sono le vere fonti della teologia solida. Gran numero di giureconsulti di professione, ma per lo più sforniti di quella culta e sublime letteratura, che capaci li renda di profittare dei fonti greci e latini. Gran numero di medici, ma senza sperienza di fisica, senza mecanica, senza sezioni anatomiche: che imparano la medicina dai libri e non dalla natura. Scarsissima soprattutto è la nazione di uomini esercitati nella pratica della geometria e della meccanica. Non abbiamo una specola di astronomia. Non un teatro anatomico, non una scuola di commercio, non d'agricoltura, non d'idraulica, non d'industria". E chiede una storia naturale della Sicilia.

La riforma dell'agosto 1779 porta a 30 le cattedre (di cui otto per Legge), mentre innova le procedure di concorso: quasi duemila gli studenti. Ora le lauree si tengono nel palazzo degli Studi; e nel 1787 il vicerè nomina un lettore della "gelosa cattedra del diritto nazionale e de' feudi". L'anno dopo sarà creata la cattedra di Istituzioni politiche. Non mancano le tensioni, e il fronte riformatore denuncia lo squilibrio tra le innovazioni e il progetto De Cosmi: D. Tempio, il poeta famulo del De Cosmi, parlerà di 'Sicula minzogna'. La riforma amministrativa dei Borboni (1817) comporta l'adeguamento dell'università alla domanda di nuove professioni - anche se a Catania la domanda e la considerazione sociale restano ancorate al prestigio delle lauree in Medicina ed in Diritto. Dal '17 il Siculorum Gymnasium passa, per la parte finanziaria, sotto il controllo dell'Intendenza; e per la parte didattica e scientifica, sotto quello della Commissione di pubblica istruzione (in Palermo). Dal '19 Gran Cancelliere sarà, al posto del vescovo, il Presidente della Gran Corte Civile. Presiedeva la Deputazione, della quale erano parte il Rettore ("il capo immediato e il locale superiore dell'Università", che vigilava "sulla esecuzione dei doveri rispettivi de' professori, [..] degli scolari, e di tutti gli altri impiegati"), il Segretario-Cancelliere, nominato come il rettore dal re; e quattro membri, due eletti dall'Università e due dallo intendente".

 

 


 

 

 

 

Lo sviluppo tra Ottocento e Novecento
Nel 1824 nasce, e si insedia nel Palazzo l'Accademia Gioienia (avrà da lì a poco, in stanze del piano terra il suo Gabinetto letterario).
Nel 1828 C. Maravigna cede il suo gabinetto di conchigliologia e orintologia (che sarebbe stato dello Aradas); e G. Reguleas eredita ed accresce il Gabinetto anatomico con  calchi e cere. Dal 1835 C. Gemmellaro ha trovato posto nel palazzo per il suo Osservatorio meteorologico, "in un casotto sulla loggia in cima della stessa Università". Lo sviluppo continua nonostante la crisi politica del '37 (che produce il Regolamento del 1840): i concorsi di Economia politica attivano competizioni prestigiose, che interpretano indirizzi avanzati di politica sociale; due scienziati di prestigio, il geologo G. B. La Via ed il botanico F. Tornabene, benedettini entrambi, cercheranno senza successo di trasformare il grande monastero di S. Nicola in sede attiva di collegi, laboratori, musei naturalistici. Né avrà miglior successo la realizzazione dell'Osservatorio Astronomico (bisognerà aspettare l'iniziativa del Tacchini e del Riccò degli anni 1880-90).

Accanto al Teatro anatomico (ospedale di S. Marco, 1798) si avrà in luoghi fuori del Palazzo nei tardi anni '40 l'Orto botanico.
Con l'Unità, dopo un breve trapasso (il 'soccorso' di Garibaldi), Catania entra nella difficile spirale delle Università minori: ciò spiega il crollo degli studenti - 600 nel 1857-58, 450 nel 1861-62, solo 150 nel 1869-70. E nel dibattito parlamentare sulla Riforma Baccelli, le voci dei catanesi (Majorana, De Felice, eccetera) sono tra le più autorevoli: sarà il potere locale a sostenere (dal 1877) lo Studio sul terreno politico e su quello finanziario. Dal 1885 l'Università torna tra le 'maggiori'. É questo il tempo dei Majorana: Salvatore Majorana Calatabiano, un politico della Sinistra colto ed esperto, ministro con Depretis, si fa capo di una dinastia intellettuale. Programma e realizza l'istruzione dei figli, tre dei quali - Giuseppe, Angelo, Dante - avranno ruoli prestigiosi nell'Ateneo, ed uno come Angelo consumerà in una vita breve una splendida carriera politica.
Il tardo Ottocento è un tempo grande per l'Ateneo ove accanto a Mario Rapisardi e Luigi Capuana è un'imponente presenza di scienziati - zoologi, fisiologi, biologi, fisici sperimentali. Ed è il tempo in cui la chirurgia, da Reina a Clementi, diventa disciplina principe della Facoltà medica.
Col primo Dopoguerra, ai Majorana s'affianca nell'impegno al controllo politico ed accademico dell'Ateneo la famiglia dei Carnazza, proprietari e titolari di professioni di successo: ed il maggiore dei Carnazza, Gabriello, sarà ministro dei Lavori Pubblici nel primo Ministero Mussolini. La riforma Gentile (1923) avrebbe riaperto la questione della gerarchia: il Siculorum Gymnasium è collocato nella seconda fascia, dispone perciò di risorse inadeguate ad assicurare un corpo accademico di qualità. Per vie politiche, e in conseguenza dello sforzo anche stavolta imponente del potere locale, la sfida è vinta. Eppure domina per gli anni '20, a Catania e nel suo Ateneo, un tono dimesso: se non di involuzione, di asfissia culturale, si ha come un rallentamento, un ricambio insufficiente, timore di sclerosi.

 

 

 

Ed il periodo fra le due guerre, che è il tempo dei Majorana e insieme soprattutto dei Condorelli, sarà segnato da nuove difficoltà che cementano ancor più l'asse privilegiato tra Legge e Medicina: i Majorana controllano la prima delle Facoltà, a Medicina si fanno strada - in alleanza coi Reina ed i Clementi - i Condorelli. Sono, su posizioni opposte, i Majorana liberali ed i Condorelli fascisti, non solo i piloti del vascello accademico nel lungo viaggio attraverso il fascismo: essi operano per consolidare alcuni indirizzi, di ricerca e formazione, che riguardano le Facoltà 'inferiori' (Lettere, Scienze, Ingegneria) rispetto alle Facoltà forti, che sono sempre Legge e Medicina - che assai meglio delle altre si collocano nel circuito nazionale, e riescono a promuovere a livelli alti figure locali di studiosi.

Nel 1934 l'Università celebra con grande solennità il 5° centenario del placet di Alfonso per la fondazione dello Studio: e ne lascia, buon testimone, una storia a più mani fatta di contributi originali per le sezioni più antiche, e di sintesi di modesto profilo per i tempi più moderni. Appartiene a questi decenni il consolidamento e l'espansione dell'edilizia universitaria. Francesco Fichera, innamorato della Catania settecentesca che vuol riscoprire, tenta operazioni di maquillage architettonico sul Palazzo centrale.

 Il nuovo sta altrove: gli insediamenti di via Androne crescono ad una 'cittadella' vera e propria; e nasce il Palazzo delle Scienze, con fra le altre la nuova Facoltà di Economia e Commercio. E prende forma, negli anni Trenta, quella politica di disseminazione dei luoghi dell'Università da tempo preparata: quei luoghi son nodi vitali del riassetto urbanistico di Catania, e collocano l'Ateneo tra i poteri 'forti' della città. Crescono gli studenti, soprattutto con incremento costante a Medicina e a Legge, mentre cresce a Lettere la presenza femminile. Aumentano anche presso gli ospedali cittadini le cliniche universitarie (nel '34 al "Vittorio Emanuele" la Clinica medica si aggiunge alla pediatrica).

 


Col secondo Dopoguerra, l'Ateneo assume e mantiene posizioni di tutto rispetto nel confronto con gli Atenei siciliani e meridionali: il mezzo secolo (1943-2003) che sta alle spalle si divide tra prima e dopo il Sessantotto. Prima l'uomo-forte è stato Cesare Sanfilippo, un romanista della scuola palermitana di S. Riccobono, che fu rettore dal 1950 al 1974: e lasciò per rinuncia, alle prese con trasformazioni che non condivideva e temette di non poter governare; dopo, a interpretare la fase tumultuosa della crescita avviata con le misure urgenti del 1972, e a governare con polso fermo e lucido dinamismo, sarà Gaspare Rodolico (1974-94). Per entrambi i periodi, il segno più forte è rappresentato dalla politica edilizia. Sanfilippo volle 'la cittadella', il Nuovo Centro Universitario Clinico-Scientifico di S. Sofia, come area di espansione dell'Università che sentiva come un busto scomodo l'armatura del Centro storico: la volle sopratutto per il Policlinico, e per esso realizzò l'Ufficio Tecnico. E potè dare alla sua Facoltà giuridica la sede prestigiosa della villa Cerami, acquistata e ristrutturata.

Più complessa e positiva l'opera di Rodolico, una personalità dinamica e creativa, che scelse di lasciare nel Centro storico le Facoltà umanistiche (Giurisprudenza, Lettere, Economia, quindi lo statizzato Magistero) trasferendo nella Cittadella le Facoltà scientifiche - Medicina, Scienze, Ingegneria, Agraria: e realizzò un programma imponente di costruzioni e trasformazioni. Espansione di Giurisprudenza, insediamento di Lettere nel grande monastero dei Benedettini (donato dal Comune), l'acquisizione di palazzo S. Giuliano destinato ai servizi centrali e di palazzo Paternò Raddusa per la Facoltà di Scienze politiche, riallocazione di Economia e del Magistero. Questa accelerazione della politica edilizia, in una con la dotazione di nuove strutture di ricerca (INFN, CNR, eccetera), ed un incremento significativo delle risorse, caratterizza il decennio successivo che ha visto il compimento non facile di quel disegno - in una con le trasformazioni delle strutture di partecipazione e di governo.

 

 

C'ERA UNA VOLTA LA FESTA DELLA MATRICOLA

Con gli amici di larga frequenza ci si riuniva nei periodi dell'apertura delle iscrizioni all'Università per assaporare le gioie connesse al tradizionale motto goliardico "Gaudeamus igitur".

La cosiddetta «Festa della Matricola» ci trovava pronti a baldorie e scherzi inusitati. Ci vestivamo in costume, ora seicentesco o di foggia e tipo promiscuo, e ridevamo e danzavamo per le piazze. Facevamo caroselli attorno alle belle fanciulle e alle leggiadre signore per riscuotere un sorriso, e facevamo lo stesso presso distinti signori per intascare l'obolo', che poteva essere indifferentemente in sigarette o in denaro. Si saliva e si scendeva dai tram e dagli autobus con grande scuotimento di capo dei conduttori; si cantava e si giocava per fare ridere e ridere di noi stessi con grande sollazzo dei passanti che, indulgenti e bonari, seguivano le nostre prodezze. Al nostro gioco (che in fondo era tale) partecipava la cittadinanza e quanti si trovavano involontariamente (o volontariamente) coinvolti. Era un modo per dimenticare gli affanni e gli assilli del vivere quotidiano.

Uno dei riferimenti del tempo era la "Corda Frates" dove ci si riuniva per mettere a punto l'arbitraria organizzazione del "papello" al quale interveniva col "pontefice massimo, i fagioli, le colonne e le magne colonne"  dell'Ateneo. Le malcapitate (poi mica tanto) matricole facevano le spese sottoponendosi a sberleffi e canzonature se il "magno gaudio" mangereccio era stato alquanto inconsistente. Talvolta venivano anche comminate punizioni di vario genere, a seconda della resistenza fatta dall'imprudente e squattrinata matricola.

F.A. Giunta

 

 

La città è chiusa in una morta di allegria: i ragazzi dai berretti a punta grondanti ciondoli variopinti, si riversano come api soldati per le vie e gli slarghi a vociare e ad eccitarsi per un nonnulla.

E' la "festa della matricola"; una caccia spietata si apre all'indifesa selvaggina (soprattutto se di sesso femminile e col "papello" non in ordine) che "deve" pagare lo scotto, la sbagnatina. Il veterano, la colonna fuoricorso, ha la priorità sugli "assaggi" e, su eventuali controversie, la sua decisione è insindacabile.

Blocchi stradali improvvisati; raccolta di soldi ovunque per finanziare la manifestazione e spesso le proprie tasche; sui mezzi pubblici non si paga, e non si paga neanche al cinema.

Ecco lo spettacolo al "Sangiorgi" (lazzi, massa vociante e, da presentatore, un pallido e imberbe Pippo Baudo) che si conclude inevitabilmente con qualche cazzottone e goliardiche pernacchie a chicchesia: artisti, registi, coreografi, truccatori, datori di luce.

E infine - godibile tradizione - 'a puliziata al sederone, e parti limitrofe, del 2liotru" del Duomo che la matricola selsionata (e commossa da tanto onore) deve pubblicamente effettuare con spazzolone e creme detergenti varie.

S', c'era una volta anche la festa della matricola....

(Aldo Motta)

 

tratto da "A Catania con amore" di Aldo Motta - Edizioni Greco 1991

 

 

I DUE PALAZZI DELL'AMMINISTRAZIONE CENTRALE

Palazzo Sangiuliano (Uffici amministrativi - Personale - Finanziari - Ragioneria)

Palazzo dell'Università (Rettorato - Direzione Amministrativa - Uffici amministrativi)

 

LA STORIA DEL PALAZZO

Era il 9 ottobre 1434 quando Alfonso V d’Aragona, detto anche il Magnanimo, decise di istituire l’Università di Catania. Non si trattava dell’inizio della storia di un ateneo come gli altri, quella che vedeva la nascita era la prima Università siciliana e fu poi papa Eugenio IV, con una bolla del18 aprile 1444 ad autorizzare la costituzione dello Studium Generale Siciliae.

Il Palazzo degli Studi non poteva sorgere in un luogo qualunque, ma in una zona centrale e prestigiosa. Cosa poteva esserci di meglio di quel primissimo tratto di via Etna (la vecchia via Uzeda) a pochi passi dal mare e dal Duomo, proprio dove si svolgeva la gran parte della vita dei catanesi e di quanti venivano in visita a Catania. Il Palazzo dell’Università non resistette alla violenza distruttiva del 1693 e la sua ricostruzione iniziò tre anni dopo, ripartendo proprio dalle macerie lasciate dalla tragedia.

A prendere in mano il compito della ricostruzione fu Giovan Battista Vaccarini, nel 1730. Sono i risultati dei suoi progetti quelli che ammiriamo oggi a sinistra della piazza risalendo la via Etnea. Vaccarini aveva pensato ad un’opera elegante e funzionale al tempo stesso e partì da quel cortile interno tanto famoso, pensato come un chiostro, con un disegno fatto di ciottoli e incorniciato da un porticato a due piani fatto di archi e colonne.

 

 

Toccò poi al catanese Giovan Battista Piparo, affrescare il primo piano di quello che noi siamo abituati a chiamare e l’Aula Magna, che è caratterizzata da pareti completamente rivestite di prezioso damasco, mentre sul muro che fa da sfondo alla cattedra si trova  un arazzo che riporta lo stemma della dinastia degli Aragona.

Il prospetto di Palazzo dell’Università ha subito delle modifiche negli anni a venire, ad opera dell’architetto Mario Di Stefano, dopo il terremoto del 1818 che fece alcuni danni proprio sulla facciata. Da notare che l’edificio, che una volta accoglieva tutte le Facoltà, è costruito su un intero isolato e, in origine, le sue porte permettevano di accedere al chiostro da tutti e quattro i lati.

All’Ateneo Catanesi le lezioni iniziarono il 19 ottobre del 1445, i docenti a quell’epoca erano solo sei e mentre il palazzo veniva costruito, discenti e insegnati furono accolti in quello che oggi è conosciuto come il Palazzo del Seminario dei Chierici in piazza Duomo.

Oggi in piazza Università insieme al Rettorato, e a suo uffici, si trova anche la Biblioteca Universitaria, un luogo ricco di  codici, manoscritti e lettere autografe vantando una collezione di oltre 200.000 volumi alla quale accedono studiosi da tutto il mondo.

http://www.peripericatania.it/cosa-vedere/palazzo-degli-studi-piazza-universita

 

 

 

 

Salvatore Majorana, il capostipite. 

Avvocato, Docente universitario di diritto e di economia, 

Senatore del Regno d'Italia, 

due volte Ministro dell'Agricoltura e Commercio nel Governo Depretis.

da Salvatore e Rosa Campisi (sposata in seconde nozze) nacquero sette figli

Giuseppe Majorana Angelo Majorana Quirino Majorana Dante Majorana

Docente universitario di statistica, Deputato, Rettore dell'Università di Catania

Economista, Docente universitario,

Rettore dell'Università di Catania,

Deputato, due volte Ministro del Governo Giolitti

Fisico, Inventore, Docente universitario,

Presidente della Società Italiana di Fisica

Giurista, Docente universitario, deputato,

Rettore dell'Università di Catania,

Giuseppe ebbe 3 figli:

Francesco, Salvatore e  Tullio 

Angelo ebbe 3 figli:

Rosina, Salvatore e  Maria 

Quirino ebbe 3 figle:

Graziella, Carmela e  Silvia  

Dante ebbe 4 figli:

Angelo, Salvatore, Claudio e Vittoria

Elvira Majorana Fabio Majorana Emilia Majorana
Sposò Salvini-Nucci, Consigliere di Stato

Ingegnere, Fisico,

Ispettore generale del Ministero delle PP.TT.

 

Sposata con l'Avv. Dominedò

Elvira ebbe 4 figli:

Mario, Angelo, Lavinia e Valeria

 

da Fabio e Dorina Corso nacquero 5 figli:

Rosina; Luciano (ingegnere civile, specializzato in ottica astronomica); Salvatore (avvocato e filosofo);  Maria (Insegnante di pianoforte al Conservatorio Santa Cecilia in Roma) ed Ettore (il genio più grande della famiglia)

Emilia ebbe 4 figli:

Francesco, Valentino, caterina e Giovanna

 

Ettore Majorana scomparve misteriosamente e la sua morte fu un enigma nazionale tutt'oggi insoluto: morto suicida? Rapito da qualche Paese che già in quell'epoca conduceva studi atomici? Rifugiato presso un convento di padri Gesuiti? La madre non convincendosi della morte del figlio, aspettò sempre il suo ritorno. La sua era una famiglia di illustri professionisti ed era il penultimo di cinque figli. Ettore era un genio della Fisica, precocissimo, eccentrico, ombroso, indolente: da lontano appariva smilzo, con un'andatura timida e quasi incerta;da vicino si notavano i capelli nerissimi, la carnagione scura, gli occhi neri, grandi e scintillanti. Molto severo nei giudizi, ancor prima con se stesso per poi esserlo con gli altri, le persone a lui vicine avevano finito col comprendere che tanta severità era la manifestazione di uno spirito insoddisfatto e tormentato. Sotto un apparente isolamento dal prossimo, non solo di fatto ma anche di sentimenti, si nascondeva una sensibilità vivissima che lo portava a stringere solo raramente rapporti di amicizia. Nato a Catania il 5 agosto del 1905 in via Etna 251, trasferitosi con la famiglia a Roma, studiò Ingegneria per quattro anni finchè l'amico Emilio Segré lo convinse a cambiare facoltà, facendogli notare come gli studi di Fisica fossero più consoni, di quelli di Ingegneria, alle sue aspirazioni scientifiche ed alle sue capacità speculative. Il cambio avvenne all'inizio del 1928 dopo un colloquio con Fermi, allora professore straordinario alla cattedra di Fisica teorica dell'Università di Roma e che voleva creare nella capitale una scuola di fisica moderna su suggerimento di O.M.Corbino, professore di Fisica sperimentale nella stessa Università. Majorana si laureò in Fisica nel 1930. Conosciuto per il suo straordinario valore di scienziato e ricercatore teorico, nel 1931 rifiutò i prestigiosi inviti di trasferimento presso le università di Cambridge, di Yale e della Carnegie Foundation. Non è motivato nemmeno il rifiuto per partecipare, nonostante la segnalazione fatta da Fermi a Mussolini, al concorso nazionale, per professore universitario di Fisica, bandito nel 1936. Accettò invece la nomina, per meriti particolari, a titolare della cattedra di Fisica teorica dell'Università di Napoli.

Trasferitosi in questa sede, alloggiò presso l'albergo "Bologna" dove continuò a coltivare i suoi interessi per la fisica. Si chiuse in casa e rifiutò persino la posta, scrivendo di suo pugno sulle buste: - Si respinge per morte del destinatario -. Agli amici più stretti confidò che all'Istituto di Roma, dove peraltro non tornò più, nessuno capiva nulla delle sue teorie (eppure c'erano Fermi e Corbino!). Riuscivano a comprenderlo solo quattro uomini al mondo: i tre premi "Nobel", cioè l'inglese Paul Dirac, il danese Niels Bohr ed il tedesco Werner Heisemberg e con essi l'americano Carl David Anderson. Majorana scrisse solo otto opere di non più di sei-sette pagine ciascuna, tra le quali "Teoria simmetrica dell'elettrone e del positrone", "Atomi orientati in campo magnetico variabile", "Sulla teoria dei nuclei".
Allucinato dalla fatica diurna dell'insegnamento e notturna delle meditazioni scientifiche, si lasciò persuadere ad intraprendere, nel marzo 1938, un viaggio di riposo, Napoli-Palermo, su una nave della "Tirrenia". A Palermo alloggiò, per mezza giornata, all'albergo "Sole" e la sera fu di nuovo sul piroscafo dove fu visto sul ponte all'altezza di Capri, come affermano alcune testimonianze, ma a Napoli non arrivò mai. Dove scomparve e come? La supposizione di suicidio per annegamento fu scartata: sul piroscafo viaggiava un battaglione di reduci dall'Africa ed essendo il ponte stipato qualcuno si sarebbe accorto di un uomo che si gettava in mare. Quando in data stabilita non fu notato il suo rientro, fu lanciato l'allarme e nella sua camera al "Bologna" mancava solo il passaporto: era andato all'estero?
In quell'epoca pochi scienziati si occupavano di studi atomici e nessun uomo di Stato poteva essere competente: chi poteva chiamarlo con tanta segretezza? Vane si rivelarono le ricerche in tutto il Paese, nei conventi in particolare, compiute dalla polizia. Al prof. Antonio Carelli suo collega napoletano, era arrivato poco prima un telegramma di Ettore che diceva: - Annullo notizia che riceverai- . Evidentemente si riferiva ad una lettera giunta dopo il telegramma , nella quale si intravedeva, non chiaramente espresso, il proposito del suicidio. Eppure non soffriva di malattie gravi, solo una nevrosi gastrica ; non aveva relazioni sentimentali, non nutriva interesse per il denaro, non aveva avuto litigi con alcuno. La sua era semplice solitudine causata da incomprensioni di coloro che gli erano vicino. Ricostruzioni televisive e giornalistiche sono state tentate in più riprese e tutte, nell'affrontare il momento cruciale, hanno dovuto fermarsi sulla soglia aleatoria e sfumata delle ipotesi.

Fonti bibliografiche: L.Sciascia, "La scomparsa di Majorana",Einaudi;

http://www.majoranabrindisi.it/majorana.php

 

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/334.jpg

 

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Quando, dopo di aver richiuso con molti giri di chiave la porta, averci messo il grosso catenaccio, uscirono mancava ancora molto tempo all'inizio dello spettacolo al Teatro Massimo.

Attraversarono piazza del Carmine ingombra delle foglie di cavolo e di altre verdure del mercato che c'era stato la mattina, imboccarono la via Pacini le cui lastre di lava erano ancora tiepide del sole della giornata. Sebbene si fosse quasi a metà novembre a Catania faceva ancora caldo come in estate, si incontrava gente in maniche di camicia.

Per ingannare il tempo lo zio li condusse a prendere un gelato alla Birraria Svizzera.

Seduti a un tavolino sul marciapiedi prendendo il gelato stettero a guardare la gente che passava per via Etnea:giovanotti in maglietta e signori anziani con tremolanti e trasparenti giacchette di alpagas nero come se l'estate fosse cominciata allora.

....Poi si avviarono a piedi verso il teatro. Percorsero la via Etnea già affollata, attraversarono la Porta di Aci col monumento a Bellini seduto su una Savonarola, con due piccioni sulle braccia e uno sulla testa.

La zia e la madre si fermavano alle vetrine mentre Nino e lo zio le aspettavano un po' più in là.

Passarono accanto allo sbocco di via Montesano davanti alla chiesa dei Minoriti. Nino si ricordò di quel pomeriggio nel salottino di quella casa quando lei gli si era strofinata sul ginocchio. Adesso dopo quello che era accaduto aveva la prova definitiva che quella volta lei era veramente eccitata e si era abbandonata di proposito su di lui ; questo pensiero gli acuì un pensiero retrospettivo e gli fece ancora pensare a lei che andava avanti con la madre camminando con mollezza, fermandosi alle vetrine, come cosa sua,come scopo che gli apparteneva con cui avrebbe fatto ancora all'amore tante volte, per tutta la vita.

Ai Quattro Canti imboccarono la via Lincoln (odierna Sangiuliano).Al negozio d'angolo la madre si fermò davanti a una mostra di camiciole da ragazzo a prezzi di liquidazione. Nino interpellato ne trovò una a strisce bianche e blu di suo gusto.

Alla zia Cettina quella maglietta piacque molto. Entrarono tutti a comprarla mentre lo zio faceva premura perché ormai l'ora dello spettacolo era vicina.

Percorsero via Lincoln un po' desolata in quella luce pomeridiana, costeggiarono il terrapieno del giardino pensile del palazzo Manganelli, voltarono per via Michele Rapisardi e finalmente arrivarono davanti al Teatro Massimo. -

 LA PASSEGGIATA

(dal libro "Un bellissimo novembre "(1967)di Ercole Patti (Catania 1903-1976)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA STRADA FAMOSA: LA VIA ETNEA

(di Antonio Aniante)

 

-A Catania, la via Etnea è popolata su tre chilometri, ma è lunga dal cratere centrale del vulcano all'angiporto odoroso di spezie levantine, frequentato dai giovanissimi greci.La via Etnea è la più rinomata officina di gelati che ci sia al mondo, ed è autentica soltanto d'estate:quando le stelle del cielo di Catania sono le più grosse e più luminose del firmamento, e il gelsomino d'Arabia, che a spighe agghinda i chioschi dei gazzosai, è paffuto e grande come una mano di bambino. L' Angelus della sera vien dato dagli organetti di Barberia, dal centro alle viuzze malfamate. Lassù,sugli alti pendii,la lava incandescente fa strage di castagneti millenari.Quaggiù i cocomeri di fuoco uniscono la loro lussuria a quella delle bombe al cioccolato e al pistacchio. Per la via Etnea tutta,dalle nicchie rossastre del gazometro marittimo, alle ombrate stanze dell'Arcivescovado, dalle cabine dei paquebots ondeggianti nel molo alle cellette liliali del convento dei minoriti, è un via vai di gente assetata:in fretta si avvia alle cisterne che vomitano variopinti gelati nei cento caffè aperti sugli ombrosi cortiletti innaffiati di fresco. Fino a pomeriggio inoltrato, corso Stesicoro vive nell'ansia degli innaffiatoi municipali. Appena la strada sente della falsa pioggia, i cocchi splendenti della nobiltà cattolica e le lunghe e puzzolenti automobili della borghesia liberale irrompono, scorazzano, ma senza il minimo panico da parte dei pedoni armati. Le sette chiese di via Etnea si affollano di mendicanti che agognano il fresco e non han soldi per comprarsi cassate e cannoli.Sui marciapiedi, i bei ragazzi dagli occhi a mandorla e di velluto, vestiti di candida lana, vanno a passo largo di guappo in cerca di liti,d'amore. Alle terrazze delle birrerie inondate di acqua trottano nervosi i tavolinetti in un assordante vocio di camerieri e di clienti. Ma coloro che san leggere e scrivere preferiscono le gelaterie sacre a quelle profane e vanno a nascondersi sotto i pergolati dietro la cattedrale normanna in antiche e ombrose sorbetterie,consapevoli come sono,da tempi immemorabili, che il vespertino incontro con le granite multicolori è un rito.I più ricchi mercanti di Malta e di Smirne non osano entrare, perfino il sindaco e il cardinale si accontentano di consumare il torroncino di neve nella loro automobile chiusa. E,come api attorno al miele, migliaia di angioli ingordi scorazzano, svolazzano attorno alla baronessa Schininá ;è lei che leva al cielo d'un purissimo azzurro, fra le dita inguantate, un ciclopico pezzo misto.

 

Anche le bellissime donne catanesi non aspettano che si accendano i fanali, per disertare le gelaterie di via Etnea e far ritorno nelle case profumate all'insalata di cetrioli. Il prelato attende che il corso Stesicoro si svuoti, per portar la santa tredicenne a sorbir la vaniglia in un piattino d'argento e con un cucchiaino d'oro.Per lei,padroncina adorata della città, parata di gioielli per il complessivo valore di cento miliardi, fu costruito un pozzo profondo, dalle pareti incrostate di mandorle, noccioline e pistacchi;da un gradino all'altro e passando per sette porte di bronzo, si scende fin sul letto del fiume Simeto (che prima di me cantò,Ovidio nelle Metamorfosi).Alla sua foce ,montan la guardia contro i ladri internazionali mille e mille cherubini galleggianti su larghe fette di cocomero. La beata pulzella vien portata nella sua reggia segreta prima che un impetuoso vento africano si incanali da Porta Uzeda nel corso Stesicoro, con un soffio intenso di catrame, di zolfo, di assenzio, di pepe e di cannella;il vento inaridisce le gole e protegge lo smercio delle bibite al cedro e all'amarena. La passeggiata continua lo stesso, perché la folla elegante fa da fitta siepe contro la sabbia volante e le maliose dame avanzano imperterrite, mentre i mariti trattengono con le dita i loro cappelli di paglia.-

 -Ecco Mariuccia, meravigliosa fanciulla di tredici anni ,nata d'un lampionaio e d'una pillucchèra ,eccola sotto le potenti lampade della pasticceria Caviezel far la sua spettacolare apparizione in via Etnea; è stata la prima a Catania a proclamarsi donna alla sua età, a usar dei cosmetici alla sua età, a uscir sola alla sua età (ma a dieci metri di distanza dietro di lei,la madre,che nasconde la faccia di strega nel nero scialle,marcia e sorveglia la figlia, ha le saccocce piene di sassi,un randello lungo la gamba epilettica).

Mariuccia, vestita alla moda del continente, sventagliandosi veloce,fila,e uno sciame di giovanotti le fa ala,attacca rissa di gelosia con la banda rivale,appena giunta all'altezza del giardino Bellini. I grandi alberi di magnolia,carichi di tutti i passeri della terra, piegano i rami fin sulla strada. Mariuccia inaugurò arditamente la epoca moderna del corso Stesicoro, fu pioniera d'emancipazione, fu lei che osò portarsi una sigaretta alle labbra dipinte,seduta a un tavolo della birreria svizzera!Oh le sue chiome corvine, i suoi larghi occhi neri dalle maestose ciglia!Metà bimba metà donna, finì con la bambola in braccio in un lettino d'ospedale, da che un orribile fiore spuntò malefico alla sua bocca di corallo.

Ahi,l'immagine di Mariuccia ha fatto presto a richiamare in me i ricordi tristi e tragici di via Etnea:in primo tram,di marca belga,che manovrato da un omaccione di centotrenta chili,andò a corsa pazza,coi freni rotti e con cinquanta passeggeri ,a sbattere dal dazio nel mare.E il tram del pesce!Veniva su,ogni giorno, alle una,dalla piazza del Duomo, zeppo di padri di famiglia, tutti con pesci grandi e piccoli sotto la giacca.

 

Salivano le baronesse e le marchesine, vestite di panna e di latte, e gli uomini, cavalieri come lo sono soltanto i catanesi, cedevano il posto ancora sporco di sardine.

Ricordo il grosso vescovo che accompagnò Sant'Agata lungo la via Etnea, in mezzo a un mare di fanatici; dal caldo soffocante che sprigionava la folla, il monsignore perdette i sensi,cadde dal fercolo, fu calpestato e ucciso senza che ce ne fossimo accorti.Ricordo la sera della battaglia del gesso ,a Carnevale, lungo il corso Stesicoro letteralmente occupato dalla teppaglia cruenta mischia che terminò all'alba dinanzi al cancello dell'ospedale di Santa Marta .Ricordo le fiaccolate, mostruose,che illuminarono la via principale al ritorno dell'onorevole Giuseppe De Felice dal domicilio coatto.-

 -A vero dire,spesso la via Etnea finiva di appartenere ai regolari cittadini, per cadere nelle mani dei facinorosi:come nei giorni apocalittici dei comizi elettorali, l'avresti detta presa dalla peste o dal colera: caffè, negozi, portoni e finestre si sbarravano in un batter d'occhio, al primo petardo dei dimostranti, alla prima torcia che sbucava da una via laterale. O erano gli studenti dell'istituto nautico, che pigliavano d'assalto il centro, trascinandosi dietro tutta la studentesca delle altre scuole. O la sera della festa di Sant'Alfio ,quando i carri e i calessini con gli <<ubriachi>>in lunga teoria scendevano da Trecastagni, sfilavano per via Etnea, abbandonata spelonca, provocando la mafia che li attendeva al varco.O quella volta che più del solito si fece sentire la fame,durante il primo conflitto mondiale:il corso Stesicoro fu invaso da una moltitudine preistorica, goyesca ,e chi in groppa a scheletrici cavalli e chi armato di tridentino,feccia, ceffi mai visti,che saccheggiarono i bei magazzini e sparirono sotto il fuoco dei carabinieri, non si sa dove,come in un incubo,e chi li ha più visti?O all'alba i caprai che scendevano in via Etnea alla testa dei più disparati greggi, si spiegavano addosso alle saracinesche e in mezzo alla strada per un intero chilometro. O le notti dai palazzi neri ,dal buio fitto i viveurs, le chanteuses, i malandrini, i mendicanti, i mercantucci di malaffare formavano gruppi sinistri come di monatti, visibili soltanto al bagliore di un colpo di vecchia pistola.

Questa era la via Etnea che da ragazzo mi dava paura. Mia madre,mia sorella ed io,la guardavamo dall'alto della nostra casa:era per noi una bolgia dantesca che più di una sera,più di una notte si trattenne mio padre.Non dimenticherò mai le angosciose attese del capo di famiglia quando tardava a risalire dal centro al borgo. La paura della Via Etnea si dissipava un pò nella mia fantasia la domenica delle Palme, allorché nelle vetrine delle pasticcerie troneggiavano voluminosi agnelli pasquali ,spuntavano già le margherite sui binari del tram e sui cappelli dei commercianti, da un marciapiedi all'altro del corso,da un balcone all'altro, a decine di migliaia e a una sola voce ,si scambiavano gli auguri, baciandosi, abbracciandosi ,stringendosi le mani .

 

Ma in una così santa occasione, non mancava l'ora tragica che porta il marchio di via Etnea;dai balconi più alti piovevano sulle teste degli impassibili bellimbusti i vasi rotti, e crepitavano, in segno di festa, le colubrine.-

 -Crebbi con un folle terrore del tratto di via Etnea che va dalla casa di Federico De Roberto a Porta Uzeda sulla marina;trecento metri più o meno di bellissimi e monumentali palazzi,neri,dal barocco inconfondibile:è il centro, è il cervello della città. Aprite strade e trafori,spalancate piazze,fate di Catania una metropoli, la sua testa rimarrà lì dove l'ho descritta e li c'è tutto;e ai miei tempi, che erano quelli del falsario Cicco Paolo Ciulla,vero direttore del Banco di Sicilia, anche le false banconote, i falsi palazzi,le false opere d'arte, i falsi nobilotti erano ancora più belli dei veri.

Fin che fuggii come perseguitato da quel tratto di strada che pure fermo,veniva a gettarsi addosso nelle mie insonnie di precoce adolescente;dissi addio al cuore di Catania che non avevo ancora diciassette anni. Ho fatto di tutto, nei miei vagabondaggi attraverso il mondo, per dimenticare l'aristofanesco cervello di Catania. Mi fu impossibile far pelle nuova;dovunque andavo,mi portavo sulle spalle rachitiche la via Etnea;senza volerlo, tentai di liberarmene, gettandola di peso nei miei cinquanta e più volumi di romanzi e novelle.Ora soltanto comprendo,a sessant'anni, che il cervello di Catania è il mio cervello, la via Etnea sono io,ed ogni qualvolta ritorno al mio vero me stesso con le sue false e genuine qualità,la ritrovo, come adesso:fosforescente scia levantina che va dal vulcano nativo al mio mare .

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tratto da "I Catanesi" di Antonio Ariante (1970)

 

 

La facciata Nord del Municipio

Palazzo Sant'Alfano

 

 

 

VIA ETNEA,CATANIA,NATA DOPO IL DEVASTANTE TERREMOTO DEL 1693

 

La via Etnea sorse soltanto alla fine del XVII secolo a seguito del disastroso terremoto dell'11 gennaio 1693. L'evento tellurico rase pressoché al suolo la città di Catania e sotto le macerie perirono circa i due terzi dei suoi abitanti. Il duca di Camastra, inviato dal viceré con il mandato di sovraintendere alla ricostruzione della città, decise di tracciare le nuove strade secondo delle direttrici ortogonali e partì proprio dal duomo che era uno dei pochi edifici non completamente distrutti. Venne così creata una strada che dal duomo si dirigeva verso l'Etna e una strada che la incrociava con direttrice est-ovest. Nacque così quella che oggi è la via Etnea. La strada venne chiamata via duca di Uzeda, in onore del viceré del tempo. Nel corso dei secoli il suo nome venne poi mutato in via Stesicorea ed infine nell'attuale di via Etnea visto che la strada si dirige verso l'Etna. La strada era allora lunga circa settecento metri e terminava nell'attuale piazza Stesicoro, allora chiamata porta di Aci. Qui esisteva una delle porte della città di Catania. La strada perpendicolare, attualmente via Vittorio Emanuele, venne invece chiamata via Lanza e successivamente Corso per poi cambiare il suo nome nell'attuale durante il XIX secolo.

I palazzi che vennero costruiti lungo le due strade furono edificati nello stile del barocco siciliano dagli architetti Giovan Battista Vaccarini e Francesco Battaglia. Lungo la via Etnea vennero edificate ben sette chiese che partendo dalla cattedrale sita in piazza Duomo proseguivano con la basilica della Collegiata, la chiesa dei Minoriti, la chiesa di San Biagio, la chiesa del Santissimo Sacramento, la chiesa di Sant'Agata al Borgo e la chiesa della Badiella. Lungo il suo percorso vennero costruiti molti palazzi della nobiltà catanese ed edifici pubblici. Partendo dalla piazza Duomo si incontra il palazzo degli Elefanti, sede del municipio e quindi il palazzo dell'Università ed il palazzo San Giuliano. Proseguendo si incontrano il palazzo Gioieni ed il palazzo San Demetrio ai Quattro Canti. A piazza Stesicoro si trovano il palazzo del Toscano ed il palazzo Tezzano. Proseguendo si trova il palazzo delle Poste e l'ingresso principale della villa Bellini. Nel corso del XX secolo la strada si sviluppò oltre l'incrocio con i viali e proseguì fino a piazza Cavour, il Borgo per i catanesi, dove si trova la fontana di Cerere in marmo di Carrara, conosciuta dai vecchi catanesi come 'a tapallara (dea Pallade), e quindi al Tondo Gioieni, dove negli anni cinquanta del XX secolo venne costruita l'allora circonvallazione di Catania.

Dal 1915 al 1934 la via ospitò i binari della tranvia Catania-Acireale.

Gli scatti di memoria di Franz Cannizzo

 

 
 

 

Era la famosa gioielleria di A. Russo progettata da Carlo Sada.

 La foto è riportata nel volume "Vecchie foto di Catania" a pagina 212. Il primo volume del 1986 facilmente rintracciabile in qualsiasi biblioteca. Il curatore data la foto alla fine del 1800.

Lo studioso Salvatore Nicolosi indica la posizione del sito in via Etnea 48, angolo via Fragalà, di fronte la Collegiata.

La ditta fondata nel lontano 1846 cessò nel 1961. Dapprima ebbe sede in corso Vittorio Emanuele (notate "corso"), la Agatino Russo e figli, oltre a fare i cambiavalute e scontare «cuponi e cartelle di rendita» (quindi comportando come una sorta di banca), vendeva monete antiche e oggetti di antichità, «bisciutteria», gioielleria, argenteria e lavori di corallo.

 

 

Lo storico Giarrizzo commentava: "Il mercato è tentatore, ma capriccioso, e l'imprenditore siciliano lo rincorre come può, o cambiando attività, o diversificando i settori del suo intervento." (il "Banco" era al n. 9 di via Fragalà).

 I bombardamenti aerei e navali della seconda guerra mondiale nel 1943 danneggiarono il palazzo nel quale si trovava la gioielleria (notare che nella foto è scritto "giojelleria")

 

 

 

 

 

Hanno due chitarre sgangherate che non le vorrebbero nemmeno al festival degli stonati, corde di metallo caricate fin dai tempi di Modugno ormai così piene di ruggine che diventa pericoloso addirittura tentare di accordare gli strumenti (strumenti?), un amplificatore utile solo per far dire "mamma" alla bambola .... e poi le mani, le loro magiche mani che volano su quelle tastiere ridotte ai minimi termini.

In queste paradossale situazione, quasi al limite della produzione di un suono, questi due chitarristi sudamericani regalano piccoli momenti di felicità musicale lungo i marciapiedi di via Etnea carichi di addobbi natalizi. Sono bravissimi e le offerte che ricevono sono meritate.

E poi un'offerta a un musicista di strada non si nega mai.

 

 

Questa Basilica sorge su una preesistente edicola dedicata alla Madonna dell'Elemosina, che era infatti dedicataria della Basilica al principio.
Nel corso dei secoli, la Chiesa divenne sempre più importante ed assunse dal 1396 il titolo di Regia Cappella, essendo spesso oggetto delle frequentazioni dei Reali aragonesi.
Dal 1446, ivi venne istituito un Collegio di Canonici (da qui il titolo di Collegiata), tramite una bolla pontificia di Papa Eugenio IV.
Anche quest'edificio subì danni ingentissimi dal violento sisma del 1693 e dovette essere riedificato, anche se stavolta la facciata venne rivolta lungo la via Etnea, che era divenuta nel mentre una delle arterie principali della città.
La facciata settecentesca fu realizzata nel 1781 da Stefano Ittar, ed è uno degli esempi più fulgidi di barocco catanese.
Si articola su due ordini, dei quali il primo presenta 6 colonne in pietra, sormontate da una balaustra, e sul secondo si apre una grande finestra centrale, incorniciata da 4 statue dei Santi Agata, Paolo, Pietro e Apollonia, due ai lati della balaustra e due in nicchie nel muro, separate da lesene piatte.
Al di sopra della finestra poi, si trova la campana della Chiesa, secondo uno stile che ricorda quello delle chiese di area spagnola.
L'accesso al tempio è garantito da uno scalone. Delimita il sagrato una bella cancellata in ferro battuto.
 

 

STORIA DELLA REGIA CAPPELLA MARIA SANTISSIMA DELL'ELEMOSINA

 

Sulle rovine del tempio di Proserpina sorse nei primi tempi del cristianesimo un'edicola con un'icona dedicata alla Madonna che i bizantini chiamavano Madre della Misericordia e che poi fu detta Maria Santissima dell'Elemosina, perché si sosteneva con le offerte dei fedeli. Essa è ricordata nelle vite dei vescovi catanesi S.Leone (V sec)e Ruggero (1194).

Nel 1356 Federico III d'Aragona, fissando la propria dimora a Catania, riconobbe che il tempio era dal 1226 di regio patronato e lo insigni del titolo di "Regia Cappella ";re Martino I poi lo doto' di notevoli benefici e ricche rendite nel 1396.

Papa Eugenio IV (1431-1447)con una bolla del 31 marzo 1446 elevo' la chiesa al rango di Collegiata (cioè chiesa con capitolo di canonici ma non sede di cattedra vescovile )concedendole gli stessi privilegi goduti dalla cappella di S. Pietro nel Palazzo reale di Palermo.

Nel 1589 i padri capitolari acquistarono un terreno limitrofo al sacro edificio in costruzione per poterlo ampliare, come richiedeva il suo prestigio, dato che esso veniva subito dopo al Duomo per importanza.

 

Nel 1629 il vescovo Innocenzo Massimo (1624-1633)istituì nella parte del coro a mezzogiorno, vicino alla cappella di S.Apollinare, un cimitero per i padri capitolari.

Nel 1655 il tetto della Chiesa fu nuovamente rifatto :al culmine stava l 'immagine della Madonna seduta in trono "con il sacro Figlio messo al petto ".In quel tehttps://www.mimmorapisarda.it/2023/262.jpgmpo la Collegiata era doviziosa di arredi, argenterie e vesti sacre :aveva 5 cappelle con quadri preziosi e un organo a 5 registri con cantoria; nel 1658 poi l'icona della Vergine fu rinnovata e l'antica immagine -dopo lunghe discussioni -fu sostituita con quella di Maria Purificata .

Il 9/11 gennaio 1693 il catastrofico terremoto distrusse ,insieme a quasi tutta la città, anche il glorioso monumento dei 32 padri capitolari la metà peri sotto le macerie; del tempio rimasero soltanto le due campane piccole e quella più grande, fusa nel 1676 da mastro Giacomo Marotta da Tortorici e dal calabrese mastro Giuseppe Rinaldo.

Nel 1697 il vescovo Andrea Riggio (Pa1660-Roma 1717)pose la prima pietra della nuova chiesa, che si volle più grande della precedente e orientata in modo diverso, così da presentare il prospetto lungo la nuova via Duca di Uzeda .

Nel 1697 Antonino Amato ottenne l'appalto per l'estaglio delle statue nel prospetto con il visto del faber murarius Giuseppe Longobardo;mentre Alonzo Di Benedetto, l'architetto scampato al terremoto, aveva l'incarico di fornire le pietre bianche e nere per la costruzione. Si ha notizia di un altro scultore :il messinese Domenico Biundo,e si sa che il marmo di Carrara arrivava da Genova per mare.

Nel 1703 appare per la prima volta il nome del progettista :Angelo Italia (Licata 1628-Palermo 1700),il padre gesuita venuto a Catania per costruire la chiesa del suo Ordine, statuarius ,sculptor,architectus .

Nel 1705 i lavori per la facciata si interruppero per una diatriba legale con i vicini fra cui il barone Paternò Castello, che rivendicavano la proprietà dell'area scelta per il campanile.

Nel 1767 Stefano Ittar disegnò la nuova facciata abbattendo (dal 1768 al 1769)

l'antico prospetto a pietre bianche e nere e il campanile situato sulla destra, che era stato iniziato da mastro Giuseppe Longobardo con il concorso del P.Crocifero messinese Vincenzo Cafarelli.

Il 29 maggio 1794 il vescovo Corrado Deodato Moncada consacrò la nuova Collegiata.

Nel V centenario dalla fondazione, il 3 marzo 1946 ,Papa Pio XII innalzo' la chiesa alla dignità di Basilica Pontificia.

Nel 1981 è stata istituita la festa della Madonna della Misericordia al 10 di ottobre di ogni anno.

Il 1*settembre 1982 Papa Giovanni Paolo II ha benedetto in piazza San Pietro l'immagine sacra .

Fonte descrittiva museale

 

 

 

L'interno ha un impianto a croce latina, a tre navate.
Il battistero si trova nella navata di destra. Nella stessa parte della Basilica, troviamo tre altari con tele che rappresentano Santa Apollonia e Sant'Euplio di Olivio Sozzi, oltre al Martirio di Sant'Agata di Francesco Gramignani.
In fondo alla navata, è collocato l'altare dell'Immacolata: antistante, una balaustra in marmo che reca una statua, altresì marmorea, della Vergine, di pregevole fattura. Nell'abside della navata centrale poi, si trova una preziosa icona russa, che raffigura la Madonna. Essa è posto tra un coro ligneo e due opere su tela del pittore locale Giuseppe Sciuti.

 

La volta della cupola e della Chiesa sono state affrescate dallo stesso Sciuti, con scene della vita di Maria, circondata da angeli e Santi.
Le pareti sono dipinte di vivaci colori pastello, tipici degli stilemi del tardo barocco, che ben si sposano con la ricchezza della decorazione pittorica e marmorea.
Nella navata di sinistra si trova la Cappella del SS. Sacramento, che possiede un altare in marmo.
Infine, dietro l'altare maggiore, è posto un bell'organo in legno del XVIII secolo.

 

 

 

 

 

A tutti i Numi dell'Olimpo sorsero qui tempii sontuosi, e ad uno ad uno furono sostituiti — vecchia storia — da altrettante chiese cristiane. Quello di Bacco, presso le terme Achillee, ricco di dodici altari, somigliava, assicurano, a quello di Eliopoli: sulle sue ultime rovine, nel 1400, coi tesori di Ximene e Paolo di Lerida e i doni della regina Bianca, si fondò il monastero di S. Placido.

Sul tempio di Giano, San Leone II, il ravennate taumaturgo vescovo di Catania, eresse una chiesa a S. Lucia; caduta questa col terremoto del 1075, fu sostituita dalla chiesa dell'Annunziata e nel 1200 da quella del Carmine ancora esistente. Castore e Polluce avevano un sacrario di marmo, di stucco e d'oro, sul quale, nel 1295, fu costruita la chiesa e la badia di S. Giuliano. Nel 1329 la regina Eleonora, moglie di Federico II, fece costruire a proprie spese, ordinando poi che ve la seppellissero, il convento di S. Francesco sulle rovine del tempio di Minerva. Sedici anni dopo, nel 1355, fondandosi la chiesa di S. Benedetto, si trovarono e scomparvero tosto per sempre i ruderi del tempietto d'Esculapio ed il suo simulacro.

Sui rottami del tempio di Proserpina fu eretta, nel 1382, la Collegiata; nel 1396 un ospedale e nel 1555 la chiesa dei Gesuiti occuparono l'area del tempio di Ercole, del quale resta una statua mutilata e rabberciata nel museo Biscari. L'ultima sostituzione avvenne nel 1558, quando sui vestigi del tempio di Venere, sulle sue colonne infrante, sui frammenti dei suoi mosaici, i Benedettini costruirono la loro casa.

 

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

 

 

 

EX NEGOZIO FRIGERIO 1909 CIRCA

VIA MANZONI 95

AUTORE:TOMMASO MALERBA (1866-1962)

 

-Il negozio di mode e confezioni, vincolato con D.A. n.988 del 14/04/1986,delle sorelle Frigeri è una piccola bottega costruita in un angolo posto a fianco dell'abside della Basilica Collegiata.

Essa viene progettata da Tommaso Malerba nel 1909 con la stessa cifra stilistica che aveva usato per palazzo Marano di via Umberto. In linea con l'espressione linguistica liberty che aveva tracciato la II esposizione agricola siciliana.

L' ubicazione marginale e la dimensione ridotta non limitano la creatività dell'autore che invece esprime una sorta di ricchezza ed aulicità decorativa.

L' edificio è caratterizzato da un essenziale e squadrato volume, costituito da un angolo tripartito, organizzato semplicemente nelle sue linee generali ed arricchito plasticamente da una serie di fregi mistilinei.

Il tema principale della facciata è costituito da una larga trabeazione a coronamento dell'edificio a due elevazioni che costituisce l'architrave delle aperture del primo piano ed il sostegno ad una ricca merlatura, metafora degli antichi acroteri. Il resto della facciata sorregge la trabeazione attraverso l'uso di una superficie a specchiature policrome, (già utilizzato in città nella facciata del palazzo Del Grado di Carlo Sada, anche se con altre aggettivazioni),e di una serie di cornici che si intrecciano sinuosamente raccordandosi tra le aperture.

Il piano terra è composto da un basamento semplice e austero in contrapposizione alla leggerezza espressa dall'apparato decorativo del primo piano.

 

Ex negozio Frigerio - Via Manzoni/Via Collegiata (foto di Andrea Mirabella)

 

La decorazione a stucco che Malerba elabora è di tipo avvolgente come prevedono i dettami del liberty, il repertorio decorativo si incentra su rilievi floreali molto accentuati con elementi scultorei puntuali quali le teste muliebri che sottolineano e invadono le aperture del piano superiore e le aquile che segnano la rotazione delle superfici piene del piano terra.

All'interno della trabeazione ricca la struttura della decorazione a nastro che viene concentrata nella zona tradizionalmente del fregio,mentre la parte, che secondo lo schema classico, definisce l'architrave, è appena tracciata sui muri da piccole cornici.

La geometria del decoro prevede una successione di elementi floreali ad altorilievo rigidamente rappresentati secondo le proiezioni ortogonali, interrotta in corrispondenza delle aperture da un elemento scultoreo, Esso,mentre costituisce l'architrave dell'apertura, nega la sua stessa valenza strutturale invadendo lo spazio della finestra proprio al centro. Si tratta di un fregio a ventaglio che circonda una testa muliebre arricchita da nastri. Sopra questa larga fascia una piccola cornice rettilinea percorre tutto il fronte, sormontata da una merlatura di sapore orientale. Questo tipo di coronamento piuttosto inusuale nelle architetture cittadine catanesi,veniva utilizzato in alcune case di campagna settecentesche dell'hinterland etneo e riproposto nelle fogge e nei decori moreschi in alcuni edifici ottocenteschi. Malerba lo ripropone qui con una sequenza di fioroni. -

(Vittorio Percolla, dal catalogo "Catania 1870-1939"dell'Assessorato alla Regione Siciliana)

 

 

 

Quando Mara Messina morì, il 14 di agosto del 1907, il cordoglio si sparse per le strade di Catania rapido come l’inconfondibile profumo dei suoi biscotti all’anice, ancor oggi rinomati in tutta la Sicilia. E fu con un’affettuosa gratitudine che i catanesi si recarono a rendere l’ultimo omaggio alla donna che aveva saputo portar fuori dal convento, quasi come Prometeo con il fuoco, il segreto di dolci semplici e gustosi. Un sentimento conservato quasi intatto fino a oggi che ricorre il centenario della scomparsa della Monaca dei viscotta d’a monica. Sì, perché fu proprio Mara Messina, nella Catania degli ultimi decenni dell’Ottocento, a metter su con la nipote Rosaria Di Mauro, che avrebbe poi sposato Giovanni Arena, una piccola rivendita di biscotti in via Mancini, proprio dietro la Piazza dell’Università, dove ancor oggi si trova un punto vendita della ditta.
Da allora i viscotta d’a monica sono i biscotti dei catanesi per antonomasia. Se volessimo esagerare potremmo dire che i cromosomi del cittadino marca liotru hanno forma di esse, un color mielato scuro e... un forte odore d’anice. La ricetta dei viscotta rimane però ancor oggi segretissima: la famiglia Arena non ne vuol sapere di rivelarla. Ma si può ipotizzare che siano a base di farina, strutto e semi d’anice, visto che dolci simili, di cui è nota la ricetta, vengono preparati anche a Cefalù e sulle montagne di Pistoia. Di certo c’è che sono inconfondibili: per il profumo, la forma a esse, per il crocchiare quando vengono addentati.
E perché, come le ciliege, non ci si stanca mai di mangiarne (qualcuno sostiene addirittura siano digestivi). Quel che comunque ci preme non è parlare dei viscotta d’a monica, è tentare di ricostruire la vicenda umana della Monaca stessa: Maria Messina, meglio nota come Mara.

 

Via Etnea fu la prima e più importante strada tracciata dal Duca Lanza di Camastra, inviato dal Vicerè Gian Francesco Paceco Duca di Uzeda, dopo il tremendo terremoto del 1693. Congiunge in linea retta il mare con le prime pendici del vulcano. Quì i notabili e i patrizi più importanti, costruirono le loro lussuose dimore, che furono realizzate dai migliori architetti. Tra gli edifici più pregevoli, quello appartenuto ad una delle famiglie che ebbero un ruolo importante nella vita della città:i Gioieni, discendenti da Arrigo d'Angiò, consanguineo di Carlo I d'Anjou. L'edificio è situato all'angolo fra via Etnea, piazza Università e via Euplio Reina. Sul fianco dell'ingresso principale, si trova un bassorilievo bronzeo, opera dello scultore Mario Rutelli, degli inizi del '900. Sulla stessa piazza, di fronte al palazzo dell'Università si nota il palazzo dei marchesi di S.Giuliano, oggi proprietà del Credito Italiano. Costruito dal Vaccarini (il genio palermitano), ricorda un edificio del Vanvitelli che si trova a Napoli, il palazzo Fontana Medina. I San Giuliano, come i Gioieni, fanno parte di un gruppo di famiglie catanesi notabili. Uno di essi, Antonio Paternò Castello, marchese di S.Giuliano, fu un insigne statista. Morì a Roma nell'Ottobre del 1914. Sul prospetto dell'edificio rivolto in via Euplio Rejna, una targa di marmo ricorda il 'Machiavelli' teatro dialettale che fu la scuola iniziale di attori come Giovanni Grasso e Angelo Musco.

 

 

Sul lato opposto, due edifici, il secondo dei quali è quello di 'Casa Biscari'. Quasi di fronte, prima dei 'Quattro Canti', c'era un bel prospetto di antico palazzo, nel quale si apriva il balcone dal quale Garibaldi proclamò: 'O Roma o morte!'. In seguito, il palazzo, gravemente lesionato, venne abbattuto.
Sullo stesso lato della strada, sorge il settecentesco palazzo 'Carcaci' e, di fronte, il palazzo 'S.Demetrio'. Fu il primo ad essere innalzato dopo il terremoto e lo ricordano 2 iscrizioni nell'atrio, dove figura anche il nome del proprietario: Eusebio Massa barone di S.Gregorio e precettore della Valle dei Boschi. L'edificio, in pietra bianca, ricchissimo di ornamenti e bassorilievi, è opera di Pietro e Francesco d'Amico e di Pietro Flavetta. Venne quasi interamente distrutto dai bombardamenti aerei del 1943 e riedificato subito dopo, come una copia dell'originale!
Dietro palazzo Carcaci, sulla piazza omonima, sorge uno degli edifici monumentali più importanti: il palazzo dei Principi Manganelli.
Su piazza Stesicoro, con una facciata rivolta a via Etnea, vi è palazzo Tezzano, costruito nel 1724 da Alonzo Di Benedetto. Ha un coronamento turrito, sul quale si notano le teste di 2 mori ed un grande orologio sotto le campane. Fino al 1880 ospitò l'ospedale di S.Marco, poi fu sede del Tribunale e, nel 1953 fu adibito a scuola pubblica.

 

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Di fronte a palazzo Tezzano, s'innalza il palazzo del marchese del Toscano, colossale costruzione in stile rinascimentale, opera dell'architetto napoletano Errico Alvino (1864). Sorge su un antico palazzo, opera del Vaccarini, ed era di proprietà del nobile Pietro Maria Tedeschi Bonadies.
Tra piazza Stesicoro e Corso Sicilia, ecco il palazzo del barone di Beneventano, che ha uno stile analogo. All'angolo di via Etnea-via Pacini, sorge il palazzo del principe del Grado, opera di Carlo Sada. Appena dopo l'ingresso del Giardino Bellini, la casa dove morì Federico De Roberto e di fronte, ad angolo con via Umberto, la casa del barone Pancari, di gusto barocchetto, realizzata dal Sada.
Prima di arrivare a piazza Cavour, ecco un'altra opera del Sada, l'ex palazzo Libertini e, quasi di fronte, l'Orto Botanico, fondato nel 1858 dal prof. Mario Di Stefano. Al civico 575, una lapide ricorda la casa del poeta Mario Rapisardi, che vi morì il 4 Gennaio 1912. Cento metri più avanti, l'Ospizio dei Ciechi, fondato da Tommaso Ardizzone barone di Gioieni (1911). Via Etnea termina al 'Tondo Gioieni', inizio di un importante nodo stradale e in cui si articola la Circonvallazione.

http://www.puzzle.altervista.org/katane/monumenti.php

 

 

La via Etnea è la strada principale del centro storico di Catania. Si snoda nella direttrice sud-nord, ha un andamento rettilineo ed è lunga circa tre chilometri. Va da Piazza Duomo al Tondo Gioieni.
La via Etnea sorse soltanto alla fine del XVII secolo a seguito del disastroso terremoto dell'11 gennaio 1693. L'evento tellurico rase pressoché al suolo la città di Catania e sotto le macerie perirono circa i due terzi dei suoi abitanti. Il Duca di Camastra, inviato dal viceré con il mandato di sovraintendere alla ricostruzione della città, decise di tracciare le nuove strade secondo delle direttrici ortogonali e partì proprio dal Duomo che era uno dei pochi edifici non completamente distrutti.

 

 

 Catania è bella è affascinante proprio per quel connubio inscindibile di pregi e difetti che ti fa innamorare, è una città che ti dice “vivimi così come sono, non giudicarmi ma amami”.

Giuseppe Fava

 

 

Palazzo Mannino Acanpora (Via Carcaci) Palazzo Cilestri

 

Catania - Com’erano felici gli anni 60.

Catania cresceva a ritmo impetuoso, la muratura non si fermava mai perché si costruivano nuovi quartieri, le arance arrivavano fino nell’Urss, Via Etnea era lo splendido salotto e Turi Ferro, il mattatore di “Tutta la città ne parla” (e poi dello Stabile) era l’erede moderno di Giovanni Grasso. Il lavoro si trovava facilmente, ti veniva incontro.

 

Io sono entrato a “La Sicilia” nel 1952, a vent’anni. Trovai allo Sport una bella cumacca e furono tempi eccezionali. Ebbi un colpo di fortuna perché il film “La dolce vita” di Fellini aveva conquistato il pubblico di tutto il mondo e il protagonista, Marcello Mastroianni, era sceso ad Augusta per girare un altro film. Andai a trovarlo e gli feci un’intervista. Piacque e l’editore Domenico Sanfilippo incontrandomi in corridoio mi disse: «Illustre amico, ma allora lei non sa scrivere solo di sport?». Così, quando ci fu la strage del Vajont, la diga che si ruppe facendo precipitare una valanga d’acqua che seppellì un intero paese, duemila morti, l’editore mi chiamè assieme a Nino Milazzo (poi diventato vicedirettore del Corriere della sera) e disse: «Andate al Vajont. Milazzo scriverà la nota politica e Zermo farà la cronaca».

 Cominciò così la mia carriera da inviato perché poi vennero il terremoto del Belice, le Brigate rosse, la guerra del Golfo del 1991, le stragi di Palermo e quant’altro, questo per dire come a quei tempi era possibile trovare a Catania un lavoro interessante costruendoci sopra una famiglia e una casa. Era il tempo dell’inciminata, le palline dolci che i bambini trovavano nei contenitori di vetro delle tabaccherie.

 A quell’epoca i giovani si conoscevano tutti. Io prima di cominciare a fare il giornalista bivaccavo all’Università nella facoltà di Giurisprudenza. E siccome avevo tanto tempo libero andavo a passeggiare in Via Etnea assieme a qualche amico. In sostanza facevo parte dei “consumatori di basole”, di quelli che a furia di passeggiare consumavano non solo le suole delle scarpe, ma anche le basole di lava. Eravamo in tanti i passeggiatori e ci si incontrava con piacevolezza. Uno di loro, con qualche anno in più di noi, era Alvaro Paternò dei principi di Biscari che potevi vedere quasi tutti i giorni mentre procedeva con passo lento. Un uomo molto dolce e gentile, quasi affettuoso, che si fermava sempre alla Pasticceria Svizzera dei fratelli Caviezel per assaggiare pasterelle e pizzette. Non c’erano solo principi tra i consumatori di basole, ma anche personaggi del popolo come Pippo de’ pirita, o Jachino Marletta, forzuto sollevatore di basole per scommessa. Poi andò a fare il cinema a Roma, tornò gay.

 Il vero scopo dei consumatori di basole era di incontrare qualche ragazza. Non si trattava di ingravidare balconi, perché di balconi nella parte superiore di Via Etnea che va da piazza Stesicoro alla Villa non c’è quasi nessun balcone. La passeggiata era solo un inebriarsi della vista di belle ragazze e di signore di classe. Uno che si vedeva spesso era anche Nando Torrisi il bello, fratello di Pinella poi moglie di Nino Drago in seconde nozze. C’era anche Puccio Distefano detto il bello per distinguerlo da Puccio Distefano il brutto.

 Stranamente i pallanotisti della Jonica, del Cus Catania e del Giglio Bianco, cioè la meglio gioventù di allora, non passeggiavano in Via Etnea, non avevano bisogno di cercare ragazze. Solo quelli del Giglio Bianco ci dovevano passare per forza in Via Etnea recandosi nella sede sociale di via Penninello. C’erano centinaia di gradini da scalare, ma i picciotti erano forti e non si abbarruavano. A proposito di basole, negli anni 70 sulla sede stradale di Via Etnea fecero una fissaria quanto una casa: furono tolte le basole e al loro posto misero cubetti di porfido. Se non ricordo male i lavori furono affidati ad una ditta trentina perché Flaminio Piccoli, presidente della Dc, era di Trento... Solo le basole dei marciapiedi erano rimaste al loro posto.

 Quando pioveva forte, l’acqua che scendeva a torrente dall’Etna invadeva Via Etnea fino a Piazza Duomo facendo saltare come birilli i cubetti di porfido. A quel punto scrissi un articolo invitando l’allora sindaco Scapagnini a rimettere le basole nella sede stradale, suggerimento che il sindaco accolse. Quindi anche nella sede stradale di Via Etnea da allora ci sono le basole di lava, il che mi fa venire un pizzico d’orgoglio. A Catania poteva succedere anche questo: che il giornalista scrivesse una cosa e che il sindaco lo ascoltasse.

Tony Zermo.

http://www.lasicilia.it/news/catania/146150/amarcord-i-consumatori-di-basole-nella-via-etnea-anni-60.html

 

 

L’attuale Palazzo dei Minoriti è il frutto della ricostruzione, dopo il terrificante terremoto del 11 gennaio 1693, del preesistente edificio conventuale e dell’annessa chiesa, costruiti l’uno e l’altra nella prima metà del Seicento, per alloggiare i Chierici Regolari Minori, il cui ordine era stato fondato da Papa Sisto V nel 1588 e che presto si era diffuso in Sicilia.

Utilizzando in maniera appropriata il terreno preesistente e in piena sintonia con le direttive dei tecnici che collaboravano il Duca di Camastra, sia il Convento, sia la Chiesa, furono allineati con la nuovissima arteria cittadina, intitolata inizialmente al viceré Uzeda ed oggi ovunque nota col nome di Via Etnea.

L’edificio conventuale ebbe forma quadrilatera, disposta attorno ad un giardino, salvo una breve appendice posta dietro la Chiesa, intitolata a San Michele Arcangelo, così come la precedente andata distrutta. Esso fu dapprima costituito da un piano terra, un basso ammezzato e un piano primo, il cosidetto “piano nobile”. Il piano terra, dal lato esterno, fu adibito a botteghe su tutti i tre lati liberi (attuali Via Etnea, Via Prefettura, Via Manzoni), affinché dalla loro locazione ne venisse un reddito per il Convento. Il quarto lato era cieco in quanto confinante con la Chiesa. L’autore del progetto fu probabilmente Francesco Battaglia (1701-1788).

 

 

Il Convento subì qualche danno a seguito del terremoto del 1818 (maggiori furono quelli occorsi all’adiacente Chiesa). Successivamente, negli anni ’30 dell’Ottocento, su progetto e direzione dell’arch. Sebastiano Ittar (1778-1847) fu elevato il secondo piano, così come appare in una stampa di Antonio Zacco inserita nel volume “Vedute e monumenti antichi di Catania” edita nel 1847.

 

Come accadde in tutta Italia a tutte le proprietà ecclesiastiche, nel 1866 il Convento fu requisito ai Minoriti (così erano chiamati per brevità i Chierici Regolari Minori) e dato in proprietà alla giovane Amministrazione Provinciale di Catania, che vi si insediò, concedendone metà alla Prefettura del Regno. Anzi, per rispetto al maggiore rango, a quest’ultima fu concessa la metà di maggiore pregio, cioè quella prospiciente la Via Etnea, mentre la sola Chiesa rimase di proprietà dei religiosi. Entrambi gli Enti si insediarono nel 1868.

 

 

 Con la nuova destinazione si ebbero notevoli modifiche strutturali e architettoniche, prima tra tutte un complesso intervento di abbassamento del piano di calpestio lungo la Via Etnea, a seguito dell’eliminazione di una lunga gobba che questa strada presentava in quel tratto. Successivamente, per accontentare le sempre maggiori esigenze di spazio delle due Amministrazioni e senza riguardo per la tipologia architettonica originale, i portici che circondavano il chiostro furono chiusi per ricavarne ulteriori locali e, addirittura, sul lato interno di ponente dello stesso chiostro, fu costruito un lungo corpo di fabbrica a semplice piano, privo di alcuno stile.

Anche la guerra lasciò il suo segno nell’edificio, che subì danni dal bombardamento del 16 aprile 1943 e che dovette accogliere, interrato nel cortile, un rifugio antiaereo per la protezione degli impiegati e delle autorità, ma mai questi danni pareggiarono l’ultimo oltraggio, ancora sul lato prospiciente Via Manzoni, dovuto alla costruzione di un ulteriore piano privo di stile, adibito a Zona Telecomunicazioni per la Sicilia Orientale.

 

Finalmente, a seguito della sensibilità del Presidente della Provincia in carica negli ultimi anni ’90, furono demoliti il piano tecnico sulla Via Manzoni e tutte le strutture che rendevano ciechi, o che nascondevano, i quattro lati a portico del chiostro, che tornò così all’aspetto originale, mentre l’edificio subiva un restauro anche al suo interno

Nei suoi locali, di particolare pregio nella metà utilizzata dalla Prefettura, troviamo lo scalone principale, il grande salone di rappresentanza ed il corridoio di levante, tutti ornati con importanti opere d’arte pittorica.

Nella metà in uso alla Provincia, spicca il corridoio d’onore, lato di ponente dell’edificio, sulle cui pareti è esposta una collezione di stampe antiche dell’Etna e dei dintorni di Catania, raccolta dall’antiquario Franz Riccobono e acquistata dalla Provincia. Notevole la Sala del Consiglio Provinciale, restaurata nel dicembre del 2000, con le pareti decorate dal pittore Francesco Contraffatto, con una particolare tecnica ad olio monocromo su superficie argentata a foglie. Su di esse è ricordata la “civiltà del lavoro” delle comunità etnee. Meritevole anche il corridoio di tramontana, con i ritratti dei presidenti.

http://www.6insicilia.it/citt%C3%A0/catania/cosa-vedere-a-catania/130-palazzo-dei-minoriti-catania.html

 

 

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Passavo per caso davanti a Palazzo Minoriti in via Etnea, certe musiche mi attraevano e ci sono entrato. Dritto nel suo affascinante cortile.

Per la prima volta ho visto ballare il Tango dal vivo durante il suo Festival a Catania. Ma non era quello delle feste in famiglia dove lo zio faceva il buffone, bensì quello ballato come Dio comanda. Al centro, sul ring, si esibivano le coppie di tangheri spinte lì sopra dai magici ritmi di chitarre e fisarmoniche argentine.

Prima di oggi, a sentire la parola Tango mi era sempre venuta in mente l’immagine di Rodolfo Valentino volta ad ammaliare la sua partner.

Invece niente di tutto questo. Adesso ho capito come il Tango sia in grado di conciliare nello stesso tempo passionalità e grazia, galanteria e garbo. Dalle scrupolose, accurate, quasi professionali movenze dei concentratissimi ballerini si capisce quanta educazione ci sia in quest'arta con la A maiuscola.

E' Bellissimo vederla quasi sfiorare, quasi toccarla la donna, dico “quasi”, perchè sembra che ci sia addirittura timidezza e, nello stesso tempo, voglia di prenderla per i fianchi e trasportarla via con forza.

O vedere quanto l’essere “maschio” del ballerino, che sembra apparire prepotente nelle sfrontate giravolte (la rosa in  bocca è solo un’invenzione del cinema), svanisca e crolli miseramente ogni qualvolta venga ceduto con gentilezza ogni passo, ogni centimetro, ogni sguardo, alla compagna di danza.

Secondo me, è lei che comanda, contrariamente a quanto si pensi. Lui è solo uno schiavo trascinato sul velo di quella bella signora, che se lo porta a spasso dove vuole fra le sonore balere della Pampas.

Questo non è un ballo, ma una religione.

2013

 

 

 

CHIESA SAN MICHELE ARCANGELO AI MINORITI

-I Chierici regolari minoriti furono istituiti dal vescovo Massimo nel 1626 ed ebbero la chiesa parrocchiale di San Michele. Dopo 4 anni il nobile catanese Giobattista Paternò diede loro tutti i suoi beni,ed indi i suoi Flavia Anzalone.

Nel 1693 cadde la chiesa che cominciato avevano, ed il convento. Fanno oggi mostra del comodo convento e di una chiesa magnifica. Hanno un'altra casa sotto il titolo della Concezione eretta nel fine del secolo decimosettimo dal loro religioso Bartolomeo Asmundo sopra le rovine di antiche Terme che avrà dovuto più rovinare,e presso una vetusta come dei SS.Alfio,Filadelfo e Cirino, e del vescovo S.Cataldo. -(Francesco Ferrara, Storia di Catania )

 -La chiesa elegante decorata di un bel prospetto di pietra calcare forma insieme alla vasta Casa eretta da'chierici regolari minoriti il migliore ornamento della strada Stesicorea.Era prima l'antica chiesa parrocchiale di S.Michele che nel 1628 fu cessa a detti religiosi. Questo tempio a tre navi,sormontato da cupola, frequentatissimo, offre un organo sonoro da recente costruito in Bergamo; un S.Michele Arcangelo sopra tavola del secolo XIII coperto di lamine di argento cesellate nel secolo XVII; il crocifisso a tutto rilievo di un sol pezzo di marmo di Carrara, opera di Agostino Penna romano;due quadri di Marcello Leopardi -il Transito di S.Giuseppe e la S.Agata; -il S.Francesco Caracciolo lasciato incompleto dallo stesso Leopardi e terminato dal Ferreri suo allievo; l'Annunziata del Borremans.-L'altare maggiore mostra la gajezza delle lave dell'Etna portate a pulimento ,e dei marmi dei nostri dintorni. Le cappelle del S.Michele e del Caracciolo sono di alabastri orientali, di verde antico, e di altri pregevoli marmi.-(Editore Galatola, 1867

 ...nel 1943 quando venne bombardata la prefettura volò (e si frantumó al suolo) la statua di San Michele arcangelo che stava in alto sulla facciata...mentre San Francesco Caracciolo venne diviso in due cosicché oggi è ancora solo la parte bassa del corpo (statua in alto a sinistra guardando la facciata). Negli anni 80 inspiegabilmente venne rimossa la maiolica blu che decorava l'esterno della cupola....

 Note e foto di Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

 

Palazzo Trigona di Misterbianco (Via Montesano)

Venne così creata una strada che dal Duomo si dirigeva verso l'Etna e una strada che la incrociava con direttrice est-ovest. Nacque così quella che oggi è la via Etnea. La strada venne chiamata via duca di Uzeda, in onore del viceré del tempo. Nel corso dei secoli il suo nome venne poi mutato in via Stesicorea ed infine nell'attuale di via Etnea visto che la strada si dirige verso l'Etna. La strada era allora lunga circa settecento metri e terminava nell'attuale piazza Stesicoro, allora chiamata Porta di Aci. Qui esisteva una delle porte della città di Catania. La strada perpendicolare, attualmente via Vittorio Emanuele, venne invece chiamata via Lanza e successivamente Corso per poi cambiare il suo nome nell'attuale durante il XIX secolo.

 

I palazzi che vennero costruiti lungo le due strade furono edificati nello stile del barocco siciliano dagli architetti Giovan Battista Vaccarini e Francesco Battaglia. Lungo la via Etnea vennero edificate ben sette chiese che partendo dalla Cattedrale sita in piazza Duomo proseguivano con la Basilica della Collegiata, la chiesa dei Minoriti, la chiesa di San Biagio, la chiesa del SS. Sacramento, la chiesa di Sant'Agata al Borgo e la chiesa della Badiella. Lungo il suo percorso vennero costruiti molti palazzi della nobiltà catanese ed edifici pubblici. Partendo dalla piazza Duomo si incontra il Palazzo degli Elefanti, sede del municipio e quindi il Palazzo dell'Università ed il Palazzo San Giuliano. Proseguendo si incontrano il Palazzo Gioieni ed il Palazzo San Demetrio ai Quattro Canti. A piazza Stesicoro si trovano il Palazzo del Toscano ed il Palazzo Tezzano. Proseguendo si trova il Palazzo delle Poste e l'ingresso principale della Villa Bellini. Nel corso del XX secolo la strada si sviluppò oltre l'incrocio con i viali e proseguì fino a piazza Cavour, il Borgo per i catanesi, dove si trova la Fontana di Cerere in marmo di Carrara, conosciuta dai vecchi catanesi come 'a tapallara (Dea Pallade), e quindi al Tondo Gioieni, dove negli anni cinquanta del XX secolo venne costruita l'allora circonvallazione di Catania.

La strada è stata recentemente ripavimentata, con selciato in pietra lavica dell'Etna, ed è ora un'isola pedonale nel tratto che va da Piazza del Duomo ai Quattro Canti. Nel tratto che dai Quattro Canti va fino al Giardino Bellini è invece percorsa dai soli mezzi pubblici e dai taxi. È la via dello shopping ed una delle strade più frequentate della città sia di giorno che nelle ore notturne. Infatti nelle strade circostanti esistono un centinaio di locali fra ristoranti, birrerie, pub e pizzerie che sono frequentati da giovani e meno giovani catanesi.

http://it.wikipedia.org/wiki/Via_Etnea

 

 

Via Etnea, il salotto buono di Catania.
Filippo Arriva, 16  gennaio 2010
Allontaniamoci dalle note stonate per fare due passi nel salotto, e qualcuno aggiunge buono, come se ci fosse quello cattivo, di Catania: via Etnea. Per motivi diversi mi ritrovo spesso a percorrere la mitica via cittadina sul tratto che va da piazza del Duomo a via Umberto. Un bel tratto, forse il cuore di questa via, che ha visto Brancati e Aniante, Martoglio e Patti… L’epoca in cui si aveva anche il tempo di sedere al bar e parlare di un nuovo nodo alla cravatta.
Riviste patinate giurano, con belle foto a doppia pagina, che il fascino antico non è tramontato. Catania “chiù sta e chù bedda addiventa”, dicono. Ovviamente nulla da eccepire sul fatto che ormai le nostre vie (ma questo accade ovunque) sembrano percorse da pazzi scatenati che sembra parlino da soli (fa sempre una certa impressione, vero?), gesticolano o urlano i loro sentimenti al telefono mobile con cui vivono in simbiosi. Ed è altresì inutile dire che via Etnea, come tutte le strade del mondo, ha perduto tutti i negozi storici per passare ai grandi magazzini delle multinazionali. Mi addolora ancora la fuga di Barbisio da via Etnea per far posto a una insegna che trovi uguale in tutte le città. Ma è così e nessuno può far nulla, mi dicono.

 

 

Sì, c’è il sole. I ragazzini mangiano arancini o un gelato. Resto a fissarli e vedo che nei confronti delle ragazzine non hanno quegli sguardi ansiosi e curiosi che avevamo noi (Anni Sessanta, voglio dire). Si ha la sensazione che quel sesso brancatiano, che in qualche modo ha bollato questa via, non esista più. Sono vestiti tutti allo stesso modo, e questo lo sappiamo, ed hanno tutti lo stesso sguardo.
E’ una via che necessita di ronde. Da quando gruppi di tre giovani in divisa vanno avanti indietro, e di tanto in tanto fermano qualcuno che assomma trsitezza e miseria, sembra che si viva più tranqulli. Così sento dire, seduto al bar o dentro quelle due librerie rimaste. Sì, perché anche le librerie sono andate al diavolo per far posto a negozi di vestiti o, se va bene, a un supermarket del libro dove le signorine non sanno nemmeno chi ha scritto I promessi sposi senza consultare il computer!

 

 

La ronda che sta per immettersi su piazza del Duomo punta delle belle ragazze straniere. Le fanciulle rispondo di buon grando all’attacco, abbasano il ponte levatoio, sparano un sorriso e aspettano l’abbordaggio. L’avvicinamento non è discreto, fatto di buongiorno e “possiamo essere utili?”. I tre si lanciano nel dare informazioni su strade e piazze (geografiche e storiche) con una miscela di francese, inglese e siciliano che farebbe impallidire Totò e Peppino che chiedono informazioni al vigeli milanese. La ronda tentenna e tracolla alla domanda: perché un elefante al centro della piazza? Il più furbetto ci prova: perché siamo vicini all’Africa! Ma c’è il sole, le ragazze accettano tuutto e nonostante il mese di fine anno, indossano canotte colorate e tessono sguardi luminosi.
 Intanto assessori comunali, vigili urbani e affiliati entrano ed escono dai bar ridendo e scherzando, con quella soddisfazione che possiede solo chi ha risolto i problemi della città e con la precisione di ogni ora si può permettere di andare a prendere un bel caffé.
Risalgo e dopo piazza dell’Università esce trafelata da un negozio una ragazza con secchio d’acqua sporca che svuota al bordo del marciapiede.

E’ d’uso per lei, non si guarda in giro ed certamente convinta d’aver fatto opera meritevole svuotando il secchio con gabo, cioé senza schizzi. Ho notato che in altre vie, se malauguratamente davanti al negozio c’è un alberello con un metroquadrato di terra, quello ha l’onore di beccarsi il secchio d’acqua sporca.

Auto, taxi, bus, moto, biciclette percorrono via Etnea. Non ho mai capito se è zona pedonale, quale tratto e per quanto tempo. Misteri catanesi! Ho altresì la sensazione, ma di certo sbaglio, che gli autobus catanesi siano più rumorosi di ogni altra città. Se ti passano accanto: primo non senti più il tuo interlocutore, secondo resti inquinato per un’ora, perché lasciano vere e propie nuvole di smog. Non parliamo poi se ne restano in coda indiana tre o quattro. Allora sembra di essere in un film sul disastro nucleare. Ma è il salotto della città.

Un salotto che ha un orario di apertura e di chiusura. Quella dei negozi. Ho la sensazione che sia loro il potere assoluto. Eccoli in molti, pochi minuti prima della chiusura serale, lasciare a fianco dell’ingresso, scatole e scatolone ricche di scarti e rifiuti da negozio. Qualcno nella notte ritirerà tutto, ne sono certo, ma intanto…

Intanto qualche cane pensa di rovistare tra il cartone, che ne sa il poverino che non troverà cibo, ma se gli va bene un appendino da rosicare.

Mi fermo a guardarlo mentre scava con il muso. Si ferma, mi osserva con lo sguardo triste alla Rex che sembra dire: che si deve fare per campare! E poi riprende. Più giù dei ragazzi (mica tanto: tutti sui trenta!) allegri. spensierati e con la vocazione al calcio hanno deciso che è venuto il momento di prendere a calci cartoni (dei suddetti negozi) e buste per metter sù una bella partita di calcio-rifiuti in piena via Etnea. Che estro, che fantasia questi meridionali… Degni di un film di Salvatores!
A questo punto che proprio sia il caso di rientrare casa, dove non posso, non voglio, non devo avere un salotto.

http://blog.lasiciliaweb.it/wp_granbarsicilia/?p=104

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il convento di San Nicolò Minore, detto anche San Nicolella o San Nicola dei Triscini a Catania, occupa l'angolo sud-ovest dei Quattro Canti tra le vie di Sangiuliano, Etnea, Biscari, Manzoni e la piazza San Nicolella. Il suo aspetto attuale è posteriore al terremoto del Val di Noto del 1693.

Il convento apparteneva al Terzo ordine regolare francescano che ottenne licenza di edificare un convento a Catania nel 1606 nel luogo dove ora sorgono i Quattro Canti, area che, prima del terremoto del 1693 che distrusse il convento e l'intera città, portava il nome di "Piano dei Trixini".

In seguito alla ricostruzione l'Ordine tenne l'edificio fino alla soppressione delle corporazioni religiose del 1866 voluta dal governo unitario.

Adiacente al Monastero sorgeva la Chiesa di San Nicolò Minore, popolarmente detta San Nicolella, che affacciava sulla via Alessandro Manzoni (prima del 1693 via Trixini, poi divenuta dei scoppettieri) e sulla piccola piazza intitolata a San Nicolella, dove sorge il palazzo della Questura, alle spalle del palazzetto Biscari.

Demolita nel 1955, fu sostituita da un palazzo moderno a più piani. Un'epigrafe in un angolo ne ricorda il costruttore, l'imprenditore catanese Luigi Umberto Tregua, mentre il portale maggiore dell'inizio del XVIII secolo fu smontato e rimontato sul fianco della Chiesa di San Sebastiano in piazza Federico II di Svevia di fronte al castello Ursino.

 

Palazzo ex Convento di Santa Nicolella

 

Sempre all'interno dell'originario complesso conventuale sorge la piccola Chiesa del Santissimo Sacramento al Duomo (in via Biscari) dei primi del 1700, in origine sede dell'omonima arciconfraternita.

Dal 1866 l'edificio, in parte adibito dal comune a sede di uffici in parte ceduto a privati, è stato notevolmente modificato tanto che è ormai quasi impossibile individuarne l'antica destinazione d'uso, anche perché già nei primi anni del secolo XIX i padri terziari avevano dovuto cedere a privati parte del convento. Le finanze dei Regolari catanesi erano infatti in così cattivo stato che la parte dell'edificio prospettante sui quattro canti era rimasta incompleta, e il comune, preoccupato che il quarto angolo rimanesse solo sulla carta rovinando la monumentalità dell'incrocio, riuscì ad ottenere dall'ordine la cessione dell'area a privati, dietro pagamento di un affitto, i quali privati avevano l'obbligo di completare la quinta monumentale.

WIKIPEDIA

 

L’edificio che occupa l’isolato compreso fra le vie Etnea, A. di Sangiuliano, Mancini e Vasta, è conosciuto con il generico nome di “Palazzo dei Quattro Canti”; per i più informati è Palazzo Geraci.

In realtà un nome ce l’ha ma non Geraci dato che i palazzi sono due e furono costruiti a distanza di vent’anni l’uno dall’altro. Basta osservare il prospetto principale per rendersi conto della presenza di due distinte strutture, elevate in tempi diversi, aventi in comune il portone d’ingresso, l’androne e la corte. L’ala orientale, posteriore al 1830, fu edificata da Giacomo Guerrera, ricco possidente originario di Mineo; quella occidentale (lato via Etnea) da Paolo Geraci, imprenditore nell’industria della seta. La confusione nasce dal fatto che l’isolato fu acquistato da Geraci per erigervi un grandioso palazzo, rimasto incompleto per sopraggiunte difficoltà economiche. Il fallimento e il successivo frazionamento hanno disperso la memoria del primo acquisitore al quale bisogna riconoscere il merito di avere bonificato l’ultimo dei cantoni di via Etnea che, a distanza di un secolo dal terremoto, era deturpato ancora da misere case terrane.

 

Palazzo Geraci-Guerrera

Le notizie più antiche sul “tenimento” di case risalgono al 1679 e si riferiscono a una donazione a favore di Antonio Paternò Sigona, barone di Manganelli, fatta da Giacinta Amico, ava materna.

Distrutti dal terremoto del 1693, i caseggiati furono ricostruiti dallo stesso donatario, e tale rimase il tenimento nella sua consistenza di botteghe, magazzini e abitazioni terrane fino agli inizi

dell’Ottocento.

Nel 1813 il principe di Manganelli vendette l’immobile a Paolo Geraci Wrzì al prezzo netto di 4293,10 onze. A garanzia dei pagamenti rateizzati, quest’ultimo sottopose a ipoteca il luogo della Mecca, nell’area dell’ospedale Garibaldi di piazza S. Maria di Gesù, con l’opificio di seta e il giardino annesso.

Continua qui: http://www.edizionincontri.it/wp-content/uploads/2014/01/14-Miccich%C3%A8.pdf

 

Occupa l'angolo nord-ovest dei Quattro Canti tra la via Etnea e la via di Sangiuliano ed è considerato, insieme al coevo Palazzo Biscari, il maggiore esempio di architettura tardobarocca della città oltre ad essere il simbolo stesso della rinascita di Catania, non solo del dopoterremoto ma anche del più recente secondo dopoguerra; fu infatti ricostruito pietra per pietra dopo che i bombardamenti del 1943 lo avevano distrutto quasi completamente.
Il palazzo fu il primo a risorgere, dopo il terribile terremoto che nel 1693 distrusse per intero la città di Catania e tutto il Val di Noto, per volere del Barone di San Demetrio, Don Eusebio Massa che nel 1694 pose nell'androne del nuovo edificio un'epigrafe a ricordo del terremoto e come buon auspicio per il futuro:

« D.O.M. Nell'anno primo dei terremoti siciliani 1694, di nostra salute, Don Eusebio Massa; B.ne della terra di S. Gregorio e ricevitore della valle dei boschi, costrusse per primo le case recenti che vedete in questo quadrivio, primizie di Catania rinscente. Ospite, da qui trai buon auspicio e vattene illeso. »

 

 

Nel XVIII secolo la famiglia Massa, di origine genovese e ricchissima, fu tra le più importanti a Catania e molti suoi membri ricoprirono numerose cariche pubbliche, mentre il palazzo continuamente ampliato, con la costruzione tra l'altro di un teatro (uno dei pochi a Catania in quell'epoca),oggi scomparso e dove più tardi avrebbe mosso i primi passi anche Vincenzo Bellini. Notevoli cambiamenti sono stati apportati nel corso dei secoli all'edificio in particolare con la costruzione di un nuovo palazzo nel XIX secolo, prospettante sulle vie Manzoni, Prefettura e Sangiuliano, ad inglobare il precedente di cui però non fu intaccata la facciata sulla via Etnea e sull'angolo dei Quattro Canti.

 

 

Palazzo Massa di San Demetrio

Quest'ultimo prospetto fu però modificato nel corso dei lavori di livellamento del piano stradale (1870) che in quel punto fu abbassato di circa due metri provocando un notevole alteramento delle proporzioni dell'edificio con piccoli e grandi accorgimenti per riequilibrarlo col nuovo livello stradale. Così le cornici delle botteghe appaiono assolutamente incongrue e l'abbassamento del portone è stato camuffato con una finestrella cinta di goffe decorazioni baroccheggianti. Durante la Seconda guerra mondiale, Catania fu pesantemente bombardata e il 16 aprile 1943 due bombe caddero sul palazzo sventrandolo; in piedi rimasero solo i tre balconi angolari mentre circa settanta persone rifugiatesi nell'androne perirono sotto le macerie. Nel dopoguerra fu ricostruito basandosi su foto e progetti.

http://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_San_Demetrio

 

 

 

Il "Palazzo Paternò Castello, dei duchi di Càrcaci", il cui ex feudo corrisponde ad un Comune dell'attuale Città Metropolitana di Enna, poi accorpato a quello di Centuripe, è sito nell'angolo nord-est dei Quattro Canti, fra le vie Antonino di San Giuliano, piazza Manganelli, Càrcaci e Etnea.

All'interno vi è un capitello dorico chiamato "Pietra del Malconsiglio", trasferito lì da Piazza San Nicolella, dove si riunivano i congiuranti contro Don Francesco Paternò, barone di Raddusa, che era diventato Capitano d'Armi di Catania dopo la morte del Re di Spagna Ferdinando il Cattolico nel 1516.

 

 

Palazzo Carcaci

 

 

Via Sangiuliano

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2024/053.JPG

Via Lincoln negli anni 20

 

 

Un palazzo prospiciente il “chiano della Sigona” venne costruito sulla Lava Larmisi nel 1400 e aveva un solo piano, quello nobile. Non aveva fregi ed apparteneva alla famiglia Tornambene. Nel 1505 Bernardo Tornambene vendette il palazzo ai baroni di Sigona la cui ultima erede, Isabella, andò sposa nel 1655 ad Alvaro Paternò.
Il terremoto del 1693 lo distrusse quasi interamente ma i muri perimetrali resistettero al sisma.
L’attuale Palazzo Manganelli, che conserva le mura perimetrali del '400, fu costruito a partire dal 1694, su commissione di Antonio Paternò, dagli architetti Alonzo Di Benedetto e l'arco di San Benedetto) e dal suo discepolo Felice Palazzotto. Costruito come oggi si vede a meno dell'ultimo piano che fu aggiunto successivamente e a men
o di un importante dettaglio.
Il livello della città sino al 1873 era quello delle chiese di San Michele Minore e di Santa Teresa. Quando fu abbassato,
il palazzo Manganelli subì una lesione e il principe del tempo chiese all'ingegnere Ignazio Landolina, progettista del livellamento, di fare un preventivo per un piano di ristrutturazione. Furono così ricavate le botteghe della via San Giuliano e fu aggiunto l'ultimo piano.
Il nome del palazzo coincide con quello del predicato nobiliare della famiglia e si riferisce al principale apparecchio che si usava nei secolo passati per la filatura della seta. Il ramo in questione della famiglia Paternò gestiva una ricca attività in questo settore, con un centinaio di operai, e possedeva molti manganelli, che ispirarono il re Filippo IV, venuto in visita a Catania, ad abbinare ad essi il titolo di barone, con cui gratificare la famiglia.
Tra i personaggi più notevoli, Giuseppe A
lvaro Paternò (1784 – 1838) 3° Principe di Sperlinga dei Manganelli, 4° Duca del Palazzo, 10° Barone delli Manganelli e 4° Barone del Mastronotariato dal 1831; Gentiluomo di Camera del Re delle Due Sicilie, Intendente Regio a Messina, Catania, Palermo e Abruzzo Citra, che donò al Comune di Catania cinque zappe di acqua di Valcorrente, che equivalevano a 24,40 litri al secondo, e fece costruire a proprie spese un acquedotto lungo sedici chilometri e oltre otto chilometri di rete interna.

Suo figlio Antonio Alvaro (1817 -1888), 4° Principe di Sperlinga dei Manganelli sposò tre volte. La terza moglie, Angela Torresi, una donna bellissima per la quale Mario Rapisardi scrisse un'ode, fece venire da Firenze architetti per apportare modifiche al palazzo. Poiché non amava i mobili antichi, fece sostituire tutto l'arredamento. Gli affreschi e le porte dipinti da Olivio Sozzi furono ricoperti, i saloni che prima si affacciavano sulla piazza Manganelli furono trasferiti nel lato dei giardino dove prima erano gli appartamenti privati.

Tutti i mobili dei '700 andarono perduti, del secolo precedente non rimase nulla anche perché i soldati garibaldini, nonostante le assicurazioni date dal generale al principe con una lettera in cui gli diceva “rispondo della vostra vita”, avevano saccheggiato il palazzo. Nell’androne, opera di Sebastiano lttar, fu posta una statua scolpita a Firenze da Valerio Pochini nel 1894, che rappresenta la storia della famiglia.
Dopo un Giuseppe Alvaro (1842 – 1916) che fece anche costruire a sue spese dallo scultore Mario Rutelli la statua di Umberto I, il re a cavallo, come lo chiamano i catanesi, e fu presidente della Croce Rossa a Catania venne Antonio Alvaro (1879 - 1937), 6° Principe di Sperlinga dei Manganelli alla cui morte il titolo di principessa di Sperlinga e Manganelli passò all'unica figlia, Angela (1902 - 1973), mentre il titolo di duca di Palazzo ritornò alla Corona. Si estinse così la linea maschile dei Paternò di Sperlinga Manganelli. Angela secondo la legge del tempo, non avrebbe potuto ereditare il titolo paterno ma, per intercessione dei principi di Piemonte, di cui il marito era gentiluomo di Corte e lei dama di palazzo, ottenne dal re l'autorizzazione a succedere nel titolo. Angela aveva sposato nel 1927 il principe Flavio Borghese, da cui ebbe tre figli, Camillo, Marcantonio e Vittoria. Alla morte dei genitori, il primogenito Camillo ha ereditato tutti i titoli ma per rispettare un desiderio della madre e del padre rinunciò in favore del fratello Marcantonio al titolo di principe di Sperlinga e Manganelli.

http://www.palazzomanganelli.com

 

Palazzo Manganelli

Un palazzo prospiciente il “chiano della Sigona” venne costruito sulla Lava Larmisi nel 1400 e aveva un solo piano, quello nobile. Non aveva fregi ed apparteneva alla famiglia Tornambene. Nel 1505 Bernardo Tornambene vendette il palazzo ai baroni di Sigona la cui ultima erede, Isabella, andò sposa nel 1655 ad Alvaro Paternò.

Il terremoto del 1693 lo distrusse quasi interamente ma i muri perimetrali resistettero al sisma. L’attuale Palazzo Manganelli, che conserva le mura perimetrali del ‘400, fu costruito a partire dal 1694, su commissione di Antonio Paternò, dagli architetti Alonzo Di Benedetto e l’arco di San Benedetto) e dal suo discepolo Felice Palazzotto. Costruito come oggi si vede a meno dell’ultimo piano che fu aggiunto successivamente e a meno di un importante dettaglio.

Il livello della città sino al 1873 era quello delle chiese di San Michele Minore e di Santa Teresa. Quando fu abbassato, il palazzo Manganelli subì una lesione e il principe del tempo chiese all’ingegnere Ignazio Landolina, progettista del livellamento, di fare un preventivo per un piano di ristrutturazione. Furono così ricavate le botteghe della via San Giuliano e fu aggiunto l’ultimo piano.

Il nome del palazzo coincide con quello del predicato nobiliare della famiglia e si riferisce al principale apparecchio che si usava nei secolo passati per la filatura della seta. Il ramo in questione della famiglia Paternò gestiva una ricca attività in questo settore, con un centinaio di operai, e possedeva molti manganelli, che ispirarono il re Filippo IV, venuto in visita a Catania, ad abbinare ad essi il titolo di barone, con cui gratificare la famiglia.

Tra i personaggi più notevoli, Giuseppe Alvaro Paternò (1784 – 1838) 3° Principe di Sperlinga dei Manganelli, 4° Duca del Palazzo, 10° Barone delli Manganelli e 4° Barone del Mastronotariato dal 1831; Gentiluomo di Camera del Re delle Due Sicilie, Intendente Regio a Messina, Catania, Palermo e Abruzzo Citra donò al Comune di Catania cinque zappe di acqua di Valcorrente, che equivalevano a 24,40 litri al secondo, e fece costruire a proprie spese un acquedotto lungo sedici chilometri e oltre otto chilometri di rete interna.

Suo figlio Antonio Alvaro (1817 -1888), 4° Principe di Sperlinga dei Manganelli 1 sposò tre volte. La terza moglie, Angela Torresi, una donna bellissima per la quale Mario Rapisardi scrisse un’ode, fece venire da Firenze architetti per apportare modifiche al palazzo. Poiché non amava i mobili antichi fece sostituire tutto l’arredamento. Gli affreschi e le porte dipinti da Olivio Sozzi furono ricoperti, i saloni che prima si affacciavano sulla piazza Manganelli furono trasferiti nel lato dei giardino dove prima erano gli appartamenti privati.

Tutti i mobili dei ‘700 andarono perduti, del secolo precedente non rimase nulla anche perché i soldati garibaldini, nonostante le assicurazioni date dal generale al principe con una lettera in cui gli diceva “rispondo della vostra vita”, avevano saccheggiato il palazzo. Nell’androne, opera di Sebastiano lttar, fu posta una statua scolpita a Firenze da Valerio Pochini nel 1894, che rappresenta la storia della famiglia.

Dopo un Giuseppe Alvaro (1842 – 1916) che fece anche costruire a sue spese dallo scultore Mario Rutelli la statua di Umberto I, il re a cavallo, come lo chiamano i catanesi, e fu presidente della Croce Rossa a Catania venne Antonio Alvaro (1879 – 1937), 6° Principe di Sperlinga dei Manganelli alla cui morte il titolo di principessa di Sperlinga e Manganelli passò all’unica figlia, Angela (1902 – 1973), mentre il titolo di duca di Palazzo ritornò alla Corona. Si estinse così la linea maschile dei Paternò di Sperlinga Manganelli. Angela secondo la legge del tempo, non avrebbe potuto ereditare il titolo paterno ma, per intercessione dei principi di Piemonte, di cui il marito era gentiluomo di Corte e lei dama di palazzo, ottenne dal re l’autorizzazione a succedere nel titolo. Angela aveva sposato nel 1927 il principe Flavio Borghese, da cui ebbe tre figli, Camillo, Marcantonio e Vittoria. Alla morte dei genitori, il primogenito Camillo ha ereditato tutti i titoli ma per rispettare un desiderio della madre e del padre rinunciò in favore del fratello Marcantonio al titolo di principe di Sperlinga e Manganelli.

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Giardino del Palazzo Manganelli di Catania

Palazzo Manganelli è oggi un grande edificio settecentesco con un prospetto di quasi 38 metri sull’omonima piazza, uno di 66 metri sulla Via Antonino di San Giuliano, comprendendo il giardino pensile di cui si dirà ed un terzo sulla Via Recalcaccia.

 

 

 

 

 

Le due facciate principali presentano sostanziali differenze. Sulla Via di San Giuliano si aprono sette ampie luci per botteghe, realizzate dopo l’abbassamento del livello stradale, su cui insistono altrettanti piccoli balconi di un piano ammezzato. L’altezza del piano terra e dell’ammezzato corrisponde a quella del terrapieno racchiuso, da un robusto muraglione che contiene il terreno che forma il giardino pensile. Questo muraglione si svolge anche su Via S. Teresa ed in parte su Via Recalcaccia e sfrutta un segmento di quella che fu la cinta muraria cinquecentesca della città.

La medesima fascia dell’edificio è utilizzata diversamente sulla facciata prospiciente la piazza, la principale, che espone al centro un ingresso monumentale con due finestre per lato, di cui quelle inferiori di grande dimensione e monumentalità e quelle del piano ammezzato di dimensione minore ed appena contornate da semplici mostre. L’ingresso è decorato nel più puro stile barocco ed è sormontato dallo stemma della casata, costituito a destra dallo stemma dei Paternò e a sinistra da quello dei Borghese, costituito da un’aquila che sormonta un drago. Dal portone si accede, tramite un’elegante androne, opera del primo Ottocento di Sebastiano Ittar, in un cortile quadrato di circa 20 metri di lato. Nella galleria, a sinistra, su un piedistallo, la statua di Valerio Polchini, di elegante fattura. Molto elaborato il cancello in ferro battuto che consente l’accesso al cortile.

Le quattro finestre del piano terra, protette da forti grate in ferro, hanno mostre in pietra bianca di Siracusa, annerite dal tempo, sormontate da un timpano ad arco spezzato.

Oltre i piani terra e mezzanino, su entrambi i lati si colloca il piano nobile del palazzo, con cinque aperture ad ovest, e sette aperture a sud, tutte balconate singolarmente, tranne le due ad angolo, che fruiscono di un unico lungo balcone ad L a lati uguali. Anche in questo caso viene data priorità al prospetto sulla piazza, dove le aperture hanno mostre con timpani ad arco spezzato ulteriormente elaborati, mentre quelli sulla Via di San Giuliano hanno mostre con più semplici retti. Molto elaborate e tipicamente barocche le mensole di sostegno dei balconi di entrambi i lati. E’ questo piano nobile che gode della possibilità di accedere, dal lato est, al giardino pensile, collocato allo stesso livello.

Infine, solo per una parte dell’edificio, un ulteriore piano, che chiameremmo secondo, di minore altezza e ornato con semplicità, costruito, come detto, negli anni ’70 dell’Ottocento.

(Rosanna Marchese, Giambattista Condorelli – Delegazione Fai di Catania)

 

 

 

 

TURI DELL'OLIO. Turi dell’ olio si guadagna da vivere oleando le saracinesche dei negozianti di Catania, lo si può vedere ovunque quasi tutti in città sanno chi è, e tutti gli voglione bene.
 Lo si vede girare con un vecchio motorino che quasi arranca per le strette vie del centro storico e per i grandi vialoni della periferia, insdossa sempre abiti ironici con sopra il suo nome, è pieno di gadget caratteristici e quando fa il suo lavoro lo fa al meglio.
Da Wikipedia : Turi di l’ogghiu s’ammintò nu travagghiu: iddu furìa pi la citati di Catania jènnu nta tutti li nigozzii e … ci metti l’ogghiu nta li guidi di li saracineschi.
Fa nu travagghiu bonu e pulitu: havi nà spazzula cu lu manicu longu e cu chissa apprima pulizzia beddu pulitu la guida di la saracinesca e, appoi, cu n’autra spazzuledda cchiù nica, ci passa l’ogghiu.

Ogni cummircianti è cuntentu di ssu travagghiu e ci duna vulinteri quarchi sordu.

Ci fu quarcunu di sti cummiccianti ca, pi ssu sirvizziu ci desi na vota picca sordi, e iddu non ci dissi nenti, ma, di tànnu, non ci passò chiù l’ogghhiu nta la saracinesca.

Ora, ssi cummiccianti si mangiunu li manu, ca vidunu a l’àutri nigozzi isàri la saracinesca senza nuddu sforzu, mentri iddi…. 

“Turi, ci u passi l’ogghiu ?”
“Ora spirdìu, doppu passu “
ma non ci torna chiù.

Turi non jìvu a scola, ma lu sò travagghiu lu fa cu dignità e granni prufissiuni.

Si fici macari la pubblicità: nta lu muturinu ci misi na cascitedda unni teni l’attrezzi (lanna cu l’ogghiu, spazzuli, strazza) e nta ssa cascitedda ci misi la scritta pubbricitaria in talianu “ TURI DELL’OLIO”.

http://www.periodicolavoce.it/?p=249

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Palazzo della famiglia Clarenza a Catania. Dopo aver acquistato il Casale, il Clarenza non costruì alcuna dimora gentilizia, in quanto non dimorò ne vi sostò per il periodo estivo. Tutti i componenti della famiglia abitarono in un maestoso palazzo che tutt’ora esiste nei pressi di Piazza Bellini a Catania, precisamente nell’attuale via Michele Rapisardi, sul cui frontone è ancora visibile lo stemma gentilizio. Come quasi tutti i nobili, egli preferì abitare in città ove svolgeva una vita più comoda e brillante. Nessuno dei discendenti della famiglia Clarenza si curò dei Casali sparsi nei loro feudi, preferendo trascorrere la villeggiatura nel paese di San Gregorio ove edificarono una grande dimora con giardini all’interno, in cui si stabilirono definitivamente solo quando vendettero il palazzo di Catania.

 

 

 

 

 

 

 

Il cuore della movida catanese è piazza Teatro Massimo, ovvero Piazza Bellini. Nei locali della piazza e nelle vie limitrofe ogni sera, con particolare rilievo nel fine settimana e nei “mercoledì universitari”, prende forma e sostanza il nightlife alle pendici dell'Etna. Via Landolina, via Teatro Massimo, Via Pulvirenti, Via Michele Rapisardi costituiscono la rete di vie e viuzze che è palcoscenico naturale per locali, ragazzi e turisti che vogliono uscire e divertirsi. Spostandosi di poco si incontrano altre artie altrettanto attive nell'accogliere locali e avventori.

Via Vasta, Via Biscari, Via Carcaci, via Bicocca, Via Fragalà, Via Colleggiata sono tappe obbligate del tour notturno nella movida cittadina. Infine la via Alessi con annessa scalinata (da sempre chiamata Scalinata Nievski per via dell'omonimo pub cittadino aperto 25 anni anni fa) che culmina su una parte di via Crociferi, la più bella, con tanto di chiese barocche illuminate. Sipario.

 

L'Intendenza di finanza, organo periferico dell'amministrazione finanziaria, fu istituita nel 1869 con il compito di vigilare sulle entrate pubbliche e provvedere alla riscossione dei tributi e degli altri proventi, di amministrare i beni patrimoniali immobili dello Stato e tutelare i beni del demanio pubblico. A Catania, subito dopo l'unità d'Italia, ebbe sede nell'ex convento annesso alla chiesa di San Francesco d'Assisi all'Immacolata. Nel 1926 in piazza Vincenzo Bellini fu costruito il palazzo delle finanze. Nel nuovo ufficio si trasferirono, però, soltanto gli uffici principali. Un apposito reparto dell'Intendenza si occupava delle ricevitorie del lotto, e Catania era sede dell'<<archivio segreto del lotto>> ove affluivano tutte le bollette delle giocate delle province di Catania, Ragusa, Siracusa ed Enna. Nel 1991 le competenze dell'Intendenza sono state trasferite alle Direzioni regionali delle entrate.

 

 

 

 

CASA CACIA POI SCIUTO PATTI (1854-1877)

in via Landolina angolo piazza Vincenzo Bellini (a sinistra nella foto)

(Descrizione di Vincenzo Busà da "Carmelo e Salvatore Sciuto Patti, archivi di architettura tra '800 e '900" a cura di Fulvia Caffo)

 

- Il progetto, costituito da cinque elaborati relativi alla casa Cacia e del successivo progetto di ampliamento, è redatto da Carmelo Sciuto Patti a partire dal 1854.

L' insieme di questi disegni descrive, seppur frammentariamente ,il rapporto esistente tra questa "casa palazzata "e lo stesso professore che, da affittuario,ne diviene poi proprietario eseguendo un insieme di lavori al fine di trasformarla sia in abitazione che in studio.

La casa,posta nell'antico piano di Nuovaluce, oggi piazza Vincenzo Bellini, viene acquistata dal procuratore Bernardo Cacia negli anni 1843-1844,e probabilmente porzioni di aree limitrofe anche negli anni successivi, come testimonia il documento "Ragioni per la Sig.ra Maddalena Auteri Beretta contro i Signori Cacia e Consorti",Catania, 1898.

Il 27 febbraio del 1854,Carmelo Sciuto Patti esegue il rilievo dell'edificio. L' impianto planimetrico evidenziato nella "Pianta Icnografica "si estende su un lotto rettangolare che confina a nord con il piano Nuovaluce, ad ovest con la via Landolina-dove si apre l'ingresso-a sud con la casa del Sig.D.Giuseppe Zaffarana ed ad est con le case di proprietà dei Sig.ri Viola e Martinez ,e con una "stradella comune privata ".L' abitazione ,che nella sua organizzazione assume una forma ad L,si sviluppa tra la piazza e l'interno del lotto, definendo tre cortili:uno molto ampio e adiacente la via Landolina dove si trova il pozzo ,un secondo cortile più piccolo adiacente il limite meridionale della proprietà Cacia, ed un terzo, ancora più ridotto come dimensioni a conclusione della "vanella privata ".

 

 

Don Bernardo Cacia incarica il giovane ingegnere di redigere il progetto per la "ristrutturazione "del proprio edificio. I lavori si susseguono dal 1855 al 1858 ,come certificano le numerose relazioni conservate nel Fondo Sciuto Patti.

Il 29 giugno 1861,Carmelo Sciuto Patti sposa Maddalena Auteri Beretta ,nipote dell'omonima zia moglie di don Bernardo Cacia. Di certo possiamo indicare che a partire dal 1866 ,un quarto del palazzo è abitato dalla famiglia Sciuto grazie, come attestano alcune ricevute di pagamento relative all'affitto.

Il 19 giugno 1875,Maddalena Auteri Beretta, con il consenso del marito Carmelo, acquista "tutta l'area della casa palazzata "passata in eredità alla zia. L' atto d'acquisto specifica che è compresa nella vendita anche "l'area delle terrazze a cielo "e l'ultimo piano del quarto dove i compratori sono residenti. Questa vendita autorizza gli acquirenti a costruire nuovi corpi di fabbrica, altri piani superiori, a rinnovare le volte e le coperture che coprono le stanze del piano nobile, all'uso del cortile e al prolungamento della scala grande per collegarla ai nuovi piani.In cambio, e senza alcun onere per la venditrice, si chiede di ricavare una nuova cucina ed una camera da pranzo visto che allo stato attuale questi ambienti si trovano in corrispondenza della scala che andrà prolungata.

L' atto,così come indicato dalla notazione a matita del professore Sciuto Patti, si riferisce all'acquisto dell'arca dove viene costruito il terzo piano della casa.Ma i disegni in esame evidenziano che prima ancora, o contestualmente, all'intervento di sopraelevazione edilizia indicato dal rogito, il cortile maggiore, quello prospiciente la via Landolina, viene saturato dalla realizzazione di una serie di ambienti collegati al corpo scala, all'ingresso e serviti da un piccolo cortile, porzione rimasta di quello originario.

I lavori di Casa Sciuto Patti, documentati a partire dal 1876,si susseguono sino al 30 settembre 1877, quando in presenza del notaio, della zia, del marito Carmelo, Maddalena Auteri Beretta salda tutte le maestranze che hanno eseguito le opere.

In questa abitazione avrà sede anche lo studio tecnico Sciuto Patti, poi trasmesso secondo l'asse ereditario al figlio Salvatore, che prosegue la carriera del padre. -

 

 

CASA DEL MUTILATO

(Piazza Vincenzo Bellini, anno di costruzione 1933/1939,autore Ercole Fischetti)

 

La severa mole cubica della Casa del Mutilato, in stile littorio, spicca nel contesto architettonico della piazza Bellini, interposta com'è tra l'eclettico Teatro Massimo, che ne chiude la testata ovest, ed il neoclassico Palazzo delle Finanze, che ne chiude quella est.

Progettata nel 1933 dall'ingegnere Ercole Fischetti, che ne curò anche la direzione dei lavori, l'opera fu finanziata con le elargizioni di enti celebrati su una targa muraria apposta nell'arengario,per un totale di lire 750.000 ,oltre all'importo di lire 50.000 donato dal Comune, unitamente all'area di sedime della preesistente casa Ardini,attribuita al Vaccarini, residenza di villeggiatura dei duchi di Tremestieri ,della quale, in uno dei prospetti secondari, permane l'artistico ed originale portale con mascherone riutilizzato secondo quanto prescritto dalla Regia Soprintendenza in una nota del 14/03/1933.Il portale introduce nel corpo scale da cui si accede nel grande arengario a tutta altezza, perno dell'intera fabbrica, al cui piano terra si aprono perimetralmente alcuni vani,tra i quali una cappella che accoglie una raffigurazione scultorea della Pietà.

 

Nel ballatoio dell'arengario incombe una mistica atmosfera creata dalla tenue e diffusa luce, che filtra dai lucernari interposti alle travi della copertura, e che poi affievolita,illumina fino al piano terra.

All'esterno, l'elemento di maggior spicco è senz'altro l'enorme arco trionfale aggettante, al cui interno due elaborati signum, antichissimi simboli di potenza, raffiguranti i fasci littori, giganteggiano ai lati del portone principale a guisa di sentinelle, sfoggiando orgogliosamente uno stile militaresco ,nell'insieme ancor più accentuato dalla esasperata verticalità delle strette finestre e delle interposte paraste, incavate a botte, che sembrano elevarsi fino ad indicare le sei figure di combattenti che campeggiano sul portale trionfale, nell'evidenza della retorica glorificazione del regime.

L' inaugurazione risale al 23 maggio 1939,anno del completamento.

L' edificio è di proprietà privata.

(Descrizione della Soprintendenza ai beni culturali)

 

razie a Milena Palermo per Obiettivo Catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Teatro Massimo "V. Bellini", costruito su progetto dell'architetto milanese Carlo Sada, fu inaugurato nel 1890. Nei cent'anni della sua esistenza questo centro propulsore della vita musicale catanese ha visto passare sulle tavole del suo palcoscenico molti tra i maggiori musicisti dei Novecento: da Gino Marinuzzi a Vittorio Gui, da Antonio Guarnieri a Georg Solti, Lorin Maazel, Riccardo Muti, Giuseppe Sinopoli, Alain Lombard; da Toti Dal Monte alla Callas alla Caballé alla Scotto alla Freni; da Schipa a Gigli, a Corelli a Pavarotti a Pertile a Del Monaco a Di Stefano; da Galeffi a Bechi, a Gobbi, a Nucci, ed ha rappresentato in pratica tutti i capolavori del teatro musicale da Mozart a Berg, nonché opere contemporanee come, ultima in ordine di tempo, la Divara di Azio Corghi in prima esecuzione assoluta nella versione originale in lingua italiana. Il "Bellini" dispone di un'orchestra di 105 elementi, di un coro di 84 elementi, di un nutrito gruppo di tecnici di palcoscenico, di laboratori scenografici che negli ultimi anni hanno realizzato allestimenti di Ezio Frigerio, Pet Halmen, Maurizio Balò, Hugo de Ana, Luciano Ricceri, Dante Ferretti, Franca Squarciapino. 

Gli spettacoli sono stati curati da registi quali Pierre Ponnelle, Werner Herzog, Claude D'Anna, Gilbert Deflo, Giuliano Montaldo, Denis Krief. Nella sua sala di milleduecento posti, dall'acustica perfetta, si svolgono ogni anno una stagione d'opera, con sette turni d'abbonamento, ed una stagione sinfonica e da camera, con due turni d'abbonamento. Molti concerti vengono replicati in località della Sicilia ed una intensa attività promozionale viene svolta da piccoli complessi strumentali e vocali formati da elementi dell'orchestra e del coro.

Il Sada modificava pertanto lo schema progettuale venendo incontro all'esigenze finanziarie dell'Amministrazione Comunale che, nel 1880, per completare i lavori stanziava 605.000 lire ( complessivamente il costo dell'opera fu all'incirca di un milione di lire dell'epoca). I lavori stavolta procedettero abbastanza regolarmente e nell'arco di sette anni il teatro venne ultimato. Ma al momento dell'inaugurazione mancarono i contributi destinati all'impresario che doveva gestirlo. Inoltre, proprio in quel periodo sopravvenne un'epidemia di colera, che comprensibilmente distolse l'attenzione da ogni altro problema che non fosse quello della salute pubblica. In questa situazione, il Teatro , pur pronto, dovette attendere ancora tre anni per la sua apertura ufficiale. L'inaugurazione ebbe luogo il 31 maggio del 1890 con Norma, il capolavoro di Vincenzo Bellini.

Di un teatro pubblico a Catania si cominciò a parlare già nel '700, nel fervore della ricostruzione seguita al terremoto che nel 1693 aveva distrutto la città. Ma fu solo nel 1812 che venne posta la prima pietra di quello che, nelle intenzioni dei catanesi, doveva essere il "Gran Teatro Municipale" degno di una città in espansione. Ad avviare i lavori fu l'architetto Salvatore Zahra Buda in piazza Nuovaluce, di fronte al monastero di Santa Maria di Nuovaluce, proprio nell'area dell'attuale teatro. La progettazione del "Teatro Nuovaluce", grandiosa sotto tutti i punti di vista, fu concepita per dar vita a un'opera tra le più innovative d'Italia. Ma i lavori, dopo un promettente avvio, dovettero essere interrotti per mancanza di fondi, determinata dal dirottamento dei finanziamenti alla costruzione di un molo foraneo, opera, questa, ritenuta prioritaria per esigenze di difesa.

 

 

 

A distanza di anni, il Senato catanese decise di dotare la città di un teatro minore, il " Teatro Comunale Provvisorio", che venne infatti realizzato n un ex magazzino alla Marina e inaugurato nel 1822. (Questo teatro, dopo una più che dignitosa "carriera", verrà distrutto nel 1943 da un bombardamento aereo e mai più ricostruito). Finché, nel 1865, l'area venne ceduta a privati per finanziare la costruzione di un nuovo teatro. Era il 1870 quando all'architetto Andrea Scala, specializzato in costruzioni teatrali, veniva dato l'incarico di individuare un sito idoneo per il nuovo teatro. Su questa scelta si apriva un fervido dibattito: dove far sorgere l'agognato "Massimo "?

 

 

 

 Le opzioni erano diverse: piazza Stesicoro, dove ora si vede l'Anfiteatro, allora ancora celato; oppure, in alternativa, l'area della stessa piazza dove sorgeva l'ospedale San Marco; o, ancora, piazza Cutelli, largo Manganelli, via Lincoln ( l'attuale via Sangiuliano) nella zona adiacente al Teatro Sangiorgi e infine piazza Cavour, allora alla periferia della città. Quasi tutti esclusero l'area dell'Arena Pacini di piazza Nuovaluce. Alla fine, la scelta cadde su Piazza Cutelli. Ma le difficoltà finanziarie bloccarono ancora una volta l'iniziativa. Si pensò allora di ristrutturare l'arena Pacini per farne un Politeama, che servisse ad ogni tipo di rappresentazioni, anche equestri. Fra tanti ostacoli e incertezze, finalmente veniva approvato il progetto dello Scala che con l'assistenza dell'architetto Carlo Sada portava avanti i lavori, finanziati dal gruppo di azionisti della Società Anonima del Politeama. La Società poi cedette il passo al Comune per insufficenza di fondi. E una commissione comunale, che affiancava il Sada, decise allora che la struttura andava recuperata, con opportune modifiche, non come Politeama ma come Teatro lirico.

http://www.teatromassimobellini.it/storia.asp?id=22

 

 

 

GUARDA IL VIDEO DEDICATO AL TEATRO

 

 

 

 

La lunga attesa del teatro

 

Agli inizi dell' Ottocento, il molo e il teatro erano il chiodo fisso dei catanesi. Tutti ne parlavano e ne scrivevano.

Tra lamentele, frizzi e motteggi, ogni discorso toccava quel tasto e si concludeva invariabilmente con questo ritornello: Teatro e molo sono ancora per via.

Con lo stesso detto i piú spiritosi aprivano le loro missive, specialmente quelle indirizzate ai pubblici amministratori. E il Tempio cantava:

... Ccà un molu, ddà un tiatru, ma 'n prugettu, e chiu di chistu non si vidi nenti, ca lu disignu di lu so architettu nell' archetipa idea ristau a li venti!

Passato il fervore della rinascenza settecentesca, si segnò il passo in fatto di opere pubbliche, e i catanesi dovettero loro malgrado inaugurare il periodo delle lunghe o lunghissime attese che non si esaurisce col completamento del molo e del teatro, ma continua con la villa, la ferrovia, l’ospedale, la passeggiata a mare e tante altre opere la cui realizzazione si trascinerà fino agli inizi del corrente secolo.

Il teatro non poteva sfuggire a questo destino.

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 “Realizzare un’opera pubblica a Catania, realizzarla senza intralci e in tempi brevi , è stata sempre cosa ardua, se non addirittura impossibile. E ciò non tanto per le obiettive difficoltà di carattere tecnico e finanziario che spesso comporta la realizzazione di un’opera pubblica, quanto per le pervicaci interferenze dei privati, ciascuno dei quali ha sempre creduto di saperne, in tema di opere pubbliche, molto più degli altri”

Dal 1812, allorché ne furono gettate le fondazioni, al giorno della inaugurazione passarono ottant'anni, uno dopo l’altro.

 

E se vogliamo essere pedanti, il conteggio ci porta ad un risultato assai piú lungo perché, in effetti, la mancanza di un pubblico teatro era stata avvertita sin dagli inizi del Settecento: quando, non potendosi disporre di adeguate strutture, si dovette ripiegare sul piano degli Studi dove vennero allestite diverse pubbliche rappresentazioni. D' estate, naturalmente. Poi, all' incirca verso la metà del secolo, mentre i nobili si accontentavano dei concerti in casa, gli studenti prepararono una sorta di teatro nel Siculorum Gymnasium.

Ma servì soltanto a loro e non fu nemmeno sufficiente a soddisfare le esigenze dei giovani stessi. D'altra parte, l’ idea di costruire un teatro dentro la casa comunale, che ne aveva ospitato uno nel Seicento, abortì prima di nascere, per difetto non tanto di quattrini quanto di volontà.

Talché, il primo teatro coperto si dovette all' iniziativa di un privato, al principe Ignazio di Biscari.

Questo autentico mecenate riuscì a trasformare, con la collaborazione dell' architetto Francesco Battaglia, alcuni locali del suo palazzo e, nel giro di pochi mesi, il Teatro Comunale alla Marina fu un fatto compiuto.

"Trovavisi in alcuni magazzini del Principe Biscari, e propriamente nell' attuale via Dusmet, al n. 53 il palcoscenico, al n. 55 la platea del pubblico. Si vedono ancora pendenti dal tetto gli anelli di ferro ai quali si attaccavano le scene ed il sipario. La volta del proscenio mostra tracce di pittura. In una parete del magazzino adibito a palcoscenico - in alto - esiste anche una piccola porta che va negli appartamenti del Principe, il quale aveva il diritto di potere assistere alla rappresentazione. Gli affittuari ricordano che il loro padre raccontava che in alto del proscenio, nel centro, v' era un grande stemma dei Borboni".

 

Si giunge così agli inizi dell' Ottocento.

L' idea di costruire un pubblico teatro era nel frattempo maturata nella coscienza degli amministratori catanesi, e nel 1812, su progetto dell' architetto maltese Zhara-Buda, furono avviati lavori per la costruzione del Gran Teatro Nuovaluce da elevarsi sulla piazza omonima, lato di

ponente (attuale piazza Bellini). Purtroppo, quel seme non era destinato a fruttificare. Anzi, non germinò neppure. I lavori furono sospesi prima di cominciare e i fondi stornati nella costruzione del Molo.

Sei anni dopo, il 25 novembre 1818,' "vista l’ impossibilità di affrontare la spesa per il grandioso teatro, e conoscendo ad evidenza quanto sia difetto sensibilissimo quello di avere un teatro solo in progetto ...- il Comune deliberò 800 onze per costruirne uno in legno".

Nel quartiere del Vecchio Bastione, alla Marina, nasceva così il futuro teatro Coppola che sarà distrutto dai bombardamenti aerei nel 1943, dopo 125 anni di vita. In prosieguo, essendosi trovate le somme necessarie, viene riaperto il cantiere di piazza Nuovaluce, e la fabbrica comincia gradualmente a crescere. Tanto che nel 1841, il Carcaci può scrivere: "Onde restasse eternamente impresso nella mente dei catanesi il nome dell' attuale regina che nel 1838 qui si intrattenne tre giorni... il Teatro di piazza Nuovaluce ad ovest, dall’ anno scorso si nomina Teatro Maria Teresa. Non vi ha compì to che le mura esterne e due ordini del prospetto. L' idea del disegno fu così grandiosa che dopo trent' anni e piú, da che vi si diede principio, non è potuta recarsi a compimento..." .

Il disegno di cui parla il Carcaci non era quello originario, era un altro.

Infatti, nel 1833 - disatteso il progetto dell' architetto Zhara Buda - il Comune incaricò tre architetti catanesi (Musumeci, Ittar, Lanzerotti) di redigere ciascuno un suo progetto per il gran teatro di piazza Nuovaluce. Si sarebbe scelto il migliore.

E poiché dopo sei anni, nessuno dei detti professionisti aveva tracciato una linea, malgrado varie volte sollecitati, il Comune si rivolse all' architetto Carimazzi di Bergamo. Fu una mossa che generò soltanto polemiche.

Di fatto, nulla si concluse, all' infuori dell' allestimento di un baraccone di legno, impiantato sulle precedenti strutture murarie, chiamato Politeama Nuovaluce e poi Arena Pacini (da non confondere con l’ Arena Pacini che sorgerà in seguito nei pressi di via Tevere, attuale largo Paisiello).

Per una quarantina d' anni, Catania non ebbe che due baracconi di legno per teatro: il Coppola e il Pacini.

La questione di un teatro vero e proprio o, quanto meno, di un politeama capace di ospitare anche spettacoli equensi venne ripresa nel 1873 allorché "una società di gentiluomini catanesi domandò al Comune la concessione dell' Arena Pacini per costruirvi un edifizio piú decoroso e solido".

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/MASTRO1.GIF

Le sequenze del teatro sono state girate al Teatro Massimo Bellini di Catania, mentre quelle del furto della banana a Letojanni (Messina), dove tuttora si possono trovare la bottega dell’ortolano, del barbiere ed il bar. L'autogrill dove viene ucciso Johnny è quello di Roccalumera Est.

 

 

SANTA MARIA DI NOVALUCE (1414)

 

La chiesa e il convento vennero costruiti nel 1414 dai Certosini, dai padri Cassinesi di S. Agata, dai padri Teresiani e dai padri Riformati degli eremiti scalzi di S. Agostino.

Sulla sua ubicazione si hanno notizie contrastanti. Per alcuni sorsero vicino la chiesa di S. Agostino, per altri vicino la chiesa di S. Maria dell'Elemosina alla Collegiata. Lo storico Guglielmo Policastro asserì che si trovava dove oggi è ubicato il palazzo di S. Giuliano.

Dopo il terremoto del 1693 venne ricostruito fuori le mura della città, tra la odierna piazza Bellini e via Teatro Massimo. Grande splendore e notorietà ebbe la chiesa e il convento quando ospitò dal 1804 al 1826 l'Ordine sovrano militare di Malta .

Nel 1866 il convento passava al demanio dello Stato. Dopo il 1870 veniva aperto l'Ufficio Tecnico Erariale. Invece la chiesa, che era stata già chiusa al culto, veniva demolita nel 1925. Al suo posto sorgeva il palazzo dell'Intendenza di Finanza.

 

Via Teatro Massimo, dove una volta esisteva il convento

 

Della redazione del progetto fu incaricato il celebre Andrea Scala di Milano che, eseguito il disegno, inviò sul posto, per la realizzazione dell' opera, I' architetto Carlo Sada, suo valente collaboratore.

Quando tutto sembrava procedere per il verso giusto, e il nuovo Politeama si preannunciava come uno dei piú grandiosi fin allora progettati, finirono i soldi. Non restava che licenziare le maestranze, chiudere il cantiere, offrire il manufatto al Comune perché lo portasse a compimento. Il Comune accettò l'offerta e rilevò il cantiere per 230 mila lire.

Da quel momento una tempesta di polemiche si abbatté su quanti, per un motivo o per un altro, ebbero da fare col Teatro.

Dicevamo all' inizio che a Catania la realizzazione di un' opera pubblica di un certo impegno è stata preceduta sempre da una lunga attesa, e sempre accompagnata da polemiche. Le polemiche non sono mancate mai: nate spesso dalla presunta furbizia di alcuni, sono servite solo a far perdere tempo e a gettare discredito sugli stessi catanesi, come s' è visto.

Poteva sfuggire alla regola il Teatro? Nemmeno a pensarci. Questa volta la polemica si presenta come un' idra dalle sette teste: velenosa, composita, sconcertante.

Il Teatro lo vogliono tutti. Ma ognuno lo vuole a modo suo, ognuno ha una propria idea da far prevalere, qualcosa da proporre in alternativa ai deliberati comunali.

- Il Comune, rilevando il Politeama, ha salvato dal fallimento una società privata. Dunque, ha fatto solamente gli interessi di alcuni privati cittadini.

- Il Comune, rilevando il Politeama, ha guardato soltanto ai propri interessi. E anzi, ha approfittato dell' occasione per strozzare alcuni privati cittadini in difficoltà.

- Il Comune deve costruire un teatro, anche modesto ma subito.

- Il Comune deve costruire un gran teatro, il piú grande possibile, anche a costo di rinviarne la realizzazione.

- Con degli ottimi professionisti residenti a Catania, il Comune va a possiede l’ Opera d' oggi, Vienna lo stesso, quello di Palermo è ancora in costruzione e chi sa quando sarà terminato, perché sebbene Palermo sia una grande città, pure le sue risorse non le permettevano di fare un passo molto piú lungo della gamba. In quanto a quelli che si contenterebbero dell' intonacata alla meglio, crediamo che convenga di piú, tanto per non perdere il frutto del capitale, affittarlo come magazzino, e continuare a contentarsi del cassone della Marina...".

A questo punto, prendendo posizione a favore della strada di mezzo, il Comune avvia trattative con l’ architetto Scala per la realizzazione di un decoroso teatro massimo. Fra Catania e Milano s' intreccia una fitta corrispondenza. Alla fine si giunge ad un accordo e Scala propone il Sada come l’ uomo piú adatto a realizzare l’ opera. Sada è il suo piú valente collaboratore, è stato a Catania, conosce la questione, ha diretto i lavori del Politeama. Ora si tratta di elaborare un progetto di trasformazione che tenga conto delle vecchie strutture, risparmiando ciò che risulti compatibile col decoro e la funzione del costruendo teatro, demolendo ciò che non sia possibile utilizzare, aggiungendo quant' altro occorra per la migliore riuscita dell' opera.

Chi meglio del Sada può far tutto questo? Non la pensano così un gruppo di catanesi.

E mentre sui banchi dei consiglieri comunali piovono proposte, suggerimenti, lagnanze, esortazioni, si dà la stura ad una campagna di stampa acida e pungente. Stralciamo da un opuscolo fra i tanti stampati in quell' occasione. "...Si osservi per un istante la consorella Palermo. Qual differenza di concetto non vi scopriamo coi nostri? Come si tende in quella nobile città al grandioso, al monumentale, alla bellezza? Il Teatro Massimo di quel paese sarà il piú completo di quelli che attualmente sono o si costruiscono nella nostra Italia. Che cosa intende fare, invece, il Municipio di Catania?...

Facendo plauso all' egregio Scala per altre sue opere, diciamo ora il fatto nostro e come l’intendiamo. Noi siamo per un teatro da costruirsi di sana pianta, grandioso, monumentale... e se i mezzi pecuniari presenti al Municipio non lo permettono, lasciamo dormire il tutto in tale arnese,

per isvegliarlo quando la cassa ribocca di numerario, alfin di vestirlo e nutrirlo convenientemente...".

Si analizzano faziosamente i vari aspetti del problema, si giudica con avventatezza, si condanna con preconcetta determinazione.

Dimenticando che quel sito era stato scelto un secolo prima, si scrive: "La figura planimetrica del costruendo teatro è irregolare. Il suo fronte è a levante, e prospetta sul largo Nuovaluce; i laterali fronteggiano su due stradelle. Una delle quali, quella a nord, denominata vico del Segreto (attuale via Perrotta) larga mt. 5,70 in circa, incomincia col sudetto largo e sbocca sulla strada dei Morti  (attuale via S.Orsola); quella a sud, invece, denominata vico della Birreria è strettissima e per male maggiore non confina con tutto il prospetto...".

Malgrado questi (e altri) tentativi diretti a boicottare l’ iniziativa del Municipio, il 18 maggio del 1880 Carlo Sada giunge a Catania con la sua brava Relazione del progetto di completamento del Teatro Nuovaluce.

 

 

In essa il valente architetto illustra i criteri che dovranno presiedere alla costruzione del Teatro Massimo Bellini, ne analizza, con ricchezza di dettaglio, gli aspetti strutturali, architettonici, decorativi, prevedendo l’ ampiezza della sala e del palcoscenico, l’ articolazione dei palchi e dei

orridoi, la dimensione del ridotto e del vestibolo, le prese d' aria, l’ acustica, l’ illuminazione, l’arredamento e così via.

Il suo progetto, naturalmente, tiene conto della lezione e della esperienza "dell' esimio cav. Scala che ebbe la bella fortuna di costruire sino ad oggi 14 teatri" ed è tale da offrire "non uno spettacolbso monumento e nemmeno un qualche meschino fabbricato, ma un' opera dignitosa, informata alle esigenze attuali e future del paese, da completarsi con lusso decorativo sia dall'esterno che dall’ interno". Infine, una prospettiva confortante: la spesa complessiva sarà contenuta entro limiti tollerabili e "l’ opera pel bisogno di Catania ben poco lascerà a desiderare, tanto piú pensando al famoso detto d' un esimio professore d' estetica secondo cui senza gusto e senza economia può architettare chicchessia".

 

 

Non parvero. Due mesi dopo cominciano i lavori. Durano dieci anni, e il Sada, trapiantatosi con la famiglia a Catania, ha tutto il tempo per dimostrare il suo talento, l’ amore per la Città, la nobiltà del suo sentire.

Ma tutte queste cose insieme non bastano a far tacere le male lingue. E mentre i pubblici amministratori gli accordano fiducia affidandogli la direzione dell' opera nel suo complesso (decorazione, pittura e arredamento compresi), mentre alcuni privati lo incaricano di progettare case, scuole, ville, dentro e fuori Catania, altri lo pongono al centro d'una assurda e ingenerosa polemica.

Gli attacchi sono orientati su diversi fronti. Reclami in Consiglio Comunale contro "gli sconvenienti portici" agli imbocchi delle vie che fiancheggiano il Teatro (9); proteste contro la ventilata espropriazione di alcune casupole contigue alla fabbrica; censure sul tipo di illuminazione; critiche sul modo di condurre i lavori; riserve sulla qualità del materiale,e così di seguito.

Il valente professionista, assillato da rapporti, reclami, lettere e memoriali che si abbattono quotidianamente sul suo tavolo, distratto dalle beghe che gli rovesciano addosso gli appaltatori, è costretto spesso a lasciare il lavoro per provvedere alla propria difesa. E nondimeno tiene testa a questa guerra a oltranza, durante la quale gli si fa carico di tutto. Di aver preferito il gas alla luce elettrica (era di pubblico dominio che il Comune, legato alla Società Belga del Gas con un contratto a lunga scadenza, non aveva altra scelta), di aver chiamato artisti mediocri per decorare gli interni, d' aver impiegato porporina di ottone invece di oro zecchino nel quadro centrale della volta, e persino d' essere responsabile della morte d'. un ragazzo entrato di soppiatto nel cantiere e rimasto vittima d' una disgrazia (gli cadde sulla testa una secchia piena di calce).

Dài e dài, il Comune è costretto a nominare una commissione di esperti per indagare sui lavori e, in particolare, sulle decorazioni interne che - secondo quanto aveva scritto qualcuno - "facevano ridere anche i paperi di Villa Pacini".

I docenti universitari, membri di questa commisssione, indagarono e, avendo riscontrato ogni cosa ben fatta, assolsero con formula piena il Sada. L' esito del processo non valse a nulla; anzi indispettì gli avversari del Sada i quali insistettero con pervicace ostinazione nei loro attacchi.

Ecco un esempio fra i piú illuminanti: "...Respingo l’ accusa d' aver calunniato il Sada... e non ostante che la stampa siasi dichiarata a me ostile e ripugnante ad accogliere le mie ragioni, procurerò di fare ricredere i giornali di buona fede e ridurre al silenzio i venduti. Oggi o domani, una classe di cittadini che comincia a comprendere di aver doveri e diritti domanderà se era lecito all' Amministrazione Comunale addossarsi enormi debiti, che dovranno essere pagati con le contribuzioni di tutti, per realizzare opere di lusso, destinate al godimento di una classe privilegiata, quando c' era bisogno di altre opere di utilità economica...".

Tutto considerato, non sappiamo se il Sada, in cuor suo, abbia maledetto il momento in cui decise di accettare l’ incarico di progettare e costruire il Teatro Massimo di Catania. Osiamo sperare di no.

Alla fine, seppure in mezzo alla tempesta, egli riuscì a condurre in porto la sua barca: il Teatro, bello e luccicante come una bomboniera, fu inaugurato il 31 maggio 1890. Dopo la lunga attesa, i catanesi lo applaudirono. Ma ci fu anche chi si compiacque di definirlo "un vaso di porcellana con gli orli di terracotta, ospitante un mazzo di cipolle".

Quel vaso di porcellana con gli orli di terracotta era costato al Comune 975 mila lire. Al Sada, dieci anni di amarezze, piú il prezzo del biglietto, acquistato la sera dell' inaugurazione

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 da  “I catanesi com’erano” di Lucio Sciacca - Vito Cavallotto Editore Anno 1975

 

 

 

Teatro Bellini. Alla ricerca dell'equilibrio tra innovazione e tradizione.

(Prof. Ing. Umberto Rodonò)

 

Nel maggio del 1890 si inaugurava a Catania il teatro d'opera di città, ponendo così fine a una lunga e tormentata querelle che aveva coinvolto l'intera popolazione. Già dal primo decennio dell'Ottocento si era avvertita la necessità di un teatro pubblico; negli anni successivi, poi, l'ascesa borghese aveva ulteriormente incrementato le aspettative cittadine tanto che l'amministrazione aveva deciso di ampliare il teatro intitolato alla Regina Maria Teresa, detto anche Nuovaluce, per il nome della piazza in cui sorgeva.

A quel tempo non si era ancora deciso se intervenire sulla struttura esistente per realizzare un politeama all'aperto (destinato prevalentemente a spettacoli circensi) riservando un'altra area cittadina al teatro d'opera, oppure optare per una soluzione che fungesse al tempo stesso da politeama e teatro, capace quindi di funzionare all'aperto e al chiuso, in estate e in inverno.

Dal 1812 al 1870 la questione venne affrontata dai tecnici più rinomati della città (Zahra Buda, Di Stefano, Stefano Ittar) e da critici di "alto livello" (Musumeci, Leone Savoia, G. B. Filippo Basile); furono così proposti diversi progetti e formulate svariate congetture, senza però approdare a nessuna soluzione definitiva. Si pensò così di chiamare progettisti esterni (il Bergamasco ingegnere Cominazzi, l'ingegnere Queureu e lo "specialista in teatri" Andrea Scala, da Udine), nella speranza di sbloccare la situazione di impasse che si era venuta a creare. Soltanto nel 1873 si ebbe una effettiva svolta, anche in seguito all'istituzione di una Società Anonima per l'edificazione del Politeama che affidò ad Andrea Scala il progetto per un teatro all'aperto dotato di una copertura mobile in ferro e vetro, utilizzabile quindi per diversi tipi di spettacolo e caratterizzato da un sistema misto di gradoni (ad anfiteatro) e palchi . Per seguire i lavori del teatro ed elaborare i disegni Scala mandò a Catania un suo giovane e promettente collaboratore, Carlo Sada, il quale, dal 1876 (data in cui venne sciolta la "Società del Politeama"), rimase unico responsabile del progetto, insieme all'ingegnere capo del comune, Apostolo Zeno.

I problemi con cui Sada dovette confrontarsi furono numerosi e di diversa natura: intanto fu costretto a fare i conti con le strutture esistenti e a occuparsi delle connesse tematiche di carattere teorico, tipologico, tecnologico: poi, in seguito alla sopravvenuta decisione di abbandonare l'idea del politeama a favore di quella di teatro lirico, fu obbligato a modificare il progetto e a ridisegnare l'impianto della sala. Soprattutto egli dovette misurarsi con un forte vincolo di carattere economico, legato alla ridotta disponibilità delle casse comunali. E tutt'oggi sorprendente il modo in cui Sada si impegnò per superare le difficoltà occorse, assumendo il parametro economico come fattore guida del processo, controllando di continuo il progetto e la produzione, adeguando gli elementi di fabbrica e i procedimenti costruttivi alle rinnovate esigenze. A tale riguardo, cospicuo è il numero di tavole per la definizione della soluzione finale di copertura elaborate nel corso dei lavori per la realizzazione del politeama: l'impennata del prezzo del ferro aveva fatto rinunciare alla copertura mobile in favore di una tradizionale con capriate lignee e "comuni" tegole locali, suc-cessivamente completata con un controsoffitto avente funzione di cassa armonica.

 

Nei confronti dell'aspetto tecnologico Sada dimostrò un coinvolgimento connotato da scrupolosità e "modernità" da questo atteggiamento scaturirono la meticolosa applicazione delle scoperte scientifiche nel campo della fisica e il continuo confronto con autorevoli progetti nazionali e internazionali: dal Carlo Felice di Genova all'Opera di Parigi. Degno di nota in tal senso è l'ingegnoso sistema con il quale venne connessa la climatizzazione degli ambienti all'illuminazione artificiale, incanalando i prodotti della combustione del gas illuminante lungo condotti collegati a camini che, sfruttando i moti convettivi, conducevano l'area da espellere fuori dall'edificio. Le stesse canne-camino fungevano da tiraggio per l'aria viziata degli ambienti, mentre una rete di cunicoli posti sotto i pavimenti dei palchi e della platea distribuiva l'area esterna rinfrescata per mezzo di acqua nebulizzata. Grande attenzione fu rivolta anche ai problemi di acustica: oltre al ridimensionamento della sala, Sada scelse di rinunciare ai piani .sottoscena - che avrebbero assorbito il suono all'origine - realizzando la volta "a cucchiaio", che rifrange il suono diffondendolo fino agli ultimi posti, e utilizzò la risonanza della camera di refrigerazione dell'aria posta sotto il golfo mistico.

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da Architettura tra cronaca e storia- n. 581/marzo 2004

 

 

 

 

BREVE STORIA DELLA STATUA BRONZEA DI VINCENZO BELLINI

 È collocata al centro del sontuoso foyer del Teatro Massimo Bellini di Catania una scultura raffigurante il maestro compositore catanese di fama internazionale ma non fu così sin dall'origine della costruzione del Teatro.

Il teatro dopo anni di vicissitudini per la sua edificazione, fu inaugurato la sera del 31 maggio 1890 ma seppur fosse stato intitolato a Vincenzo Bellini ,al suo interno non era presente una sua scultura.

Bellini era nato a Catania il 3 novembre 1801 e morto in Francia il 23 settembre 1835 e le sue spoglie fecero ritorno in patria nel 1876 ,per dar lustro al concittadino gli si intitolo' la villa pubblica e il teatro ma si pensò solo agli inizi del Novecento a realizzare monumenti celebrativi come ad esempio in piazza Stesicoro con la maestosa scultura realizzata da Monteverde.

Solo intorno al 1920 si pensò ad una scultura per il teatro e il Comune pubblico' un bando di concorso per l'affidamento dell'opera da realizzare e da sistemare nell'immenso foyer del Teatro.

Il concorso fu vinto da un giovane scultore catanese Salvo Giordano che realizzò un'opera interamente in bronzo e di grandi proporzioni tanto da superare l'altezza umana. Impiegò parecchi anni per realizzarla e quando la magnifica opera fu pronta nel 1931 non fu subito collocata nel luogo prescelto ma restò accantonata per vent'anni fino a quando non fu sistemata tra le colonne nel 1951 in previsione delle celebrazioni del 120 * anniversario della morte del maestro (1955)

La scultura poggia su una base quadrata di marmo ed è alta circa 3 metri e raffigura Vincenzo Bellini in piedi ,a braccia conserte con lo sguardo verso l'ingresso del lussuoso foyer come se stesse accogliendo i numerosi ospiti spettatori. Infine è doveroso ricordare che alcune scene del famosissimo film "Johnny Stecchino "di Roberto Benigni furono girate al teatro Bellini di Catania nonostante la trama fosse ambientata a Palermo, semplicemente perché il teatro Massimo di Palermo all'epoca non era disponibile

Milena Palermo

 

 

 

Bellini, Vincenzo. - (Catania 1801 - Puteaux, Parigi, 1835).

Figlio d'un organista e maestro di cembalo, fu avviato dal padre allo studio della musica: a sette anni già componeva, tra l'altro, un Tantum ergo e un Salve Regina. Diciottenne, si recò a Napoli ove completò in tre anni i suoi studi con G. Furno, C. Conti, G. Tritto e N. Zingarelli. Appartengono a questo periodo sei sinfonie (all'italiana, ossia in un solo tempo), due messe, una cantata e varie romanze. Nel 1825, al teatrino del conservatorio di S. Sebastiano, il B. diede la sua prima opera, Adelson e Salvini, e nel 1826, al S. Carlo, la seconda, Bianca e Fernando. Nel 1827 un nuovo lavoro, commissionatogli dall'impresario Barbaia per la Scala di Milano, Il Pirata (su testo di F. Romani, che gli divenne fraterno amico e collaboratore), suscitò entusiasmo negli ambienti milanesi. Nel 1828 si riprese a Genova Bianca e Fernando (rielaborata) e anche questa ottenne grande plauso, come poi (1829) una nuova opera, su testo del Romani, La Straniera, al teatro alla Scala. Cominciarono per lui gli onori, ma anche le invidie e le calunnie. Disgraziatamente egli stesso sembrò giustificarle, dando (1829 a Parma) una affrettata Zaira (testo del Romani), condannata dal pubblico.

La rivincita venne subito con I Capuleti e i Montecchi (Venezia, 1830), e soprattutto con La Sonnambula rappresentata nel 1831 al Carcano di Milano con esito trionfale. Un insuccesso invece ebbe la Norma (sempre su testo del Romani, composta e rappresentata nel 1831 alla scala), ma l'opera fu poi accolta con entusiasmo a Milano stessa, a Bergamo, ecc. Seguì (1833) alla Fenice di Venezia, con scarso successo, la Beatrice di Tenda. Nel 1833 il B. fu invitato a dirigere sue opere a Londra e a Parigi. A Londra trionfò la Norma; a Parigi (1834), le sue opere furono applauditissime e il B. vi godé un breve momento di felicità: l'amore di Maria Malibran, l'amicizia e la stima dei maggiori artisti e poeti (tra i quali G. Rossini e H. Heine). A Puteaux (1834), con meditata lentezza compose i Puritani, su libretto di C. Pepoli, rappresentata al Théâtre italien di Parigi nel 1835, con esito trionfale. Otto mesi dopo B. moriva. Arte più lirica che drammatica, quella del B., dalla linea melodica pura e limpida, spoglia di estrinseche complessità, dove le armonie, i contrappunti e gli effetti strumentali hanno valore soltanto in funzione del canto.

 

 

DALLA NORMA MUSICALE ALLA NORMA GASTRONOMICA. LA MAGNIFICIENZA,

ATTRAVERSO UN CELEBRE PRANZO,  IL PASSO FU BREVE.

 

 

 

https://www.accademiavincenzobellini.com/

http://www.istitutobellini.it/

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"SCRIGNI" della Musica: il Teatro "Sangiorgi" di Catania.

Agli albori del XX secolo, Catania era una città bella e moderna. Grazie alla politica del Prosindaco De Felice e degli amministratori dell’epoca, si era addirittura pensato di renderla una città turistica “di svernamento”, al pari di altre città europee che godevano dello stesso clima mite e di simili tradizioni storico-artistiche. Anche Catania, dunque, visse la propria “Belle époque". La temperie culturale che la città attraversava in quel momento era estremamente ricca e variegata: dalle opere letterarie immortali del grande Giovanni Verga (1840-1922), che giganteggiava su tutti, all’aulica poesia di Mario Rapisardi (1844-1912); dall’arte incisoria e pittorica di Francesco Di Bartolo (1826-1913) e di Calcedonio Reina (1842-1911), al fermento musicale “belliniano”, che tese a trasformare in Museo la casa natale del Musicista. Nella città, bella anche a vedersi per le opere pubbliche volute e realizzate in quell’epoca dorata, spiccava, fra l’altro il “nuovo” Teatro Massimo “Vincenzo Bellini”, splendido e ricchissimo, inaugurato nel 1890, progettato dall’architetto Carlo Sada (1849-1924) ed affrescato dai più abili pennelli dell’epoca, non ultimo Giuseppe Sciuti (1834-1911), autore anche del magnifico sipario, ancor oggi in uso, raffigurante l’immaginaria, storica vittoria dei Catanesi sui Libici.

Insomma, a Catania, in quell’epoca fortunata, che precedeva momenti storici ed economici purtroppo assai bui, la Cultura era in fermento. Le sollecitazioni del nuovo secolo facevano crescere nei suoi abitanti e nei turisti anche il desiderio di svago ed intrattenimento. Accadde proprio in tale temperie storico-culturale che Mario Sangiorgi, ex idraulico passato all’attività imprenditoriale (dapprima fabbricò cappelli, poi specchi, quindi testate di letti in ferro, più avanti avrebbe riprodotto e diffuso il modello della sedia thonet, costruendola in patria sull’originale austriaco) pensò di creare una struttura che oggi definiremmo “multimediale”, quale aveva visto in un suo viaggio a Parigi. Nella propria intraprendenza imprenditoriale, quindi, la struttura era autenticamente avveniristica nella sua concezione.

 Nacquero, così i cosiddetti “Esercizi Sangiorgi”. L’impresa era titanica, ma le risorse del cavaliere lo erano altrettanto: l’idea fu realizzata materialmente senza problemi di sorta, seguendo lo stile della moderna architettura, il Liberty; il progetto fu dell’ing. Salvatore Giuffrida, gli stucchi e le decorazioni del pittore napoletano Salvatore Di Gregorio. Nelle intenzioni, pienamente realizzate, del cav. Sangiorgi, la nuova struttura degli “Esercizi” comprendeva innanzitutto un teatro all’aperto, dove si rappresentavano opere, operette e spettacoli di prosa. A cavallo fra Ottocento e Novecento, Catania, oltre al suddetto Teatro Massimo “Bellini”, disponeva di ben altre dieci sale teatrali, nelle quali la faceva da padrone il teatro dialettale di tradizione, del commediografo catanese Nino Martoglio (1870-1921) soprattutto, con gli interpreti Giovanni Grasso, Angelo Musco, Rosina Anselmi in grande attività, ma dove venivano ospitati non di rado attori del calibro di Eleonora Duse o di Leopoldo Fregoli; persino Sarah Bernhardt approdò in quel periodo a Catania.

 Il Teatro Sangiorgi divenne allora, immediatamente, sala scelta e frequentatissima dalle migliori compagnie teatrali. Il Teatro degli “Esercizi Sangiorgi” fu inaugurato il 7 luglio del 1900, con la Bohème di Puccini, diretta dal M°. Filippo Tarallo, primadonna il soprano Bice Adami. Era, come sopra accennato, all’aperto, ma sarebbe stato ricoperto nel 1907 e poi ristrutturato nel 1938. Ma la struttura degli “Esercizi” non si fermava al teatro, con annessi e connessi: comprendeva anche un salone interno di caffè concerto, un ristorante, una sala da pattinaggio, vari spazi di ritrovo e di ristorazione e, non ultimo, un albergo. Gli “Esercizi Sangiorgi” erano stati realizzati in pieno centro della città ed anche per questo divennero polo di attrazione per i catanesi; ma non solo per coloro che desideravano svaghi arditi per l’epoca: anche per signore e signorine, come si specificava nella pubblicità, che potevano frequentarlo serenamente, dato l’ambiente serio e controllato e, addirittura, per famiglie, in vena di sorbire un gelato guardando un gradevole spettacolo o, magari di fare una pattinata. Il Sangiorgi (chiamato così dai catanesi, nel suo complesso) divenne, quindi, meta di svago e punto di ritrovo privilegiato. A volte, si poteva fruire di qualche sorpresa, come un importante avvenimento sportivo o addirittura una proiezione cinematografica. Il Cinema arrivò al Sangiorgi nell’autunno del 1900, con la proiezione di “Quadri dell’esposizione di Parigi”, ben dieci anni prima che a Catania si inaugurasse l’”Eliseo”, il primo cinema cittadino.

Natalia Di Bartolo

http://www.teatro.org/rubriche/prosa/scrigni_della_musica_il_teatro_sangiorgi_di_catania_i_8878

 

 

 

 

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