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IL FASCISMO A CATANIA
Mussolini a Catania - 12
agosto 1937
In Sicilia il fascismo era arrivato tardi ma s' era radicato in
fretta: almeno così sembrava a giudicare dai voti - fino a quando si
era votato- e dalle manifestazioni ufficiali. Ma negli anni Trenta
ogni residua aspettativa si era ormai esaurita. L' isola restava
intimamente estranea allo Stato totalitario, diversa, impermeabile
ai proclami e alle pretese di riforma morale avanzate dal regime. La
campagna contro la mafia non aveva convertito la Sicilia a quella
che Salvatore Lupo definisce «l' utopia totalitaria del fascismo»,
la disillusione reciproca era palese. Ma nel 1936, con la conquista
dell' Etiopia e la nascita dell' anacronistico impero italiano, gli
equilibri cambiano.


E anche la geografia. La Sicilia non è più la
remota periferia di un centro lontano, viene promossa «isola
imperiale» e nodo strategico, ponte fra l' Italia e il nascente
impero. Il suo ruolo appare centrale, importante. è necessario
rifondarne il rapporto col fascismo, urge una simbolica rinascita.
Le grandi manovre delle forze armate sono l' occasione giusta e in
Sicilia, nell' agosto del ' 37, ci sono il Re e il principe Umberto.
Ma soprattutto, mai più tornato dal lontano 1924, arriva Benito
Mussolini.
(segue dalla prima di cronaca) La visita del Duce è minuziosamente
preparata, l' isola si para a festa. Per quanto possibile, il regime
ammette che qualcosa nei suoi rapporti coi siciliani non è andato
per il verso giusto: anche a lasciar perdere i resoconti degli
informatori su una Sicilia che si sente oppressa, pronta a
insorgere, a seguire la bandiera del separatismo. La nascita dell'
impero fa passare in secondo piano i malcontenti, tutto cambia di
scala e una rivista chiamata "Problemi siciliani" viene ribattezzata
"Problemi mediterranei", per meglio riflettere la composita realtà
di un grande Paese con un impero in fieri. Ma non sempre i «problemi
siciliani» riescono a camuffarsi, magari solo a cambiare nome o
diluirsi in un orizzonte più vasto. Una volta che l' isola viene
osservata e valutata nella sua nuova funzione strategica, è evidente
come il regime abbia risolto ben poco. A fine giugno c' è un
convegno sui «problemi agricoli», i bisogni derivanti dall'
autarchia premono perché vengano affrontate improduttività secolari
e il latifondo semb ra avere le ore contate. Si parla di tariffe, di
agevolazioni ferroviarie «per eliminare la concorrenza
automobilistica», di rendere più veloci i trasporti marittimi
utilizzando piroscafi «con stive munite di apparecchi refrigeranti».
Insomma, per quanto le relazioni finiscano con l' augurio a
valorizzare tutte le risorse nazionali «così come il duce vuole»,
gli agronomi riuniti a Palermo sono più moderni di quanto non ci si
aspetterebbe, persino ecologisti. Ma questi restano discorsi per
addetti ai lavori, con nessuna ricaduta. Molto più d' impatto sono
gli scritti del più popolare fra i giornalisti del regime, Virginio Gayda, che in attesa della visita del duce sottopone l' isola a «un
nuovo esame nazionale». I lettori del "Giornale d' Italia" sono i
destinatari delle sue illuminanti impressioni, poi raccolte in
volume con l' inevitabile titolo "Problemi siciliani". Gayda ha le
idee chiare su un sacco di cose, a cominciare dalle essenziali: l'
isola è un mercato per i prodotti italiani, il guaio è che mancano
le strade e l' acqua. Ogni tanto gli scappa l' aggettivo
«primitivo», più che altro la Sicilia sembra una terra prodigiosa.
Nella prima delle sue corrispondenze tutta l' Italia può leggere
come qualche volta sia avvenuto che, a causa delle grandi piogge,
«un proprietario di vigneti si sia improvvisamente trovato
possessore di oliveti, scivolati dall' alto a prendere il posto
delle altre colture precipitate al basso». Così, come se niente
fosse. E il 10 agosto, finalmente, anche Mussolini è in Sicilia.
La
sua visita ha subito il carattere di un' ispezione, al solito
punteggiata da numerose frasi lapidarie. L' 11 proclama «sono venuto
per constatare quello che si è fatto e quello che resta da fare», il
12 da Catania dice che per la Sicilia non ci sarà nessun regime
speciale, «è finito quel tempo»: ma la rassicurazione conserva un
tono di sbrigativa minaccia, anche se ormai il Nord e il Sud non
esistono e «dopo l' Italia sono stati fatti gli italiani».
Nella
cronaca del Giornale di Sicilia leggiamo della «impetuosa
accoglienza» di Catania e della «fervida atmosfera di attesa» di
Palermo; sempre il 12, anche il Re e il principe Umberto sono in
Sicilia, appena arrivati alla stazione di Palermo.

Ma naturalmente
il duce li surclassa, nello spazio che gli dedicano i giornali e nel
crescendo degli aggettivi. Il 13 Mussolini è a Siracusa,
protagonista non solo di un' esaltazione collettiva ma di un
riscatto plurisecolare. Compiaciuto, riflette che «bisogna risalire
al primo impero di Roma, all' epoca di Augusto, per ritrovare uno
spettacolo come quello che offre l' Italia in questa epoca così
ardente di passione». Poi annuncia che i diritti mediterranei dell'
Italia saranno riaffermati nel discorso di Palermo, la «capitale»
che nel frattempo inganna l' attesa con notturne gare
automobilistiche sul monte Pellegrino. Il giro siciliano di
Mussolini è anche un frenetico valzer di inaugurazioni: un
padiglione, una scuola, un reparto, un' officina, la Sicilia sembra
essersi risvegliata come un immenso cantiere. Il dittatore appare
instancabile, ma cominciano ad arrivare le navi scuola giapponesi
per le grandi manovre e l' atmosfera di sagra paesana subito si
smorza, freddi e rabbiosi all' improvviso sembrano levarsi venti di
guerra.

La stampa crea l' attesa attorno al discorso di Palermo,
«avvenimento mondiale più che italiano che indicherà la nuova
atmosfera europea». Nel frattempo, il 15 Mussolini è ad Enna
«prolifica e laboriosa», poi trionfa fra i contadini di Vittoria e
Gela. Può constatare soddisfatto come i lavori per l' aeroporto di
Comiso, «sentinella avanzata del Mediterraneo», stiano alacremente
procedendo. Il 17 è a Trapani, subito dopo a Caltanissetta. Il 18 si
concludono le grandi manovre e il duce è a Marsala, naturalmente
«nello scenario suggestivo dell' epopea garibaldina». Cresce l'
attesa per il discorso di Palermo, dove Mussolini arriva il 19. Si
reca al Policlinico, edificato dopo la sua visita del 1924.
Accompagnato dal Magnifico Rettore e da tutto il Senato accademico
si sofferma nel reparto di patologia, mostra di apprezzare un metodo
autarchico per la cura della malaria - punture di adrenalina, che il
professore Maurizio Ascoli inietta nella milza dei malati - «che
promette di liberare l' Italia dall' oneroso acquisto dei sali di
chinino all' estero».
A Palazzo dei Normanni, nella Sala Gialla, gli
viene consegnato il dono della città: un' aquila imperiale in
argento dorato, e il messaggio del Podestà è tutto un rievocare le
antiche glorie della Roma imperiale. Del resto quel dimenticato
podestà non è certo un originale, le vittorie di Roma sono la
retorica ufficiale del regime. E quell' anno, al Festival del cinema
di Venezia il premio per il miglior film lo riceve Scipione l'
Africano. Arriva il momento del tanto atteso discorso. Alle 17,45 di
venerdì 20 agosto, radiotrasmesso dal Foro italico in tutta la
penisola e anche all' estero, il discorso di Mussolini è breve,
centrato su due temi: il ruolo della Sicilia imperiale e la difesa
dell' impero. è impossibile tacere l' esistenza dei soliti «problemi
siciliani», ma il duce manda un eloquente messaggio «ai superstiti
antifascisti che girano per il mondo: la Sicilia è fascista fino al
midollo!».
Sarà la perfetta identità fra l' isola e il fascismo a
risolvere ogni residuo problema a cominciare dal più grave, quello
dell' acqua. Nella Sicilia diventata centro dell' impero il
villaggio rurale liquiderà il latifondo, ci saranno strade e i
contadini saranno lieti di vivere nella terra che lavorano, come
ovunque nel mondo. Nessun nemico oserà sbarcare nell' isola
imperiale, tutto andrà per il meglio.
A essere veramente ostile è la
Francia, con l' Inghilterra ci sono state solo delle incomprensioni,
su cui bisognerà mettersi d' accordo, «si aveva dell' Italia una
concezione superficiale e pittoresca, di quel pittoresco che io
detesto». Rassicurazioni e minacce si alternano, nello stile tipico
di tutti i dittatori. Mussolini rivendica il legame con Berlino, se
il mondo vuole stare in pace con l' Italia deve tener conto dell'
impero e dell' asse Roma-Berlino. Altrimenti, «l' Italia fascista ha
tali forze di ordine spirituale e materiale che può affrontare
qualunque destino!».
Con vigore fascista, anche da Palermo il duce
stava spingendo l' Italia verso il baratro della guerra.
AMELIA CRISANTINO
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/08/30/ultimo-viaggio-di-mussolini-in-sicilia.html
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1938,LA GIOVENTU' ITALIANA DEL
LITTORIO,CATANIA
Fu fondata il 29 ottobre 1937 (XVI
dell'era fascista) dalle ceneri dei Fasci giovanili di combattimento
(18-21 anni), con lo scopo di accrescere la preparazione spirituale,
sportiva e militare dei ragazzi italiani fondata sui principi
dell'ideologia del regime. In essa confluì anche l'Opera nazionale
balilla, creata per i giovani di ambo i sessi dai 6 ai 17 anni, e
tutte le organizzazioni che ad essa facevano capo, rispondendo
direttamente alla segreteria nazionale del PNF.
Sciolta dopo il 25 luglio 1943,
con decreto del Capo del governo del 6 maggio 1944 venne istituito
il "Commissariato per la gioventù italiana", il cui fine era
provvedere alla conservazione e temporanea amministrazione del
patrimonio dell’ex GIL. Nel 1972 la "Gioventù italiana" fu
individuata come persona giuridica e riconosciuta come ente
pubblico.

Venne soppressa con L. 18 novembre 1975 n. 764.Formalmente
la GIL fu soppressa nel febbraio 1996 dal Parlamento repubblicano.I
compiti della GIL a favore dei giovani erano:la preparazione
spirituale, sportiva e premilitare;l'insegnamento dell'educazione
fisica nelle scuole elementari e medie, secondo i programmi da essa
predisposti di concerto con il Ministro dell'Educazione nazionale;
l'istituzione e il funzionamento
di corsi, scuole, collegi, accademie, aventi attinenza con le
finalità della Gioventù italiana del littorio;l'assistenza svolta
essenzialmente attraverso i campi, le colonie climatiche, il
Patronato scolastico o con altri mezzi disposti dal segretario del
PNF;l'organizzazione di viaggi e crociere;la facoltà di istituire e
di promuovere l'istituzione di borse di studio e di provvedere alla
loro assegnazione;alla GIL spettava anche la vigilanza ed il
controllo su tutte le colonie climatiche e istituzioni affini, da
chiunque fondate o gestite.
(foto della collezione
Franz Cannizzo)
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collezione Franz Cannizzo



L'ARCHITETTURA FASCISTA A CATANIA.
di Rosangela Spina
http://www.editorialeagora.it/rw/articoli/132.pdf
Nell’architettura catanese dell’epoca fascista si verificarono
alcuni aspetti interessanti dello stesso problema che coinvolgeva
tutta la nazione, ossia il bisogno della rappresentazione
volutamente ed esclusivamente italiana di un’ Arte di Regime,
discussa attraverso i dibattiti sulla pubblicistica nazionale, le
occasioni progettuali e le realizzazioni attuate.
Un inizio particolarmente esemplificativo si ha nella partecipazione
catanese alla discussione accesasi in ambito nazionale con la II
Esposizione di Architettura Razionale , organizzata nel marzo 1931 a
Roma da Pier Maria Bardi e dal gruppo del MIAR, Movimento Italiano
per l’Architettura Razionale, la quale vede la partecipazione, tra
gli altri esponenti, di alcuni catanesi, tra cui l’architetto
Giuseppe Marletta, che in seguito sull’occasione ha modo di spiegare
quali erano i termini del problema: ...tra il 1928 e il 1931 al
regime fascista facevano comodo, in architettura, sia la tendenza
“razionalista”, per quel tanto di giovanile e innovativo che essa
conteneva; sia la tendenza “tradizionalista” perché rivalutava,
modernizzandola, l’architettura dell’impero romano tanto caro al
Duce. Quindi, praticamente, in quel periodo il regime se ne stava
alla finestra a guardare quale delle due tendenze architettoniche
finisse col prevalere.
leggi il resto, qui:
ALCUNI ESEMPI IN CITTA'
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Casa del Mutilato - Piazza Vincenzo
Bellini, architetto Ercole Fischetti (1878-1959)
Attualmente : uffici U.S.L. Le statue sono opera degli
artisti Salvatore Juvara, Giuseppe D'Angelo e Salvo
Giordano. All'interno vi sono pitture di Roberto Rimini.
Il portone d'ingresso contornato dai "Signum" con i
fregi del Regime e dell'Associazione Mutilati.
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Caserma della Guardia di Finanza
"Angelo Maiorana". Costruita nel 1933 ha tutt'ora lo
stesso utilizzo.
I due Fasci (ai quali è stata eliminata la scure ), i
segni della lettera "R" (Regia) lasciati sul fianco di
Guardia di Finanza e il bel bassolrilievo raffigurante
un Finanziere con il suo berretto all'alpina. |

Camera di Commercio (1932), architetto
Vincenzo Patanè (1876-1933) Attualmente : stesso
utilizzo |

Scuola Mario Rapisardi
- Via Aosta. Sull'ingresso principale ci sono ancora i
Fasci . Nel cortile della scuola sul lato di Viale
Vittorio Veneto c'è l'anno di costruzione, XI E.F. :
1933 e il bassorilievo raffigurante il libro e i
moschetti. |
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Stadio Cibali (1935). Arch. Raffaele Leone - già
dedicato a Cesare Balbo nel 1941, cambiò denominazione nel
dopoguerra
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Case Popolari dell'INCIS
in via Ventimiglia (1930). Ing Ernesto De Luca
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Palazzo di Giustizia (1937 (Fichera)
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Casa del Balilla Via
Plebiscito - EX CasE G.I.L. -
Attualmente sede di scuola materna, elementare e media
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Palazzo delle Poste sito in via Etnea
dirimpetto al Giardino Bellini. Il progetto di Francesco
Fichera risale al 1919 ma soltanto nel 1922 si
iniziarono i lavori di costruzione.
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Scuole Elementari Via Caronda.
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Scuola Filippo Corridoni |

Calzaturificio EGA - Ingg. Faro e Agnello - pressi via
SS. Trinità - Via Vitt. Emanuele alta |

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LA SEDE DELL'ARCAT-SICILIA IN VIA SARDO, 1
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LA CASA DEL MUTILATO IN PIAZZA BELLINI
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INDUSTRIA DI CALZATURE EGA (ex)
Sorge nel cuore del centro
storico ,in via della Mecca di fronte le Terme della Rotonda, un
edificio chiuso da anni che fu un tempo un calzaturificio .La
struttura che versa in totale degrado preda di vandali e incivili,
era nata intorno al 1949 ,edificio fabbricato su progetto degli
ingegneri Ugo Faro e Giovanni Aiello .
Ma la fabbrica non ebbe grande
durata e già negli anni sessanta la struttura fu acquistata dai
salesiani proprietari della chiesa, oratorio e campetto di calcio
interno con ingresso da via Teatro Greco (istituto San Filippo
Neri).La struttura fu adibita a palestra di judo nel piano inferiore
e cappella interna il piano superiore ma pare sia andata distrutta
negli anni settanta da un incendio e non più recuperata

la Casa del Balilla, in Via Plebiscito.



L'OPERAZIONE HUSKY
(cane da slitta)
Nel luglio del
1943, gli Alleati sbarcarono in Sicilia, dando inizio all’invasione
dell’Italia e precipitando la caduta di Mussolini. Ma dietro quel
successo ci fu una delle operazioni di inganno più audaci della
Seconda Guerra Mondiale: l’Operazione Mincemeat (carne tritata).
Il 30 aprile, un
sottomarino britannico gettò al largo delle coste della Spagna il
corpo di un presunto ufficiale britannico. Portava con sé una
valigetta con documenti ultrasegreti che dettagliavano futuri piani
di invasione nel Mediterraneo. La scena era stata accuratamente
costruita dall’MI5: un’identità completa, lettere di una fidanzata
fittizia, biglietti per il teatro, ricevute, chiavi e persino un
crocifisso. Tutto per farlo sembrare un uomo reale, con una vita
quotidiana.
I tedeschi
ricevettero la valigetta e, convinti della sua autenticità,
credettero che il vero sbarco alleato si sarebbe verificato in
Sardegna e in Grecia, non in Sicilia. Hitler, ossessionato da questa
informazione, trasferì intere divisioni, inclusi carri armati,
distogliendoli dal luogo in cui gli Alleati avrebbero realmente
attaccato.
Il risultato fu
devastante per l’Asse: quando iniziò lo sbarco in Sicilia, l’isola
era molto meno difesa di quanto ci si aspettasse. In appena due
settimane, i tedeschi erano ancora convinti che si trattasse solo di
una distrazione.
L’Operazione
Mincemeat fu così perfetta che un solo uomo morto, trasformato in
spia senza saperlo, cambiò il corso della guerra.
______________
Il 10 luglio 1943 ha inizio l'operazione Husky,
la più grande operazione anfibia della storia: sette divisioni
vengono fatte atterrare simultaneamente (in Normandia, un anno dopo,
ne furono impiegate solo cinque). Gli Alleati incontrano una scarsa
resistenza sulle spiagge tra Gela, Licata e Siracusa e le truppe che
invadono il suolo italiano hanno a che fare in prevalenza con i
soldati italiani della 6ª armata, male armati e ancor peggio
equipaggiati, supportati da un numero esiguo di forze tedesche.
Nello stato maggiore tedesco e, ancora di più, in Adolf Hitler
prevaleva la convinzione che le truppe americane e inglesi sarebbero
sbarcate in Sardegna e in Grecia.

Addirittura la Luftflotte 2, comandata dal
feldmaresciallo Von Richthofen era stata spostata dalla Sicilia in
Sardegna, proprio in virtù di questa errata valutazione strategica. E tutto ciò nonostante i ripetuti appelli
dello stato maggiore italiano a quello tedesco per rinforzare il
presidio siciliano. L'isola sarebbe stata l'obiettivo principale
delle armate americane e inglesi per colpire immediatamente il
"ventre molle
dell'Asse". L'uso indiscriminato dei bombardamenti sulle città fu
una delle caratteristiche più crudeli della seconda guerra mondiale.
Nell' incontro di Casablanca Roosevelt e Churchill decisero, tra
l'altro: "una campagna aerea con un'offensiva di bombardamenti più
intensa possibile... mirando soprattutto a ridurre a pezzi, oltre le
fabbriche belliche, il morale della popolazione civile". E così fu.
Da quel momento per la gente non contò più nessuna ideologia, ma la
sola sopravvivenza. Dopo ogni raid aereo, le persone si sentivano
svuotate, sconfortate, prive di risolutezza. Nei primi giorni di
luglio in Sicilia erano presenti circa 260.000 soldati; 175.000
italiani e 28.000 tedeschi tra le truppe combattenti, gli altri
addetti ai servizi. La situazione drammatica delle difese dell'isola
era già stata evidenziata dal generale Roatta, predecessore di
Guzzoni al comando militare dell'isola.
Parlando del prevedibile
sbarco alleato, Roatta disse che: "[la difesa costiera] non è in
condizioni di impedire lo sbarco, ma solo in misura di ostacolarlo,
di ritardarlo e di contenere per un tempo più o meno lungo
l'avversario sbarcato". Anche la superiorità aerea alleata era fuori
discussione. Infine un altro problema era rappresentato dalle
divergenze tra il comando italiano in Sicilia e quello tedesco. Le
truppe tedesche erano, in teoria, agli ordini del generale Guzzoni,
ma in pratica il comandante italiano dovette indire numerosissime
riunioni con gli ufficiali tedeschi che, ancora dubbiosi sullo
sbarco in Sicilia, erano comunque discordi sulle località siciliane
in cui sarebbe avvenuto quello che per loro restava un ipotetico
sbarco. L'unica conclusione a cui poté giungere il generale Guzzoni
fu che lo sbarco sarebbe stato, eventualmente, contrastabile solo
quando si fossero palesate le vere intenzioni degli alleati. Nelle
prime ore del 10 luglio 1943, forze britanniche, canadesi e
americane unite assalirono otto spiagge sul litorale sud-est delle
dieci mila miglia quadrate di litorale dell'isola. Nel campo della
tecnica degli assalti anfibi, "Husky" introdusse un'intera nuova
gamma di strumenti per lo sbarco. Fu anche la prima volta che gli
alleati facevano uso su grande scala delle truppe trasportate su
aerei ed alianti. Questo tipo di sbarco fu però un vero disastro,
sia per il fuoco da terra che per la scarsa preparazione dei piloti
per questo genere di compiti . La Sicilia segnò anche l'ingresso in
Europa dell'esercito statunitense nella seconda guerra mondiale.
Combattendo a fianco dei più esperti veterani inglesi del deserto,
il soldato americano mostrò ciò che poteva fare. L'operazione Husky
si sviluppò in due tronconi:- La 7ª Armata americana del Gen. George
S. Patton che, sbarcando nel Golfo di Gela, puntò verso nord- ovest,
alla conquista di Palermo per poi ripiegare a oriente lungo la costa
settentrionale verso Messina. -

L' 8ª Armata britannica del Gen. Sir
Bernard Montgomery, che sbarcò nell'estrema punta sud-orientale e da
lì risalì verso nord, occupando Siracusa e Catania, per poi
ricongiungersi con gli americani a Messina. Gli alleati
conquistarono la Sicilia in trentotto giorni e ciò portò alla
destituzione di Benito Mussolini e alla resa dell'Italia. Tuttavia
fu una vittoria deludente, una "vittoria amara" per gli
anglo-americani. Da una parte per via delle ingenti perdite
evitabili, subite con le cadute in mare dei paracadutisti, e
dall'altra perché non erano riusciti ad impedire la fuga in Calabria
dell'esercito tedesco.Una delle cause del mancato coordinamento tra
gli inglesi e gli americani fu la rivalità tra il generale inglese
Montgomery ed il generale americano Patton. Quest'ultimo, per non
sentirsi relegato a un ruolo secondario, invece di accorrere in
aiuto a Montgomery, bloccato da una accanita resistenza tedesca a
Catania, preferì passare alla storia come il liberatore di Palermo,
andando a "liberare" dei territori che ormai erano già stati
abbandonati dall'asse. Così, non trovando alcun ostacolo a Messina,
le truppe tedesche riuscirono a ritirarsi senza problemi.Alcuni
storici sostengono che a causa delle ingenti perdite subite a Gela
da parte degli americani, in contrasto con la quasi passeggiata nel
siracusano degli inglesi, Patton si infuriò e per ripicca non appena
seppe che Montgomery aveva trovato una feroce resistenza sul Simeto,
esclamò che era venuto il momento per gli inglesi di "conquistare
l'onore in campo con i loro morti" e preferì andarsene in tutt'altra
direzione lasciando gli inglesi al loro destino invece di accorrere
in loro aiuto.
IL PONTE A PRIMOSOLE. LA SCOMMESSA DI
MONTGOMERY SU CATANIA
Per il 12 luglio fu chiaro a Kesserling e Guzzoni che la 6a Armata
non aveva altra scelta che quella di mettersi in difesa. Solo la
Sicilia orientale doveva essere mantenuta, quella occidentale doveva
essere abbandonata. Guzzoni pianificò di ridurre il suo fronte ad
una linea che attraversasse l’angolo nord orientale dell’isola. Le
forze già in contatto con il nemico dovevano ritirarsi nella metà
orientale di questa linea da Catania a Nicosia mentre quelle che si
ritiravano da Palermo dovevano occupare la metà occidentale da
Nicosia a Santo Stefano nella costa settentrionale.
Il successo di questa manovra dipendeva dalla prevenzione di
un’irruzione alleata nella cerniera orientale Catania e su un veloce
collegamento tra ‘ Kampfgruppe Schmalz ’ e la Divisione ‘ Hermann
Goering ’. Tra le due formazioni c’era un vuoto di 18 miglia.
Nel frattempo i rinforzi erano per strada. L’11 luglio, Hitler aveva
deciso di mandare due divisioni in Sicilia: la 29 Divisione ‘
Panzergrenadier ’, già in Italia, e la 1a Divisione ‘
Fallschirm-jager ’ di stanza nel sud della Francia e che doveva
subito essere trasportata in aereo in Sicilia. La sera del 12
luglio, il suo primo contingente ‘ Fallschirmjager-Regiment 3 ’,
fece un lancio da manuale a sud di Catania e fu immediatamente
trasportato a sud sotto il controllo di ‘ Kampfgruppe Schmalz ’.
Ulteriori rinforzi aerei dovevano arrivare il giorno dopo.
Il 10 luglio, ‘ Kampfgruppe Schmalz ’ aveva fermato la 5a Divisione
inglese a Priolo, a metà strada tra Siracusa e Augusta. Consapevole
del fatto che la sua forza era troppo piccola per resistere
all’infinito o per ridurre lo spazio tra lui e la Divisione ‘ H.
Goering ’, Oberst W. Schmalz decise di combattere un’azione
ritardante lungo la statale costiera 114. Per tutto l’11 luglio egli
trattenne la 5a Divisione.
Durante la notte egli si ritirò su una linea di difesa centrata su
Lentini. Il ritiro scoprì il porto di Augusta e consentì alla 5a
Divisione di entrare, il giorno dopo, nella base navale. Questo non
fu l’unico successo del “ 13 Corps ”. La 50a Divisione, sulla
sinistra si era spostata a nord da Avola attraverso Cassibile e
Floridia ed aveva raggiunto Sortino.
I ‘ 30 Corps ’ di Leese allora avevano fatto conquiste perfino
migliori: entro il D+1, egli aveva liberato l’intera penisola di
Pachino nella quale rimaneva poca resistenza; il 12 luglio la 1a
Divisione Canadese contattò la 45a Divisione statunitense a Ragusa e
si spostò dieci miglia oltre a Giarratana; la 51a Divisione avanzò
da Noto e prese Palazzolo Acreide; entro l’imbrunire la 23a Brigata
Armata , che guidava l’avanzamento della divisione, era alle porte
di Vizzini.
Reso ottimista da queste, apparentemente, facili conquiste, il 12
luglio Montgomery fece un nuovo piano. Il piano della campagna per
la Sicilia, era alquanto vago. Questo considerava che, una volta
stabilita una sicura testa di ponte, entrambe le armate avrebbero
avanzato verso nord, con la Settima Armata che girava da ovest
intorno all’Etna e l’Ottava Armata che spingeva attraverso l’Etna e
la costa orientale.
Questa manovra avrebbe tagliato l’isola in due, intrappolato tutte
le truppe del nemico nella Sicilia occidentale ed accerchiato tutte
le forze dell’Asse che si trovavano nella sua parte orientale.
Adesso, Montgomery ebbe la sensazione di poter utilizzare entrambe
le tenaglie solo con l’Ottava Armata. Invece di far operare entrambi
i 13 e 30 ‘ Corps ’ su di un asse nella costa orientale, ora decise
di spostare i 30 ’ Corps ’ verso ovest.
Il suo sforzo principale si concentrava adesso con i 13 ‘ Corps ’ di
Dempsey: egli sentiva che se avesse agito con rapidità, avrebbe
potuto conquistare la piana di Catania con uno slancio rapido. Per
velocizzare questo avanzamento, egli ordinò due operazioni speciali,
entrambe designate a catturare ponti importanti sulla strada per
Catania: un commando di terra doveva assicurarsi un ponte a Lentini
ed uno sbarco dal cielo il ponte proprio a sud di Catania, il ponte
Primosole.
La nuova offensiva di 13 ’ Corps ’ doveva iniziare il 13 luglio.
Secondo il nuovo piano di Montgomery, il 30 ‘ Corps ’ doveva allo
stesso tempo girare verso l’interno, intorno al lato occidentale
dell’Etna, via Enna, Leonforte e di seguito a Nicosia e Randazzo.
Senza attendere l’approvazione di Alexander, Montgomery diresse
Leese per inviare le sue divisioni all’interno via Caltagirone, Enna
e Leonforte.
Per questo cambio di missione, 30 ’ Corps ’ richiesero la statale
124, la Vizzini - Caltagirone, che apparteneva alla Settima Armata.
Montgomery, comunque dimenticò di far sapere agli americani sia il
suo nuovo piano sia il fatto che egli si stava spostando
direttamente attraverso il loro fronte, così il 13 luglio si
verificò una situazione confusa sulla strada statale 124 poiché sia
i II ‘ Corps ’ di Bradley che i 30 di Leese, erano in testa verso lo
stesso obiettivo di Vizzini.
Questo episodio fu conosciuto come ‘ la grande disputa del confine
’. Alexander inasprì la situazione nelle prime ore del 14 luglio,
quando messo di fronte ad un fatto già compiuto da Montgomery, egli
‘ post facto ’ approvò i cambiamenti di piano di Monty e impartì una
nuova direttiva che dava la strada statale 124 agli inglesi. Fu una
decisione che da sempre ha suscitato controversie. Di recente uno
storico l’ha definita “ la decisione più fuorviante presa dagli
Alleati in Sicilia ”.

Innanzitutto, quando l’ordine fu dato, i 30 ‘ Corps ’ dovevano
ancora prendere Vizzini; mentre la 45a Divisione era a circa 90 Km
dalla strada in discussione; era pronta per colpire a Vizzini ed in
una posizione migliore rispetto ai 30 ‘ Corps ’ per prendere
Caltagirone. Adesso erano stati costretti ad abbandonare l’attacco.
Inoltre, poiché a loro non era concesso di usare la strada statale
124 per i loro spostamenti verso ovest, essi dovettero ritornare
alle loro spiagge per ottenere il loro nuovo settore.
Nella notte tra il 12 e 13 luglio, dopo che le guarnigioni italiane
erano fuggite verso nord nel totale scompiglio, la17esima Brigata
entrò, senza trovare opposizione, nel porto navale di Augusta: i
distruttori Exmoor e Kanaris in realtà erano entrati nel porto prima
che le truppe arrivassero. In secondo luogo, lo spostamento di Monty
si rivelò essere basato su di un prematuro ottimismo.
Il piano dei 30 ‘ Corps ’ era per la 51a Divisione quello di
prendere Vizzini dopo di che la 1a Divisione canadese doveva
attraversare loro e prendere Caltagirone. Vizzini, comunque, si
rivelò una dura noce da schiacciare. Appollaiata in alto su di una
cresta a coltello, fu la prima di molte altre fortezze naturali
sulle quali i tedeschi ancorarono la loro resistenza in Sicilia. Il
suo possesso era vitale per loro per assicurare la fuga della
Divisione ‘ H. Goering ’ verso est e per due giorni il battaglione
di divisione e quello dei ‘ Panzergrenadier ’ resistette
caparbiamente ad ogni assalto della 51a Divisione.

Quando Vizzini finalmente cadde e i canadesi, il 15 luglio,
iniziarono la loro avanzata lungo la strada statale 124, essi furono
trattenuti a Grammichele. Nuovamente, sebbene si trovasse in
perfetta posizione per sostenere i canadesi, l’artiglieria americana
non poté fare nulla perché aveva ricevuto severe istruzioni di non
sparare entro un miglio dalla strada, per timore di colpire
accidentalmente gli inglesi.
Su un ampio piano il nuovo schema di Montgomery diede all’Ottava
Armata l’uso di tutte le strade per Messina e ridusse le attività
della Settima Armata alla parte sud occidentale dell’isola. In
effetti esso relegava gli americani al ruolo di protettori del
fianco sinistro degli inglesi. Non sorprendentemente, Patton,
Bradley e gli altri Comandanti americani rimasero offesi dalla
decisione di Alexander, ma Patton la accettò con insolita umiltà.
L’offensiva dei 13 ‘ Corps ’, l’offerta di Montgomery per Catania,
iniziò il 13 luglio quando la 50a Divisione, rinforzata dalla 4a
Brigata Armata, lanciò la sua marcia a nord di Sortino. Comunque,
quando la sua divisione non riuscì ad oltrepassare il monte Pancali,
strenuamente difeso dal ‘ kampfgruppe Schmalz ’ , il Generale
Kirkman capì che egli non sarebbe stato in grado di rispettare la
sua tabella di marcia per il soccorso della forza del commando e di
quella aerotrasportata la quale stava atterrando di fronte a lui.
Quella sera il Commando n.3 atterrò dietro le linee nemiche nella
Baia di Agnone. Combattendo e facendosi strada attraverso il
Reggimento n.3 ‘ Fallschirmjager ’, essi raggiunsero e presero il
Ponte dei Malati, tre miglia a nord di Lentini, alle 3 del mattino
circa del 14 luglio e spostarono le cariche di attacco. Pesantemente
contrattaccati e con continue ed in aumento perdite, i commandos si
aggrapparono caparbiamente al ponte, finché non furono cacciati via
nel pomeriggio.

I sopravvissuti si divisero in piccoli gruppi e presero la strada
verso sud.
Poco dopo, la 50a divisione raggiunse il posto. Essi erano stati
nuovamente trattenuti per tutto il giorno, questa volta a Lentini.
Fortunatamente i tedeschi che si ritiravano in fretta non avevano
avuto il tempo di distruggere il ponte e gli inglesi furono in grado
di riprenderselo intatto. La notte prima a 10 miglia a nord, la 1a
Brigata paracadutisti inglese si era lanciata intorno al ponte Primosole sul lato verso il fiume Simeto.
Sfortunatamente, solo poche ore prima il primo Battaglione ‘
Fallschirmjager ’( il secondo contingente della stessa divisione)
era atterrato a Catania e aveva preso posizione proprio a sud del
ponte, quasi in cima ad una delle zone di lancio previste dagli
inglesi.
‘Ponte del Commando n. 3’, il Ponte dei Malati sul fiume Lentini
sulla strada principale per Catania. Nella notte tra il 13 e 14
luglio, il Commando n. 3 (Tenente Colonnello J. F. Durnford- Slater)
atterrò dietro le linee nemiche e, dopo una marcia di combattimento
attraverso la campagna, attaccò il ponte, superando con successo gli
occupanti dei quattro fortini che facevano la guardia a questa
estremità. Essi tolsero le cariche ma con i tedeschi che
contrattaccarono all’improvviso con mortai e carri armati ‘ Tiger ’,
non riuscirono a prendere l’estremità meridionale.
Dopo aver resistito per gran parte del giorno, e senza alcun segnale
di soccorso da parte della 50a Divisione, i sopravvissuti furono
costretti a dividersi in piccoli gruppi e cercare da soli le linee
amiche. Il Commando aveva pagato un alto prezzo: 28 uccisi, 66
feriti e 59 dispersi, ma la loro resistenza aveva impedito ai
tedeschi di distruggere il ponte. Verso le 5 di sera, la 5a ‘ East
Yorks ’ raggiunse il ponte alle calcagna dei tedeschi in fuga e lo
prese intatto. Negli anni scorsi è stato costruito un nuovo ponte a
fianco del vecchio.
Dopo l’azione, Montgomery ordinò a Durnford- Slater : ” Voglio che
tu prenda la migliore pietra da costruzione della città. Voglio che
tu faccia incidere ‘ No. 3 Commando Bridge ’ su un buon pezzo di
pietra. Fai che questa pietra venga inserita nella costruzione del
ponte ”. Difatti due identiche lastre, una per ciascun parapetto,
fur ono fatte e incassate con il cemento. Entrambe rimangono fino ad
oggi, nessuno che attraversa questo ponte dimenticato in una parte
deserta e desolata della Sicilia le nota.
L’operazione Primosole fu la quarta sconfitta dell’aviazione alleata
in Sicilia. Sotto il fuoco della flotta amica e di un forte fianco
nemico sulla costa, i trasportatori di truppe si dispersero del
tutto. Dei 126 aerei di paracadutisti, solo 39 lanciarono i loro
carichi entro un miglio dalla DZs.
Dei 19 alianti, solo quattro
atterrarono vicino al ponte. Su di un totale di 1.856 solo 295
uomini raggiunsero l’obiettivo, ancora queste truppe catturarono il
ponte ed occuparono il terreno al di sotto di esso.
Le truppe tedesche ( il battaglione MG sulla sponda sud, dopo la
compagnia divisionale il terzo contingente aereo ) reagirono in
maniera furiosa. Il piccolo gruppo dei ‘ Red Devils ’ inglesi
cercarono di fare resistenza sul ponte per tutto il giorno. A sera
si ritirarono su di un’altura sul lato sud del fiume da dove
potevano coprire il fiume con il fuoco ed impedire ai tedeschi di
danneggiarlo.
Nel frattempo, più a sud, Oberst Schmalz decise di evacuare le
posizioni di Lentini. Cominciando il 14 luglio, si ritirò dietro il
fiume Simeto. ( una delle sue unità, il Reggimento 3 ‘
Fallschirmjager ’, trovò la strada di fuga bloccata. Costretta a
lasciare indietro tutte le proprie armi pesanti e di trasporto, e
marciando furtivamente di notte, essi non raggiunsero le linee
amiche che il 17 luglio ). Ciò aprì la strada ai 13 ‘ Corps ’. Alle
7.30 circa di sera del 14 luglio, il primo Sherman della 44a ‘ Royal
Tanks ’, che trasportava la 50a Divisione, raggiunse i parà
assediati.
La 1a Fanteria li giunse due ore dopo. Comunque, essi erano stanchi
come cani, dopo una marcia di 20 miglia e non in condizione per un
rapido scontro contro il ponte. Quella sera il primo battaglione ‘
Fallschirmjager – Pionier ’ ( quarto contingente ) saltò sul campo
di volo di Catania e rafforzò il perimetro tedesco intorno alle due
estremità del ponte conteso.
Il mattino successivo, un assalto convenzionale e frontale della
fanteria da parte della 9a Fanteria Leggera ‘ Durham ’ fu fatto a
pezzi dai paracadutisti tedeschi. I ‘ Durhams ’ persero 100 uomini,
inclusi 34 uccisi.
Ufficiali della Para Brigata che avevano osservato il fallimento,
convinsero i comandanti della fanteria/carri ad abbandonare un
secondo tentativo alla luce del giorno. Il Tenente Colonnello A:
Pearson della 1 Parà, conosceva un posto, a circa 400m a monte, dove
il Simeto poteva essere passato a guado e quella notte condusse lì
l’8a DLI. L’attacco colse i tedeschi di sorpresa e i ‘ Durhams ’
conquistarono una posizione sicura sull’estremità settentrionale del
ponte. Ma ciò fu tutto.
I carri che, dopo l’alba, cercarono di rafforzarli furono abbattuti
dagli 88mmche facevano tiro al bersaglio. Per tutto il 16 valorosi
combattimenti corpo a corpo infuriarono tra i vigneti e gli aranceti
a nord del fiume.
Nella notte tra il 16 e 17 luglio, la 6a e 9a ‘ Durhams ’ passò attraverso lo stesso guado. Le posizioni dei
tedeschi furono rafforzate anche dall’arrivo del 4° Reggimento ‘ Fallschirmjagen ’ che era piombato lì quella notte. La terribile
battaglia continuò per tutto il 17.
Dopo tre giorni di aspri combattimenti, la testa di ponte della 50a
Divisione si allargò per soli 10 Km circa a nord del ponte. Entro
quel momento i tedeschi avevano reso la strada statale 114 a nord
del ponte una trappola mortale e avevano stabilito una dura linea di
difesa lungo una strada laterale un po’ infossata, il Fosso
Bottaceto. Un attacco da parte della 168a Brigata, nella notte tra
il 17 ed il 18 luglio, portò pochi progressi.
Il Ponte di Primosole che attraversa il Simeto, dove l’Ottava Armata
combatté la sua battaglia più amara dell’intera campagna di Sicilia;
dove le truppe paracadutiste inglesi ‘ Red Devils ’ combatterono
contro quelle tedesche ‘ Green Devils Fallschirmjager ’; dove
l’avanzata di Montgomery verso Catania fu bloccata in maniera
gelida, a sette miglia dall’obiettivo.
Il ponte di Primosole fu preso prima dalla Brigata 1 Paracadutisti,
che si lanciò nella notte tra il 13 e 14 luglio, ma costretta a
smettere la sera dopo. Dopo che la 50a Divisione ebbe soccorso i
parà, un attacco frontale alla luce del giorno, proveniente dalla
151a Brigata ‘ Durham ’ contro i ‘ Fellschirmjager ’ finì in un
sanguinoso disastro. Tre giorni di ulteriori battaglie non portarono
nulla a termine. I ‘ Berkshires ’ sostituirono i ‘ Durhams ’ il 17
luglio ed ebbero il loro battesimo del fuoco quella stessa notte in
un attacco che soffrì molte perdite e portò pochi guadagni.
La battaglia per il ponte di Primosole finì in un punto morto. I
tedeschi lasciarono sul campo di battaglia 300 morti e 155 furono
fatti prigionieri. La 151a Brigata ‘ Durham ’ da sola perse 500
uomini, feriti e dispersi. La scommessa di Montgomery su Catania era
fallita. per le tre settimane successive qui la linea sarebbe
rimasta sempre uguale. Quando fu chiaro che l’irruzione dei 13 “
Corps ” non sarebbe riuscita, Montgomery spostò la sua attenzione
verso il ‘gancio sinistro’ intorno all’Etna con i 30 “ Corps ”.
I canadesi che avevano preso Caltagirone il 15 e Piazza Armerina il
17, stavano continuando la loro avanzata verso Enna e Leonforte. La
231a Brigata condotta alla destra dei canadesi doveva dirigersi
verso Agira e la 51a Divisione fu diretta verso l’attraversamento
del fiume Dittaino, la cattura dei vitali campi di volo di Gerbini e
l’avanzamento su Paternò. Per mantenere la pressione alta sul fronte
13 “ Corps ”, la 5a Divisione fu ordinata intorno al fianco sinistro
dell’esausta 50a Divisione e attaccò Misterbianco, una città appena
ad ovest di Catania.
Comunque, per adesso, la posizione tedesca era molto forte. Il 15
luglio, ‘ Kampfgruppe Schmalz ’ aveva infine contattato la Divisione
‘ H. Goering ’ e le due formazioni adesso occupavano una linea
continua lungo il Simeto ed il suo affluente, il Dittaino.
Il 19 luglio, la 5a Divisione attraversò il Simeto sotto un pesante
fuoco, ma fu incapace di irrompere e raggiungere Misterbianco. Più
ad ovest, la 51a Divisione stabilì due piccole teste di ponte sul
Dittaino, una a Sferro e l’altra a Gerbini. A Sferro, le ‘ H.
Goering ’ bloccarono con efficacia ogni ulteriore avanzata. A
Gerbini, gli ‘ Highlanders ’ attaccarono l’aerodromo il 20 luglio,
ma il giorno successivo furono respinti verso posizioni a sud di
esso da un potente contrattacco. Il 21 luglio , Montgomery impartì
istruzioni per tutte le formazioni dell’Ottava Armata, tranne per la
1a Divisione canadese, di assumere un ruolo di difesa lungo la linea
del fiume Simeto e Dittaino.
Alla fine fu chiaro a Montgomery che il suo esercito non era forte
abbastanza per poter circondare l’Etna da entrambi i lati. Di
conseguenza, egli ebbe il permesso di Alexander di portare nella sua
riserva la 78a Divisione da Sousse, in Tunisia. Egli pianificò di
impiegarla nella zona dei 30 ‘ Corps ’. Se fosse stato possibile
portare una pressione maggiore lì, egli sentiva che i tedeschi si
sarebbero ritirati dalle loro posizioni di Catania.
La 78a Divisione, comunque, non sarebbe stata pronta prima del 1
agosto. In quel giorno Montgomery sperava di iniziare la sua
offensiva finale. Fino ad allora, 13 ‘ Corps ’ dovevano tenersi
nascosti per vigilare l’attività finalizzata a mantenere i tedeschi
impegnati a Catania. Per i 30 ‘ Corps’ ci fu ancora un altro
cambio. Fu quello di continuare a spingere la 1a Divisione canadese
intorno all’Etna, comunque non attraverso Leonforte, Agira e
Regalbuto. Questo improvviso cambiamento da nord a nord- est
significò che i canadesi dovevano passare per il duro punto della
città di Enna.
Comunque alla loro sinistra, II ‘ Corps ’ statunitense stava
spingendo verso nord, verso l’altipiano intorno Caltanissetta e
l’attraversamento di Enna avrebbe lasciato una pericolosa minaccia
per il fianco destro americano. Ci fu un po’ di confusione prima che
Bradley e Leese non chiarirono la questione di chi fosse
responsabile per la cattura della cittadella vecchia. Gli americani
non persero tempo nello svuotare la tasca e la 1a Divisione prese
Enna il 20 luglio.
Dal 18-21 luglio, la 51a Divisione combatté un’aspra battaglia con
la ‘ H. Goering’ per entrare nella piana di Catania a Sferro, una
piccola ferrovia di smistamento del villaggio. Dopo aver
attraversato il Dittaino, gli ‘ Highlanders ’ furono attaccati per
un giorno intero, prima di entrare, alla fine, nel villaggio.
Incapaci di andare oltre, il 21 luglio alla divisione fu ordinato di
mettersi in difesa. Il memoriale che guarda sopra il campo di
battaglia di Sferro fu costruito immediatamente dopo la fine della
campagna siciliana e scoperto il 4 novembre del ’43, poco prima che
la 51a lasciasse il mediterraneo alla volta della Gran Bretagna. La
cattura del porto di Porto Empedocle da parte del 3° ‘ Rangers ’ il
16 luglio, fu l’introduzione dell’avanzata della Settima Armata
nella Sicilia occidentale e a Palermo.
http://www.primopachino.it/sbarco/index.htm
L'assalto degli
Arditi al ponte Primosole per contrastare l'avanzata degli Inglesi
La Sicilia, 15 Luglio 2013
In occasione del 70° anniversario dello sbarco in
Sicilia la sezione Anpd'I di Catania, da sempre attenta al ricordo
dei sui caduti e delle battaglie che hanno visto protagonista la
Folgore, come a El Alamein e ai Piani dello Zillastro, ha
organizzato anche qui in Sicilia una manifestazione a ricordo dei
caduti dell'estate del 1943. Nell'operazione «Husky» le forze
paracadutiste, anche se non italiane, ebbero un ruolo importante e
non dobbiamo dimenticarci, che proprio le zone intorno al vecchio
ponte Primosole, fuorno una vasta drop zone con lancio di guerra sia
da parte dei Diavoli verdi tedeschi, inviati in supporto alle
proprie truppe di instanza all'aereoporto di Catania, immediatamente
dopo le prime notizie dello sbarco, e sia da parte dei Diavoli rossi
inglesi, che scelsero inconsapevoli la medesima zona lancio.
Ma mentre tutti conoscono questi eventi non tutti
sanno del ruolo che ebbero in quei giorni gli Arditi, che si diedero
da fare per contrastare, come solo loro sapevano fare, l'avanzata
inglese nella Sicilia orientale e proprio al ponte Primosole si
distinsero per il loro coraggio. Visto che oggi gli eredi di quei
soldati sono quelli appartenenti al IX reggimento colonnello Moschin,
quindi quei reparti delle forze speciali punta di diamante della
Brigata Folgore, la sezione, ieri, si é raccolta nel loro ricordo
nei pressi del monumento italiano del nastro azzurro al Ponte
Primosole, monumento che é stato adottato dai soci che si
impegneranno anche a tenerlo pulito, nel decoro che questi luoghi
meritano.
Questo momento ha assunto particolare valore
perché ha permesso di ricordare degli uomini e delle azioni che le
memorie storiche tendono ad omettere e che difficilmente si trovano
nelle pubblicazioni straniere o vengono normalmente attribuite ai
tedeschi e solo pochi storici locali ne parlano.
Nella cerimonia é stata ricordata l'azione, per
cui gli Arditi del II battaglione del X reggimento con 3 compagnie
di stanza ad Acireale passeranno alla storia, e cioè l'assalto al
ponte di Primosole compiuto la notte del 14 luglio 1943. I
paracadutisti inglesi, con l'operazione «Marston tonight», avevano
occupato il ponte mentre poco piú a nord, protetti dal fosso
Buttaceto, i tedeschi e gli italiani resistevano. Ma dell'azione
degli Arditi così lo storico Tullio Marcon ne riporta i fatti: «Un
paio di camionette del II battaglione Arditi, con comando ad
Acireale, al comando del sottotenente Donìa si trovava in
perlustrazione già alle 21,30 sulle rive del fiume Simeto. Il
reparto godeva di una certa fama presso i tedeschi, che chiesero
così a Donìa di aiutarli a riprendere il ponte. Donìa chiamato per
radio il maggiore Marcianò che lasció subito il comando di
battaglione, si diresse su Primosole alla testa di 3 pattuglie della
113ª compagnia, ognuna con 2 camionette ed un totale di 56 uomini
armati di mitragliatrici e coraggio da vendere. Alle 01,45 le 6
camionette (al comando del capitano Paradisi) imboccarono il ponte a
tutta velocità percorrendolo in un baleno e raggiungendo l'altra
parte dove stava l'avanguardia inglese, che in preda al panico si
diede alla fuga verso il Bivio Jazzotto (dove stava il grosso della
brigata). La reazione inglese peró non tardó ad arrivare e fu
particolarmente violenta a colpi di mortaio, riuscendo così a
distruggere 4 delle 6 camionette. Gli Arditi, circondati, non
smisero mai di sparare all'impazzata, quindi a bordo delle 2
camionette superstiti tornarono verso le proprie retrovie. L'azione
duró 1 ora e 40 minuti, procuró al nemico numerose perdite
assicurando al battaglione tedesco la ripresa del ponte di Primosole,
infatti gli inglesi furono ricacciati indietro, al bivio Jazzotto.
Il bilancio di quell'azione fu di 5 Arditi morti, 4 feriti e 16
dispersi". (T. Marcon, "Assalto a Tre Ponti, da Cassibile al Simeto
nel Luglio 1943", Ediprint 1993).
Vi furono 2 medaglie d'oro al valor militare alla
memoria, il tenente Duse e l'Ardito Maccarrone, 2 medaglie di bronzo
al valor militare per C. M. D'Amico e l'ardito Basso, mentre tra i
sopravvissuti ebbero l'argento il capitano Paradisi, i tenenti Taini
e Friozzi e l'ardito Gironi mentre il bronzo venne assegnato al
sottotenente Bartolozzi, il S. M. Badalamenti, i sergenti Olivati e
Castoldi e gli arditi Furlan e Napolitano.
Proprio per ricordare questi momenti é stata
organizzata una marcia della memoria, dal Ponte dei Malati quindi
seguendo il vecchio tracciato della SS114 che attraversa le colline
di San Demetrio si é raggiunto il Bivio Jazzotto per finire presso
il monumento dei caduti italiani al Ponte Primosole dove si é svolta
la celebrazione realigiosa celebrata dal cappellano militare del 62°
reggimento Sicilia della caserma Sommaruga, nonché cappellano dell'Anpd'I,
don Alfio Spampinato che ha ricordato lo spirito dell'Ardito con il
motto «Ardito! Il tuo nome vuol dire coraggio, forza e lealtà; la
tua missione è vincere, ad ogni costo».

LE
DEVASTANTI INCURSIONI ALLEATE
I giorni che precedettero lo sbarco furono altrettanto terribili per
i siciliani, la regione fu presa d'assalto da tutto ciò che aveva
"ali ed eliche", le bombe colpivano massicciamente sia i centri
militarmente strategici dell'asse sia i centri abitati o in
prossimità di essi, i luoghi di cultura, le piazze i monumenti, un
azione dirompente volta a sfiancare il morale dei siciliani e
generare quindi il malcontento tra i militari che ormai si battevano
per difendersi più che altro. L'aviazione Alleata schierò sullo
scacchiere della Sicilia aeroplani che provenivano dall' N.A.T.A.F -
Northwest African Tactical Air Force e il N.A.S.A.F - Northwest
African Strategic Air Force formati anche da gruppi di volo della
R.A.F -Royal Air Force inglese.
L’organizzazione delle forze aeree alleate era molto frazionata in
ragione delle aree operative e del tipo di impiego dei velivoli. In
Italia operavano contemporaneamente velivoli appartenenti ai segg.
comandi: M.A.A.F. (Mediterranean
Allied Air Force); N.A.S.A.F. (Northwest African Strategic Air Force);
D.A.F. (Desert Air Force); N.A.T.A.F.(Northwest African Tactical Air
Force); N.A.T.B.F. (Northwest African Tactical Bomber Force);
N.A.C.A.F. (Northwest African Coastal Air Force); M.E.A.C. (Middle
East Air Command); M.A.S.A.F. (Mediterranean Allied Strategic Air
Force); T.B.F. (Tactical Bombing Force). Inoltre le unità venivano
di continuo aggregate o spostate a fronte dei determinati momenti
tattici e strategici, per un totale di 2.600 e 2.900 aerei !
Le tecniche usate per il bombardamento erano le stesse che diedero
la vittoria agli Anglo-americani nei più disparati teatri, però
questa volta si fece un uso massiccio di bombe a grappolo, cioè
bombe che collegate assieme garantivano una distruzione totale degli
obbiettivi grazie a più deflagazioni. Vennero utilizzati bombardieri
sia leggeri - medi - e pesanti, mentre i caccia della difesa aerea
servivano per garantire la superiorità aerea del cielo nemico e la
scorta agli incursori. Tutti i capoluoghi di provincia furono rase
al suolo migliaia i morti tra civili e militari una vera e propria
strategia del terrore, e furono interessate anche le piccole isole a
sud della Sicilia.
GLI INCUBI NOTTURNI DEI CATANESI
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Viker Wellington (R.A.F) Era un bombardiere bimotore, costruito in
oltre 11000 esemplari e caratterizzato da una struttura particolare,
chiamata "geodetica", su disegno del celebre ingegnere ed inventore
britannico Barnes Wallis.Durante la notte fra il 14 ed il 15 Giugno 1943 attaccano
gli aeroporti di Milo, Sciacca, Castelvetrano, e Boccadifalco
(Palermo). |
B-17 "Flying Fortress" (U.S.A.A.F) Il Boeing B-17 Flying Fortress
(conosciuto anche come Fortezza volante) era un aereo quadrimotore
della classe dei bombardieri pesanti, una capacità di fino a 7 T. di
bombe. Il 15 Giugno del 1943 attaccano Milo, Sciacca, Castelvetrano,
e Boccadifalco l’aeroporto di Chinisia e una stazione radio nei
pressi di Marsala. |
B- 25 "Mitchell"
(U.S.A.A.F. / R.A.F.)Il North American B-25
Mitchell era un bombardiere medio bimotore, il 30 Giugno colpiscono
l'aeroporto di Sciacca più zone circostanti, mentre i B-17 colpivano
Boccadifalco e i Wellington Capo San Marco e una vasta area
circostante Messina.
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B-24 "Liberator" (U.S.A.A.F. / R.A.F)Il Consolidated B-24
Liberator era un bombardiere quadrimotore ad ala medio-alta (adottò
un tipo di ala conosciuto come ala Davis, stretta ed allungata, che
divenne una sua caratteristica distintiva insieme alla doppia deriva
di forma ovale). Il 3 Luglio del 1943 attaccarono assieme ai B-17,
Trapani , Marsala compresi gli aereoporti e zone circostanti. |
B-26 "Marauder"
(U.S.A.A.F. / R.A.F./ Francia libera) Il Martin
B-26 Marauder ("Predone") era un bombardiere leggero Velivolo dalle
elevate prestazioni velocistiche, trovò scarsa popolarità tra gli
equipaggi per le difficoltà di pilotaggio rispetto ai connazionali
pariclasse (il B-25 Mitchell in particolare). |
A-20 "Havoc"/"Boston" (U.S.A.A.F. / R.A.F.) Il Douglas A-20/DB-7
Havoc è stato un bombardiere leggero e un caccia notturno.
Gli Havoc assieme ai Marauder e dei gruppi di Wellington tra il 3 al
18 Luglio del 1943 colpirono Sciacca, Trapani, Castelvetrano,
Comiso, Termini Imerese, Baglio Rizzo, Biscari, causando centinaia
di morti fra i civili e i militari, molte città ancora portano i
segni del bombardamento. |
Il B-17, la fortezza volante.
Il più famoso bombardiere degli Stati Uniti usato durante la seconda
guerra mondiale. Nel link una pagina dedicata e tutti i siti web
dedicati a questo aereo militare protagonista di molte battaglie
aeree della seconda guerra mondiale. Storia, fotografie,
caratteristiche tecniche, disegni, armamento del B 17
http://www.toflyintheworld.com/aerei/aer_ITA/WWII%20ITA/aeri_USAb17.htm

Operazione Husky 70
anni dopo. Le iniziative in programma a Catania
di Giuliana Avila
Il 10 luglio 1943 avvenne l’operazione Husky, lo
sbarco in Sicilia, imponente operazione militare del secolo scorso,
prima dello sbarco in Normandia, undici mesi dopo. Quest’anno, dopo
ben 70 anni, viene commemorata con un’iniziativa storico-culturale
in molti luoghi della Sicilia. Tante le iniziative anche a Catania.
Il Museo storico dello sbarco in Sicilia 1943, fu
ideato e realizzato a Catania, al centro fieristico ‘Le Ciminiere’
di viale Africa, da Nello Musumeci, ex presidente della Provincia
Regionale di Catania.
“Abbiamo ricordato una pagina decisiva della
nostra storia, reso omaggio ai caduti su entrambi i fronti, in gran
parte giovanissimi, e evidenziato il contributo di sangue di
migliaia di civili, spesso dimenticato – racconta Musumeci – Ricordo
ancora le polemiche sterili di certi pacifisti, quando fu inaugurato
nel 2001. Io non sono pacifista, ma pacifico e proprio al valore
della pace sono dedicate due frasi del Papa, all’ingresso e
all’uscita del Museo”.
Il Museo ha sempre avuto notevole successo e nel
2012 ha contato 20.615 visitatori, dei quali 2.028 stranieri, 3.335
visitatori italiani non siciliani e 15.271 alunni e docenti in
visita scolastica..jpg)
LE INIZIATIVE - A Catania, mercoledì 10 luglio
alle ore 9,30 si terrà a Le Ciminiere il convegno “Sicilia 1943,
operazione Husky” e nella stessa location si potrà ammirare la
mostra-concorso internazionale di modellismo storico ospitata
dall’11 al 21 luglio.
Dal 10 luglio, all’interno de la Galleria del
Credito Siciliano di Acireale, si terrà la mostra fotografica “Phil
Stern, Sicily 1943”, con ben 70 sue immagini e un centinaio
provenienti dall’Imperial war museum di Londra. “Stern, che sarà
presente alla mostra, ha accolto con grande disponibilità il nostro
progetto di una mostra con le sue foto, a condizione che “facessimo
presto”, riferendosi alla sua età – ha ricordato lo storico Ezio
Costanzo – che illustrerà gli scatti dell’allora giovane
fotoreporter arruolato nei Rangers, che, pur vivendo il dramma della
guerra, riuscì ad immortalare con grande anima artistica le
bellezze della Sicilia, soprattutto del territorio di Licata (dalle
Due Rocche a Torre di Gaffe).
Proprio a Licata Stern, nelle sale di Palazzo La
Lumia, quartier generale delle truppe americane durante l’operazione
husky, incontrerà dopo ben 70anni il Barone La Lumia, allora
bambino, e ritornerà nei luoghi dell’occupazione anglo-americana che
segnarono il suo sbarco in Sicilia. Stern, dopo la guerra divenne
famoso per i famosi ritratti dei grandi personaggi del cinema
americano come Marilyn Monroe e Marlon.
“Il Museo catanese dello sbarco all’interno del
centro fieristico ‘Le Ciminiere’ – ha detto il vicepresidente
dell’Ars Salvo Pogliese – e i bunker, rifugi, cimiteri di guerra
sono un itinerario capace di interessare e emozionare. Perché
ricordare la guerra permette di capire il valore assoluto della
pace. Sono stati inviato in tutto il mondo oltre 30.000 pieghevoli
in tre lingue con il programma delle manifestazioni, alle
associazioni d’arma e degli ex combattenti proprio come strategia di
promozione turistica.Un’iniziativa che ci aiuterà a recuperare la
memoria di quei giorni senza le lenti deformanti della storiografia
ufficiale e che può creare le premesse per un “circuito della
memoria”.
http://catania.blogsicilia.it/operazione-husky-70-anni-dopo-le-iniziative-in-programma-a-catania/197321/

Lo sbarco dei canadesi 70 anni
dopo
A piedi da Pachino il 10
luglio e per venti giorni seguiranno i sentieri battuti dai soldati
nell'estate del 1943. Saranno in 562, uno per ogni soldato vittima
dei combattimenti nell'Isola. Torneranno sui passi dei loro padri.
Anna Rita Rapetta
Roma. Cammineranno, come hanno camminato i
loro soldati. Partiranno a piedi da Pachino il 10 luglio e per
venti giorni seguiranno i sentieri battuti dalla 1° Divisione di
Fanteria canadese nell'estate del 1943 per onorare la memoria
dei combattenti e dei caduti durante la Campagna di Sicilia, nel
corso della Seconda Guerra Mondiale.
In occasione del settantesimo anniversario dallo Sbarco degli
alleati, 562 cittadini canadesi, uno per ogni soldato vittima
dei combattimenti nell'Isola, torneranno sui passi dei loro
padri per ridare valore a quegli uomini che «davano pugni al di
sopra del loro peso».
Tutto nasce dall'idea di un uomo di affari di Montréal, Stephen
Gregory, che ieri ha presentato l'iniziativa all'ambasciata del
Canada a Roma, assieme alla grande squadra che l'ha aiutato a
realizzarla. Il padre di Gregory aveva presto parte ai
combattimenti in Sicilia, ma non aveva mai parlato di
quell'esperienza in famiglia. Dopo la sua morte, nel 2005,
assieme al figlioletto Erik, Gregory conosce un vete rano
canadese che ha combattuto a fianco di suo padre. Il cannoniere
Charles Hunter tesse il racconto di quei difficili giorni
lasciando Stephen ed Erik "esterrefatti". La storia colpisce il
ragazzino al punto che a scuola propone di presentare una
ricerca sulla battaglia di Assoro. Ma il lavoro si rivela subito
difficile: del contributo dei soldati canadesi nelle cronache
storiche si parla poco. Steve decide quindi di aiutare il figlio
e durante le ricerche matura l'idea di dare vita a "OH2013" (Operation
Husky 2013), un'associazione che nasce per fare piena luce sugli
avvenimenti dell'estate del 1943 e dare il giusto rilievo al
ruolo determinante che l'esercito canadese ebbe nella Campagna
di Sicilia.
«Contrariamente a quanto scritto fino a poco tempo fa, i soldati
canadesi dimostrarono una buona preparazione militare e ottime
capacità di combattimento, nonché uno spiccato spirito di corpo
che si rivelarono determinati in molti scontri contro un nemico
agguerrito e sicuramente più esperto», spiega lo storico Paolo
Maria Sbarbada che ha ripercorso le tappe salienti dei primi 38
giorni dell'operazione Husky.
Così fu chiamata in codice l'operazione cominciata all'alba del
10 luglio 1943, il primo sbarco alleato sul suolo italiano.
Oltre 23mila soldati canadesi sbarcarono a Pachino, affiancati
dalle forze britanniche e statunitensi. E' stato uno dei più
grandi sbarchi della storia militare (coinvolse quasi 3mila navi
e mezzi da sbarco alleati) ed è stata la prima operazione in cui
i canadesi hanno avuto un ruolo autonomo e determinante. Il
feldmaresciallo Albert Kesselring comandante delle forze
tedesche in Sicilia, in un rapporto inviato a Berlino, rimase
impressionato dal valore dimostrato dai soldati canadesi
definendoli «esperte truppe di montagna». Dopo settant'anni, i
canadesi torneranno su quelle montagne. Porteranno con loro 562
"marcatori", delle targhe alla memoria realizzate dagli studenti
delle scuole canadesi per collegare idealmente presente e
passato. Il "pellegrinaggio" partirà da quella che in codice fu
chiamata "Sugar Beach", a Pachino dove si terrà una celebrazione
e la posa della prima pietra di un monumento ai caduti.
Ogni giorno, dal 10 al 30 luglio, Steve Gregory guiderà una
delegazione di canadesi e ripercorrerà le tappe più importanti
dell'avanzata delle truppe canadesi, come Ispica, Modica,
Ragusa, Caltagirone, Piazza Armerina, Enna, Leonforte, Regalbuto,
e Agira dove sono stati sepolti circa 500 soldati. Qui si terrà
la toccante cerimonia conclusiva. Ogni partecipante a "OH2013"
rappresenterà un soldato caduto. I canadesi di ieri saranno
chiamati e i canadesi di oggi risponderanno all'appello.
«Se c'è una campana cosmica, suonerà in quel momento», dice
Steve.
Nella serata dello stesso giorno presso la Piazza principale del
paese, si terrà, un concerto di cornamuse. Sarà una
ricostruzione storica del concerto eseguito in quel luogo il 30
luglio 1943 dalla banda reggimentale del "Seaforth Highlanders
of Canada" che allora venne ripreso e trasmesso da Peter
Stursberg della CBC.
Tra i progetti in cantiere, infine, la realizzazione del "Museo
dello Sbarco" a Catania.
La Sicilia, 06/07/2013


La campagna di Sicilia impose un elevato tributo di sangue alle
forze anglo-statunitensi: circa 22.000 tra morti, feriti e dispersi
più 20.000 ammalati di malaria. I tedeschi subirono circa 10.000
perdite, tra morti e prigionieri e gli italiani ebbero 5.000 morti e
116.000 prigionieri (cifra che indica l’inizio della dissoluzione
dell’esercito).L’avvio della campagna d’Italia con l’invasione della
Sicilia determinò avvenimenti politici che cambiarono la situazione
politica dell’Italia: la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 ed
il conseguente arresto di Mussolini. Questo determinò, il 3
settembre 1943, la firma dell’armistizio tra l’Italia e gli
anglo-americani. La pubblicizzazione dell’armistizio, avvenuta l’8
settembre successivo, determinò: l’invasione tedesca dell’Italia, la
liberazione di Mussolini - prigioniero al Gran Sasso- da parte dei
tedeschi, la sua traduzione in Germania, il suo ritorno in Italia il
23 settembre. Tutto ciò che successe poi si sa è stato raccontato da
cronisti molto più blasonati di noi, in questo scenario siciliano
comunque, secondo il nostro modesto parere, non ci furono ne
vincitori ne vinti, ne liberatori e liberati, soprattutto perchè il
prezzo pagato da persone innocenti fu alto molti ne piangono le
conseguenze ancora oggi, chi vide i propi padri, madri, sorelle,
amici, scomparire in un attimo, una pagina scura della II Guerra
Mondiale, che va sicuramente ricordata.
I documenti sull'agente inglese fucilato nel '44 e rimasto
sconosciuto per 60 anni. Doppiogioco per coprire lo sbarco alleato
in Sicilia
I segreti di John Armstrong. la spia venuta dal nulla
di MARCO PATUCCHI
ROMA - Nel gennaio del 1943 lo sbarco da un sommergibile sulla costa
della Sardegna orientale. Diciassette mesi dopo, in un boschetto a
nord di Roma, la vita di John Armstrong che finisce con il colpo di
un'arma nazista alla nuca. Nel mezzo, carceri, misteri, messaggi
cifrati e trattative tra il Vaticano e i fascisti.
Dopo più di sessanta anni di oblio emergono un nome e tracce di
biografia del quattordicesimo martire della Storta, l'"inglese
sconosciuto" indicato nei libri di storia e sulla lapide che ricorda
l'eccidio compiuto il 4 giugno del 1944 dai tedeschi in fuga da Roma
mentre gli americani, nelle stesse ore, entravano nella città da
sud: un gruppo di prigionieri prelevati dal carcere di via Tasso -
tra di loro Bruno Buozzi, sindacalista ed ex deputato socialista -
caricati su un camion e poi trucidati in un boschetto al
quattordicesimo chilometro della via Cassia.
Frammenti di vita svelati da documenti britannici e italiani, dalle
memorie di chi era a Roma nei mesi dell'occupazione nazista e dalle
ricerche condotte con certosina pazienza dall'avvocato Domenico
Mannironi. Un primo ritratto che l'Ambasciata inglese a Roma - come
spiegano due reduci della Secon da Guerra Mondiale, Thomas Huggan e
Harry Shindler, consiglieri della legazione - spera di celebrare con
picchetto d'onore e Union Jack.
Sappiamo, grazie alle carte consultate nel National Archives di Kew
e nell'Archivio dello Stato Maggiore dell'Esercito italiano, che il
10 gennaio del 1943 un sommergibile britannico, il P228 partito da
Algeri, sbarca a Capo Sferracavallo, sulla costa sarda della
provincia di Nuoro, due agenti del Soe (Special Operation
Executive), il braccio operativo dei servizi segreti ideato da
Churchill per coordinare le azioni di sabotaggio e di sovversione
oltre le linee nemiche. Sono un ex carabiniere italiano, Salvatore
Serra, ingaggiato e addestrato dal Soe, e John Armstrong, nome di
copertura di Gabor Adler: "Gabriel (altra falsa identità di Adler,
che nelle carte risulta figlio di una donna inglese e di un italiano
naturalizzato britannico, ndr) era non solo un uomo coraggioso e di
stupefacente intelligenza - si legge in un documento del Soe - ma
diventò velocemente un operatore radio di prima classe".
Muniti, appunto, di una radiotrasmittente e con la missione di
contattare antifascisti per organizzare la reazione al regime di
Mussolini, Serra e Armstrong, però, vengono subito catturati dai
soldati italiani che trovano nelle loro tasche la lista delle
persone da incontrare in Sardegna per le quali, così, si aprono le
porte del carcere.
Alcuni di questi nomi li ha forniti agli inglesi del Soe Emilio
Lussu, antifascista esule a Londra e futuro membro della
Costituente. A chi lo interroga, Armstrong dichiara inizialmente -
lo si desume dal diario storico del Sim, il servizio di
controspionaggio italiano - di essere un marinaio del sommergibile,
sceso a terra per un incidente al posto dell'ufficiale capo-missione
rimasto a bordo.

A questo punto le testimonianze e i documenti raccontano che Serra e
Armstrong, anche per evitare la fucilazione, scelgono di collaborare
con il controspionaggio. Gli inglesi, che nel frattempo hanno
appreso della cattura del commando, hanno la sensazione che
Armstrong invii messaggi sotto costrizione, ipotizzando dunque un
doppio o un triplo gioco. "Mentre in Nord Africa si completavano i
preparativi delle nostre truppe di invasione - si legge in un
rapporto del Soe - i messaggi e le domande mandate a Gabriel furono
realizzati per far credere che l'obiettivo dello sbarco era la
Sardegna". Cosa che gli italiani pensarono fino a qualche giorno
prima dello sbarco degli Alleati in Sicilia.
Nel maggio del '45 i servizi britannici svolgeranno indagini per
conoscere la sorte dei due agenti del Soe e interrogheranno Serra
che, passato nel frattempo con le formazioni partigiane piemontesi,
ammette di aver collaborato sotto costrizione con il
controspionaggio italiano dopo l'arresto in Sardegna e di aver
rivisto Armstrong, in buona salute, nel carcere romano di Regina
Coeli nel marzo del 1943. Come si evince da un telegramma cifrato,
nell'agosto 1944 gli inglesi ritenevano che Armstrong fosse vivo,
nelle mani dei tedeschi, durante i giorni precedenti la liberazione
di Roma. Poi, nel maggio del 1945, lo considereranno disperso.
La presenza di Armstrong a Regina Coeli sembrerebbe confermata dalle
memorie di chi, dopo l'8 settembre del 1943, era nella Roma occupata
dai nazisti. In particolare Sam Derry e William Simpson, due
ufficiali inglesi fuggiti dai campi di prigionia e diventati
collaboratori di monsignor Hug O'Flaherty, il sacerdote irlandese
che dal Vaticano organizzava la rete di protezione dei militari
alleati sbandati. Gli scritti di Derry e Simpson riferiscono di in
un certo "capitano inglese John Armstrong", detenuto da vari mesi a
Regina Coeli e che le notizie in possesso della Legazione svizzera
danno per condannato a morte: per lui e per lo stesso Simpson,
arrestato dai tedeschi poco prima della liberazione di Roma, O'Flaherty
prefigura il rilascio nell'ambito di un accordo con Pietro Koch, il
comandante dell'omonima banda fascista.
Koch, che si prepara ad abbandonare la città al seguito dei nazisti,
ha infatti chiesto al sacerdote irlandese di proteggere la moglie e
la madre quando gli Alleati saranno a Roma e, in cambio, si è
impegnato a non trasferire al nord i prigionieri di Regina Coeli.
O'Flaherty ha accettato lo scambio, chiedendo come prova di
affidabilità l'immediato rilascio di Simpson e di Armstrong. La
scarcerazione, però, non si realizza e Simpson, che lascerà Regina
Coeli all'arrivo degli Alleati, nelle proprie memorie racconta che
Armstrong verrà trasferito nel carcere di via Tasso e, poi, ucciso
dai tedeschi in fuga insieme ad altri tredici prigionieri il 4
giugno del 1944. Il nome di Armstrong, peraltro, viene accennato
anche da Fulvia Ripa di Meana in "Roma clandestina", diario
dell'occupazione nazista pubblicato nell'autunno del '44.
L'"inglese sconosciuto", dunque, sembra avere finalmente un'identità
anche se nel puzzle delle ricerche mancano i frammenti che possano
svelare la sua vita prima della missione italiana e, soprattutto, il
passaggio nelle mani dei nazisti. Il Freedom of Information Act 2000
vieta l'accesso per 84 anni a documenti relativi a persone per le
quali non è stata certificata la morte: questo è il caso di
Armstrong la cui esistenza è stata ricostruita indirettamente
utilizzando le carte riguardanti Serra, e del quale non si conosce
nemmeno il luogo di sepoltura. Solo queste carte potranno far
coincidere il profilo biografico dell'agente segreto con quello
dell'eroe prigioniero dei nazisti nel carcere di via Tasso, venerato
simbolo della Resistenza.
http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/spettacoli_e_cultura/lettere-spia/lettere-spia/lettere-spia.html



ADRANO

CENTURIPE

CARLENTINI

MILITELLO

TRECASTAGNI

CATANIA
Eugenia Corsaro,
eroina catanese della Resistenza
12 enne invisibile che sabotava
la Luftwaffe nazista
CRONACA – Il partigiano originario di
Linguaglossa Nunzio Di Francesco, sopravvissuto al campo di
concentramento di Mauthausen, la definiva «la più giovane martire
italiana». È stata giustiziata dai soldati nazifascisti mentre
tentava di tagliare i fili della corrente elettrica alla base aerea
Gerbini di Catania
«La più giovane martire della Resistenza
italiana». Nunzio Di Francesco, partigiano originario di
Linguaglossa, usava queste parole per definire la piccola Eugenia
Corsaro. L'uomo, un sopravvissuto al campo di concentramento di
Mauthausen, ha fatto la sua esperienza durante la guerra di
liberazione nelle brigate Garibaldi in Piemonte fino alla cattura da
parte dei nazisti. Nel suo racconto, affidato ad Angelo Sicilia,
direttore artistico della Marionettistica popolare siciliana di
Palermo e autore dell'opera Testimonianze partigiane, c'è la storia
della Resistenza catanese. Una storia in cui Eugenia, uccisa a
dodici anni dai soldati nazifascisti e quasi estromessa dalla
memoria, occupa un ruolo di rilievo al pari di eroine come Graziella
Giuffrida e Salvatrice Benincasa.
«Essendo piccola di statura - racconta Sicilia -
Eugenia Corsaro era quasi invisibile alle sentinelle naziste. Il suo
compito era quello di tranciare dei fili elettrici che portavano la
corrente all'aeroporto militare Gerbini di Catania». Erano gli anni
Trenta e l'Isola si trovava sotto la piena occupazione nazifascista.
La base aerea Gerbini era stata ricavata dalla Regia aeronautica tra
i campi agricoli della piana di Catania, a una ventina di chilometri
dal capoluogo etneo.
Da qui durante la guerra si alzavano in volo gli
aerei della temuta Luftwaffe tedesca per le azioni militari su Malta
e contro le navi britanniche. A quei tempi la Resistenza siciliana
contava già diversi gruppi organizzati. Uno di questi era proprio
attivo nella zona della base aerea con diverse opere di sabotaggio
ai danni dell'avamposto nazifascista messe a segno spesso da
Corsaro, che a soli 12 anni riusciva a staccare la corrente
dell'aeroporto.
Durante una di queste operazioni, tuttavia,
Eugenia è stata scoperta dai nazisti che, dopo averla catturata, la
giustiziarono sul posto. «Un atto eroico da parte di uno dei tanti
personaggi sconosciuti che la nostra storia ci riserva» lo definisce
Sicilia. Una rappresentante di quella Resistenza che prese le basi
proprio dall'Isola, grazie anche al sacrificio di tanti cittadini.
«Sappiamo da fonti scritte e orali che i nazisti causarono centinaia
di stragi nell'Italia continentale - conclude lo scrittore - ma in
realtà la stagione delle stragi la iniziarono in Sicilia. La
divisione corazzata Goering, che causò decine di eccidi, specie in
Toscana, cominciò questo tragico rituale in Sicilia. A Mascalucia,
con quattro civili uccisi e a Castiglione di Sicilia, dove i morti
furono sedici». E ancora prima dello sbarco degli alleati tante
furono le ondate di arresti e deportazioni «al confino e sulle
isole, come a Ventotene o addirittura in Africa. E tanti i sacrifici
di piccoli eroi comuni come Eugenia».
GABRIELE RUGGIERI 25 APRILE 2016
http://catania.meridionews.it/articolo/42844/eugenia-corsaro-eroina-catanese-della-resistenza-12enne-invisibile-che-sabotava-la-luftwaffe-nazista/


Le forze da sbarco, precedute da uno sfortunato lancio di
paracadutisti (nessuna delle unità scese nel luogo stabilito e molti
parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota, lungo la rotta di
ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti perché
scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da
una formidabile flotta combinata.
Supermarina non si assunse la responsabilità di inviare la flotta a
difesa dell'isola, rischiandone la totale distruzione, quindi chiese
capo di stato maggiore di prendere tale decisione; ne segui una
serie di discussioni che non portarono ad alcuna azione
operativa.[11] La decisione fu in qualche modo giustificata dal
fatto che, in assenza di adeguata copertura aerea, le corazzate e
gli incrociatori italiani sarebbero salpati per una missione
suicida. Tuttavia neppure i numerosi sommergibili in agguato a sud
della Sicilia ottennero risultati: nel corso della campagna di
Sicilia la Regia Marina perse i sommergibili Ascianghi, Bronzo,
Flutto, Nereide, Argento ed Acciaio con la morte in tutto di 152
uomini, ottenendo come unica contropartita i gravi danneggiamenti
degli incrociatori leggeri Cleopatra e Newfoundland e l'affondamento
della motocannoniera MGB 641.
La flotta alleata contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney,
Warspite e Valiant, quest'ultima appena rientrata in servizio dopo
l'attacco di Alessandria), più altre due di riserva ad Algeri
("Forza Z" con le corazzate Howe e King George V), le portaerei
Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion, Newfoundland,
Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope,
Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le
forze di appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly,
8 cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in
batterie galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US
Navy per parte sua schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS
Savannah, USS Philadelphia, USS Brooklyn e USS Birmingham), oltre a
25 cacciatorpediniere e a un monitore britannico. Da notare anche la
presenza tra queste forze di unità appartenenti a paesi occupati,
come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime truppe
toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.

"Il cielo si oscurò e le orecchie fischiavano!"
di Ino Biondo
I nonni, gli zii o i parenti che poterono racontare quest'esperienza
iniziavano sempre con questa frase. Il 22 Luglio del 1943 gruppi
enormi di B-17 e B-25 più un esiguo numero di Wellington Radono al
suolo Palermo. Queste furono le parole di mio nonno quando mi
raccontava "le cose della guerra" quando da piccolo per stare buono
mi sedevo accanto ed incominciava a raccontare le sue storie di ex
militare e di uomo coraggioso che per mantenere una promessa
attraversò un campo minato andata e ritorno! : -"Gente che scappava
da tutte le parti...persone che per la paura restavano immobili in
mezzo la strada. Tutti correvano verso i rifugi ce n'era uno vicino
la Cattedrale si stava stretti vicini gli uni agli altri lo spazio
era poco. I "picciriddi" (bambini in palermitano), piangevano e le
loro madri a consolarli c'è chi gli diceva: " stanno giocando non è
niente", Palermo era l'Inferno in terra! Odore di cose bruciate e
forse di carne bruciata, gente stonata che manco si ricordava il
proprio nome! Manco un incubo è così brutto" -. Palermo e la sua
gente come mio nonno, era capace, nonostante tutto di commuoversi
davanti ad una bandiera, ed esclamare "W l'Italia!" valori che
purtroppo oggi risultano per la maggior parte dei ragazzi
anacronistici, assurdi ed obsoleti.

LO SBARCO: GLI USA E LA MAFIA
Vittorio Martinelli
Nei primi dieci mesi di guerra i sommergibili tedeschi affondarono
nei pressi delle coste dell'Atlantico cinquecento navi statunitensi;
era chiaro che venivano riforniti di viveri e di nafta da spie e
traditori; marina e controspionaggio si dimostrarono impotenti. Il
controspionaggio ebbe l'idea di ricorrere ai servigi della mafia,
con la mediazione di Salvatore Lucania (detto “Lucky Luciano”) che
stava sc ontando una condanna a 15 anni. I fratelli Camardos e Frank
Costello, con la loro organizzazione mafiosa, riuscirono dove le
strutture ufficiali avevano fallito: I'attività filo-nazista fu
stroncata.
Da cosa nacque cosa. Abrogati nel 1942 i “decreti Mori” parecchi
mafiosi ritornati in Sicilia avviarono contatti con gli “Alleati”
che incominciarono ad arruolare uomini d'origine siciliana. A mezzo
dei pescherecci, i mafiosi esercitarono lo spionaggio nel
Mediterraneo; poi fornirono notizie sulle infrastrutture dell'isola,
la dislocazione e la consistenza delle truppe dell'Asse in Sicilia.
Del resto perché gli Alleati iniziarono l'invasione dell'Europa
meridionale dalla Sicilia, anziché dalla Sardegna o dalla Corsica,
dalle quali sarebbe stato agevole effettuare sbarchi in Toscana,
Liguria o Provenza?
La tranquillità nelle retrovie delle truppe che sarebbero sbarcate
costituiva la preoccupazione principale dei comandi alleati: fu
scelta la Sicilia con la certezza di poter contare, sull'appoggio
della mafia. Fu quest'ultima ad ospitare dal 1942 il colonnello
Charles Poletti, futuro governatore militare, dall'aprile 1943 il
colonnello britannico Hancok e un buon numero d'infiltrati
italo-americani.
Dalla relazione conclusiva della Commissione antimafia presentata
alle Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco
angloamericano in Sicilia numerosi elementi
dell'esercito americano
furono inviati nell'isola, per prendere contatti con persone
determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli
agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca
l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò
una apposita squadra (la Target section), incaricandola di
raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della
“preparazione psicologica” della Sicilia. Fu così predisposta una
fitta rete informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la
Sicilia, e mandò nell'isola un numero sempre maggiore di
collaboratori e di informatori. Ma l'episodio certo più importante è
quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco
da Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana
di origine siciliana.
Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le
vie dell'infiltrazione alleata in Sicilia prima dell'occupazione. Il
gangster americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le
autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi
capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si
interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per
far trovare un terreno favorevole agli elementi dell'esercito
americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per
preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano”
venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States
durante la guerra”. E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli
americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, raggiunsero
Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...è
storicamente provato che prima e durante le operazioni militari
relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo
con il gangsterismo americano, s'adoperò per tenere sgombra la via
da un mare all'altro...”.
Ancora la Commissione antimafia: "la mafia rinascente trovava in
questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo,
emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di
forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento
opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti
verso le potenze occupanti”.
Scrisse Lamberto Mercuri: “fu in quei mesi che la mafia rinacque e
non tardò ad affacciarsi alla luce del sole: in realtà non era mai
morta, né completamente debellata: le lunghe ed energiche
repressioni del prefetto Mori ne avevano sopito per lungo tempo
ardore e vigoria e fugato all'estero i capi più “rappresentativi” e
più spietati che avevano tuttavia mantenuto contatti e legami con
l'onorata società dell'isola”.
Nella confusione seguita all'invasione e alla caduta del Fascismo,
la mafia vide l'opportunità di riorganizzare il vecchio potere, di
insinuarsi nel vuoto del nuovo, raccogliendo i frutti della
collaborazione con gli alleati. Molti suoi uomini noti ebbero
cariche importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don
Calogero Vizzini, fu nominato da un tenente americano sindaco di
Villalba; nella cerimonia d'insediamento, fu salutato da grida di
“Viva la mafia!”.
“Vito Genovese - scrisse Mack Smith - benché ancora ricercato dalla
polizia degli Stati Uniti in rapporto a molti delitti compreso
l'omicidio, e sebbene avesse servito il fascismo durante la guerra,
risultò stranamente essere un ufficiale di collegamento di una unità
americana. Egli utilizzò la sua posizione e la sua parentela con
elementi della mafia locale per aiutare a rastaurarne
l'autorità...”.
Divenne il “braccio destro indigeno” del governatore Poletti, ma una
banda ai suoi ordini rubava autocarri militari nel porto di Napoli,
li riempiva di farina e zucchero, (pure sottratti agli alleati) che
vendeva nelle città vicine. Altri mafiosi, meno noti, divennero
interpreti o “uomini di fiducia”. L'atteggiamento del Governo
militare fu ispirato a criteri utilitaristici; sta di fatto, però,
che quest'apertura verso gli “amici degli amici” permise in breve
alla mafia di riorganizzarsi, di riacquistare l'antica, indiscussa
influenza. Aveva sempre cercato l'alleanza con il potere (anche con
quello fascista, agl'inizi) ma per la prima volta le veniva
conferito un crisma di legalità e di ufficialità che le consentiva
d'identificarsi con il potere. I “nuovi quadri” saldarono o
ripresero solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi
verso il tipo di criminalità associata “industriale” caratteristico
del gangsterismo USA nel periodo tra le due guerre.
Sul numero di aprile di "Volontà" ho riepilogato le vicende della
lotta - vittoriosa - condotta dal Fascismo contro la mafia. Il
seguito della vicenda dimostra come, grazie agli anglo-americani, la
seconda guerra mondiale rappresentò per la mafia l'occasione d'oro
per una rigogliosa rinascita, come i fatti hanno dimostrato
ampiamente.
Si suol dire oggi, da chi intende sminuirne il successo, che il
Fascismo non debellò la mafia, semplicemente la costrinse
all'inazione, tant'è vero che poi si ridestò più forte di prima. Se
fu poco, perché il regime attuale non perviene al medesimo
risultato? Basterebbe. Senza più delitti ed attività criminale, la
mafia si ridurrebbe ad una patetica, folcloristica conventicola
segreta che non darebbe noia e non farebbe più paura a nessuno.
http://web.tiscali.it/RSI_ANALISI/
I 70 anni dello Sbarco.
Convegno e mostra fotografica di Phil Stern per celebrare
l'anniversario
Le sorti della II Guerra Mondiale furono decise,
settanta anni addietro in Sicilia. Il 10 luglio per ricordare
quell'epica stagione viene organizzato un convegno di illustri
storici alle Ciminiere a corona del quale nella Galleria del Credito
Siciliano, ad Acireale, sarà ospitata una mostra di foto d'epoca
scattate da Phil Stern, allora giovanissimo corrispondente di
guerra, poi divenuto famosissimo come fotografo di Marilyn Monroe e
Frank Sinatra. Sarà presente lui stesso: nonostante i suoi 93 anni,
vuole ripercorrere i luoghi di quelle giornate ormai leggendarie (la
mostra sarà poi visibile alle Ciminiere da metà dicembre per tre
mesi). Una folla di altre iniziative tra pubblico e privato si
svilupperanno sul medesimo tema e se ne è parlato ieri mattina,
sempre alle Ciminiere nel corso di una conferenza stampa condotta
dal giornalista Daniele Lo Porto.
Salvo Pogliese, vice-presidente dell'Ars e
promotore dell'iniziativa, ne ha condensato la valenza che riguarda
la storia passata, ma anche l'economia attuale. «Il Museo storico
dello sbarco attivo a Catania da dieci anni, è il secondo al mondo,
per estensione tra quelli dedicati alle memorie militari e copre lo
spazio di appena 38 giorni con una massa imponente di documenti. Sul
piano economico però il numero di visitatori del nostro museo è
assai inferiore a quello anche di musei analoghi di rango ed
estensione assai limitata». Dunque bisognerà collegare il nostro
Museo dello sbarco con altre iniziative, di indagine storica,
editoria, collezionismo, di percorsi della memoria, che sfruttino a
pieno le immense potenzialità di cui disponiamo, e di questo
sviluppo si colgono i primi frutti.
Ne hanno sottolineato i dettagli Nello
Musumeci, che come presidente della Provincia dieci anni fa ne
disegnò il piano e le intenzioni; Antonella Liotta, attuale
commissario straordinario alla Provincia, Angela Mazzola (assessore
comunale) assicurando il sostegno al programma; lo storico Ezio
Costanzo, autore di decisivi saggi in materia, annunciando le nuove
prospettive di studio; Riccardo Tomasello e Augusto Guzzardi,
presidenti di organizzazioni private che hanno collaborato al
programma e Ornella Laneri che come presidente della sezione
Alberghi e Turismo della Confindustria siciliana ha generosamente
finanziato il pellegrinaggio siciliano di Phil Stern.
Lo stupore giovanile dietro l'obiettivo di un
mitico fotoreporter di guerra
Molti pensano che la storia sia una serie di date
e di battaglie. Sbagliano. La storia siamo noi. Lo si capiva ieri:
si parlava di fatti lontani, ma la storia palpitava nelle persone.
L'esperto di storia militare siciliana Ezio Costanzo, direttore di
una collana editoriale primaria nel panorama internazionale, ha
ricordato Phil Stern, il mitico reporter dello Sbarco. Allora il
fotografo aveva 23 anni e con lo stupore della sua giovinezza in
mezzo agli altri giovani che sfidarono la morte (e diecimila ci
rimisero la vita) osservava con stupore il mondo siciliano:
apparentemente diverso dal suo. Incontra un contadino e come prova
di amicizia accenna un saluto nella nostra lingua ricavandolo dal
frasario fornito alle truppe. Piccole frasi sgangherate. Ma il
siculo risponde con frasi rotonde e ben tornite, con inconfondibile
accento americano.
Il contadino era veramente siciliano, ma
era partito dall'Isola ai tempi della fame, aveva impiantato una
stireria nel Bronx e dopo alcuni decenni, messa assieme una piccolo
fortuna era ritornato nell'Isola, indistinguibile dagli altri
siciliani, ma con una bella casa. Un incontro amichevole in tempo di
guerra come quelli descritti da Omero? Sì. I contadini
fraternizzavano con i Gmen, ne facilitavano le mosse, perché erano
paisà: si ritrovavano al di qua dell'Oceano. Nei rapporti ufficiali
si trovano ipotesi di conni venze mafiose, di accordi a tavolino che
forse non furono immaginati da chi non sapeva spiegare altrimenti la
familiarità tra "occupatori" e "occupati". Guardando le foto di
allora i volti dei contadini e dei ragazzi con il mitra in mano,
certo capiremo assai più che dai teoremi di chi non è mai vissuto
nel Bronx o in un paesino siciliano e non sanno quanto si somiglino.
Mentre si parlava di queste cose un attento ascoltatore,
appassionato di storia siciliana mostra un libriccino con il diario
di Nino Bolla, maggiore degli Alpini, nato a Saluzzo comandante
della batteria che inchiodò per diversi giorni l'avanzata inglese
sul Simeto. Ogni giorno una paginetta di prosa asciutta, senza
enfasi guerresca, con la consapevolezza che sulle campagne
circostanti, fino alle colline di Motta, si stava decidendo il
destino del mondo. Quel libretto, tanto istruttivo fu stampato
fortunosamente nel '61: ne è rimasta solo qualche copia nelle
biblioteche, e invece dovrebbe essere letta in tutte le scuole per
capire senza preconcetti la storia. Il maggiore alpino era stato un
eroe della I Guerra Mondiale, nelle dolorose giornate dell'Adamello.
E poi si fa avanti un giovanotto dalla sgargiante maglietta rossa,
con sopra vistosamente stampigliato "80". È la sua età: all'epoca
dello sbarco era un ragazzino. Ha una mano amputata: gliela portò
via una bomba in quel luglio di 70 anni fa. Gli Americani dapprima
pensarono a un attentato, e si prepararono al contrattacco: poi
capirono e soccorsero il ragazzino sanguinante. Lo portarono
all'ospedale di campo dove i chirurghi gli amputarono un arto ma gli
salvarono la vita. Lì il bambino vide il generale Patton che
rimproverava un soldato fifone. Nella guerra ci sono uomini: quando
c'è il pericolo si spaventano: se sopravvivono sono felici per
sempre e quel giovanotto di 80 gagliarde primavere ha sciolto un
inno alla gioia: La vita è bella, l'amore è la felicità».
Sergio Sciacca - La Sicilia, 29/06/2013

Sotto le bombe del
'43 quegli esami superati a tavolino
Il 16 aprile 1943, per trenta studentesse del
Liceo Cutelli, fu un giorno "storico". Catania, in quei giorni,
viveva la eco e le devastazioni della guerra. «Gli aerei alleati
arrivano in stormi così fitti da oscurare il sole, molti palazzi
sono rasi al suolo e si contano centinaia di morti e migliaia di
feriti; troppo rischioso mandare gli studenti a scuola, cosicché le
autorità decidono di chiudere anticipatamente l'anno scolastico e di
considerare validi per la promozione i voti conseguiti nel secondo
quadrimestre».
Così, ricorda quei giorni, la signora Maria
Maltese Midolo, una delle studentesse della III liceale, sez. A,
insieme a Maria Borzì, Agata Giuffrida Finocchiaro (madre della
senatrice Anna), Emilia La Ferlita, Grazia Pitrè, Maddalena Politi
Asmundo e Pina Verdirame Cutrona. E i suoi ricordi, arrivati con una
mail alla nostra redazione, qualche giorno fa, grazie alla solerzia
del figlio, che ha voluto raccontarci i suoi ricordi, sono, per un
giorno ridiventati il suo presente, quando le sette signore, ormai
ottantottenni, hanno deciso di vedersi per una rimpatriata di
classe, l'11 giugno. Un incontro davvero significativo, che la
signora Maria, al telefono, ci ha raccontato così: « Non ci
riconoscevamo più, e dopo 70 anni è comprensibile.
L'incontro è tutto merito di Maria Borzì,
l'unica nubile del gruppo, che ha fatto l'investigatrice, e
conoscendo un po' tutte noi e in particolare la mamma della
senatrice Finocchiaro, ha deciso di rintracciare le superstiti.
Siamo ormai una decina su trenta, di quella classe femminile del
Cutelli». Nella mail si legge ancora: «Per noi studentesse della 3°
A del Liceo Classico niente esami di maturità, niente patemi d'animo
e soprattutto niente "notte prima degli esami"». E in effetti la
signora Maria ci confessa la gioia, nell'apprendere la sospensione
delle lezioni: «Eravamo felici, un po' perché non ci rendevamo
conto, un po' per incoscienza; anche dopo la notizia ci riunivamo e
scherzavamo.
Nonostante tutto lo ricordo come uno dei periodi
più belli della mia fanciullezza, perché si era così spensierati!
Ricordo ad esempio che quando c'era la ronda tedesca, di nascosto
noi seguivamo i soldati, senza pensare al pericolo; eravamo
sfollati, e in maggioranza ragazzetti, a San Nullo e ci divertivamo
la sera a riunirci e scherzare; tra noi c'era pure un ragazzo che
aveva preso ad un soldato tedesco un paio di anfibi chiodati,
particolarmente rumorosi, per cui spesso si correva nei vicoli più
nascosti per evitare di essere scoperti. Io a 17 anni sono stata
costretta a lavorare in ufficio con mio padre. Poi decisi di
prendere la laurea e di insegnare, e così ho fatto per tutta la
vita».
I ricordi di Maria Borzì sono più nitidi, nomi,
dettagli, la violenza del bombardamento dove anche la madre è
rimasta sepolta per un'ora, fino a quando scavando non sono riusciti
a tirarla fuori; ci confida: «Ho mantenuto i rapporti con tutte le
mie amiche, forse perché restando nubile sono stata sempre molto più
tenace con i miei affetti. Ricordo anche il grande dolore per il
prof. Barletta, che ci aveva avuto come alunne al ginnasio, ucciso
dagli inglesi, dopo che i tedeschi ci avevano buttato fuori dal
liceo, ed eravamo stati costretti a rifugiarci prima al convitto
diocesano, poi presso le suore di via Caronda.
Avremmo preferito fare cento esami piuttosto che
vivere questa esperienza». Nei ricordi sia dell'una, che dell'altra,
dopo una vita passata a crescere figli e nipoti, o semplicemente a
preparare i loro alunni alla vita, il rimpianto per quella mancata
"notte prima degli esami" è vivido e costante, per questa ragione,
nella loro lettera, come anche al telefono ci hanno raccomandato un
"in bocca al lupo" speciale per quanti siederanno da lunedì di
fronte alla commissione, pronti a sostenere il primo esame della
vita, consapevoli di quanto il ricordo di chi l'ha fatto, ma anche
il rammarico per chi, in quei tristi giorni, ne è stato privato,
possa lasciare la lezione più importante di tutte: "gli esami
passano, alcuni non li supererai, altri non li affronterai, ma il
peso delle esperienza e delle amicizie riempirà il corso di tutta la
tua vita", e dopo 70 anni, il loro esempio lo dimostra.
Samantha Viva - La Sicilia 30/06/2013

Il 13 e 14 luglio
solenne commemorazione del 70° dei bombardamenti. Il ricordo dei
bombardamenti a Paternò.
Con le solenni manifestazioni commemorative del
13 e 14 luglio a ricordo del 70° Anniversario dei bombardamenti su
Paternò l’Amministrazione Comunale, di concerto con l’Assessorato
alla Cultura e la Presidenza del Consiglio, ha inteso ricordare una
delle pagini più drammatiche della storia della città: l’estate del
‘43, come ci testimonia l’omonimo, bellissimo libro che Ezio
Costanzo consegnò alla memoria della Città e alle nuove generazioni
nel 2001.
A 70 anni dai quei tragici eventi bellici,
Paternò, Città insignita nel ’72 con la Medaglia d’Oro al Valore
Civile, non ha dimenticato i suoi morti e la sua distruzione, ne
fanno fede le testimonianze ancora vivide di chi porta nel corpo e,
soprattutto, nell’animo le tracce indelebili di quella tremenda
guerra: la stratificazione dei ricordi dei tragici eventi del 14 e
15 luglio è diventata parte integrante dell’identità cittadina, una
banca della memoria collettiva che in questo lungo arco di tempo ha
contribuito a mantenere vivo in ognuno il ricordo di quella
terribile estate. 
Era un caldo pomeriggio, intorno alle ore 14 del
14 luglio, inaspettati quanto cruenti bombardamenti da parte degli
anglo-americani si abbatterono su Paternò causando la morte di circa
trecento inermi cittadini e la distruzione di interi quartieri della
città. Paternò era diventato un obiettivo strategico degli Alleati
in quanto Centro dei Comandi Tedeschi ed Italiani e la sua conquista
una tappa d’obbligo per arrivare a Catania. A meno di 24 ore dal
bombardamento del 14 luglio, e fino al 5 agosto, la città fu
nuovamente martoriata da una nuova ondata di bombardamenti che
contribuì a compiere l’opera di morte e distruzione della città.
Dalle macerie delle case venivano estratti
centinaia e centinaia di morti, una stima approssimativa parlò di
tremila, addirittura di cinquemila morti; i feriti, circa un
migliaio, trovarono ricovero presso l’ospedale S.S. Salvatore,
altri vennero collocati nell’ospedale da campo che fu approntato
presso il Giardino Moncada, la villa comunale; la gente, in massa,
sfollava verso la vicina Ragalna e le campagne vicinori, accolta con
generosità dagli abitanti di quei luoghi. Il Giardino Moncada, fu
teatro di uno dei più efferati eventi di quei terribili giorni:
l’incendio dell’ospedaletto da campo ivi impiantato, sembra
intenzionalmente voluto dalle truppe tedesche in ritirata, dove
perirono centinaia di feriti civili e militari. Per onor di cronaca
è giusto registrare che la tesi dell’incendio si contrappone con
quella che, invece, l’ospedale bruciò in conseguenza dei
bombardamenti.
Nell’ immane rogo, trovò la morte anche un eroico
frate cappuccino, padre Vincenzo Ravazzini, che, piuttosto che
fuggire da quell’inferno, restò fino all’ultimo a portare conforto
ai feriti. E a lui la Città, nella persona del Sindaco Mauro
Mangano, nella solenne cerimonia religiosa del 14 luglio celebrata
proprio alla Villa Comunale, ha inteso esprimere la propria eterna
gratitudine deponendo una corona d’alloro sulla stele che ricorda il
suo martirio.
Sui fili della memoria si intrecciano decine e
decine di testimonianze di quanti allora bambini o giovinetti
vissero quei tremendi eventi e a tutt’oggi ne rappresentano la
memoria vivente. Una storia in cui convivono orrore e nobili
sentimenti è quella raccontata dalla signora Agata Di Bella di 86
anni , allora una bellissima sedicenne , che avvalora la tesi
dell’incendio doloso all’ospedaletto: “Ricordo ancora lucidamente il
14 luglio del ’43, quando la nostra casa, sita in Via Altarino
presso u’paisi novu.fu bombardata. In verità- racconta la signora-
l’evento poteva essere, in qualche modo, arginato in quanto i
Comandi italiani la mattina del 14 luglio fecero cadere da un aereo
su Paternò dei volantini in cui si preannunciava l’imminente
bombardamento della città.
Ma la gente non diede la dovuta importanza al
pre-allarme in quanto Paternò non era considerata una zona
strategica e gli allarmi passavano addirittura inosservati da noi
cittadini. Quel giorno mio padre era al lavoro e a casa c’eravamo io
con le mie due sorelline più piccole e mia madre la quale , per
sicurezza, pensò bene di preparare sotto il grande letto
matrimoniale una sorta di rifugio ottenuto accatastando “trispiti”,
tavole di legno e materassi e questo espediente ci salvò la vita.
Quando i primi soccorsi arrivarono ai loro occhi si presentò uno
spettacolo agghiacciante: la nostra casa, colpita dalle bombe, era
crollata! Fummo miracolosamente salvate da sotto le macerie grazie
al fatto che io mi misi disperatamente a scavare e all’improvviso
una mano macchiata di sangue, la mia mano, sbucò fuori dai cumuli di
pietre e detriti e indicò ai soccorritori che sotto le macerie c’era
gente ancora viva! Poiché riportammo varie ferite, venimmo
ricoverate all’ospedaletto da campo approntato alla villa comunale,
dove prestava servizio un giovane carabiniere che si innamorò… di
me! E a questo dolce sentimento la mia famiglia deve la vita: il
carabiniere, avendo saputo che l’ospedale sarebbe stato bruciato ci
aiutò a scappare e grazie a questo coraggioso, nobile gesto oggi
sono qui a raccontarvi la mia testimonianza di quella indelebile,
terribile estate del ’43!”
Agata Rizzo
http://www.lalba.info/2013/07/ricordati-a-paterno-i-tragici-eventi-dellestate-del-43/

I "NGLISI" - GLI
ALLEATI A OGNINA IL 4 AGOSTO 1943
La borgata di Ognina non fu
risparmiata dai bombardamenti alleati, anche per la vicinanza della
cosiddetta «batteria di Borgetti», situata nell'area dell'attuale
piazza Nettuno.
Essa era costituita da quattro cannoni antiaerei
da 75 mm posti a difesa della parte nord-orientale della città:
deposito locomotive F.S., Guardia-Ognina, S. Giovanni li Cuti,
Rotolo, Borgetti, Porto Ulisse, Ognina, «Carabiniere».
La borgata, passaggio obbligato delle truppe
alleate, subì un tremendo scossone quando i tedeschi (già in
ritirata verso nord), per tentare di rallentare l'avanzata degli
anglo-americani, fecero saltare il ponte della statale 114, che era
costruito al limite nord della piazza Mancini Battaglia.
Innocente e inconsapevole co-protagonista
dell'avvenimento fu l'allora tredicenne Matteo Tudisco (meglio
conosciuto come «Matteu d'a za' Vita»), che nel pomeriggio del 4
agosto 1943 aiutò i due artificieri tedeschi incaricati di minare il
ponte e la stessa piazza Mancini Battaglia, che, per ragioni di
sicurezza, venne presidiata per impedirne l'attraversamento a
chicchessia.
Sopra il ponte venne collocato esplosivo di vario
tipo e nelle buche scavate qua e là sulla piazza vennero, invece,
sistemate delle mine anti-uomo.I punti del piazzale dove erano state
collocate le cariche, che dovevano esplodere al passaggio del
nemico, furono coperti in modo approssimativo con del terriccio.
La notte del 4 agosto, poco dopo le ventiquattro,
una spaventosa esplosione devastò il cavalcavia, creò un profondo
avvallamento lungo la statale e arrecò gravissimi danni alle
abitazioni della borgata; i sassi sparsi intorno dallo scoppio
mascherarono viepiù i punti della piazza dove era stato posto il
detonante.
Qualche giorno dopo, preceduta da un mezzo che la
proteggeva, una colonna alleata giunse all'imbocco sud della piazza.
E avrebbe sicuramente subito serie conseguenze se Matteo,
casualmente sul posto e a conoscenza dei fatti, non avesse, con ampi
gesti e parole - accompagnati da qualche «bum-bum» - fatto capire il
pericolo che la colonna correva. Dal mezzo in avanscoperta scesero
immediatamente due ufficiali che, prendendo Matteo sottobraccio, si
fecero indicare i punti dove erano state sotterrate le mine.
II ragazzo, anche se impaurito, con grande
precisione indicò loro dove erano state collocate le cariche
esplosive, salvando così la colonna da gravi rischi. Per questo
meritevole gesto Matteo venne quasi sommerso di biscotti e
cioccolata.
_________________
da "Luci della scogliera"

3 AGOSTO 1943, PEDARA E
MASCALUCIA. INIZIA LA RESISTENZA AI TEDESCHI.
Il 25 Luglio la dittatura fascista era caduta. Implosa, “sotto”
le orrende devastazioni umane e materiali della nefastaa guerra
scatenata. Mussolini, arrestato; da un catanese, il capitano dei
carabinieri Vigneri.
Giorno 3 agosto, l’enorme risentimento contro la
guerra e il disprezzo verso i tedeschi accumulato dal popolo
siciliano esplose in due paesini alle falde dell’Etna, a pochi
Chilometri da Catania..
Inoltre, non venivano più sopportate le continue razzie messe in
opera dai tedeschi. Fu una vera e propria rivolta popolare.
Per prima “ esplose” Mascalucia, dove stazionavano circa 2000
soldati tedeschi. Nel paese era presente un nucleo di sodati
italiani, addetti alle fotoelettriche.
Soldati tedeschi, dopo avere sottratto la motocicletta ad un miliare
italiano portaordini e il fallito tentativo di rubare i quattro
cavalli del carrettiere Bonaccorso, tentarono di rapinare i cavalli
ad una famiglia catanese ( Amato) - sfollata nel paese -; spararono,
provocando un morto ed un ferito. In un altro punto del paese, in un
casolare, un tedesco ubriaco sparò, uccidendo il soldato Giuseppe La
Marra. Successivamente i tedeschi uccisero un altro soldato
italiano, Francesco Wagner, ventiduenne mantovano.
I componenti della famiglia Amato – di mestiere, armieri, avevano un
deposito nel paese – risposero con le armi. Fu il “segnale”
dell’inizio della resistenza popolare.
In breve molti cittadini armati di fucili e pistole ( distribuiti
dalla famiglia Amato, prelevate dal proprio deposito di armieri)
scesero per le strade, sparando ai soldati tedeschi. Molti colpi
furono tirati dalle terrazze delle case e dal campanile della chiesa
principale del paese. Ai cittadini si affiancarono i soldati
italiani, i carabinieri e i Vigili del fuoco, sfollati da Catania. I
soldati portarono altre armi e bombe a mano.
La sparatoria durò circa quattro ore. Armi di vario tipo, munizioni
e camionette furono catturate ai tedeschi.
I tedeschi, dopo avere lasciato diversi caduti – quattordici,
raccontano le cronache dell’epoca, vari cadaveri non furono mai
ritrovati -, si ritirarono dal paese. Rimasero uccisi un cittadino
del paese e due soldati italiani tra i tanti che si erano schierati
con gli abitanti.
Il 17 agosto del 2007, davanti il Palazzo di Città, una lapide è
stata inaugurata per commemorare la resistenza dei coraggiosi
abitanti di Mascalucia ai nazisti.
Durante la stessa giornata , a pochi chilometri di distanza, a
Pedara, dopo che un contadino aveva ucciso, a colpi di pietre, un
soldato tedesco – un altro rimane ferito – in difesa del proprio
mulo preda del razziatore, scoppia la rabbia popolare. Parecchi
giovani si armano ( oltre ai fucili personali altre armi furono date
dai carabinieri), dislocandosi tra le vie del paese. I tedeschi,
ricevuti rinforzi, occuparono il paese, iniziando un vero e proprio
rastrellamento. Arrestarono 13 cittadini, portati successivamente in
una località montana di Zafferana nell’albergo “Airone”, requisito
dai tedeschi. Furono lasciati liberi il 10 agosto, quando i tedeschi
furono costretti ad abbandonare quelle posizioni.
Ormai i soldati tedeschi, incalzati dalle truppe Alleate, sono allo
sbando. Lasciano Zafferana, liberata definitivamente l’8 agosto. Il
giorno prima la liberazione aveva toccato Mascalucia.
http://anpicatania.wordpress.com/2010/08/03/3-agosto-1943-pedara-e-mascalucia-%E2%80%93-provincia-di-catania-%E2%80%93-inizia-la-resistenza-ai-tedeschi/

L’insurrezione contro i tedeschi in
difesa della roba, di Salvatore Scalia
Il titolo del libro è perentorio “La Resistenza italiana in
Sicilia. I martiri e gli eroi di Mascalucia e Pedara. ” Il testo lo
è altrettanto. L’autore Nicola Musumarra, che si avvale della
presentazione di Rosario Mangiameli e della prefazione di Graziano
Motta, non ha dubbi sul fatto che il 3 agosto del 1943 nei due
paesini etnei si verificarono episodi di lotta ! partigiana e che i
protagonisti meritino con l’assegnazione di una medaglia d’oro un
riconoscimento nazionale per il contributo alla liberazione dal
nazifascismo. La sua tesi, dovuta a carità di patria e passione
civile, è che se quella data non è entrata nell’epopea resistenziale
ciò si deve al trasformismo delle classi dirigenti, transitate dal
fascismo alla democrazia senza colpo ferire, nonché alla
consuetudine degli storici di far cominciare la Resistenza dopo
l’otto settembre del ‘43.

La sicurezza e l’enfasi con cui l’autore sostiene la sua idea sono
elementi essenziali alla costruzione di una memoria resistenziale
che di fatti nasce a posteriori, molti anni dopo gli avvenimenti, e
che diviene narrazione unitaria in cui tutto converge a creare
martiri ed eroi. In realtà la prima commemorazione dei fatti di
Mascalucia e Pedara come atti di Resistenza risale al 1977. Fino ad
allora se ne aveva una memoria frantumata e confusa. E nessuno,
benché esistesse localmente ! una cultura resistenziale e benché ci
fossero state delle ammi! nistrazioni di sinistra, collegava quegli
avvenimenti alla guerra partigiana contro fascisti e nazisti che
insanguinò il Nord Italia dal settembre del ‘43 all’aprile del 1945.
A Mascalucia neanche i militanti del Pci avevano inglobato nella
loro memoria bellica quell’episodio che pure vantava una consistente
tradizione orale. La Resistenza appariva altra cosa rispetto
all’insurrezione spontanea durata una giornata.
E infatti Rosario Mangiameli, docente di storia all’università di
Catania e studioso della Resistenza, inserisce quegli avvenimenti
nel clima di confusione seguito allo sbarco degli alleati in
Sicilia, il 10 luglio del ‘43, e alla conseguente caduta di
Mussolini il 25 luglio. Badoglio aveva annunciato che la guerra
continuava, ma nell’aria c’era il sentore della disfatta. Davanti
agli alleati l’esercito italiano si è squagliato. I tedeschi
sconfitti dagli inglesi nella piana di Catania sono in ritirata,
diffidano degli italiani, fanno razzia di qualsiasi cosa! e
soprattutto, per raggiungere Messina, tentano di impadronirsi di
ogni mezzo di trasporto, dagli autocarri ai muli.
A Mascalucia si imbracciarono le armi per difendere la roba. Non si
sparò in generale ai tedeschi, che restavano formalmente ancora
alleati degli italiani, ma solo a quelli di loro che l’avidità o la
necessità avevano trasformato in predatori. Né tantomeno furono
presi di mira i fascisti, anzi il podestà fece da mediatore. Ci
furono tre morti italiani, il numero dei tedeschi è approssimativo,
le testimonianze sono discordanti, comunque Musumarra accredita la
tesi che ne siano stati uccisi quattordici, ma non sono mai stati
trovati altrettanti cadaveri.
Si cominciò di buon mattino con il tentativo di due tedeschi di
impadronirsi di un autocarro a cui, prudentemente, era stata tolta
la batteria. L’intervento del soldato Francesco Wagner, originario
di Mantova e addetto alla fotoelettrica antiaerea collocata tra
Mascalucia e Gravina, fece fallire la! requisizione. Più tardi fu
egli stesso derubato della moto Gilera in d! otazione, ma andò a
recuperarla con le armi in pugno. Poi fu assassinato da un tedesco,
sorpreso a rubare, che stava portando in caserma senza averlo
disarmato.
Il tentativo di impadronirsi di tre cavalli causò la sparatoria
intorno alla villa degli Amato Aloisio, armieri di Catania sfollati
in paese. Fu ucciso Giovanni Amato, un ottantenne che, parlando il
tedesco, era uscito per parlamentare con i soldati del Reich. La
terza vittima italiana fu il soldato Giuseppe La Marra ammazzato
perché tentava di opporsi all’incursione in una villa. Nella
tradizione orale entrarono anche improbabili tentativi di violenze
alle donne e qualcuno ha chiamato in causa anche l’intervento
miracoloso dei cani, protetti da San Vito, patrono del paese.
Ci furono altre sparatorie e tentativi di ritorsione.
La mediazione
del maresciallo Francesco Gringeri e del comandante dei vigili del
fuoco Orazio Szmankò evitarono che il paese fosse messo a ferro e a
fuoco. Restarono nella memoria i nomi di quanti si distinsero quel
giorno: Sebastiano e Francesco Sottile, Andrea Consoli, Ascenzio
Reina, il parroco Arcangelo Longo, il barbiere Gaetano Fragalà e il
pompiere Tommaso Nicolosi che disarmò un ufficiale tedesco. Quella
pistola il figlio Severino la conserva ancora. In seguito l’unico a
essere riconosciuto come l’eroe della giornata fu il soldatino
ventunenne Francesco Wagner. Per anni mani pietose portarono fiori
alla sua tomba nel cimitero di Mascalucia.
A Pedara Alfio Venturo uccise un tedesco che gli aveva sottratto il
mulo e poi, per paura, fuggì in campagna. Qui i tedeschi presero
tredici ostaggi che rilasciarono sia per intercessione delle
autorità ecclesiastiche sia perché tra loro c’erano dei fascisti. La
strategia delle rappresaglie, da esercito occupante e non più
alleato, i tedeschi la inaugurarono pochi giorni dopo, il 12 agosto,
a Castiglione di Sicilia uccidendo sedici persone. Furono anche
presi trecento ostaggi che poi furono lasciati li! beri. Fu la prima
strage nazista, la cui memoria fu rimossa e occultata! nell’”Armadio
della vergogna”, in cui sono rimasti nascosti i fascicoli sui
crimini dei nazisti. Ciò per effetto della Guerra Fredda e per non
turbare le nuove alleanze internazionali. Nessuno è stato processato
o indagato per quella sanguinosa rappresaglia. La ribellione di quel
3 agosto del 1943 merita di essere ricordata, ma senza sovrapporre
modelli posteriori. La Resistenza, come organizzazione ideologica e
lotta armata di lungo periodo, fu altra cosa. Quel giorno a
Mascalucia e a Pedara non ci si ribellò al nazifascismo ma
all’arroganza e ai saccheggi dei soldati tedeschi in fuga.
http://www.ienesiciliane.it/spettacoli-cultura/6314-la-resistenza-italiana-in-sicilia-i-martiri-e-gli-eroi-di-mascalucia-e-pedara-apprezzamento-della-critica-per-il-libro-di-nicola-musumarra.html


GIUSEPPE
CATANZARO, L'INGEGNERE FUCILATO AI DUE OBELlSCHl
La fucilazione del capomanipolo (nella milizia fascista questo grado
corrispondeva a quello di tenente dell'esercito) Giuseppe Catanzaro, è
sicuramente uno degli episodi più tristi e scellerati che si verificarono
nell'ultimo conflitto mondiale. E' avvenuto a Barriera, nella piazza dove
sono ubicati i Due Obelischi.
Quando Giuseppe Catanzaro, che da civile svolgeva la professione di
ingegnere, il 15 giugno del 1943 fu posto innanzi all' Obelisco destro per
essere fucilato da un plotone d'esecuzione allestito in tutta fretta, molte
delle persone che assistettero alla tragedia si chiesero di quale tremenda
colpa si fosse macchiato quell'uomo per meritare un "trattamento"
così feroce proprio quando le sorti della guerra sembravano ormai
delinearsi con chiarezza.
Secondo quanto riferiscono le cronache, in quei giorni Giuseppe Catanzaro si
sarebbe trovato al comando della batteria 483 S.l A mart (di stanza alla
Barriera) già ridotta dai violenti combattimenti dei giorni precedenti, in
condizioni di resa. Mancavano uomini e armi e, pertanto, data la situazione,
ricevette l'ordine di ripiegare verso Messina. Catanzaro ubbidì e agì di
conseguenza. Successivamente però, ecco un contr'ordine: "Ritornate
alla batteria, perché da un momento all'altro arriveranno i rinforzi
tedeschi per organizzare la resistenza nel tentativo di respingere il
nemico". Catanzaro, colto di sorpresa, dovette fare i conti col
malumore dei pochi uomini rimastigli e con la scarsezza di armi e munizioni
che durante la precipitosa ritirata avevano abbandonato. Tuttavia, dopo un
primo momento di esitazione, il capomanipolo obbedì.
Giunto a Barriera, Giuseppe Catanzaro venne però arrestato e condotto al
comando difesa Porto che si trovava nell'ex residenza benedettina. Ad
attenderlo ci fu il generale Passalacqua ed altri ufficiali. All'accusa di
aver distrutto mezzi bellici dinanzi al nemico, in quello che a poco a poco
andava assumendo sempre più i contorni di un processo sommario, Catanzaro
oppose una disperata quanto inutile difesa. In breve tempo, si passò alla
fucilazione.

Chi assistette all'esecuzione, affermò che il condannato
"scaricato" dalla camionetta militare come un "sacco di
patate", appariva incredulo di fronte a quella spietata realtà. Fino
all'ultimo momento di vita dovette chiedersi se quella non fosse stata
soltanto una messa in scena. E invece no. Quando i fucili tuonarono,
stramazzò al suolo privo di vita e in un lago di sangue.
Più che macchia di una "disonorata carriera militare", s'era
lasciato dietro il profondo dolore della giovane moglie e dei due
figlioletti ancora in tenere età. Come acc erterà quindici anni
più tardi la Corte di Cassazione: non di tradimento si era trattato (come
invece risultava dalla motivazione che aveva portato alla condanna), ma di
un fatale errore verificatosi nelle concitate fasi della guerra. Restituendo
l'onore al soldato, il Tribunale credette di aver fatto, una volta per
tutte, chiarezza su quell'infausto episodio.
Ma il sospetto che il Catanzaro avesse pagato di persona l'errato
comportamento di un superiore o, peggio, essere stato vittima di un'oscura e
assurda congiura ordita ai suoi danni, fu forte. I familiari, che avevano
sperato in un minimo di giustizia nell'azione legale intentata contro il
generale Passalacqua, firmatario della condanna a morte, per un vizio
procedurale in sede civile si videro negare persino il risarcimento
richiesto. Sulla vicenda, poi, calò definitivamente il sipario. I possibili
responsabili, schivando la giustizia degli uomini, la fecero franca.
Oggi quei Due Obelischi borbonici sono noti non soltanto per essere stati
eretti, nel 1935, a ricordo dell'apertura della strada che doveva condurre
sull 'Etna, ma anche per questo toccante episodio che concluse nel peggiore
dei modi una guerra fin troppo amara.
Terminato il conflitto, poco distante il luogo dell'esecuzione, una mano
pietosa collocò una pianta d'alloro; forse, per "non
dimenticare". Oggi questa pianta non esiste più perché col
cambiamento urbanistico della zona anche i simboli sono spariti.
Agli inizi del 1980 il Comune di Catania, adempiendo a un giusto doveroso
riconoscimento, decise di intitolare a Giuseppe Catanzaro la piazza in cui
venne fucilato.
di
Salvatore Nicolosi da "Immagini di Catania" di
Consoli-Nicolosi - raccolto in "Barriera-Canalicchio. Storia,
evoluzione e immagini di un quartiere" di Santo Privitera

Sicilia, 10 luglio
1943: e se la strage l’hanno fatta i Liberatori?
Le stragi
dimenticate.
10 luglio Sicilia, 1943. I civili vengono fatti
allineare a bordo strada, un sergente imbraccia un mitra e li
falcia. Cadono in 37. Ma il fucilatore non è il solito tedesco con
il tipico elmetto grigio calcato sugli occhi. E’ un G.I. americano,
di quelli che al ritmo dello swing liberavano l’Europa regalando
cioccolata, gomme da masticare e Lucky Strike alle popolazioni
affamate e sinistrate dai bombardamenti. Quella strage non fu un
caso isolato. Anzi. Ma per l’Italia fu un caso dimenticato. Finché
il nipote di uno di quei 37 sfortunati «italian sons of bitches» non
si è improvvisato storico…
di Luciano Garibaldi, da “Storia in Rete” n. 27
E’ uscito un libro di cui pochi hanno parlato ma che svela una
importante pagina della nostra storia recente, ingiustamente
dimenticata. Stiamo parlando di «Le stragi dimenticate», dedicato ai
massacri compiuti dagli americani subito dopo lo sbarco in Sicilia.
Una sorta di «armadio della vergogna» di cui non si sospettava
neppure l’esistenza. Lo ha scritto Gianfranco Ciriacono, (che lo ha
dovuto pubblicare privatamente e a sue spese). Ciriacono è un
appassionato studioso di storia, ma le motivazioni che lo hanno
spinto ad intraprendere questa ricerca sembrano principalmente
influenzate dall’esperienza personale. Infatti suo nonno paterno era
nel gruppo di contadini trucidati dagli americani nel luglio del ’43
nei pressi di Piano Stella. Suo padre, allora appena un ragazzino,
si salvò solo perché uno dei soldati, un attimo prima di sparare, lo
tolse dal gruppo e gli intimò di andar via.
Ciriacono, ricorda la prima volta che sentì parlare nella sua
famiglia di questo episodio?
«Sin da bambino, mi chiedevo perché non avessi un nonno con cui
giocare come tutti gli altri miei amichetti. Poi, crescendo, ho
iniziato le ricerche che mi hanno portato a scoprire gli eccidi
americani in Sicilia. Oltre alle motivazioni sentimentali, occorreva
recuperare una pagina di memoria ignorata dalla storiografia
ufficiale. Era opportuno dare voce a coloro che normalmente non
lasciano tracce nella “storia”. Chi vince una guerra acquista – di
fatto – anche il diritto a non essere giudicato per come si è
comportato durante il conflitto: è la legge del più forte. Ma chi ha
perduto, ingiustamente, i propri familiari, ha diritto alla
giustizia? Ha diritto alla verità? Nei confronti dei tedeschi, il
governo italiano ha rivendicato – e ottenuto – di processare
ufficiali della Wehrmacht responsabili di massacri atroci. Io, con
il mio libro “Le stragi dimenticate”, ho cercato di dare voce a
vittime innocenti di cui non si conosceva neppure l’esistenza».
A un certo punto del libro, lei riporta notizie di violenze e
stupri sulla popolazione civile che sarebbero stati perpetrati
soprattutto da soldati americani di origine italiana. Quale
documento ha letto? Su quali fonti si basa questa informazione?
«A raccontare degli stupri, così come delle violenze perpetrate
nei confronti della popolazione civile inerme, sono gli atti della
Corte Marziale americana. La struttura giudiziaria militare
americana (JAG Branch) con giurisdizione sui reati commessi dai
soldati in quell’ambito, ha processato diverse centinaia di soldati.
Nella fattispecie, le mie informazioni provengono dagli
interrogatori di alcuni membri della 45a Divisione che parteciparono
allo sbarco e che raccontano come le peggiori atrocità furono
commesse da soldati italo-americani. Altri scritti memorialistici,
sempre in mio possesso, raccontano peraltro di molti altri
italo-americani che si prodigarono per aiutare i propri conterranei
sconfitti».
Il libro si sofferma sulla distribuzione delle terre che il
regime fascista aveva attuato in quella parte della Sicilia sud
orientale. Suo nonno, contadino bracciante, aveva ottenuto un
piccolo podere con altre famiglie che appunto costituivano la nuova
comunità “coloniale” di Piano Stella, in provincia di Agrigento.
Poveri contadini che effettivamente avevano ricevuto un aiuto
concreto da Mussolini. Potrebbe questo spiegare l’accanimento dei
soldati americani contro di loro?
«Lo escludo. Nelle giornate imm ediatamente precedenti lo sbarco,
gli abitanti dei borghi colonici avevano cercato di nascondere tutti
gli orpelli che potevano ricondurre alle strutture al fascismo. Era
gente umile e aveva mostrato sin dall’inizio la propria umanità nei
confronti dei soldati americani. Basti pensare che, nelle ore
precedenti la strage, mio nonno, assieme ad altri, aveva prestato le
prime cure ad un paracadutista americano rimasto ferito ad una
gamba. Tutto questo nonostante la presenza di truppe tedesche sul
territorio. Purtroppo, la sincera umanità dimostrata dai coloni di
Piano Stella fu contraccambiata dalla cieca ed immotivata ferocia
delle truppe americane».
Oltre alla strage di contadini di cui faceva
parte il nonno dell’autore, nel libro si racconta che furono
trucidati dagli americani soldati italiani presi prigioneri. Eccone
una sintesi. Nei pressi dell’aeroporto di Biscari, il 14 luglio, il
capitano John Compton (comandante di una compagnia di fanteria)
«ordinò di uccidere i prigionieri», un gruppo di trentasei italiani,
«parecchi dei quali indossavano abiti civili.
«Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria
catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi. Un sottufficiale, il
sergente Horac T. West, ricevette l’ordine di scortare trentasette
italiani nelle retrovie perché fossero interrogati dal Servizio S-2
del Reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il
sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la
carreggiata, dove i componenti furono allineati. Spiegando che
avrebbe ucciso quei «sons of bitches», il sergente si fece dare un
fucile mitragliatore Thompson dal suo caporalmaggiore e,
freddamente, eliminò gli sventurati italiani».
Lei, per ricostruire gli episodi, é riuscito a risalire ai
documenti della Corte Marziale americana. Alla fine, solo West fu
giudicato colpevole, scontando comunque solo pochi mesi di prigione
per poi tornare a combattere, sempre in Italia. Per quale motivo,
secondo lei, la giustizia militare americana, pur avendo subito
individuato e processato i colpevoli di quei crimini, non andò fino
in fondo?
Lo sbarco in Sicilia, Operazione Husky«Dai documenti in mio
possesso si evince un interessamento delle alte sfere militari per
non far trapelare nulla agli organi di stampa. Esiste un carteggio
tra il generale Patton e il suo vice Bradley in cui il primo cerca
di dissuadere Bradley di rendere pubblica la vicenda di Biscari. Tra
i documenti si trovano anche lettere del futuro presidente
Eisenhower e di membri del Congresso con cui si chiedeva una
revisione del processo. Nei due processi celebrati si cercò di
salvaguardare gli ufficiali. Infatti l’unico ad essere condannato fu
il sergente West».
Nel libro, lei ricostruisce i primi giorni dello sbarco, lo
stress dei soldati che prima avevano affrontato una tempesta in
mare, il sergente West che non dorme da tre giorni… Secondo una
delle testimonianze conservate nei documenti della Corte Marziale,
alcuni commilitoni di West lo descrivono come “fuori di testa”. Lui,
un soldato della Guardia Nazionale dell’Alabama, con due figli, di
colpo si trasforma in un terribile assassino assetato di sangue.
Come si spiega?
«Quell’uomo aveva pagato a duro prezzo la crisi del ’29. Era un
cuoco affermato, ma aveva perduto il lavoro e sofferto la fame.
Così, aveva preferito imbracciare un fucile mitragliatore, più che
per liberare l’Europa dal giogo nazifascista, per cercare una
rivincita economico-sociale. Questa la mia interpretazione,
rafforzata dalla considerazione che, tra gli americani, c’erano
parecchi volontari ormai non più giovanissimi, tutti travolti – chi
più chi meno – dalla crisi economica del ’29».
Cosa è successo a West e Compton dopo la guerra? Hanno avuto una
vita normale, o anche la loro vita è stata segnata da quegli
episodi, come poi avverrà a molti reduci dal Vietnam?
«Il Capitano Compton, dai documenti in mio possesso, morì
durante lo sbarco di Salerno del settembre 1943. Della vita del
sergente West poco si sa. So soltanto che, prima la Procura Militare
di Padova, e poi quella di Palermo, competente territorialmente,
hanno chiesto all’Interpol di accertare che fine abbiano fatto sette
militari che parteciparono alle stragi».
E’ rimasto il mistero dei resti di quei poveri soldati italiani,
molti originari della provincia di Brescia, che non furono mai
ritrovati. Lei é riuscito a sapere dove sono sepolti? Il governo
italiano ha mai cercato questi soldati o rivolto ufficiale richiesta
al governo americano? Se non lo ha fatto, secondo lei, perché?
«È mia convinzione, confermata anche da qualche accenno negli
atti della Corte Marziale, che i corpi degli sventurati soldati
italiani si trovino presso cimiteri militari americani. Di certo,
negli archivi storici italiani questi uomini, di cui sono riuscito a
ricostruire le generalità, risultano dispersi. Ancora oggi, le
famiglie di quei soldati che ebbero la sventura di incrociare le
divise delle truppe americane, rimangono in attesa di notizie certe
e di un giaciglio dove poter ricordare con un fiore ed una lacrima
il parente morto in guerra».
Secondo lei, chi fu il vero colpevole morale di quegli episodi?
«Il mandante morale delle stragi fu certamente il generale
Patton. Già prima di partire per l’Algeria, e poi durante le fasi
dello sbarco, aveva diramato ordini perentori del tipo: «Voi siete
una divisione di killers, non bisogna fraternizzare con le
popolazioni locali, non occorre fare prigionieri». E per finire: «Kill,
kill, and kill some more» («Uccidere, uccidere e uccidere ancora»).
Ordini inequivocabili di un generale, che le truppe eseguirono senza
rendersi conto di venirsi a trovare palesemente fuori legge».
Perché ha deciso di scrivere «Le stragi dimenticate»? Per
dim ostrare che nessuno è immune dai crimini di guerra?
«Che la storia la scrivano i vincitori è fatto arcinoto e ciò
può trovare una spiegazione, seppure perversa ed inaccettabile,
laddove si tratti di storici appartenenti alla nazione vincitrice,
ma nel nostro caso ciò che ripugna è il silenzio degli storici di
casa nostra, di quelli che per più di 60 anni non hanno ritenuto
importante studiare, indagare, informarsi ed informare sugli
accadimenti di quei giorni. C’è voluto il mio lavoro per aprire il
caso. Ritengo che dopo 64 anni occorra ristabilire la verità storica
sugli eccidi di Biscari e Piano Stella: sarebbe, seppur tardivo, un
atto di giustizia e il giusto riconoscimento per il tributo di
sangue pagato dalla nostra gente».
L’operazione Husky per la principale storiografia rappresenta un
grande successo strategico militare, decisivo per la liberazione
dell’Italia dal nazi-fascismo. Per lei, al di là del tragico
episodio che ha coinvolto la sua famiglia, il primo sbarco alleato
in Europa rappresenta soltanto l’inizio della fine dell’Asse o anche
un crimine di guerra?
«La liberazione dal nazi-fascismo rappresentò certamente per un
nuovo periodo storico che ha riconsegnato al nostro Paese libertà,
democrazia, pace e prosperità. Ma le stragi americane, ahimè, non si
fermarono solo a Biscari e Piano Stella, continuarono nelle giornate
seguenti con la stessa virulenza a Comiso, dove furono uccisi,
violando la convenzione di Ginevra, 60 soldati tedeschi e 50 soldati
italiani. A Canicattì, poi, furono uccisi 8 civili per mano di un
ufficiale americano. Così come a Butera, e via dicendo, fino ad
arrivare nelle vicinanze di Palermo. Per lo più si trattò di stragi
rimaste nella memoria delle comunità e confermate da diverse
testimonianze oculari di soldati italoamericani, per le quali
tuttavia manca il supporto documentaristico. Ma non c’è dubbio che
quelle stragi vi furono».
L’impressione che resta dopo avere letto la sua ricostruzione, è
che la popolazione locale abbia subito voluto dimenticare. E’ cosí?
E secondo lei perché?
«L’icona del soldato americano rappresentava la libertà:
dolciumi, sigarette e razioni di cibo. L’America aveva mandato la
crema della sua gioventù in tutto il mondo, non a conquistare ma a
liberare, non a terrorizzare ma ad aiutare. Grazie alla martellante
e danarosa propaganda che ha bombardato il mondo per sessant’anni,
l’opinione pubblica ha, in linea di massima, recepito e fatto
propria, come verità di fede, questa oleografia storico-militare,
tanto che nessuno ha mai pensato di sottoporre a verifica il vero
comportamento degli arcangeli della libertà e della democrazia.
Questo è certamente uno dei motivi per cui la popolazione locale ha
faticato a creare una memoria comune. L’altro dato è che i 73
soldati, per lo più bresciani, non avevano alcun rapporto di
parentela con gli abitanti del territorio. Pertanto la loro
scomparsa non è fu notata da nessuno».
Il suo libro è ricavato dalla sua tesi di laurea presentata all’Universitá
di Catania, pubblicata poi da un editore locale. Aveva provato a
proporre la sua ricerca ad un editore nazionale?
«Proprio in questi giorni ho concluso un contratto con un buon
editore nazionale. Le posso dire in tutta sincerità che non è stato
facile. Ancora oggi, in Italia, è arduo parlare di verità scomode.
Basti pensare che le istituzioni repubblicane non hanno ancora
riconosciuto tali eccidi, nonostante gli atti della Corte Marziale
americana che ha dichiarato colpevoli i soldati a stelle e strisce».
Luciano Garibaldi
garibaldi@storiainrete.com


IL FRONTE DELLA SETTIMA ARMATA U.S.A.
AD OVEST

Licata, la prima
città conquistata dalle truppe Usa
La Sicilia, Mercoledì 10 Luglio 2013
Alle ore 2,30 del 10 luglio 1943 venne dato
l'allarme navale quando da Licata a Scoglitti, si presentarono in
formazione 945 navi della ottava flotta americana, giunte dalla
Algeria, dalla Tunisia e da Malta. Tra esse 5 incrociatori, 48
cacciatorpediniere, 11 tra posamine e dragamine, 87 unità da
combattimento di vario tipo, 94 unità ausiliarie e da trasporto e
rifornimento, 700 navi e mezzi da sbarco, di cui 190 grandi,
soprattutto Lsi e Lst e 510 di minori dimensioni, soprattutto Lci e
Lct. Afferivano tutte alla Western Task Force, il gruppo ovest
dell'operazione Husky. I convogli della Joss Force, diretti alla
volta di Licata, partirono da Biserta (Tunisia) e comprendevano 2
incrociati, 9 caccia torpediniere, 1 nave comando, 8 dragamine, 33
navi pattuglia e 202 mezzi da sbarco. Stipati nelle navi ben 27.650
uomini della Task Force 86 americana del generale Lucian Jr.
Truscott, tra i più giovani generali dell'esercito americano, con
vice il generale di brigata William W. Eagles, comprendente la 3a
Divisione di Fanteria, la 2a Divisione corazzata del generale Hugh
J. Gaffey, il 3° battaglione rangers, il 4° tabor marocchino, 126
muli e 117 cavalli.
Le operazioni navali sono dirette, al largo tra
Licata e Gela, assieme al generale George Smith Patton Jr che guida
la 7a armata americana (3 divisioni di fanteria, in tutto 26
battaglioni, una divisione corazzata e 3 battaglioni Rangers) e che
assumerà la direzione delle operazioni terrestri, dal vice
ammiraglio Henry Kent Hewit che si trova a bordo della Monrovia, al
comando del capitano di fregata T. B. Brittain, mentre le attività
navali nella zona Joss sono coordinate dal contrammiraglio Richard
L. Conolly dalla nave Biscayne, una unità di appoggio idrovolanti,
al comando del capitano di fregata R. C. Young, all'ancora a 2,5
miglia dal porto di Licata.
L'obiettivo è l'occupazione del territorio di
Licata, con una tattica a doppia tenaglia, dal fronte costiero
Gaffe-Due Rocche, con il porto, la città e la pista di volo della
piana.
Alle 22,30 del 9 luglio, il cacciatorpediniere
Bristol, al comando del capitano di corvetta J. A. Glik e con 276
uomini di equipaggio, e il pattugliatore Pc-546 avevano già guidato
le imbarcazioni ad assumere la posizione assegnata. Alle 23,30 le
unità da combattimento sottoposero la costa e il semicerchio
collinare che al di là del Salso chiude la Piana di Licata, ad
intenso bombardamento con salve di potenti cannoni da 6 e 5 pollici.
Alle ore 01,00 del 10 luglio il generale Alfredo G uzzoni dichiarò lo
stato di emergenza ed ordinò di far brillare le ostruzioni, le
banchine portuali e gli ormeggi dei porti di Licata e di Porto
Empedocle.
I vari gruppi di attacco della Joss Force si
schierarono ciascuno di fronte al settore di sbarco assegnato da est
ad ovest di Licata.
Alle ore 03,00 i rangers del 3° battaglione,
furono i primi a toccare terra alla Poliscia. Dopo aver zittito il
fuoco di difesa italiano, avanzarono verso est e, dopo aver superato
le deboli linee di difesa, imboccata la strada San Michele,
procedettero verso Licata. Alle 03,40 la seconda ondata agli ordini
del col. Brady, che incontrò sulla serra Mollachella l'eroica e vana
resistenza di un tenente italiano, rimasto ignoto. A partire dalle
ore 06,05 vennero sbarcati senza problemi i carri e i veicoli. Il
Bristol, alle ore 05,45, mise fuori uso il treno armato 75/2/T della
R. Marina che si trovava a protezione del porto. Alle ore 07,35 i
fanti del 2° battaglione di Brady, conquistato il castel
Sant'Angelo, ammainarono il tricolore issato sul pennone della torre
e innalzaro no, al suo posto, la bandiera americana a stelle e
strisce.
Sulla "spiaggia blu", zona Punta Due
Rocche-settore 70 est, lo sbarco avviene in più ondate. Alle ore
03,15 con la prima ondata, coordinata dal capitano di corvetta A. C.
Unger, toccò terra il 2° battaglione del colonnello Rogers, Alle
06,27 sbarcano i carri armati, tutti del tipo Sherman, del 66°
reggimento corazzato della divisione del generale Hugh Gaffey e si
dirigono subito verso Gela. Alle ore 07,50 sbarcano anche gli agenti
della Centrale Italiana dell'Oss (Office of Strategico Services) che
nel 1945 si trasformerà in CIA, coordinati da Max Corvo, nome in
codice Maral, 23 anni che stabilisce il gruppo al castello di
Falconara,
Alle ore 03.40, iniziò l'attacco del Gruppo Salso
alle spiagge Plaia e Montegrande- settore70 ovest (spiaggia gialla).
Alle ore 04,45 tutti gli uomini del 1° battaglione, al comando del
maggiore Leslie A. Printchard, del 15° Reggimento di Fanteria del
col. Charles E. Johnson erano già sulla spiaggia. Alle 9,30 il 1°
battaglione di fanteria dopo aver guadato il fiume Salso, marciò con
movimento avvolgente su Licata e si congiungerà con il con il 2°
battaglione di Brady sbarcato a Mollarella.
Nel settore 73-Gaffe (piaggia gialla), margine
sinistro di tutto il fronte d'attacco, dove l'arenile è stretto e
ghiaioso e il fondale insidioso per le tante fosse e gli scogli
affioranti, lo sbarco fu particolarmente difficile. La prima ondata
del Gaffi Attak Group, coordinato dal capitano di corvetta Samuel H.
Pattie, che costituisce l'avanguardia del 1° battaglione d'assalto
agli ordini del tenente colonnello Roy E. Moore, toccò terra alle
ore 04,10, ma si trovò davanti ad un intenso fuoco di artiglieria
pesante
Alle 11,30 la città era in mano agli americani e
dal Palazzo di Città, diventato sede comando dell'Amgot,
sventolavano le bandiere americana e inglese. Licata fu il primo
paese italiano a cedere nella mani degli americani ed ospitò il
quartiere generale del gen. Truscott. Da qui l'avanzata per la
conquista della Sicilia occidentale.
Calogero Carità
L'otto
luglio bombardata Agrigento
La Sicilia, mercoledì 10 Luglio 2013
Nel corso dei tre anni di guerra soprattutto
vennero colpite Licata e Porto Empedocle, sedi portuali, mentre
Agrigento venne risparmiata fino all'8 luglio 1943 quando comparve
sui cieli del capoluogo una formazione di aerei americani dalla
parte di Punta Bianca alle ore 18. I velivoli, giunti sulla città,
sganciarono un nutrito grappolo di bombe ancor prima che venisse
suonato l'allarme. Fu un po¬meriggio terribile. Gli ordigni caddero
sull'ospedale psichiatrico andando a colpire gli uffici e l'alloggio
del direttore amministrativo dott. Raimondo Diana.
Questi fu sbalzato via dall'abitazione e venne
poi trovato abbracciato ad un albero, mentre sotto le macerie,
sprofondato nelle caldaie, venne successivamente rinvenuto il corpo
martoriato dell'economo rag. Vincenzo Pinto. In quell'occasione
rimase ferito anche l'aiuto economo, mentre alcuni malati di mente,
approfittando della confusione, riuscirono a scappar via ma vennero
ripresi poco tempo dopo.
Ma la tragedia doveva ancora verificarsi. Infatti
tre giorni dopo, il 12 luglio, lunedì di San Calogero, verso le 9
del mattino una nutrita formazione di bombardieri americani B26
Marauder del 319° bombardment group, partita da Djeida in Tunisia
giunse sopra le teste degli agrigentini volando con il sole alle
spalle per rendere più difficile il compito della contraerea. Si
disposero a croce e poi una vera e propria pioggia di bombe cadde
sul centro cittadino dal viale della Vittoria fino all'Addolorata e
nella zona più a monte. L'abitato venne letteralmente devastato.
Tutta l'area corrispondente all'odierno centro storico venne
colpita.
Il ricovero antistante la chiesa di San Girolamo,
nella omonima via, costruito in tufo arenario e con materiali
estremamente friabili, non resse alle esplosioni e crollò sotto il
peso delle case soprastanti.
Anche in questa zona vi furono parecchi morti.
Case distrutte e parecchi morti anche in vicolo Bombace, nella via
Botteghelle e nella via Neve. Inoltre i quar¬tieri di via Duomo, di
San Michele, di via Garibaldi e la via Porcello (dove si ebbero pure
alcuni morti e feriti) subirono gravi danni a causa delle bombe
sganciate dai velivoli, mentre dal mare le navi americane facevano
anch'esse fuoco contro la città: dopo il monitore Abercrombie, si
avvicendarono gli incrociatori Brooklyn e Birmingham ed altri
cacciatorpediniere. Ma quale fu il bilancio di questa incursione? A
tutt'oggi non è facile dare una risposta. Non esiste un elenco
ufficiale dei morti, nessun archivio è in grado dopo 60 anni di dare
una risposta precisa a questo interrogativo. Dagli atti di morte
dell'ufficio anagrafe del Comune e dal registro dei certificati
necroscopici dell'Asl numero 1 è stato ricavato l'elenco che si
pubblica in altra parte di questa pagina.
L'Unpa (Unione Nazionale Protezione antiaerea)
peraltro l'11 agosto del 1943 comunicò di aver recuperato i corpi di
tutte le persone segnalate come disperse ad eccezione dei professori
Contrino e Sciascia e dello studente Maggio. Di quest'ultimo però
esiste all'anagrafe l'atto di morte, per cui la salma evidentemente
venne ritrovata. Altre vittime furono provocate dalle bombe
inesplose nelle settimane, nei mesi e addirittura negli anni
successivi, specie tra i ragazzi i quali imprudentemente le
utilizzavano per giocare o le maneggiavano quando le rinvenivano.
Ovviamente non si trattò soltanto di bombe di
aereo, ma in genere di ogni tipo di ordigno. Basti pensare che
almeno sei persone persero la vita nelle settimane immediatamente
successive all'arrivo degli americani proprio per lo scoppio di
ordigni esplosivi.
In ogni modo, andati via gli aerei, Agrigento
presentava un aspetto drammatico: i morti giacquero per parecchi
giorni, talvolta due o tre settimane, tra le macerie rendendo l'aria
maleodorante, vecchi e bambini morivano di fame, parecchia gente era
rimasta senza una casa.
I corpi appena recuperati venivano sistemati ed
allineati provvisoriamente all'aperto nel piazzale antistante il
cimitero. In quel sito l'ufficiale di anagrafe provvedeva al triste
ufficio del riconoscimento delle salme che avveniva con l'intervento
dei parenti sopravvissuti i quali, straziati dal dolore,
identificavano i loro congiunti. La sepoltura ebbe luogo in fosse
scavate appositamente dall'impresa Capraro.
Per 21 corpi il triste adempimento ebbe luogo a
spese del Comune dato che le famiglie avevano perso tutto con il
crollo della loro casa sotto la pioggia delle bombe. Parecchi di
questi corpi, nell'inverno successivo vennero poi dissepolti per
ricevere una sistemazione più dignitosa nelle rispettive tombe di
famiglia. Per tutte queste vittime il 28 agosto nella chiesa di San
Domenico ebbe luogo, d'intesa con le autorità militari Alleate, un
solenne funerale cui partecipò tutta la cittadinanza agrigentina. Ci
furono naturalmente anche dei feriti, ma anche di questo non esiste
una
documentazione esaudiente. L'ospedale conserva una ventina di
cartelle cliniche redatte nel reparto di chirurgia: sono i casi più
gravi, quelli che hanno richiesto il ricovero. Si tratta nella
maggior parte di persone asfissiate provenienti dal rifugio di San
Francesco d'Assisi. Altri 18 ricoveri si riferiscono a militari
feriti nei combattimenti avvenuti nelle vicinanze. Impossibile
stabilire invece quanta gente passò dai posti di pronto soccorso:
nell'unico registro esistente nell'archivio dell'ospedale civile per
il periodo luglio 1943, ben conservato e senza manomissioni, non
risulta nulla per oltre 15 giorni. Probabilmente nel caos di quel
periodo non venne annotato alcun intervento eseguito.
salvatore fucà
Storia
di Marcellino, scampato alle bombe
La Sicilia, Mercoledì 10 Luglio 2013
RIBERA. La città viene bombardata nell'aprile
del 1943 dagli aerei americani. Le bombe colpiscono il paese quasi
disabitato, uccidono alcune persone tra cui una donna che viaggiava
con il suo bambino di tre anni e che era diretta a Palermo.
La donna viene ritrovata tra le macerie, ma del
ragazzino nessuna traccia. Il bambino viene dato per morto, ma un
militare italiano lo ritrova per caso, lo porta con sé in provincia
di Siracusa dove viene rintracciato dopo dieci anni in un
orfanotrofio dal fratello e dalla sorella più grandi. Oggi ha 74
anni, è circondato dall'affetto di ben sette figli, vive da
pensionato a Brescia e vuole tornare a Ribera per piangere sulla
tomba della madre. I protagonisti della vicenda - ricostruita dallo
storico e ricercatore riberese Mimmo Macaluso - sono Teresa Lo
Iacono di 29 anni, palermitana, e il suo bambino più piccolo
Marcellino Bruscino la cui storia si intreccia con altri due figli
della donna, con il bombardamento di Ribera e con il ritrovamento
del piccolo, oggi nonno, a Brescia. Mimmo Macaluso, con la preziosa
collaborazione del capitano dei carabinieri Carmelo Mirinnino, ha
ricostruito la tragica storia attraverso anche la stampa del 1953 e
un articolo della giornalista Liliana Corsi.
I fatti prendono il via ad Ancona dove risieda
Teresa Lo Iacono, a 29 anni già vedova di un ferroviere, con i tre
figli Enrico, Rita e Marcellino. Per paura dei bombardamenti sulla
cittadina portuale dell'Adriatico, la donna decide di portare i due
figli più grandi, Enrico e Rita, dai suoceri a Napoli e il più
piccolo Marcellino dai suoi genitori a Palermo. In Sicilia il
viaggio per la donna si fa drammatico perché gli aerei alleati
bombardano la linea ferroviaria Messina Palermo e il treno viene
deviato prima su Catania e poi su Agrigento.
Il passaggio su Ribera è obbligatorio per tornare
a Palermo, attraverso Castelvetrano, ma ancora i bombardieri
danneggiato la linea ferrata a scartamento ridotto Ribera-Sciacca e
il treno viene fermato nella città della arance dove si svolge la
tragedia. I riberesi, per il continuo arrivo delle bombe dal cielo
si rifugiano in campagna e nella galleria ferroviaria di Santa
Rosalia, Teresa Lo Iacono, con gli altri passeggeri, si ritrova al
centro della cittadina rimane con il piccolo Marcellino, sotto le
macerie delle case colpite dagli aerei nemici che non colpivano
obiettivi militari, ma la popolazione civile. La donna muore sotto
le macerie e il bambino risulta disperso. Invano le ricerche dei
riberesi e dei militari. Agli altri due figli della donna a Napoli
viene comunicata la morte della madre e il mancato ritrovamento del
fratellino. Iniziano le ricerche e si apprende che il piccolo
Marcellino è vivo. A Ribera un militare lo ha estratto dalle
macerie, lo ha portato in ospedale per la cura delle ferite e lo ha
accolto nella sua famiglia a Siracusa. L'uomo si divide dalla
consorte e il destino di Marcellino diventa prima un orfanotrofio di
Solarino e poi, nel 1947, la "Casa del buon fanciullo" di Siracusa.
Nel 1952 il bambino viene adottato da una famiglia della città
aretusea.
Nello stesso anno, tra Natale e Capodanno, dopo
estenuanti ricerche, Marcellino ritrova il fratello Enrico e la
sorella Rita che correvano da anni da una caserma all'altra dei
carabinieri in tutta la Sicilia. Oggi Marcello Bruscino ha 74 anni,
vive da pensionato con i suoi sette figli a Brescia e, rintracciato
telefonicamente da Mirinnino e da Macaluso, ha espresso il desiderio
di volere tornare a Ribera per portare un fiore sulla tomba della
giovane mamma.

Metti un bagno sulla
spiaggia dello Sbarco del '43
La stagione estiva coincide, come ogni anno, con
il periodo migliore per lo sviluppo turistico e balneare di Licata.
La città si anima di vita e si ritrova lungo i ventiquattro
chilometri delle sue spiagge e nel suo mare. Il tratto costiero che
dalla Playa porta a Torre di Gaffe nella bella stagione rappresenta
il punto nevralgico di una città che sta tentando in tutti i modi di
darsi una vocazione turistica. È da leggere in quest'ottica il
notevole incremento nella costruzione di lidi balneari e strutture
ricettive sorti praticamente in tutte le spiagge licatesi negli
ultimi decenni. Mollarella, La Rocca, Pisciotto, Marianello sono
sol o quattro degli arenili licatesi più rinomati e che fanno
registrare ogni anno un numero di presenze di bagnanti elevatissimo. A fruire maggiormente delle bellezze marine licatesi sono ovviamente
i residenti in città, ma l'arrivo dell'estate porta a Licata anche
molti residenti nell'hinterland attratti dalla possibilità di fare
il bagno nelle acque licatesi o di prendere una tintarella. Il
turismo estivo è indubbiamente fonte di reddito importante per la
città con numerosi lidi balneari che sfruttano al massimo (in alcune
estati più lunghe del solito anche per cinque mesi) le temperature
alte per affittare sdraio e ombrelloni oltre ai classici casotti.
C'è poi al vaglio un'idea, strettamente connessa alle spiagge
licatesi, per dare il «la» alla nascita di un museo dello sbarco
alleato.
Gli arenili licatesi hanno infatti anche una valenza
storica non indifferente essendo state il primo sito toccato durante
l' «Operazione Husky» quando, nella notte tra il 9 e 10 luglio, la
Settima Armata statunitense comandata dal generale Patton diede il
via alle operazioni di sbarco nelle spiagge prestabilite. Alle 2,57
nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra i primi
carri armati americani che sarebbero poi risaliti lungo tutta la
Penisola per liberare l'Italia. Tornando alla descrizione degli
arenili, da oriente verso occidente sono rinomate e frequentatissime
le spiagge di Poggio di Guardia e della Playa. Attraversato il fiume
Salso e la grande zona portuale, si passa dalla bellissima e
lunghissima baia di Marianello, famosa anche per i caratteristici
calanchi di natura argillosa, per arrivare via mare alle Balatazze,
insenatura famosa per gli scogli piatti che affiorano dal mare, e
ancora Lavanghe, Nicolizia e Caduta. Si arriva poi alla sabbiosa
Baia di Mollarella, spiaggia frequentatissima e ricca di
stabilimenti balneari, che termina con la rocca di Mollachella,
penisoletta sul mare, unita alla terraferma da una lingua di sabbia,
attraverso la quale si arriva alla Poliscia. Da qui, dopo un
intermezzo di scogli, ci si tuffa nel mare di San Nicola, con la
caratteristica rocca che prende il nome del Santo e la bellissima e
lunghissima spiaggia del Pisciotto che termina sotto la Torre di
Gaffe. Il litorale di Licata si presenta ampio bellissimo e
variegato, i visitatori ne rimangono attratti per il mare pulito,
per la bellezza delle spiagge e per il fascino delle coste
frastagliate dominate dalle colline che fanno da contorno a un
panorama invidiabile e da valorizzare al meglio. Finora le bellezze
naturali non sempre hanno fatto da volano per l'economia e solo
negli ultimi anni il mirino di investitori e imprenditori si è
puntato sulla città con l'apertura di un imponente villaggio
turistico e di alcuni alberghi di prestigio in zona Playa. La
bellezza del mare e della costa licatese è sotto gli occhi di tutti
e chi viene a trascorrere le proprie vacanze in città va via sempre
con il proposito di tornarci in futuro. La valorizzazione delle
risorse naturali deve necessariamente essere la base dello sviluppo
turistico e di conseguenza economico di una città che, sfruttando un
clima favorevole e mite anche in inverno, dovrebbe poter mantenersi
di turismo praticamente per tutto l'anno.
La Sicilia - 30/06/2013

Sicilia 1943,
l’ ordine di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani»
di Gianluca Di Feo –
“Corriere della Sera” 23 giugno 2004
«Il capitano Compton radunò gli italiani che si
erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole
partecipare all’esecuzione?”.
Raccolse
due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani».
«Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori
dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non
guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò
tutti». E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani
che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né
delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta
in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della
storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici
negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la
vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America
ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a
Montreal sul tema «Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli
Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le
responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle
corti marziali che giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché –
come risulta dagli atti di quei processi – i soldati americani si
difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George
Patton. «Ci era stato detto – dichiararono – che il generale non
voleva prigionieri».
I fatti
Nessuno conosce il numero esatto di uomini
dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali,
con circa duecento morti. Di
due,
quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce
ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno 43 la corte
marziale Usa
celebrò
due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il
plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli
atti del
tribunale
recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi».
Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il
giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora
divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato
famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca
era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia.
Clifford disse che sessanta italiani, catturati
in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con
una mitragliatrice.
Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata
ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in
cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter,
fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò
tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu
mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di
deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria
Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava
saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi
del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso
dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei
persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi
della New York University – il cui padre fu testimone oculare
dell’eccidio – riportano il racconto di alcuni dei soldati americani
presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla
folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era
un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21
colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi
un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole».
L’ordine
Ma gli atti dei processi per «i fatti di Biscari»
accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più.
Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»:
reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico
e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine
pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie
più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro
battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i
tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal
Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di
due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per
quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano
tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare
prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono
al processo:
«Ci era stato detto che Patton non voleva
prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli
altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale.
“Se si arrendono quando tu sei a due-trecento
metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la
quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito
il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di
killer, perché i killer sono immortali!».
L’orrore
Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il
cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni
soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la
catasta dei corpi crivellati dal sergente West: «E’ una follia – gli
dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in
guerra per combattere queste brutalità non per fare queste
porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo». King corre a
cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per
l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno
di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: «Quando mi
sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: “Padre, sei
venuto per seppellirli?”. “Cosa stai dicendo?”, replicai io. Il
caporale rispose: “Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra
Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri”». A
quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani
presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare
quegli uomini: «Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte
preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero
vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!». Altrettanto
drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: «Venni fermato
da due barellieri disarmati. Mi dissero: “Abbiamo due italiani
feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli”. Io gli urlai di curare quei
soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare”».
La condanna
Fu proprio la volontà del cappellano King a far
nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto
all’ispettore dell’armata – figura simile ai nostri pubblici
ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale
contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: «Omicidio
volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37
prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un
comportamento disdicevole». I fanti italiani – poco meno di 50 –
erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna
intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al
sergente con un ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli
dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito
l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni
chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo.
Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì
li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia
caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla
corte, il sergente si difese invocando lo stress: «Sono stato
quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò di avere
assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi,
cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il suo
avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West disse
ai giudici: «Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi
estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò
all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington
infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei
massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani – con cui era
stato appena concluso l’armistizio – e il rischio di ritorsioni
sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in
una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del
Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a
sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il
vertice dell’esercito teme
che
la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo
delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al
comando alleato
di
Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo
della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere
che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno
al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani
dalla violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene
rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine
agosto in Bretagna. Secondo
altre,
ha concluso la guerra indenne.
L’assoluzione
Invece
il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse:
davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli
ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di
Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione
nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E una
mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea
del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche
ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in
divisa e un altro in abiti «borghesi» che escono da una ridotta:
sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla
trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e
maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato
li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde
tempo: dice di ucciderli.
Molti dei suoi si offrono volontari: sparano in
24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli italiani.
Il numero esatto delle vittime resta incerto ma
l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per
36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula
dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che
continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che
quegli italiani erano «sniper», termine traducibile come «cecchini»
o «franchi tiratori», e quindi andavano fucilati: una linea
difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton.
«Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine
di Patton – concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di
un generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi
basta. E io l’ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni – tra cui
diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile
«se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni
riferirono anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo
ci serve. Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile
dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello:
«Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della
giustizia – scrisse – che un ordine del genere doveva apparire
illegale in modo lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al
fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un
cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la
bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso
giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della
giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un
precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui processi
ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di
Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione
completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni
storici americani – assolutamente non sospettabili di revisionismo –
ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le
SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli
Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro di Biscari»
e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J.
Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro
Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel
volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia,
tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso.
Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una
pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un
iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre
persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.
Gianluca Di Feo
Fonte: visto su DISINFORMAZIONE.IT
http://www.disinformazione.it/generalepatton.htm
__________________________________________________________________
A 1943 – I MASSACRI
DIMENTICATI COMPIUTI DAI FANTI AMERICANI E L’ ORDINE DEL GENERALE
PATTON: «UCCIDETE I PRIGIONIERI ITALIANI»
Sicilia 1943, l’ordine
di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani»
di
Gianluca Di Feo – “Corriere della Sera” 23 giugno 2004
I massacri dimenticati compiuti dai fanti
americani tra il 12 e il 14 luglio.
«Il capitano Compton radunò gli italiani che si
erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole
partecipare all’esecuzione?”.
Raccolse
due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani».
«Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori
dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non
guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò
tutti». E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani
che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né
delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta
in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della
storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici
negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la
vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America
ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a
Montreal sul tema «Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli
Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le
responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle
corti marziali che giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché –
come risulta dagli atti di quei processi – i soldati americani si
difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George
Patton. «Ci era stato detto – dichiararono – che il generale non
voleva prigionieri».
Nessuno conosce il numero esatto di uomini
dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali,
con circa duecento morti. Di
due,
quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce
ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno 43 la corte
marziale Usa
celebrò
due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il
plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli
atti del
tribunale
recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi».
Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il
giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora
divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato
famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca
era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia.
Clifford disse che sessanta italiani, catturati
in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con
una mitragliatrice.
Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata
ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in
cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter,
fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò
tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu
mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di
deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria
Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava
saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi
del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso
dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei
persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi
della New York University – il cui padre fu testimone oculare
dell’eccidio – riportano il racconto di alcuni dei soldati americani
presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla
folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era
un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21
colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi
un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole».
Ma gli atti dei processi per «i fatti di Biscari»
accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più.
Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»:
reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico
e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine
pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie
più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro
battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i
tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal
Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di
due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per
quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano
tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare
prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono
al processo:

«Ci era stato detto che Patton non voleva
prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli
altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale.
“Se si arrendono quando tu sei a due-trecento
metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la
quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito
il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di
killer, perché i killer sono immortali!».
Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il
cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni
soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la
catasta dei corpi crivellati dal sergente West: «E’ una follia – gli
dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in
guerra per combattere queste brutalità non per fare queste
porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo». King corre a
cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per
l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno
di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: «Quando mi
sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: “Padre, sei
venuto per seppellirli?”. “Cosa stai dicendo?”, replicai io. Il
caporale rispose: “Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra
Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri”». A
quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani
presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare
quegli uomini: «Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte
preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero
vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!». Altrettanto
drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: «Venni fermato
da due barellieri disarmati. Mi dissero: “Abbiamo due italiani
feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli”. Io gli urlai di curare quei
soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare”».
Fu proprio la volontà del cappellano King a far
nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto
all’ispettore dell’armata – figura simile ai nostri pubblici
ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale
contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: «Omicidio
volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37
prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un
comportamento disdicevole». I fanti italiani – poco meno di 50 –
erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna
intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al
sergente con un ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli
dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito
l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni
chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo.
Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì
li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia
caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla
corte, il sergente si difese invocando lo stress: «Sono stato
quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò di avere
assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi,
cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il suo
avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West disse
ai giudici: «Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi
estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò
all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington
infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei
massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani – con cui era
stato appena concluso l’armistizio – e il rischio di ritorsioni
sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in
una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del
Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a
sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il
vertice dell’esercito teme
che
la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo
delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al
comando alleato
di
Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo
della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere
che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno
al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani
dalla violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene
rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine
agosto in Bretagna. Secondo
altre,
ha concluso la guerra indenne.
L’assoluzione
Invece
il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse:
davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli
ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di
Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione
nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E una
mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea
del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche
ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in
divisa e un altro in abiti «borghesi» che escono da una ridotta:
sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla
trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e
maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato
li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde
tempo: dice di ucciderli.
Il numero esatto delle vittime resta incerto ma
l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per
36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula
dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che
continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che
quegli italiani erano «sniper», termine traducibile come «cecchini»
o «franchi tiratori», e quindi andavano fucilati: una linea
difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton.
«Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine
di Patton – concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di
un generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi
basta. E io l’ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni – tra cui
diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile
«se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni
riferirono anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo
ci serve. Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile
dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello:
«Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della
giustizia – scrisse – che un ordine del genere doveva apparire
illegale in modo lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al
fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un
cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la
bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso
giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della
giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un
precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui processi
ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di
Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione
completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni
storici americani – assolutamente non sospettabili di revisionismo –
ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le
SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli
Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro di Biscari»
e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J.
Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro
Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel
volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia,
tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso.
Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una
pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un
iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre
persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.
Gianluca Di Feo
http://www.veja.it/2013/10/18/sicilia-1943-i-massacri-dimenticati-compiuti-dai-fanti-americani-l-ordine-del-generale-patton-uccidete-i-prigionieri-italiani%E2%80%A8/
«Carabinieri massacrati,
denudati e uccisi e uno fu gettato nel pozzo»
L'appello a Napolitano perché
si renda onore ai morti
La Sicilia, 7 Luglio 2013 - Maria Concetta
Goldini
Gela. La guerra, da qualunque parte la si guardi,
porta con sé sempre esperienze tragiche, lacrime e dolore. Sono
passati settant'anni dallo Sbarco degli Alleati ed in varie parti
della Sicilia, a cominciare da Gela che ne fu il teatro principale,
si sono organizzate manifestazioni per ricordare quell'episodio
storico che diede inizio alla liberazione dal nazifascismo.
E' trascorso dunque un tempo ragionevolmente
lungo per rivedere senza retorica quella pagina di storia e chiarire
fatti ed episodi rimasti, volutamente o no, avvolti da una coltre di
nebbia e silenzio. Uno di quelli che tenta da tempo a rendere meno
zuccherose le pagine della storia di quell'estate del 1943 è lo
storico e giornalista napoletano Fabrizio Carloni, che da anni
conduce ricerche sullo Sbarco.
Alcuni giorni fa lo scrittore ha inviato una
lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
ricordando le pagine oscure di quei giorni che ha contribuito a
svelare con le sue pubblicazioni. In particolare, la cattura e la
fucilazione di otto carabinieri italiani in servizio al presidio di
Passo di Piazza, ad otto chilometri da Gela, lungo la strada che
porta a Vittoria. Uno solo uscì indenne da quella strage compiuta
dagli americani: si chiama Antonio Cianci, è pugliese e all'epoca
aveva 21 anni.
Ed ecco come Cianci ha raccontato l' episodio nel
libro di Carloni "Gela 1943": «Ero sul tetto del casolare e vidi
arrivare degli uomini - ricorda Cianci -: ebbi la sensazione che
l'elmetto del gruppo di soldati che si avvicinava fosse tedesco.
Erano le 6 o le 7 del mattino. Avevo l'ordine, nel dubbio, di
sparare e mirai ad uno del gruppo e lo uccisi. Reagirono. Loro con i
mitra e noi con il moschetto.
Gli americani puntarono sul casale tutte le
artiglierie navali che avevano lungo la costa. Il vicebrigadiere
Carmelo Pancucci, di Agrigento, dopo una coraggiosa resistenza, ci
ordinò di stendere delle tovaglie bianche. Uscimmo disarmati verso
il cortile. Gli Alleati sentirono rumore da un locale attiguo alla
caserma dove vivevano dei contadini e, pensando forse che c'erano
altri militari e che li avevamo traditi, cominciarono a sparare
verso di noi. Feci finta di essere colpito e mi gettai a terra. Dopo
mezz'ora portarono tutti i feriti in un luogo di campagna poco
distante. Restammo lì per tre giorni al freddo e poi ci imbarcarono
per l'Algeria. Da allora di quell'episodio non ho parlato a nessuno.
Una strage in barba alle convenzioni internazionali».
Carloni e Cianci sono stati sentiti alcuni mesi
fa dal procuratore militare di Napoli, Molinari, che ha aperto
un'inchiesta per l'ipotesi di reato di omicidi compiuti ai danni di
civili con efferatezza e per futili motivi. Un reato che non va in
prescrizione: ma dopo 70 anni trovare prove e testimoni non è
semplice.
Carloni
non si è fermato. Per i suoi libri e per dare una mano all'indagine
ha continuato a cercare testimoni della strage di Passo di Piazza e
ha trovato proprio di recente uno dei
contadini che abitava vicino al casolare usato come presidio dai
carabinieri. «Il contadino ha aggiunto un particolare agghiacciante
alla strage - racconta lo scrittore -: vide che tre carabinieri
furono massacrati di botte e denudati. Poi uccisi. Uno fu buttato
nel pozzo. Credo che questi carabinieri meritino il giusto
riconoscimento per il loro sacrificio. Ho saputo ora che a Sommatino
sarà dedicata una lapide ad uno di loro, il carabiniere Michele
Ambrosiano, morto a 40 anni. Qualcosa si muove, soprattutto dopo la
lettera al presidente Napolitano che mi ha risposto con molto garbo
e disponibilità».
«Chiedo a lei, così attento, al di là delle
ideologie, alla dignità della nostra Patria, se sia possibile
continuare ancora nella totale dimenticanza degli assassinati
nell'area di Gela», ha scritto Carloni, che continua ancora a
cercare in Sicilia testimoni capaci di ricostruire gli episodi bui
dello Sbarco.
Intanto, a Gela l'opinione pubblica si presenta
divisa sull'opportunità di celebrare l'avvenimento storico.
L'amministrazione comunale, con alcune
associazioni, ha organizzato un imponente cartellone di
manifestazioni che culmineranno il 10 mattina con la simulazione
dello Sbarco.
A contorno, sono previste mostre fotografiche,
convegni, trekking sui luogi dello sbarco. Il sindaco Angelo Fasulo
ha conferito la cittadinanza onoraria a Phil Stern, il re della
fotografia in bianco e nero. E' famoso come fotografo dei divi: è
l'unico che abbia potuto fotografare Marilyn Monroe nuda.
Ma il mestiere lo ha imparato qundo, ventenne,
fotografò ogni attimo dello Sbarco a Gela, dove ora è ritornato a 93
anni.
Ma queste manifestazioni ed iniziative non sono
gradite ai giovani del locale Comitato No Muos, che hanno messo su
un "controprogramma" di tre giorni e hanno dato appuntamento per il
10 mattina sul Lungomare di Gela ai No Muos siciliani per disturbare
la simulazione dello sbarco. Perciò sono pronte a scattare adeguate
misure di sicurezza.
Il 10 luglio del 1943, da qualsiasi angolatura lo
si guardi, fu uno di quei giorni che non si possono dimenticare.
Gela fu teatro di un'imponente operazione militare che ha riguardato
tutta la Sicilia e ha dato il suo contributo in termini di vite
umame per la libertà dal nazifascismo. Quelli erano però giorni di
guerra, l'Husky era un'operazione bellica e gli Alleati non erano
certo venuti a fare una passeggiata in Sicilia.

Come
furono salvate le reliquie di Sant'Agata a Fleri
leggi
il libro di Antonio Patanè



Patton e Montgomery. La
guerra di due Primedonne
 |
Una delle cause del mancato coordinamento tra gli inglesi e gli
americani fu la rivalità tra il generale inglese Montgomery ed il
generale americano Patton. Quest'ultimo, per non sentirsi relegato a
un ruolo secondario, invece di accorrere in aiuto a Montgomery,
bloccato da una accanita resistenza tedesca a Catania, preferì
passare alla storia come il liberatore di Palermo, andando a
"liberare" dei territori che ormai erano già stati abbandonati
dall'asse. Così, non trovando alcun ostacolo a Messina, le truppe
tedesche riuscirono a ritirarsi senza problemi.
Alcuni storici sostengono che a causa delle ingenti perdite subite a
Gela da parte degli americani, in contrasto con la quasi passeggiata
nel siracusano degli inglesi, Patton si infuriò e per ripicca non
appena seppe che Montgomery aveva trovato una feroce resistenza sul
Simeto, esclamò che era venuto il momento per gli inglesi di
"conquistare l'onore in campo con i loro morti" e preferì andarsene
in tutt'altra direzione lasciando gli inglesi al loro destino invece
di accorrere in loro aiuto. |
 |
http://www.wikisicily.com/pelligra/storia/L%27invasione-della-Sicilia.html
in Memoria di
.. Graziella Giuffrida
a cura di Domenico Stimolo
Graziella vive, anche se manca il rispetto delle istituzioni
catanesi
Graziella GiuffridaSì, Graziella vive ancora. Si riverbera nella
memoria cittadina di Catania, grazie ai civici “volontari”, e di
Genova. La Giuffrida nacque a Catania nel 1924, morì, giovanissima,
a 21 anni, nel marzo del 1945 a Genova. Ammazzata. Scarnificata e
buttata in un fosso. “ Alla libertà e alla patria offrì la giovane
esistenza nella guerra di Liberazione”. Così, tra l’altro, recita la
lapide murata nel 1956 su un fronte della sua casa natia, un basso
palazzotto, sita a Catania all’inizio di via Bellia; all’angolo con
piazza Machiavelli, in un’area dello storico e popolare quartiere di
S. Cristoforo. La piazza, detta “ S. Cocimo”, è, complessivamente
tranquilla. Una diversità rispetto al furore quotidiano che sommerge
tutta la zona. Spesso giocano a palla i ragazzini. Sconoscono, che
in quel luogo giocò anche la bimba Graziella e che in quella casa,
ormai da lunghissimo tempo silente, la madre, appresa della morte
dei figli, di Graziella e di Salvatore, spezzata dal dolore,
impazzì.
Poi, cresciuta, emigrò. Piena di speranze e di gioie di vita. Anche
in quegli anni tanti catanesi “salivano” al nord per cercare lavoro.
C’era con lei il fratello Salvatore. Fu ammazzata dai nazifascisti
il 24 marzo nel quartiere di Teglie a Genova, dopo avere subito
torture e infami sevizie. Umiliata e violentata. Il corpo fu
ritrovato il 28 aprile, alcuni giorni la Liberazione, in via Rocca
dei Corvi, in località Barbini, a Fegino in Val Polcevera, zona
industriale e operaia. Nell’improvvisata fossa, malamente realizzata
dagli assassini a fianco di una capanna, Graziella giaceva assieme
ai corpi di altri quattro giovani patrioti partigiani, uccisi nello
stesso eccidio. A fianco la capanna c’era uno scantinato utilizzato
dagli sgherri per torturare e uccidere i patrioti. A Genova, la
giovane catanese era insegnante; “maestrina”, data la giovanissima
età. Durante le drammatiche fasi dell’occupazione tedesca non rimase
inerte. Forte era l’anelito per la libertà calpestata. Grande lo
sdegno per gli orrori quotidianamente consumati sulla popolazione,
vilmente ammazzata, incarcerata e deportata. Graziella, volendo dare
un contributo attivo, in difesa degli oppressi, si aggregò ai SAP –
Squadre di Azione Partigiana - operanti nel capoluogo ligure. Fu
arrestata in un tram, così, per caso, e per le voglie dei tedeschi
presenti nel tranvia. Graziella era giovane e bella. La
importunarono pesantemente, come preda di guerra di selvaggia
invasione Lei reagì, in difesa della sua persona profanata. Le
misero le mani addosso. Graziella nascondeva una pistola. Fu la
fine. Subì la stessa triste sorte del fratello Salvatore,
partigiano. Prima del colpo finale, lì, nello scantinato delle
torture, i nazisti sfogarono le loro sadiche voglie sul suo corpo
ormai massacrato. Una vera e propria martire, che combatté intrepida
in difesa dei diritti umani, per il riscatto civile e democratico
dell’Italia.
Della sua breve vita, alla conoscenza pubblica, è rimasta una solo
fotografia. Un’immagine dolce. Colpisce lo sguardo fiero e generoso.
Non si conoscono i pensieri e le azioni di Graziella giovinetta a
Catania.
Pochi anni addietro dedicai un’intera mattinata, percorrendo in
lungo e in largo il quadrilatero urbano che racchiude la sua casa
natia in via Bellia, alla ricerca di informazioni sulla sua
famiglia, i parenti. Il tempo, però, è sempre tiranno. Alfine trovai
solo una vecchietta, antica abitante della zona, che si ricordava.
Mi disse che la madre, appreso dell’infelice e tragica sorte dei due
figli, in seguito, impazzì…..poi tutto “scomparve”.
Nel cippo posto a Fegino in Val Polcevera – Genova – il 25 aprile
1950 -, così tra l’altro si legge: “ I genitori della Graziella
dallo loro lontana Catania alzarono questo cippo alla memoria”.
Ogni anno a Catania la memoria di Graziella ritorna forte nella
ricorrenza del 25 Aprile. La sua grande lapide si trova lungo il
percorso storico del corteo. La posa della corona, largamente
infarcita di garofani rossi, rappresenta il momento più inteso della
manifestazione. Graziella vive! Circondata dalla calorosa
partecipazione di tantissimi giovani..jpg)
A Genova, il 27 marzo, si svolge la cerimonia davanti il cippo posto
a Rocca dei Corvi, luogo dell’assassinio. Quest’anno la ricorrenza
ha avuto un tocco particolare. Graziella è stata al centro
dell’attenzione del convegno, a lei dedicato, organizzato dallo Spi
–Cgil nazionale –l’organizzazione dei pensionati –, dal titolo “
Sorelle d’Italia….Protagoniste della Resistenza, contro la violenza
sempre”.
Lei, emblema di libertà, del riscatto e dei diritti, di tutti,
simbolo del valore della partecipazione delle donne alla lotta e
alla vita civile, rappresenta il legame tra ieri e oggi. Il cuore
ribelle, impavido e onesto della Sicilia. Alla ricerca della
giustizia contro le oppressioni. Un fulgido legame universale che
frulla nelle radici della nostra isola. Già emerso nel percorso del
tempo e, raccolto poi, con dedizione e sacrificio, da tante, nel
travaglio quotidiano. Nella lotta contro lo sfruttamento, per il
riconoscimento dei diritti, l’eguaglianza e la legalità; tra cui,
Rita Atria e Felicia Bartilotta Impastato ( la mamma di Peppino). Un
testimonio ancor più prezioso oggi, specie per le giovane e i
giovani che vivono in un contesto di dolorosa incertezza, precariato
e discriminazioni. Per la difesa della Costituzione, dei valori
costruttivi della nostra democrazia nata dalla Resistenza e dal
sacrificio di Graziella e delle altre compagne/i di lotta; per
abbattere le ingiustizie e per una vera equità sociale; in difesa
della scuola pubblica e della dignità, sempre, nei luoghi di lavoro
e nella società, senza razzismi.
A Genova una strada ricorda il suo martirio. A Catania, patria natia
di Graziella, l’ignavia istituzionale ha calpestato sempre la sua
memoria. Un silenzio indegno, nella prassi e nella scelta operativa,
ha caratterizzato le amministrazioni comunali e i luoghi che si
intestano la professione della cultura e dell’insegnamento. Anzi,
ribaltando le strutturali diversità valoriali e sostanziali che
caratterizzano le essenze fondative della nostra coscienza civile e
democratica, meritorie di essere divulgate e coltivate nella memoria
cittadina e tra i giovani, l’amministrazione comunale del sindaco
Scapagnini, nel 2002, intitolò tre strade a rappresentanti catanesi
di primo piano del regime fascista e cultori politici ereditari del
fascismo. Tra tutti spicca Filippo Anfuso, gerarca della dittatura,
capo di Gabinetto del Ministro degli Esteri Ciano, ambasciatore
della Rsi in Germania fino alla sconfitta del nazismo, coinvolto
nell’assassinio dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, esuli
antifascisti, a Parigi nel 1937.
Nel gennaio 2003, il “ Comitato Catania democratica e antifascista”
consegnò all’amministrazione comunale ( il sindaco non volle
ricevere i rappresentanti) una petizione popolare con oltre 5000
firme di cittadini. Si richiedeva che le tre strade fossero
intitolate a martiri partigiani catanesi. C’era Graziella Giuffrida.
L’ amministrazione comunale “tirò dritto” nella sua azione di
rivalutazione dei fascisti.
Graziella e i martiri della libertà, che avevano drammaticamente
subito le conseguenze nefaste del regime, nella propria città non
hanno diritto di cittadinanza e di memoria.
http://www.ritaatria.it/LeStorie/Resistenza/GraziellaGiuffrida.aspx

Randazzo, la
Cassino di Sicilia
LA BATTAGLIA DI RANDAZZO - 13 luglio - 13 agosto 1943 -
di Salvatore Rizzeri
Questa storia ebbe inizio tanti anni or sono, era il mese di Luglio
del 1943, l'alba del dieci vide il più potente convoglio che mai
fino allora avesse solcato il Mediterraneo, sbarcare i propri mezzi
sulle spiagge di Gela, Licata e Capo Pachino. Si trattava della
Settima Armata alleata agli ordini del Generale Eisenhower che in
seguito sarebbe divenuto Presidente degli Stati Uniti. Direttamente
sottoposte a lui le rispettive armate: l' Ottava Armata inglese
comandata dal Gen. Montgomery e la Quinta Armata americana comandata
dal Gen. George Patton. Agli inglesi fu affidato il compito di
avanzare in direzione di Siracusa Catania e giungere a Messina, le
forze americane dovevano invece avanzare attraverso il centro
dell'isola, conquistare Palermo e infine raggiungere Messina. La
conquista della Sicilia non fu cosi facile come descritta nei libri
di scuola e si concluse con la occupazione di Messina il giorno 17
agosto da parte delle truppe del generale Patton. Una volta sbarcate
le forze americane avanzarono sulla direttrice Mazzarino - Troina –
Randazzo, dove ebbe luogo una delle battaglie più cruente della
campagna di Sicilia; le truppe tedesche, ben decise a consentire il
graduale abbandono dell'isola al grosso del loro esercito, si erano
attestate in posizione vantaggiosa sulle alture intorno alla città e
con l'ausilio dei loro pezzi da 88 e della contraerea, cominciarono
a far strage degli avamposti alleati.
Possiamo dire che qui ha inizio la nostra storia. Per superare il
difficile stato di impasse fu deciso l'intervento delle fortezze
volanti, del 39° Reggimento, nonchè della Nona Divisione. Lungamente
per cinque - sei giorni furono mandate all'assalto truppe marocchine
e canadesi che non riuscirono nell'intento di aprirsi un varco verso
Randazzo, mentre la città veniva centrata da migliaia di bombe
sganciate nel corso delle 84 incursioni di cui venne fatta oggetto.
Il 13 luglio iniziò il bombardamento di Randazzo condotto dalla 9^
AF (Air Force) americana, con gli aerei B-25 e P-40 e dalla NATAF
(North West Tactic Air Force), con i bombardieri Wellinghton. I
bombardamenti seguirono nei giorni 18-19-20. Il 21 gli attacchi
impegnarono venti aerei B-25. Ma l’attacco più forte fu sferrato il
1° Agosto allorché furono impiegati più di duecentotrenta
bombardieri P-40. Gli attacchi si ripeterono il 7 agosto con più di
sessanta bombardieri B-25, l’8 con oltre novanta B-25 e il 10. L’11
agosto fu l’ultimo giorno di bombardamenti a cui fu soggetta
Randazzo. Oltre 90 B-25 bombardarono ponti, strade, ferrovie e
l’area cittadina. Circa centosettanta P-40 bombardarono direttamente
Randazzo. I contadini mentre mietevano in montagna vedevano passare
sopra la loro testa, a bassa quota, i bombardieri che si dirigevano
verso Randazzo lasciando cadere centinaio di bombe.
Gli alleati si accanirono particolarmente contro Randazzo in quanto
la sua conquista, per l’importante posizione strategica che essa
rappresentava, avrebbe aperto la strada alle truppe Anglo-Americane
per una rapida conquista di Messina e quindi di tutta l’Isola.
Consapevole di ciò il comando Italo-tedesco aveva piazzato a
Randazzo e nelle sue campagne una potente difesa contraerea che
abbattè diversi bombardieri alleati, causa questa che scatenò ancor
di più la reazione alleata contro la città. Alla gente venne dato
l’ordine di sfollare e non si trovò di meglio che rifugiarsi nei
casolari di campagna, all’interno delle cantine e nei palmenti dei
vigneti sparsi lungo le pendici dell’Etna (Località “Cisternazza“), negli anfratti e nelle numerosissime grotte che si aprono
all’interno del ciglione lavico in fondo al quale scorre il fiume
Alcantara, ad est della città, in località “Allegracore“ e “Città
vecchia“.
Al suono della sirena, che preannunciava l’imminente arrivo delle
fortezze volanti, la gente si nascondeva dove poteva. In particolare
per evitare di essere colpiti dalle numerosissime schegge vaganti
causate dalle esplosioni, ci si rifugiava all’interno dei tini dei
palmenti, molto più sicuri di altri luoghi. Ci si nutriva con quanto
si era riuscito a portare da casa e con quel poco che la natura e i
pochi animali ti offrivano, (Latte di capra e di pecora, bacche,
qualche raro frutto di bosco). Parecchi civili trovarono la morte
sotto i bombardamenti, in quanto presuntuosamente vollero rimanere
nella città, rifugiandosi nelle chiese che pensavano non sarebbero
state colpite. Le cattedrali di San Nicola e San Martino, così come
tante altre piccole chiesette della città, invece non vennero
risparmiate e subirono la stessa sorte delle abitazioni private. La
perdita del patrimonio artistico e monumentale fu enorme, ben il 75%
del patrimonio immobiliare venne abbattuto e con esso tutti i tesori
d’arte che vi erano contenuti. La forte resistenza Italo-tedesca
costrinse il generale Omar Bradley a creare un diversivo aggirando
le forze dell'asse con un percorso attraverso le montagne verso
Cesarò e monte Pelato, in una marcia piena di difficoltà per la
natura impervia dei luoghi. Il due di Agosto il Gen. Bradley ed il
Gen. Eddy presentarono, il loro piano ai "GO-Devils" del Colonnello
De Rhoan comandati dal Maggiore Charles Fort (s3), ed essi
segretamente iniziarono la loro azione nel cuore dei Nebrodi la
notte del 5 agosto.
Intanto il 60° Reggimento di fanteria continuava la indimenticabile
" 100 hour silent march", attraverso le montagne, e nonostante le
perdite subite da parte dei "nebelwerfer" tedeschi, il Colonnello De
Rhoan proseguì nella sua avanzata riuscendo a catturare la cima
“Camolato“ del Monte Soro e il noto laghetto detto Biviere di Cesarò.
Questa posizione raggiunta gli consentì quindi di occupare Cesarò
alle 6,55 della mattina del giorno otto; dopo la cattura di Cesarò
gli uomini del 60° iniziarono a percorrere la strada che unisce
questo paese a Randazzo, contemporaneamente anche truppe inglesi
della 78° divisione, provenienti da Catania erano in marcia verso
Randazzo. In conseguenza di ciò i guastatori tedeschi dopo aver
abbondantemente minato la strada, indietreggiarono e oltrepassata
una Randazzo semidistrutta dai bombardamenti aerei si diressero
verso Polverello - San Piero Patti .
Questa strada divenne
tristemente famosa col nome "The death road". Le mine tedesche erano
poste alla distanza una dall'altra di circa 20 yard e coordinate per
esplodere insieme ad altre mine anti tank da un meccanismo, tutto
ciò costrinse le truppe americane ad abbandonare la strada
principale per lunghi tratti ed ad aprirne di nuovi.
Sulla strada per Randazzo avanzavano vicini i "Raiders "e i "Falcons"
del Colonnello "Paddy" Flint, la notte del 13 agosto bivaccarono
presso il punto in codice " hill 1364 (cadillac) " probabilmente il
ponte distrutto di Randazzo, mentre i guastatori tedeschi, truppe
ben addestrate e motivate, rapidamente cercavano di raggiungere la
statale 113 a nord, per poi lasciare l'isola. La notte del dodici la
compagnia C del 15° genieri costruì una strada attraverso il bosco
di Manglaviti di Floresta ( praticamente un territorio
inattraversabile ), strada che completò entro giorno 13 e ciò
consentì il transito dei grossi camion da 2,5 tonnellate. Occupata
Floresta rapidamente il 60th fanteria occupò il " nostro " bivio di
Polverello da loro indicato " Cape D'orlando - Randazzo road " e qui
un’ altra volta gli uomini del 15° genieri costruirono una strada di
12 miglia che attraversò il territorio e che consentì giorno 14
agosto agli esploratori del Reconnaisance platoon, assieme al 60th
fanteria di ricongiungersi alla Nona Divisione, (Hitler nemesis),
con la terza divisione (Rock of the Marne). Per gli uomini della
nona divisione la campagna di Sicilia era finita. Il venti agosto
Eisenhower annunciò la fine dei combattimenti in Sicilia .
I danni e le distruzioni apportate da un numero ingiustificato e
sconsiderato di incursioni aeree da parte degli alleati, ridussero
Randazzo in uno stato miserando da cui non si è più ripresa. Infatti
a quasi 70 anni dai drammatici avvenimenti, in città sono ancora
numerose e visibili le tracce apportate da tale assurdo accanimento
bellico. Le Amministrazioni comunali insediatesi nell’immediato
dopoguerra, uno strano connubio tra la vecchia classe nobiliare che
aveva ancora una volta cambiato casacca per continuare a mantenere i
secolari privilegi e la classe popolare emergente, per la cecità, la
poca lungimiranza e l’incompetenza politica che li caratterizzò, non
seppero o non vollero sfruttare le grandi risorse finanziarie e le
opportunità (Piano Marshall), messe a disposizione dal nuovo Stato
Repubblicano per la completa ricostruzione della città.
E'questo un breve sunto di una pagina di storia che riguarda molto
da vicino la città di Randazzo, alla luce degli avvenimenti
succedutisi e della loro importanza potremmo dire che "la storia ci
ha solo sfiorati"
http://www.randazzomedievale.it/index.php?option=com_content&view=article&id=48&Itemid=43

Medaglia d'argento al
merito civile conferita alla città di Randazzo dal Presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi:
«Comune, occupato per la posizione strategicamente
favorevole dall'esercito tedesco, fu sottoposto per trentuno giorni,
tanto da essere definito "la Cassino di Sicilia", a violentissimi
bombardamenti che provocarono numerose vittime civili e la
distruzione dell'intero abitato. Ammirevole esempio di spirito di
sacrificio ed amor patrio.»

IL MUSEO DELLA
SBARCO 1943 A CATANIA, VIALE AFRICA.
STORIA
Il 10 luglio 1943 gli americani e gli inglesi sbarcavano nella
parte orientale della nostra Isola rispettivamente nei pressi di
Gela e tra Portopalo e Siracusa.
L’invasione, definita agli ango-americani ‘Operazione Husky’ avrebbe
portato la Sicilia e l\'Italia tutta verso la liberazione dall\'occupazione
tedesca.
A questa drammatica pagina della storia contemporanea scritta
proprio in Sicilia, da centinaia di migliaia di combattenti
provenienti da diverse parti del mondo è stato dedicato il museo
dello Sbarco situato a Catania presso il complesso fieristico
denominato Le Ciminiere.
Esso rappresenta,pertanto, un atto di omaggio a tutti i caduti della
Battaglia di Sicilia e si propone alle nuove generazioni come
percorso didattico culturale e storico al fine di custodire
gelosamente la pace come bene essenziale e prioritario per
l’umanità.
Nel suo continuo svolgersi, Il Museo ripercorre le tappe degli
scontri di guerra che si svolsero soprattutto nella Sicilia
occidentale come Gela, Augusta, Agira, Floridia, Troina, Ponte di
Primo Sole, Catania, Messina.
Propone attraverso ambienti ricostruiti, le condizioni che
caratterizzavano la vita prima, durante e dopo l’evento bellico con
simulazioni, proiezioni ed esposizione di reperti sempre
rigorosamente originali.
Gran parte del materiale video esposto, infatti, proviene dagli
archivi storici americani e inglesi e le proiezioni accompagnano i
visitatori, stimolandoli in giudizi e valutazioni, per tutti e tre i
piani sui quali sviluppa il Museo, che occupa complessivamente una
superficie di circa 3.000 metri quadri.
Il personale accoglie, accompagna ed assiste lungo il percorso del
Museo gli studenti in visita.
Ai gruppi scolastici viene consegnata una copia gratuita del
Catalogo per la loro biblioteca d\'Istituto.
PERCORSO
Lungo il percorso, una cartellonistica fotografica e testuale
illustra l\'avanzata americana, mentre, numerosi monitor trasmettono
simultaneamente immagini della avanzata delle truppe americane ed
inglesi.
Al primo piano, una sala ottogonale, che simula un bunker, quattro
monitor che proiettano immagini di città bombardate come Palermo,
Messina e Catania.

La sala \"Testimonianze\" è una sosta del percorso museale di grande
interesse per moltissimi giovani ed adulti.
La sala delle testimonianze di uomini e donne che hanno vissuto lo
sbarco in Sicilia, ha arricchito, dall\'inizio del 2006, il percorso
museale.
Al centro della sala, un bassorilievo raffigurante la Sicilia viene
animato con luci e colori, simulando l\'avanzata degli alleati.
Il percorso continua con le sale d\' esposizioni di reperti
autentici: divise militari ed armi d\'epoca.
Al secondo piano cinque statue di cera, modellate dai maestri
inglesi, riproducono i protagonisti storici del tempo: Franklin D.
Roosevelt, Winston Churchill, il re Vittorio Emanuele III, Benito
Mussolini, Adolf Hitler .
Sempre al secondo piano, la riproduzione in scala reale della tenda
che ospitò i personaggi che il 3 settembre 1943 a Cassibile
firmarono l\'armistizio: il generale Giuseppe Castellano e il
Comandante Bedell Smith .
Il percorso si conclude con l\'immagine del cimitero inglese che si
trova alle porte di Catania, verso Siracusa, ove riposano le spoglie
dei caduti.
Su un pannello luminoso, posto ai piedi di una scultura bronzea,
scorrono i nomi di tutti i soldati morti in combattimento e
riconosciuti.
ORARIO
Il Museo è aperto al pubblico di mattina tutti i giorni, escluso
il Lunedì, dalle ore 9,00 alle ore 12,30 (ultimo ingresso - chiusura
ore 14,00).
Il Museo apre anche di pomeriggio nelle giornate di Martedì e
Giovedì, dalle ore 15.00 alle ore 17,00 (ultimo ingresso - chiusura
ore 18,00).
Il museo è aperto anche nei seguenti giorni festivi : 6 gennaio,
Epifania 25 aprile, festa della Liberazione 2 giugno, festa della
Repubblica 8 dicembre, Immacolata concezione 26 dicembre, Santo
Stefano Telefono: 095.4011929 - 095.533540
COME SI RAGGIUNGE
Il Museo, sito a Catania nella centralissima arteria di Viale
Africa, è raggiungibile a piedi in dieci minuti dal centro storico,
o con le linee urbane.
Si trova a pochi metri dalla Stazione Centrale e dal capolinea
autobus delle società SAIS ed ETNA, che collegano Catania alle altre
province e alle città più importanti della Sicilia.
http://www.siciliasud.it/luoghi.php?c=140&tabella=luoghi


I LIBRI SULLO SBARCO IN SICILIA
Gran
parte delle foto di questa pagina provengono da LA GUERRA A CATANIA
di Salvatore Nicolosi - Tringale Editore (1983)
ALTRI VIDEO
Buona parte delle foto proviene dal libro"La
guerra a Catania" di Salvatore Nicolosi - Tringale editore
«Robert Capa sapeva che cosa cercare e che cosa farne
dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la
guerra,
perché è soprattutto un'emozione. Ma lui è
riuscito a fotografare quell'emozione conoscendola da vicino»
Parte della famosa immagine sottostante è di Robert. Gli chiedo
scusa se l'ho stravolta.
Leggi la sua storia


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