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La Fiera dei Morti 2023 si terrà nel parcheggio scambiatore Fontanarossa dell’Amts, dal 28 ottobre al 5 novembre. La manifestazione fieristica sarà aperta nei giorni festivi e prefestivi dalle ore 9 alle 24 e nei giorni feriali dalle 9 alle 22.30 per accogliere circa 150 stand adibiti alla vendita di prodotti vari, tipici e artigianali, uno spazio gioco per i bambini e un’area food per degustazioni. Sarà attivata inoltre una postazione di primo soccorso.
LA HALLOWEEN DI CASA NOSTRA Mimmo Rapisarda - novembre 2004
La tradizione vuole che nella notte fra l’1 e il 2 novembre le anime dei defunti lascino le loro nicchie e scendano in città a rubare ai più ricchi pasticcieri, mercanti, sarti, per far regali ai bambini dei loro parenti che siano stati buoni nell'anno e che li abbiano pregati. E la preghiera fanciullesca è questa: "Armi santi, armi santi, sugnu unu e vuatri síti tanti: Mentri sugnu 'ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitimìnni assai.". In realtà i derubati sono papà e mamma, e i nonni. Ricordo ancora l’operetta che mettevano in scena i miei genitori la notte prima. Dopo aver acquistato i giocattoli per me e mio fratello già sotto le coperte, i nostri genitori ci facevano capire che all’ingresso di casa arrivavano i parenti defunti con i doni da mettere ai piedi del letto. Mentre loro attuavano questa recita, noi battevamo i denti dal terrore facendo attenzione a non gridare perché era una mancanza di rispetto verso i morti che, offesi, avrebbero potuto non regalarci proprio niente. Il mio sonno arrivava tardi, memore di quello che dicevano i miei compagni di scuola "Stanotti venunu i parenti motti e ti rattuni i peri!" (stanotte vengono i parenti morti e ti grattano i piedi). La mattina dopo, al risveglio, con timore mi affacciavo sotto il letto per vedere cosa mi avevano lasciato questi morti. Io ci avrei rinunciato tranquillamente ai giocattoli, sapendo che arrivavano dall’aldilà, ma dovevo farlo. Impiegavo almeno dieci minuti prima di vedere che c’era sotto il letto. Mi immaginavo di vedere all’improvviso lo scheletro di mia nonna che mi porgeva, sorridente, la pista Politoys dicendomi "ioca, beddu da nanna" (gioca, nipotino bello di nonna tua). Comunque, anche se ricca di tradizioni, era un’usanza macabra che oggi farebbe imbestialire qualsiasi pediatra o psichiatra infantile. Purtroppo, per ottenere i giocattoli dovevamo superare questa difficilissima prova alla “Dario Argento”. Ma il sadismo dei genitori nel terrorizzarci non si limitava ai giocattoli. Infatti l’indomani, mentre giocavamo, ci facevano mangiare i dolci tipici di questa ricorrenza: le rame di Napoli al cioccolato, i Totò, le n’Zulle e le immancabili "ossa 'i mortu": macabri dolcetti a forma di teschio, tibia, femore di pasta bianca che subito si sfarinava sotto i denti, proprio come ossa calcinate; il tutto deposto su uno strato di pasta croccante e marroncina: la bara!
Dai ricordi dei miei zii e dei miei nonni, quando ai tempi della guerra e del dopoguerra un giocattolo era considerato un capriccio ed era già un’impresa portare il pane a casa, i doni dei morti ai bimbi erano costituiti soltanto da pere e mele cotte, scarpe, abiti e fucili fatti col cartone. Ed era un sacrificio per i genitori, ma forse era meglio così. Ma ai miei tempi, l’indomani era già festa! Gli spettri della notte li avevamo già dimenticati e le strade sembravano quelle di Kansas City: spari ovunque, con lo sceriffo (u cchiu spettu) che spadroneggiava sui cowboy “babbi” e le bambine che davano terra da mangiare, a mo’ di pappa, alle loro nuove figlie-bamboline. Gli odierni sessantenni, ex bambini degli anni Settanta, si ricorderanno certamente della fiera con le ambite meraviglie che vendevano a Piazza Vittorio Emanuele a Catania, mai chiamata così perché per tutti era “a chiazza de motti” proprio perché lì, nella notte dell’1 novembre, si vendevano i giocattoli per i propri figlioletti. Allora non esisteva internet, whatshapp, Sky e tutti i marchingegni di adesso. C’era solo la Rai con il primo e il secondo canale; nessun'altra alternativa a parte Carosello, il maestro Manzi, Bice Valori e Bruno Canfora. Ma c’erano anche i Fort Alamo in miniatura, marines e indiani di plastica, strumenti musicali che non funzionavano affatto e cineprese dal complicato funzionamento che oggi getteremmo nel cestino dopo quattro nanosecondi! Ah, no, c’era anche il cinema: Dove osano le aquile, James bond, Soldati a cavallo, la battaglia di Inghilterra, Dio perdona io no, Ammazzalo per me, Il massacro di Fort Apache e i capolavori di Sergio Leone. Questo fenomeno influenzava la società di quei tempi; pertanto, generazioni di bambini, genitori compresi, cercavano di emulare le gesta di Gringo, Rin Tin Tin, James Bond e Patton andando a cercare nelle bancarelle le stesse armi appartenute a commissari sfreccianti su bellissime Alfa Romeo o a pistoleri dal nome strano ma che vivevano a Trastevere. Per questo motivo, la maggior parte dei giocattoli era costituita da una fabbrica di guerra che sparava solo coi mitici .... caps, come li chiamavano a Catania! Erano capsule di plastica contenenti non so quale polvere per far sparare a salve. Caps, gommini o fulminanti! Quindi, alla festa dei Morti, ai maschietti veniva regalato tutto un corredo da bandito del West con cappelli texani fatti di cartone e poi foderi, cinture finte e pistole, fucili, mitra, soldatini a forma di Tex Willer e fortini che ricordavano il Gen. Custer e Geronimo. Il 3 si sparava ancora, eccome. Il 4 novembre, invece, era il giorno in cui si visitavano le caserme aperte al pubblico e si faceva addirittura la fila per visitarle guardando in diretta il cambio della guardia. Poi si saliva a bordo delle navi militari che arrivavano al porto per sedersi al sedile del cannoniere o del nostromo. Oggi questa cosa farebbe quasi ridere, ma allora la giornata della Forze armate significava qualcosa. Ma il 4 era anche la giornata particolare che con mio fratello attendevamo con ansia, perché potevamo finalmente prendere possesso dei “doni della nonna”. Perché solo al 4 novembre? Perché finalmente mio padre sazio delle sue sparatorie. Nei giorni precedenti dovevamo giocare con altro perchè le armi le maneggiava solo lui, consumando strisce e strisce di “caps” e immaginandosi Gringo, James Bond o un agente sovietico (personaggio da lui molto ambito) in film di controspionaggio molto in voga negli anni Sessanta. Affascinato anche lui dal cinema, si riprendeva i regali che ci aveva fatto - ho il vago sospetto che i giocattoli, alla Fiera dei Morti, se li scegliesse personalmente - e cominciava a sparare, sparare, sparare. Sbucava all’improvviso, inginocchiato, da dietro il letto e ci fulminava alle spalle dicendoci "morite, canaglie!"! Poi ci faceva gli agguati dietro alle porte, come un po’ faceva Sordi quando imitava Jean Gabin in Costa Azzurra. Noi lo guardavamo rassegnati e con gli occhi al cielo, aspettando la consegna delle armi. Niente! Dopo aver scaricato tutta l'artiglieria, come un bambino vergognato ci riconsegnava l’arsenale, ancora fumante, per farci finalmente giocare. Cazziato da mia madre e appagato dalle stragi consumate nei corridoi di casa, sollevava la bandiera bianca lasciandoci le munizioni rimaste. E lì era un bel guaio, perché i Caps, nei giorni a seguire, diventavano praticamente introvabili! Spariti! Ma chi li costruiva, chi li produceva? Quindi dovevamo far sparare quelle pistole, che poi duravano solo due mesi, cercando di imitare il rumore dello sparo con le nostre bocche. E’ un rapporto strettissimo quello che lega i catanesi ai propri cari estinti tant'è che per l'occasione in Sicilia viene allestita un fiera ad hoc (fiera dei morti, appunto) dove ci si muove tra bancarelle che offrono merce di scadente natura, ma soprattutto giocattoli per "i picciriddi". A Catania la chiamano Fiera dei Morti. Un luogo storico che, a dire il vero, è sempre stata a Piazza Carlo Alberto, dove si svolge anche "a fera 'o luni" (fiera del lunedì), quotidiano mercato ortofrutticolo e pescheria all'aperto che tuttora conserva l'antico nome poiché si svolgeva solo di lunedì. Ma non è più la stessa cosa. L’altro ieri ci sono andato e come ogni anno, dopo averla visitata, con delusione mi riprometto di non ritornarci più e invece, come tutti i miei concittadini, ci ricasco. Ogni 31 di ottobre, frotte di catanesi di qualsiasi ceto sociale si scaraventano in massa alla Fiera dei Morti, una volta ubicata alla Plaja, un’altra volta al porto, un’altra alla Villa Bellini, un’altra all’aeroporto. Tutti ci vanno con la baldanza di chi sta per fare l’affare della vita ma, puntualmente, trovano le stesse cose presenti in ogni mercatino rionale italiano: romagnoli che cucinano Fiorentine; frittate con l’ultima bistecchiera; brasiliani che vendono i prodotti dei pellerossa; argentini che vendono dubbi tappeti persiani; napoletani che vendono DVD e CD contraffatti sparando ad alto volume l’ultimo successo di Nino D’Angelo o di Gigi Finizio. I catanesi ci stanno bene in quella bolgia e, "calando" dai loro quartieri, sono capaci di girare per più di un’ora per cercare un posto per l’auto, arrendendosi alla fine agli spietati ricatti dei parcheggiatori abusivi. Già stanchi dopo pochi minuti, si infileranno in quel girone dantesco e puzzolente di patate fritte, olio, pizze a taglio andate a male, ma pieno di croccante "catanesità" all’inverosimile, tanto liotrica che farebbe risvegliare dalla tomba Nino Martoglio per scriverci una delle sue commedie. Mi avvicino ad una di quelle bancarelle che offrono di tutto, dal Bacardi al panino con mille specialità da farsi venire l’intossicazione. Attendo la mia bevanda e all’improvviso sento in perfetto accento catanese "Ciao m’bare… n’cafè". Mi volto e vedo alle mie spalle due "vu cumprà" senegalesi alti due metri, neri neri, che rivolgono quel "ciao compare: un caffè" al barman. Sentirli parlare in dialetto è davvero uno spasso! Loro lo sanno e lo fanno apposta! Mentre mi appresto a pagare, un gruppo di ragazzi stanno portando alla cassa le vettovaglie per la gita dell’indomani (immancabilmente …. ‘o Milu!). Hanno anche otto ciambelle di pane da più di un chilo ciascuna, i cosiddetti "cucciddati". Scherzando, dico a uno di loro: "Ma a che vi serviranno mai domani tutte queste ciambelle? Quanti siete, una trentina?" E il ragazzo catanese, con una risposta bruciante mi indica le ciambelle e iniziando a contarle dice: "Semu ottu: Iu, Ninu, Arazzio, Melo, Turi, Pippo, Giuvanni e Cicciu." Nella zona mobili c’è l’antiquario napoletano che cerca di vendere qualcosa di antico, ma non sa chi ha di fronte: "Anticu? Tu si anticu! Chissu vecchiu è!". E ancora: "a n'euru, a n'euru!", che non si capisce se vende a un euro o invoca un'ambulanza per farsi ricoverare alla Neuro.
Un altro mobiliere, forte di aver letto da qualche parte le gesta di un certo Napoleone Bonaparte e sapendo di un altro Napoleone III, cerca di spacciare un mobile in stile Napoleone Terzaparte! Gli chiedo la logica risposta alla sua dichiarazione. Mi dice: “Bonaparte è stato il primo Napoleone, no? Ha fatto bene il suo dovere (da lì "bona") e la sua dinastia non poteva che arrivare alla terza parte, compresa la mobilia del periodo!”. Non fa una grinza! Più in là scorgo enormi e "distinte" madri di famiglia che vendono giocattoli luminosi fatti in Cina; altre donne bellissime, straniere o autoctone, vendono altra mercanzia dai Camper-Biochetasi-da Zio Mario-da Zio Nino-da Zia Lucia: "Ma u paninu u voli ca rucula o ca maionesi? Ci mettu n’pocu di pocchetta?: - "Ahu, pani di Lintini originali, ah…"s’accomota…" peco, peco! In un angolino mi accorgo della presenza di una piccola folla. Al centro dell’anello umano tre pellerossa stanno suonando con chitarre e flauti "Let it be" dei Beatles cercando di ottenere, a fine esibizione, delle offerte. Vedendo cosa sono costretti a fare per vivere i veri padroni d’America, mi viene da dire "Guarda come si è ridotto un grande popolo!". Un catanese, a me vicino, continua: "……..e sunavanu macari bella musica!". Sempre più divertito, mi allontano fra le bancarelle di giocattoli. I bambini davanti a quei balocchi cominciano ad essere sempre più esigenti e si ricordano del prodotto che hanno visto in tv; vogliono questo, vogliono quello (per la verità, già da piccoli hanno le cosiddette "corna") e invece ricevono ceffoni, ne prendono di santa ragione da genitori nervosi. Fra la frutta e verdura con cartelli che fanno sganasciare dalle risate, tipo "fiche nostrane" su una cassetta di fichi secchi, passa un milanese che chiede a un venditore di lumache "quanto vanno all'etto?" e il venditore "quannu vannu a lettu no' sacciu, ma ogni matina e' cincu i trovu tutti ccaà!" (quando vanno a letto non lo so, ma ogni mattina alle cinque le trovo tutte qua).
Non lo fa capire, ma è stanco e nervoso anche il commerciante che cerca di rifilare a una giovane madre la tutina troppo stretta per il bambino. E quando devono "rifilare" qui si raffinano con una sorta di lingua italiana che, a modo loro, li fa apparire più "professionali"……: “signora, guardi che questa tutina la mette pure mio figlio che ha due anni come quello suo…..suo figlio ha fatto due anni l’1giugno? Mio figlio il 3 giugno…. che coincidenza, "se la spaciano" di due giorni!!!!” Si fanno fregare anche con le scarpe "mi stanno un po' strette" e il venditore "signora, poi cedono...", oppure "mi stanno un po' larghe" e il venditore "signora mia, queste si adattano al piede e poi si restringono". All’incrocio fra il vialetto delle porchette e quello delle sedie in vimini, intere famiglie si ritrovano e si salutano parlando di cassa integrazione, di assegni di assistenza, di TFR, di arrampicate sul campanile della Cattedrale per manifestare contro le autorità, di bivacchi davanti al Municipio perché la fabbrica sta chiudendo. Fra l'ennesima fregatura parleranno del lavoro "in continenti” che ancora consente di sopravvivere. Però, stavolta, loro non vogliono commettere l’errore dei nonni, non vogliono tornare qui in età pensionabile portandosi dietro un cancro ai polmoni beccato nelle fabbriche polentone; se proprio se lo devono beccare, che sia alla pelle per il troppo sole che hanno preso alla Playa... perchè stavolta vogliono morire qui a tutti i costi, anche mangiando solo pane e cipolla. Li lascio alle loro speranze:- Ma tu ppi cu voti? - Belluscono….- Ma cchi dici? Non è candidatu o Cumuni….- Turi…. comu si chiama chiddu…..ah… Sciampagnini! Poi si rimettono in cammino alla ricerca delle scarpe giuste che, in ogni caso, dopo due giorni li costringeranno ad una visita podologica. Abbagliati da tutto quel ben di Dio luccicante, acquisteranno anche altri oggetti inutili che non useranno mai, che non serviranno a nulla e che arrivati a casa si guasteranno. L’affare della loro vita, come ogni anno, non l’hanno fatto. Non fa niente, domattina per le strade non ci saranno più gli spari di una volta ma finestre chiuse dalle quali si intravedono televisori accessi che proiettano silenziosi videogiochi acquistati dai marocchini, che non funzioneranno e che bisognerà riportare per il ricambio. E, inevitabilmente, di nuovo la ricerca del parcheggio, il marocchino che non si trova “picchì su tutti i stissi”, ecc. ecc. Noi catanesi siamo indistruttibili, inossidabili, ma alla Fiera dobbiamo andarci costi quel che costi, perché ci divertiamo da matti in quella Halloween ambulante in cui tutti, ma proprio tutti, ritorniamo "picciriddi". Tanto, domani è festa e non si lavora… e dopodomani nemmeno. (Mimmo Rapisarda)
C’era una volta la festività dei Morti. Sembra l’incipit di un fiaba ma non è così. Non sappiamo nemmeno se ci sarà un lieto fine. Intanto notiamo un progressivo decadimento delle tradizioni legate ai defunti. La festa di Halloween, che si celebra il 31 ottobre e che non c’azzecca niente con i nostri usi e costumi, sembra averla soppiantata. E' entrata a far parte anche della nostra cultura, piace a molti e vengono organizzate numerose feste a tema. Seppure c'è chi storce il naso quando ne sente parlare, Halloween è una tradizione anglosassone che da diversi anni a questa parte è stata accolta anche in Italia come occasione per dare libero sfogo alle più macabre fantasie. Il mondo cattolico appare impotente di fronte al radicamento di questo “rito carnevalesco” fuori stagione che ormai attira giovani e meno giovani. Cambiano i tempi, cambiano i gusti e le mode. Una volta “i motti” si aspettavano con trepidazione. Quella notte tra l’1 e il 2 novembre era attesa per tutto l’anno. I bambini aspettavano l’arrivo dei regali portati dai defunti, facendo bene attenzione a non aprire gli occhi. In caso contrario, una bella grattata di piedi sarebbe stata per loro la dura punizione. Un fucile, una bicicletta, un pallone da calcio o un paio di scarpe nuove, per i maschietti erano sempre i ben accetti. Per le femminucce, invece, la bambola, la cucina in miniatura o una gonnellina da indossare la domenica potevano bastare. Negli anni ’60 i mattoncini Lego orientarono i gusti verso scelte più costruttive. “Armi Santi, armi Santi” - ripetevano sottovoce i piccoli in trepidante attesa - “iu sugnu unu/a e vuautri tanti: mentre sugnu ‘nta stu munnu di vai, così di motti mittitimminni assai!”. I ragazzi oggi reagiscono con sarcasmo quando si parla dei doni “lassati de motti.” Non riescono a comprendere come mai i coetanei di una volta si facessero “‘mpapucchiari” in questo modo dai parenti. “Logicu - dice il più giudizioso - ‘na vota i picciriddi nascevunu ccu l’occhi chiusi e ppi 40 jorna stavunu ‘nfasciati”. Giusta osservazione. E c’è da aggiungere che in età pre-adolescenziale vestivano pure con i calzoni corti. Oggi ci sembra di vivere in tutt’altro mondo. Resistono solo le abitudini gastronomiche: Ossa ‘i mortu, ‘nzuddi” rami ‘i Napuli, Totò (con la classica glassa bianca o al cioccolato). Mancano “‘i pupi ‘i zuccuru” soppiantati già da tempo dalla frutta martorana (‘a pasta reale). Andando a ritroso nel tempo, Novembre era “‘U misi ‘de Motti”. Tanto per cominciare, in questo mese dove per “San Martino ogni mosto diventa vino”, erano da evitare i traslochi. Non sappiamo quanti osservano ancora tale usanza ma, secondo i nostri nonni, non portava bene cambiare casa in questo periodo: “I mutticeddi” non ne sarebbero stati affatto contenti. “Doppu ‘e motti ni parramu” era il comune detto di chi voleva rimandare scadenze e impegni vari. Poi all’arrivo di dicembre, lo stesso diventava: “All’annu novu ni parramu!” Visto che di morti si parla, si va al cimitero a depositare un fiore sulla tomba dei propri cari ma, nel frattempo, tra un vialetto e l’altro, si trova il tempo per curiosare tra le sepolture. La data di nascita e di morte, oltre alle foto del defunto, sono le prime cose che saltano agli occhi. Ognuno azzarda le proprie considerazioni: “Bihhh! Chistu era giovane: poviru figghiu/a! Eh! ’a motti è crapicciusa: Lassa ‘a vecchia e pigghia ‘a Carusa!”. Diversamente, si va per le spicce: “… Ci vulissimu Campari nuautri!”. Le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Capita purtroppo di riconoscere tra quelle foto, amici e conoscenti con i quali si erano persi i contatti. Gli osservatori più acuti commentano gli epitaffi. In quasi tutte le tombe ce n’è uno. Sono scritte intense, dettate dal cuore e dal dolore; riescono a commuovere anche perché molti di essi contengono teneri messaggi e considerazioni sul senso della vita. C’è di che meditare. “A vita è ‘na livella: nu re, nu magistratu, nu grand’uommo, trasennu stu canceddu ‘a fattu ‘u cuntu ca ‘a persu tuttu: a vita e pure ‘o nuommo (…)” scriveva nel 1964 il grande Antonio De Curtis in arte Totò . Varcando i cancelli del camposanto si ha la sensazione di entrare in una dimensione “altra”. Da qui i tanti suggestivi racconti spiritici sbocciati tra le sepolture. La Sicilia 2.11.2019
IL MUSEO MONUMENTALE DEL CIMITERO DI CATANIA
LA TRADIZIONE E LE LEGGENDE SICILIANE La festa di Ognissanti fu istituita nell'ottavo secolo da Gregorio II e nel 998 Odilio, abate di Cluny, aggiunse nel giorno seguente la festa di tutte le anime. Il due di novembre, dunque, nei paesi cattolici si commemorano i defunti con messe e processioni e con una serie di rituali. In Sicilia si chiama "íornu di li morti", o semplicemente "li morti", ed è una ricorrenza molto sentita, differente da provincia a provincia. A Palermo si va a visitare le Catacombe dei Cappuccini fuori Porta Nuova, dove per antica usanza gli scheletri pendono attaccati alle pareti, esposti agli occhi dei loro congiunti che accendono per loro candele di cera. Ai bimbi palermitani si chiede che quella sera se ne stiano tutti al mercato della Vuccíria; luogo dove una volta si festeggiava l’usanza. E la frase proverbiale "Sapiri la Vucciria" significa sapere che le "cose" dei morti (i regali ai bambini) non son donate dai morti, ma bensì dai vivi, e quindi conoscere quest’inganno significa essere accorto, scaltro e malizioso. Ad Acireale si consumano li favi'n quasuni, cioè fave cucinate in un particolar modo, secondo un antico rito romano in cui il pater familias allontanava le anime dei defunti lanciando dietro di sé delle fave nere. Ma che aspetto hanno i morti siciliani? Si dice che ad Acireale vestano di bianco avvolti nel lenzuolo e calzino scarpe di seta, forse per eludere la vigilanza dei venditori ai quali andranno a rubare qualche cosa; a Partinico nel solo lenzuolo a piedi nudi e con un grattugia di sotto; a Milazzo col teschio pesante che hanno sul debole collo; a Catania passeggiano in processione per le strade recitando il rosario; in altri comuni etnei camminano con un collo sottilissimo quanto un filo; a Salemi si dice che la messa dei morti sia celebrata tra le ore di mezzogiorno ed il vespro: quando suonano le campane. Chi, tratto in inganno, entra in chiesa e vede il volto cadaverico di un prete, deve fuggire immediatamente facendosi il segno della croce. Altrimenti non sopravvivrà; a Modica si pensava che i morti risorgessero la notte della loro festa e quando canta il gallo per la prima volta escono a schiera dalle sepolture e si ordinano a due a due come nelle processioni e camminano lentamente; a Francofonte credevano che al primo risorgere dicessero "cumanna cumanna!" e subito diventavano vento; ad Erice, rifacendosi ad antichi usi funebri, si credeva che i morti mangiassero; a Messina, invece, gli adulti avevano l'abitudine di andare al cimitero e, seduti vicino alle tombe, mangiare e bere allegramente per poter vivere più lungamente i parenti morti. Dovunque vadano, si faranno formiche per entrare nelle case dei loro congiunti, per penetrare nelle fessure delle porte in modo che passino i loro doni. La leggenda dice pure che durante il viaggio dei morti le campane della parrocchia suonano tutta la notte a mortorio, e che le mamme e le nonne, nelle prime ore della sera, trattengono figli e nipoti raccontando loro le geste dei morti. E si celebrano le messe, perché in Sicilia si crede che a celebrare la messa dei morti siano condannate le anime dei preti che ingannarono i fedeli, non celebrando, per avidità di guadagno, le messe per cui avevano ricevuto le elemosine. I siciliani le chiamano appunto "misse scurdate".
Da dove viene la parola "Tabbutu"?
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I COSI DE MOTTI - La storia del 2 novembre.
Non potendo permettersi una carrozza, decise di viaggiare a piedi, anche di notte, per arrivare al più presto a casa e poter pagare, col poco denaro rimastogli, le costose medicine. Dopo un giorno di viaggio, già stanco, si trovò a passare dal cimitero del paese proprio nel giorno del 1° novembre. Ricordando il padre defunto, ne approfittò per fargli visita. Era già buio e quasi notte, e mentre pregava sulla tomba del congiunto perchè questi vegliasse sul nipotino morente, trovò un soldatino di legno sulla lapide della tomba e, senza esitare, se lo mise in tasca pensando di donarlo al piccolo in cambio di un sorriso. Poi la stanchezza ebbe il sopravvento su di lui e lo fece addormentare, ma dopo qualche ora riprese con coraggio e buona lena il suo cammino. Quando a notte fonda arrivò a casa, abbracciò i suoi figli, la moglie e in particolar modo il suo piccolo malato, mettendogli in mano quel piccolo giocattolo trovato al camposanto sulla tomba del nonno. Poi rassicurò la moglie, consegnandole quei pochi denari per procurare al più presto le necessarie cure per debellare la malattia che stava spegnendo il loro ultimo genito.
Era la notte del 1°
novembre. Il bambino continuò a dormire col suo giocattolino stretto
al petto, ma appena il sole illuminò la sua finestra, nel giorno del
due novembre, egli si alzò e cominciò a correre per casa svegliando
tutti, ridendo e cantando.
Francesco Raciti http://raciti.photopoints.com/
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Il mese di novembre è
sempre stato tradizionalmente un periodo ricco di fiere e eventi
particolari in quanto agevolato dalle ricorrenze di Ognissanti e dei
Morti che sancivano il riposo dal lavoro e contemporaneamente la
fine di un ciclo agrario (con la conclusione delle semine) e un
momento di approvvigionamento per affrontare l'inverno.
La Fiera dei Morti non è
chiaramente realizzata solo con bancarelle e oggetti rivolti ai
bambini, bensì come dicevamo è una fiera completa e pertanto è
possibile ritrovarvi vettovaglie, indumenti e quant'altro tipico dei
mercati. A Palermo veniva spesso dislocata alla Vucciria, tant'è che
esiste una frase tipica "Sapiri la Vucciria" ossia conoscere che i
regali dei morti non sono donati dai Defunti, bensì dai vivi. Questo
detto tipico nasconde l'innocenza dei bambini che seppur a
conoscenza dell'accaduto fingono di non "sapiri la Vucciria" al fine
di ricevere i regali. Pur non avendo nessun legame con la manifestazione viene da ricordare che la Playa fu scelta quale cimitero pubblico in occasione dell'epidemia di colera del 1837, immediatamente annullata per motivi di igiene pubblica. Fonte: www.cuoreinsicilia.it
Nell'arte funeraria la speranza dei fedeli La tradizione dei morti che tornano per una notte dall'Aldilà è ancora molto sentita in molti paesi e città della Sicilia. Biscotti e regali vengono lasciati ai più piccoli oppure diventano un omaggio per accogliere i propri parenti in una notte magica e misteriosa
La Commemorazione dei defunti (in latino Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum, ossia Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti), anticamente preceduta da una novena, segue di un giorno la festività di Ognissanti del 1º novembre. Il colore liturgico di questa commemorazione è il viola, il colore della penitenza, dell'attesa e del dolore, utilizzato anche nei funerali. L'idea di commemorare i defunti in suffragio nasce su ispirazione di un rito bizantino che celebrava tutti i morti il sabato prima della domenica di Sessagesima - così chiamata prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II -, ossia la domenica che precede di due settimane l'inizio della quaresima, all'incirca in un periodo compreso fra la fine di gennaio e il mese di febbraio. Nella chiesa latina il rito viene fatto risalire all'abate benedettino sant'Odilone di Cluny nel 998: con la riforma cluniacense stabilì infatti che le campane dell'abbazia fossero fatte suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del 1 novembre per celebrare i defunti, ed il giorno dopo l'eucaristia sarebbe stata offerta "pro requie omnium defunctorum"; successivamente il rito venne esteso a tutta la Chiesa cattolica. Ufficialmente la festività, chiamata originariamente Anniversarium Omnium Animarum, appare per la prima volta nell'Ordo Romanus del XIV secolo. Nella forma straordinaria del rito romano era previsto che nel caso in cui il 2 novembre cadesse di domenica, la ricorrenza sarebbe stata celebrata il giorno successivo, lunedì 3 novembre. In Italia, benché molti lo considerino come un giorno festivo, la ricorrenza non è mai stata ufficialmente istituita come festività civile. La pietas verso i morti risale agli albori dell'umanità. In epoca cristiana, fin dall'epoca delle catacombe l'arte funeraria nutriva la speranza dei fedeli. A Roma, con toccante semplicità, i cristiani erano soliti rappresentare sulla parete del loculo in cui era deposto un loro congiunto la figura di Lazzaro. Quasi a significare: Come Gesù ha pianto per l'amico Lazzaro e lo ha fatto ritornare in vita, così farà anche per questo suo discepolo! La commemorazione liturgica di tutti i fedeli defunti, invece, prende forma nel IX secolo in ambiente monastico. La speranza cristiana trova fondamento nella Bibbia, nella invincibile bontà e misericordia di Dio. «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! », esclama Giobbe nel mezzo della sua tormentata vicenda. Non è dunque la dissoluzione nella polvere il destino finale dell'uomo, bensì, attraversata la tenebra della morte, la visione di Dio. Il tema è ripreso con potenza espressiva dall'apostolo Paolo che colloca la morte e la resurre- 02/11/2014
il cimitero di guerra Motta Sant'Anastasia
Mi soffermo sul culto dei catanesi verso i loro defunti, nella generalità dei casi del tutto simile a quello di tanti altri connazionali, ma differente nel sentimento del popolano più genuino che testimonia la sua certezza nell’aldilà attraverso il cordiale incontro col defunto, assai simile a quello che aveva in vita. Mi spiego meglio con un episodio. Se un primo di novembre di molti anni fa non fossi andato al Cimitero di Catania, non avrei potuto raccontarvi il fatto a cui ho assistito.
“Sabbenerrica Papà, sabbenerica Mamà, sugnu cuntenta di viririvi. U sapiti chi successi sta simana? “ Sarina continuava il suo monologo e nel frattempo si affaccendava a mettere ordine, pulire e lucidare le borchie di ottone della lapide di marmo. Quella discussione in dialetto continuava già da qualche minuto e mi era difficile non ascoltarla. In settimana era successo che lo zio Tanino, il marito di Carmelina, quella del borgo, era caduto dalle scale e meno male che la signora Santina e suo marito l’avevano preso e non si sa come l’avevano issato e portato a casa! Avevano chiamato il pronto soccorso ed era arrivata l’ambulanza che se l’era portato, a correre a correre, al Garibaldi. E meno male che avevano trovato il dottore Indelicato che s’era dato che fare e gli aveva fatto ingessare la gamba e lo aveva fatto mettere in un letto vicino a un galantuomo che aveva la testa fasciata. Ma questo era niente perché a Mara ci si erano rotte le acque e aveva partorito un figlio maschio, che ancora Turi non conosceva perché non ne sapeva niente, visto che era in villeggiatura a Bicocca. Che famiglia sventurata! L’avvocato ce lo aveva detto a Turi che era questione di mesi e sarebbe uscito, dopo tutto il giudice l’aveva capito che era stato Mario a provocarlo e quella coltellata che ci aveva dato l’aveva fatto per sbaglio! Lo sapevano tutti che Turi era un bravo giovane. A proposito, anche Alfio si trovava a Bicocca. Lo zio Tanino era uscito dall’ospedale e camminava sciancato con il gesso nella gamba e le stampelle e Lupo pareva che piangeva e gli stava sempre accanto. A quel cane gli mancava la parola, come a quella bestia di Antonio, il fratello dello zio Tanino che non aveva detto ne schi e ne scu! Ma guardate che c’è qua: due fratelli che stanno nella stessa casa e non si parlano da tre anni. “Se non fosse stato per quella gran buttanuna di Mariannina, la pace familiare non si sarebbe persa! Ma sapete come s’è fatta bella Monica, la figlia di Angelina, la nipote di Concetta, quella di Battiati? Oggi preparo le lenticchie e ci metto a cipudda friuta come faceva voscenza. A proposito quel fituso del piano di sopra continua a sputare dalla finestra e butta la cenere sul nostro balcone. Qualche volta finisce a scerra. Io non so come devo fare cu sti capiddi, paru ‘na vecchia! Come vi lascio arrivo al Fortino che devo comprare i pospiri di lignu, poi passo dai chianchi e scendo al piano di Sant’Agata, fazzu a spisa a pescaria e m’arricoghiu ca sugnu susuta dai cincu. Certo che ora fa fresco! Mamà potete stare tranquilli che la luce l’ho pagata e non vi lascio allo scuro. Ma che siete bella Mamà e anche voi Papà!” Nel frattempo Sarina aveva finito le pulizie, aveva messo il Sidol e la pezza gialla in un sacchetto di plastica e li aveva conservati nella borsa della spesa. Poi aveva preso la spugna e l’aveva strizzata nella pilozza, aveva messo da parte la cera per lucidare i marmi e raccolto un sacchetto con i fiori rinsecchiti. Aveva conservato tutto nella sporta, abbottonato il cappotto di lana nero sdrucito e si era rassettata i capelli con le forcine. In ultimo aveva sistemato i fiori freschi nei portafiori di rame, uno sputo sulle foto del papà e della mamma e una lucidata con il gomito. Stette qualche minuto ferma, in piedi, in silenzio e si segnò con il segno della croce. “Baciamu i manu Papà e baciamu i manu Mamà, ni viremu dumani ca è a festa dei morti.”
Giorgio Coniglione
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Halloween o
"murticeddi"?
LA RICORRENZA DEI
DEFUNTI
"Il giorno dei Morti" raccontato da Andrea Camilleri.
Un tempo per i Siciliani il giorno dei morti era un giorno davvero speciale, per i bimbi era ricco di attesa e dolci sorprese! La globalizzazione oramai sta rendendo più onore ad Halloween dimenticando la tradizione che invece ci appartiene e dobbiamo impegnarci a conservare e a tramandare, per questo abbiamo deciso di riportare il testo di Camilleri che racconta la magica atmosfera del giorno dei morti per i siciliani. Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio. Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre. I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo. Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire. (da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri) https://siciliaospitalitadiffusa.it/it/il-giorno-dei-morti-raccontata-da-andrea-camilleri
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( L’attesa.Nella notte tra l’1 e il 2 novembre per i bambini si rinnova la credenza della visita notturna dei Defunti . Un occhio aperto, l’altro socchiuso. I bambini aspettano incuriositi, finché il sonno non prende il sopravvento. Nella speranza e nel timore che si riesca a vedere se i defunti ritornano davvero. Già, proprio i morti, che secondo la tradizione la notte tra l’1 e il 2 novembre, in silenzio mentre tutti dormono, entrano in casa, accarezzano e baciano in fronte i propri amati, rimboccano loro le coperte e poi si allontanano, non prima però di aver lasciato tanti doni nascosti per casa: dentro un armadio, sul tappeto o magari sotto il letto, perché la gioia dei bimbi al mattino è proprio quella di cercare i regali che durante la "visita" notturna i nonni, gli zii, i parenti che non ci sono più, hanno lasciato chissà dove per casa. Il giorno dedicato ai defunti è una festività che in Sicilia si tramanda da generazioni, senza paura, nel tentativo sovente di creare un legame affettivo tra le nuove generazioni e quelle scomparse da tempo, ma rimaste nel cuore di chi resta proprio per essere tramandate. I cari defunti, che nell’immaginario collettivo sono cupi e addolorati, la notte tra l’1 e il 2 novembre si trasformano, diventano sorridenti e, abbandonando per qualche ora le loro eterne dimore, distribuiscono giocattoli, dolci e vestiti ai bimbi. Nel tempo i doni sono cambiati e così le pistole giocattolo, che i bambini attendevano con ansia, hanno lasciato spazio a playstation, robot, automobiline, trenini elettrici ed interi cantieri in miniatura; le bambine, invece, continuano a trovare le classiche bambole che piangono senza il ciuccio, Barbie, cucine con tutto il pentolame, forni per cuocere i dolci e tanti abiti. La tradizione vuole che poi si vada al cimitero a portare fiori, per ringraziare i propri cari per la loro generosità e a ricordarli come quando erano in vita.
Il giorno dei morti è il
giorno che Da qui in poi la storia, che è sospesa tra religione e leggenda, diventa più chiara. Il rito della commemorazione dei defunti sopravvive alle epoche e ai culti: dall’antica Roma, alle civiltà celtiche, fino al Messico e alla Cina, è un proliferare di riti, dove l’unico comune denominatore è consolare le anime dei defunti perché siano propizie per i vivi. La tradizione celtica fu quella che ebbe maggiore eco. La celebrazione più importante del calendario celtico era la "notte di Samhain", la notte di tutti i morti e di tutte le anime, che si festeggiava tra il 31 ottobre e il 1° novembre.
In epoca cristiana,
queste tradizioni erano ancora molto presenti: In memoria dei cari scomparsi ci si mascherava da santi, da angeli e diavoli e si accendevano falò. Riti religiosi che nel tempo si sono mescolati al pagano, dunque, ma ancora oggi durante la notte dei morti, c’è chi lascia sui davanzali un cero acceso, per far "luce" ed accogliere il passaggio dei propri cari. Mentre tra gli anziani c’è ancora chi riesce persino a vedere le anime camminare per le strade, in una notte sospesa tra l’amore e il ricordo. Lucy Gullotta
QUANDO SI SPARAVANO I "CAPS".
(
Gran parte delle
tradizioni legate ai "Morti", sono scomparse. Certi sapori di un
tempo, colori e rumori compresi, oggi non si avvertono più. Pensiamo
all' "ossa ‘i mottu", gustoso biscotto duro da sgranocchiare; i
"pupi di zucchero" che a contatto con la saliva si scioglievano
lasciando nella bocca un lieve sapore di cannella. Per non parlare,
poi, dei giocattoli
fatti trovare in ogni angolo della casa ai bambini. Loro dovevano
credere che i regali acquistati da nonni e genitori erano stati i
morti a farglieli trovare. Erano Bambole e culle per le femminucce,
mentre per i maschietti era diverso. I più virtuosi pregavano perché
arrivasse l'automobilina da corsa oppure "l'azzi Band" ("Azzi", da
Jazz) cioè la batteria con tanto di piatti, tamburi e bacchette;
mentre i più scapestrati sceglievano fucili e pistole. A costo di
rimetterci i timpani, sparare era sinonimo di forza da far valere
sempre. Questa usanza non c'azzeccava niente con la solennità
liturgica della festa; eppure gruppi di bambini sciamavano sparando
per le strade, per i vicoli, tra le macchine con queste armi
giocattolo (allora prive di tappo) comunque parodia di morte. E'
inutile negare che ci si divertiva da morire. "Ma quannu venunu ‘i
morti? " si chiedevano i piccoli belligeranti. A partire dalla
seconda decade di ottobre, in un crescendo rossiniano, cominciava la
musica. Giochi innocenti, certo, che con l'andar del tempo si fecero
talmente pericolosi da indurre le autorità a proibirli. Cosi di catania Dai finemula, non facemu arririri i polli! Non appartiene alla nostra cultura, forse picchì a mia, oltre a non piacermi, mi fa macari antipatia, ma questo Halloween lo trovo fuori luogo per noi siculi abituati "ca festa de motti". Ieri mi sono imbattuto in "pagghioli" che scimmiottando gli anglofoni erunu appitturati tipu: feriti, ammistuti frischi, e a seguire di vampiri e streghe. La tenerezza che mi hanno fatto ieri notte, quei quattro attempati o diciamo "diversamente giovani", ca facci infarinata e i mussi tingiuti di niuru, si erano messi a discussione con un posteggiatore, rigorosamente abusivo, il quale chiedendo il "pizzeggio" (forma contratta del pizzo dovuto al parcheggio) si sente rispondere dai seguaci "de cucuzzi": non si vergogna addumannarini un euro?, pronta la risposta: "Su ju m'haja vergognari vuatri v'avissura attruvari ‘nputtusu unni ‘ntanarivi". Scontro tra titani! Certo ognuno è libero di festeggiare (ma cosa ci sarebbe poi da festeggiare?!) come gli pare. Però se mi viene in mente, così come ci preparavamo alla nostra "notte dei morti" ad essere sincero, un poco di magone mi prende. I grandi ci preparavano con non poco pathos, invitavandoci ad andare a letto presto. Adducevano delle scuse non sempre adatte ad un bambino: "Dormi o i morti stanotte non ti portano i giocattoli" e fino a questo punto, niente di serio, anche se nella mia mente frullava la visione di uno zombie che nella notte entrava nella mia stanzetta barcollando, nel tentativo di lasciarmi il dono. Per vincere l'ulteriore resistenza, si rinforzava la dose con: "Vedi che i morti lo capiscono se dormi veramente o fai finta, t'arattunu i peri e se sei sveglio, ti mettunu a cira ‘nta l'occhi. Se all'epoca c'era telefono azzurro, a me matri c'avissuna ratu trentanni di cacciri. "Dormi! ". E' inutile dire che mi sentivo come in quel passo della Bibbia che recita: "La gazzella giacerà con il leone". Non chiudevo occhio, poi sfinito riuscivo a prendere sonno, agevolando il lavoro dei miei genitori nel posizionare i giocattoli nella stanza. Ma quanto era bello quando l'indomani, alle prime luci dell'alba, ci si svegliava con i primi colpi di pistola che provenivano dalle case vicine. Ho un ricordo chiarissimo, olfattivo però, l'odore misto dei fulminanti (i caps sparati) ai dolci (rami di Napuli ed ossa di mottu) che pervadeva ogni angolo di casa mia. Una volta "i motti" mi lassanu un regalo che mi ha lasciato a bocca aperta, il vestito di Toro Seduto, ma quant'era bellu! Tutto in simil-pelle di daino, il copricapo con mille penne e a corredo anche l'ascia di guerra. Non stavo nella pelle, prima di indossarlo però, dovevo mettere la maglia di lana, anche se c'erano 30 gradi all'ombra, per mia madre "quannu traseunu i motti traseva l'inverno", viri chi fissazione, prima a magghia e poi la guerra! Mi vesto, mi pitturo la faccia ed impugno l'ascia, niente e nessuno mi avrebbe fermato, ero un guerriero, la stessa fierezza di un Sioux. Con un urlo disumano mi presento in strada, un solo balzo e sautu da banchina sfidando i presenti. C'era da superare un piccolo problema: "Ero l'unico indiano ‘nta quatteri di cau-boi! " i coppa mi ficiunu fetiri a cani-mottu, mi vendevano come prigioniero da una strada all'altra. Ricordo, vinnunu macari picciriddi di l'autri quatteri pi sassuliarimi. Alla fine della giornata sono stati gli altri bambini a ringraziare i miei per il grosso regalo che gli avevano fatto. Giornate indimenticabili, ricordi indelebili. Su mi toccu a testa ancora penzu ca c'haju qualche bummulu. Gino Astorina La Sicilia, 02/11/2014
COSA FARE IN CASO DI........ TOCCHIAMO FERRO
Giovanni Verga – da VAGABONDAGGIO (1887)
Nella collina solitaria, irta di croci sull’occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né belato d’armenti, c’è un’ora di festa, quando l’autunno muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe. Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c’era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra s’accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell’azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell’abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.
Narrava la leggenda che
la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in
comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che
ogni anno, il dì dei Morti - nell’ora in cui le mamme vanno in punta
di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro
bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di
regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo
specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in
dono per i morti - un prete sepolto da cent’anni nella chiesuola
abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme
a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima
sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito
nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò « Tutto l’anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, colla lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando s’internava muggendo nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l’amo. Un palombaro che s’era arrischiato a penetrarvi, nuotando sott’acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore ch’era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che s’accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt’intorno, rosi dall’acqua, e bianchi quali ossa al sole. L’onda che s’ingolfava gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell’ombra, e non tornava mai indietro; come non tornò più quel poveretto che s’era strascinato via. L’estate, nell’ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti, l’onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia. - Così quel prete, un sant’uomo, aveva perso l’anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent’anni le sue ossa, consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata. Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a posarsi, uno dopo l’altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane. L’alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all’immobilità di quei cadaveri. Erano defunti d’ogni età e d’ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l’ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo spiraglio aperto nell’azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d’angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell’ore in cui il sole moriva sull’orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all’altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell’ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d’orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell’ora torbida dell’agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all’altra, come li porta il vento. - Così le lagrime si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero. - Tanto tempo è passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d’aprile, colle ore che suonano uniformi e impassibili anch’esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito! A quell’ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. - Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? - E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell’altro l’arma omicida. - Né le lagrime che si piangevano attorno a quel letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall’agonia. - Né le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell’attesa già disperata. - Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella maternità. - E neppure le lotte in cui l’uno si è logorato. - Né le speranze che hanno accompagnato l’altro sin là. - Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato. - Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita. - Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte. - Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. - E non l’azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. - L’onda che s’ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete» si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa. Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l’argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l’enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall’incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell’argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete». Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.
La festa dei Defunti, regali e dolci per esorcizzare la paura della morte
La Commemorazione dei defunti è una ricorrenza che si basa sulla pietà popolare e sulla sensibilità nei confronti dei cari, a cui restiano legati, anche se scomparsi, e ai quali rivolgiamo i nostri sentimenti di affetto e il nostro ricordo. La visita al cimitero e le preghiere sono il modo per essere ancora vicini a loro e per ricordarli nei nostri cuori. Un modo per esorcizzare la paura della morte è quello di festeggiare i nostri cari defunti, ovvero la festa dei morti. Se la notte delle streghe da poco trascorsa ha riportato in auge scheletri, zucche, pipistrelli, fantasmi e gadget paurosi di tutti i tipi, mentre locali, alberghi e agriturismi si sfidavano a suon di menù a tema, week end dedicati e promozioni - il tutto all'insegna dell'horror, sia per grandi che per piccini -, in Sicilia da giorni c'è un fermento di iniziative in preparazione della festa più tradizionale della nostra Isola, che unisce aspetti relativi al mito, alla cultura, alla religione. La festa dei morti. E ancora: se nei Paesi anglosassoni si respira l'atmosfera da "dolcetto o scherzetto", nella nostra Isola invece sia l'1 che oggi 2 novembre sono giorni specialei, che rimangono legati alla "Festa dei Morti", quella in cui i parenti ormai defunti fanno visita ai più piccoli e portano loro dolci e regali. In realtà le due feste sono un po' l'una il rovescio della medaglia dell'altra. Entrambe infatti sono legate con un filo rosso ai defunti, ma se Halloween e tutte le sue tradizioni hanno come obiettivo quello di allontanare i morti - le zucche intagliate con dentro una candela servono appunto per allontanare le anime - per la tradizione siciliana tra l'1 e il 2 novembre è la notte in cui i propri cari tornano dall'Aldilà e vengono in qualche modo festeggiati. A ben considerare, quindi, i "morti" siciliani sono morti buoni e, come vuole la tradizione, sembra che nella notte fra l'1 e il 2 novembre vadano nelle case dei parenti e lascino doni ai bambini. Anzi sembra che i defunti si risveglino e vadano a rubare dai commercianti dolci, giocattoli, vestiti, ecc., per poi regalarli ai piccoli parenti che sono stati buoni durante l'anno. Invece, per coloro che non sono stati tanto buoni, si suole nascondere le grattugie, perché i morti verranno a grattugiare i loro piedi. I bambini alla mattina trovano tutti questi doni vicino al letto. Una tradizione questa che è sempre molto sentita e che le famiglie continuano a salvaguardare. Le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti.
Questo è dovuto alla estrema sensibilità del popolo siciliano che vuole raccogliersi in preghiera per commemorare i defunti ma, nello stesso tempo, vuole non demonizzare la morte agli occhi ingenui dei bambini. È usanza credere che la notte tra l'1 e il 2 si possano vedere le anime camminare per le vie, in ordine di modo di dipartita: per prima coloro che morirono di morte naturale, poi i giustiziati, poi i disgraziati (cioè per disgrazia), poi i morti di subito (cioè di morte repentina), e così via. I bambini, tutt'oggi sentono questa festività in modo particolare, poiché ricevono ancora i regali (cosi di morti) e poi perché generalmente le scuole sono chiuse. Come ogni festa in Sicilia, anche questa ha il suo risvolto gastronomico fatto di biscotti e altre dolcezze. Caramelle e dolciumi esistono anche nella tradizione anglosassone ma qui il "dolcetto o scherzetto? ", ripetuto di porta in porta dai bambini nella notte di Halloween, serve a placare eventuali maledizioni ai padroni di casa. Nella tradizione siciliana invece dolci e biscotti sono regali che vengono lasciati dai morti per i propri cari o, viceversa, prelibatezze preparate per accogliere i propri parenti che tornano dall'Aldilà. E se ad Halloween i morti escono dalle loro tombe e vanno in giro di casa in casa, usanze simili si conservano ancora in alcune parti della Sicilia. Ad Erice, in provincia di Trapani, e a Cianciana, in provincia di Agrigento, i defunti escono dalla Chiesa dei Cappuccini nel primo caso e dal Convento di S. Antonino dei Riformati nel secondo. A Partinico, nel palermitano, i morti indossano un lenzuolo e a piedi scalzi, con torce accese e recitando alcune litanie, percorrono le strade del paese. La Sicilia, 02/11/2014
Il culto a Sant'Orsola Il fatto che i catanesi chiamino la ricorrenza del 2 novembre "festa dei morti" sta a significare che tale data è ricca di significato religioso cristiano, perfettamente aderente alla denominazione liturgica di "commemorazione di tutti i fedeli defunti". La coincidenza, quest'anno, con la domenica rafforza tale convinzione anche perché la riforma postconciliare del calendario della Chiesa ne ha permesso la celebrazione festiva. I sacerdoti hanno la possibilità di celebrare oggi tre messe diverse (antico privilegio dei Domenicani di Valencia esteso a tutto il mondo da Benedetto XV un secolo fa durante l'‘inutile strage' della grande guerra) per i fedeli che affollano le chiese e le cappelle cimiteriali delle confraternite per lucrare l'indulgenza plenaria in suffragio dei defunti, con la visita ai camposanti durante l'"ottavario dei Morti", cioè fino all'8 novembre, accompagnandola con le preghiere per le anime sante del Purgatorio, la devota recita delle Lodi e dei Vespri dell'Ufficio dei defunti. In diverse chiese è ancora in uso, durante il rito dell'offertorio eucaristico, "chiamare" i cari defunti a voce alta col proprio nome, accendere un lumino per ognuno e recitare le giaculatorie delle anime purganti secondo la tradizione carmelitana. I catanesi di una certa età ricordano come la "fiera dei morti" veniva chiamata "piazza dei morti" perché legata all'acquisto dei giocattoli che, nella visita nella notte dei Santi, i defunti donavano ai piccoli parenti. Nel Seicento si diffuse a Catania il culto delle anime del Purgatorio. La Confraternita di S. Orsola o dei Morti preparava ad affrontare cristianamente la morte e provvedeva alla sepoltura dei poveri abbandonati. La Compagnia dei Morti levava dal patibolo i poveri giustiziati e per le strade più remote li conduceva alla sepoltura presso la chiesa delle Anime del Purgatorio (piazza Palestro). La chiesa dei Morti fu eretta nel 1416 per il monastero di S. Orsola. Ricostruita dopo il 1693 vi si zelava il culto dei defunti, con pie pratiche di suffragio. Nove giorni prima della commemorazione dei defunti iniziava il Novenario dei Morti e, dopo il 2 novembre, si celebrava l'Ottavario. La chiesa, proprietà dell'arciconfraternita S. Orsola ai Morti, sorge in piazza Scammacca. Sia il portale che l'interno della chiesa sono ricchi di simboli iconografici che alludono alla morte, al suffragio, alla vita eterna, al culto dei defunti. Ma i catanesi solevano chiamare tale sito "piazza dei Morti", che avrebbe dato il nome alla fiera che si teneva all'aperto nel corso del Novenario, durante il quale si celebravano le Quarantore. Lì gli uomini di casa compravano giocattoli e dolciumi da nascondere la notte vigiliare, da cui il detto popolare: "u patri accatta, a matri ammuccia e u figghiu ammucca". Antonino Blandini - La Sicilia, 02/11/2014
In estremo Oriente è simbolo di felicità e prosperità Una leggenda spiega perché il crisantemo sia diventato il fiore dei morti
È diventato il simbolo del giorno dei morti perché fiorisce in autunno e non era considerato un ... I crisantemi sono considerati portatori di bene, gioia e prosperità in tutto il mondo, mentre in Italia vengono associati al lutto. Questo dipende dal fatto che la festa dei morti avviene in concomitanza con la fioritura dei crisantemi e per questo i fiori sono stati correlati a contesti molto tristi. In Oriente invece i crisantemi (il cui nome in greco significa "fiore d'oro") sono estremamente positivi: vengono utilizzati per matrimoni, comunioni e compleanni. Il crisantemo è inoltre fiore ufficiale del Giappone tanto che, in suo onore, viene celebrata una festa addirittura dall'imperatore. In Cina (dove lo si coltivava già cinque secoli prima di Cristo) ha un significato felice e festoso. Ma per quale ragione questo fiore, tanto bello, è diventato il simbolo - prevalentemente nella tradizione italo/europea - del giorno dei morti? La più ovvia è proprio la sua fioritura che avviene nel periodo tardo autunnale. Nei tempi passati non si portavano ai defunti, nei cimiteri, fiori particolarmente ricercati, ma bensì i più comuni, essi dovevano essere semplicemente la testimonianza di un pensiero per l'estinto. Alla luce di questo i fiori più comuni i primi di novembre sono proprio: margherite e crisantemi. A queste spiegazioni se ne abbina un'altra più poetica: una leggenda che spiega perché il crisantemo oggi sia il fiore dei morti. La storia narra di una povera orfana, che all'inizio di novembre si trovò a vegliare la mamma, gravemente ammalata. Dentro di sé la bambina stava pregando affinché la madre potesse guarire e sopravvivere: ma proprio in quel momento la porta si spalancò, e l'angelo della Morte entrò nella misera stanza. La bambina pianse, scongiurò affinché l'angelo passasse oltre. Questi si impietosì: "Donerò a tua mamma tanti anni quanti saranno i petali del fiore che mi porterai". Ma era novembre, e la brina aveva già imbiancato i campi. La bambina corse fuori casa e iniziò a cercare: trovò solo erbe rinsecchite dal gelo. In un canto un po' più riparato trovò un'umile margherita. I petali bianchi, però, erano pochi, pochissimi: come fare? La piccola ebbe una intuizione: con le dita intorpidite dal gelo iniziò lentamente a dividere per lungo i petali che, così, si moltiplicarono più e più volte. Soddisfatta del suo lavoro tornò in casa, e presentò il fiore all'angelo della Morte. Questi sorrise e uscì dalla casa: la mamma visse ancora per molti anni. Anche la pianta che aveva contribuito a salvarle la vita non morì. Ma la stagione successiva i suoi fiori cambiarono: non più petali pochi e radi, ma tantissimi. Era nato il crisantemo. La Sicilia, 02/11/2014
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di Melania Mertoli
Tra Rame di Napoli, Ossa di Morto e Totò, questa festa rischia di essere un attentato alla nostra linea. Curiosità sulle loro antiche origini In questo mese, in tutti i bar, panifici e pasticcerie di Catania si possono trovare vere e proprie leccornie, orgoglio della nostra antica tradizione gastronomica. Sono buonissimi, ricchi di sapori e odori. Ma li conosciamo veramente ? Sappiamo da dove derivano e perché si chiamano così ? I più venduti sono Rame di Napoli, seguiti da Ossa di Morto e Totò, ma anche Piparelle e ‘Nduzzi non sono da meno. Cominciamo dai Rame di Napoli. Sono biscotti ricoperti di cioccolato scuro fondente o bianco, eseguiti in due versioni: semplici e ripieni con la marmellata di albicocche. L’ultima versione li vuole con la Nutella all’interno, cosa che potrebbe far perdere il vero gusto ai nuovi conoscitori di questi dolci. Una curiosità che li riguarda è che, mentre qui a Catania sono ultra conosciuti, a Napoli li sconoscono. Strano, no ? Noi lo abbiamo appurato telefonando alla pasticceria Scaturchio, la più antica della città – risale al 1903 - e chiedendo anche ad alcuni napoletani. Non ne hanno mai sentito parlare. E allora il loro nome da cosa nasce ? “ Da un atto di stupido vassallaggio che noi catanesi abbiamo tributato a Napoli. Per fare onore a questa città, al tempo del regno delle due Sicilie – ci spiega il gastronomo e scrittore Pino Correnti –. Ma Napoli di questo dolce non ne sapeva niente”. La dimostrazione di ciò risiede nel fatto che tutt’oggi nella città partenopea non sanno cosa siano. I “Totò” – diminutivo siciliano del nome Salvatore – sono simili ai Rame di Napoli, ma anziché essere ricoperti di cioccolato fondente, sono ricoperti di cioccolato liquido e hanno una forma diversa. Passiamo alle “Ossa di morto” - chiamate anche “Pasta di garofano”. Questi biscotti sono formati da una parte chiara e una scura, quest’ultima messa sopra quella chiara, fatta con la stessa pasta e alla quale viene data la forma di piccole ossa una forma diversa. Gli “’nzuddi”, - “Zulle” nella lingua italiana - di cui ci sono due versioni, con le mandorle, più secche o ricoperte al miele, più morbide. Il loro nome deriva da Vincenzo Bellini come tiene a sottolineare il critico gastronomico Pino Correnti, che facendo ricerche in materia è risalito al periodo in cui il cigno catanese, all’età di 6 anni, “componeva la sua prima cantica, sgranocchiando questi dolci ai quali in seguito fu dato il suo nome”.
Vincinzuddu Bellini è nato il 2 novembre 1801 e a lui, oltre alla pasta alla norma, dobbiamo attribuire anche questo dolce. La nostra gastronomia offre anche le “Piparelle”, cioè biscotti a forma di fettine di pane, eseguiti con ingredienti naturali quali farina, cioccolato, albumi d’uovo, mandorle e pepe nero, che si possono gustare inzuppandoli nel vino o nel mosto. Questo è il periodo in cui si preparano anche i “cannistri” - o canestri – che si possono regalare ad amici e parenti, in cui si mettono questi dolci, decorandoli con la frutta martorana, fatta di marzapane. Incredibilmente somigliante a quella vera, viene data loro forma di castagne, nespole, fichidindia, ma anche frutti di mare e pesci, tutti incredibilmente dolci. Chiudiamo il quadro delle delizie che vengono prodotti in questa ricorrenza con i “Bersaglieri”, biscotti ai quali viene conferita la forma di bastoncini ricoperti di cioccolato e i “Regina”, fatti come i primi, ma ricoperti di glassa bianca. A buon intenditor, …………….
RAME DI NAPOLI
RAME DI NAPOLI (rigorosamente con la S sopra) Tipico dolce consumato in questi giorni a Catania, in occasione della ricorrenza dei morti. Assieme alle Vincenziane (o n'zudde) è presente in ogni bancone catanese che espone "cosa duci per i picciriddi". Ormai se ne trovano di tutti i tipi: con l'onnipresente pistacchio, la marmellata, le creme di cioccolato o di mandorla sotto una glassa (a Catania chiamata "liffia") ormai di tutti i colori. Ma pochi di questi rispettano una regola fondamentale. Si chiamano cosi perchè durante il Regno Borbonico unito al regno di Napoli, le monete erano d'oro e d'argento e quindi molto pesanti. Fu allora che si pensò di coniare una moneta piu' leggera fatta di rame, appunto la moneta di rame e il dolce per ricordare il conio borbonico fu un passo davvero breve. Pertanto, se si vuole rispettare l'originalità di questa creazione dolciaria catanese, è fondamentale aggiungere sulla glassa la lettera "S", simbolo del denaro.
QUELLI STORICI E ORIGINALI IMPONGONO LA "S" SULLA GLASSA DI CIOCCOLATO.
chi è Rossella Sturiale
Ossa di mortu, 'nzuddi e rame di Napoli Nel "cannistru" venivano messi anche totò bianchi e neri, paparelle e dolci di pasta reale In alcuni paesi c'è la tradizione di imbandire la tavola dove si pongono biscotti e dolciumi
L´idea di commemorare i defunti in suffragio nasce da rito bizantino, che celebrava tutti i morti ... Da metà di ottobre le vetrine delle pasticcerie si riempiono di meravigliosi cesti pieni zeppi di frutta martorana e di vassoi di "ossa di morto". Una gioia per gli occhi, la frutta è talmente bella che sembra vera, e per il nostro palato anche se l'indice glicemico schizza alle stelle! Come vuole la tradizione siciliana, la sera prima della festa dei morti, i bimbi vanno a letto con la speranza d'essere ricordati da nonni e familiari trapassati. Sul tardi i genitori preparano le "ceste" con i dolci tipici della festa (al posto dei dolci talvolta i bambini ricevono anche in regalo scarpe, maglioni, giocattoli) e li nascondono nei punti più reconditi dell'abitazione. La mattina del 2 novembre, i bambini s'alzano già pronti per iniziare la caccia al tesoro in giro per la casa, dopo avere recitato la supplica: "Armi santi, armi santi, / Iu sugnu unu e vùatri síti tanti: / Mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai / Cosi di morti mittitimìnni assai". Nella tradizione, il cosiddetto "cannistru" (cestino), a volte sostituito da una tavola imbandita preparata in ogni casa, viene così riempito della tipica frutta martorana, "ossa i mottu" (ossa di morto), rame di Napoli (biscotti ricoperti di cioccolato fondente o bianco realizzati in due versioni: semplici o ripieni con la marmellata di albicocche o crema di cioccolato), 'nzuddi (biscotti alle mandorle preparati preparati dalle Suore Vincenziane di Catania, ed è proprio da loro che prendono il loro particolare nome: "nzuddo" nel siciliano antico non era altro che il diminuitivo di Vincenzo), taralli e totò bianchi e marroni, anche questi biscotti ricoperti i i primi di zucchero a velo, i secondi di polvere di cacao. Il tutto è poi arricchito da frutta secca di ogni tipo. In altri centri della Sicilia, invece, si è soliti donare dolci antropomorfi come i pupi ri zuccaru (bambole di zucchero), bambole che si ispiravano generalmente ai paladini di Francia fatte interamente di zucchero e completamente dipinte a mano, le ossa ri mortu, dolci generalmente a forma di tibie umane, e dolci di tradizione popolare come i frutti di martorana. È poi usanza mangiare fave durante questi giorni di festa. Si consumano le favi a cunigghiu (fave a coniglio), dette in alcuni parti anche favi'n quasuni; esse sono cucinate secondo il rito romano della Lemuria, in cui, a parte che mangiate, le fave nere, nel cui seme, secondo leggenda, si trovavano le lacrime dei trapassati, venivano lanciate a terra dal padre di famiglia per allontanare le anime dei defunti. L'uso delle fave si faceva anche a Palermo al XVIII sec., che però prediligeva e predilige tuttora muffulette schiette omaritate, pane morbido e tondo ripieno, e murtidda nivura e bianca (mirto nero e bianco). In alcune parti della Sicilia, si è soliti accompagnare le fave alle armuzzi, pane antropomorfo raffigurante fino al tronco le anime del purgatorio con le mani incrociate sul petto. L'usanza di cibarsi di pietanze a forma di uomo, o a parti di esso, risale anch'essa ai tempi dei romani, che a loro volta, si cibavano delle maniae, pani fatti a somiglianza del dio del bosco, come rito di propiziazione per la divinità.
Si tratta di un biscotto
dal cuore morbido al cacao, ricoperto da una glassa di cioccolato
fondente, delicatamente speziato. La Sicilia, 02/11/2014
Solennità d'OGNISSANTI e Commemorazione dei Defunti . " u piatteddu" ...li aveva già comprati e tenuti ancora incartati: soltanto al ritorno dal Cimitero potevano essere visti,ammirati,assaggiati,gustati e in ricordo dei cari defunti....finalmente esauriti con delizia del palato. Dalle nostre parti è tradizione(anzi lo era)recarsi prima al Cimitero a portare fiori ai nostri cari defunti. L'amministrazione curava i trasporti da e per il cimitero,transennava Via Garibaldi,per poter raggiungere Via Acquicella,molto più facilmente e dare la possibilità alle auto di velocizzare il percorso...adesso non più da diversi anni-chissà perchè-Ma la folla che vi si riversa è sempre tanta.Soltanto dopo si potevano aprire le confezioni che ai nostri tempi,contenevano ogni ben di Dio (!) ,ovvero mostarda,rame di napoli,ossa di morto,fichi secchi,mele dell'Etna,cotognata,biscotti di tutti i tipi,leccornie tipiche nostrane,passuluni,viscotta regina,quelli lunghi "cca liffia", i 'nciminati,bersaglieri,totò,angileddi...ma, come in ogni cosa,c'è sempre un ma: bisognava aspettare Mamma che tornando con noi dal Cimitero,doveva preparare "u piatteddu" Si trattava di un gentile omaggio alle comari(di parentela e non),alle vicine ed a chi teneva care(oltre ai propri figli che intanto cominciavano a gozzovigliare,(allungando le manine e via agli assaggi). Operazione quella di Mamma nostra che andava di pari passo con i migliori scenografi,grafici e arredatori del buon gusto. Uno di questa,una di questo,un po' di dolciumi,frutta secca e ecc. ecc.,messi a bella posta all'interno del non dimenticato "piatteddu",facevano davvero bella mostra di sè. Segni di devozione e ringraziamento ma carichi d'affetto e benevolenza a ricordo dei nostri cari defunti,che andavano immediatamente consegnati,adesso definitivamente scomparsi,dimenticati e quasi quasi da dar fastidio,nonostante le ripetute volte che il mio Amico Gianni Sineri,nel corso dei suoi spettacoli,ne rinverdisce le usanze e tradizioni. Una volta mi ricordo che anche la sua mamma Sarina Micalizzi ne fu omaggiata,allorquando abitavano i Sineri in Via Garibaldi,angolo Via Politi,dirimpetto dove risiedevamo noi. Tempi andati,ma sicuramente belli e generosi,carichi di intensità e benevolenza:Altro che FB...le persone si dividevano fatti,racconti,leggende,avvenimenti e cronache parlandone..da balcone a balcone. Auguri ai festeggiati odierni e Buone festività a Tutti. Piero Privitera
Esistono varie
ipotesi
sulla loro origine, dal nome dato dal pasticcere
Napoli inventore di questa
ricetta, ad un atto di stupido vassallaggio che noi Catanesi abbiamo
attribuito a Napoli e per fare onore a questa
citta'
al tempo delle due
Sicilie,
come spiega il gastronomo scrittore Pino Correnti.
http://lafarfalladicioccolato.blogspot.it/2011/11/rame-di-napoli.html
Buongiornoooo!!! Anche
se in ritardo di qualche giorno vi posto le Rame di Napoli, un dolce
tipico della festa dei Morti, qui a Catania. Diciamo che la vera
festa per noi è il 2 Novembre, e non l'1 Novembre tutti i Santi. Qui
c'è l'usanza che i proprio cari che ormai non ci sono più portino
dei doni ai più piccoli. In genere giocattoli, e si cucinano anche
tantissimi dolci. Tra cui le rame di Napoli, gli 'Nzuddi, ossa di
morto, nucatoli, sciatori, totò e chi più ne ha più ne metta.
500g farina 200 gr. di zucchero 2 uova 75 gr. di strutto (sciolto) 50 gr. di burro (sciolto) un cucchiaio scarso di miele 100 gr. di cacao amaro chiodi di garofano pestati e ridotti a pezzettini cannella vaniglia 100 gr. di biscotti secchi (frollini o tipo saiwa) 5 gr. di ammoniaca latte qb
PER LA COPERTURA: 200g
cioccolato fondente 50g burro un goccio di latte
Lasciare riposare per
circa 1 ora.
'NZUDDI
http://lafarfalladicioccolato.blogspot.it/2010/11/nzuddi.html
Buon pomeriggio a tutte/i!!! Anche se un pò in ritardo vi presento gli 'Nzuddi non saprei dirvi altro nome...forse potete chiamarli Inzuddi ma sempre non si riesce ad accoppirgli un nome italiano ;D!!! Biscotti tipici della festa dei morti che si accompagnano alle Rame di Napoli e alle ossa dei morti ma anche ai totò e a tantissime altre preparazioni. Questa ricetta è diversa da quella che si può trovare, infatti come per tutte le ricette tipiche, ogni famiglia a la sua personale. Finalmente è arrivato il fornoo nuovooo e ovviamente prima di fare il pan di spagna per le mie due torte devo provarlo e riporvarlo per capire le temperatura!!!
Solo altre due paroline
su questi biscotti...hanno come agente lievitante l'Ammoniaca. Ha
un'odore pessimo soprattutto quando si apre il forno, a me ieri
lacrimavano gli occhi...maaa...c'è un ma...appena evapora tutto il
puzzo rimane al biscotto quel sapore di "antico", di biscotti della
nonna, quei biscotti cotti magari nel forno a legna. Io adoroo i
dolci con l'ammoniaca!!! Quindi la promuovo a pieni voti!!! Ingredienti 1 Kg di farina 00 700 g zucchero 4 uova cannella 1/2 bicchiere di Vecchia Romagna (Ho messo Calvados alle mele...proverò con marsala la prossima volta) 200 g burro 150 g di mandorle (solo per la decorazione) 10 g di bicarbonato di ammonio (ammoniaca) Procedimento Si mescolano farina,zucchero,cannella,bicarbonato di ammonio,poi aggiungere il burro a temperatura ambiente, le uova e il liquore.Impastare per bene e fare delle palline della grandezza di una noce.Mettere sulla teglia (con carta forno) mettere al centro una mandorla e schicciare.Mettere ben distanziati perchè in forno si allargano abbastanza.Stanno in forno per circa 10 min a 180°C (il mio 200°C ma è nuovo e le temperature non sono più quelle a cui ero abituata) fino a che non sono appena dorati.
'nzuddi e Vincenzo Bellini.
Le bancarelle per la festa dei morti in Sicilia si riempiono dei dolci più buoni che le mani e le menti dei pasticcieri nostrani sono riusciti negli anni a elaborare e produrre. Rame di Napoli , ossa di morto , totò , frutta martorana e altre meraviglie che da sole giustificano la presenza dell'uomo sulla terra come massima evoluzione dei mammiferi. Ma francamente dobbiamo dire che la fragranza , la croccantezza e al contempo la dolce morbidezza, la stessa consistenza de 'nzuddri fanno di questi gli unici dolci di questo periodo che appagano oltre il palato anche il senso del tatto e dell'udito , in un concerto che coinvolge tutti i sensi. Questi dolci venivano preparati dalle suore Vincenziane, il nome 'nzuddi deriverebbe dall'abbreviazione del nome Vincenzo che in siciliano sarebbe Vincinzuddu Traduzione dialettale di “Vincenzi”, sono biscotti secchi profumati con scorza d’arancia e decorati con una mandorla sopra, l’impasto è fatto di: acqua – farina – miele – latte – mandorle e scorza d’arancia. L'ordine delle vincenziane è ispirato dal santo San Vincenzo de Paoli, nato in Francia, a Pouy, il 24 aprile del 1581 e morto a Parigi il 27 settembre del 1660. Canonizzato nel 1737. L’ordine delle Figlie della Carità risale al 1633 con la collaborazione di Santa Luisa, erano suore non più chiuse nei conventi ma sparse nel mondo a servizio dei poveri. Sono state le prime suore di congregazioni di vita apostolica a venire in Sicilia nella seconda metà dell’Ottocento. Catania fu la prima sede siciliana delle vincenziane, chiamate il 19 settembre 1876 dal Beato Dusmet, operarono e ancora operano presso l’ospedale V. Emanuele; poi l’ospedale S. Marta, l’orfanotrofio Pio IX , oltre a numerosi interventi a favore dei più bisognosi sull'intero territorio cittadino. La loro sede più importante nella città è “La Casa della Carità” sita in via San Pietro, 49 nata nel 1923 per espresso volere della Baronessa Anna Zappalà, presidente dell’Opera di Soccorso Infermi a domicilio, con la collaborazione della leggendaria Suor Anna Cantalupo che si distinse per innumerevoli iniziative nel dopoguerra catanese servizio ai più poveri. Meno solida è la versione che fa derivare il loro nome da Vincenzo Bellini che all’età di 6 anni, “componeva la sua prima cantica, sgranocchiando questi dolci ai quali in seguito fu dato il suo nome”, e a tale proposito, i catanesi, rifacendosi alla dolcezza dei “N’Zuddi” e al suo derivato nome, soprannominarono Vincenzo Bellini “N’Zuddu” per esprimergli l’ammirazione per la bellezza dei suoi lineamenti e la dolcezza della sua musica. Pur essendo dei biscotti nati nel catanese sono molto diffusi anche nel messinese Dopo il terremoto che devastò Messina nel 1908, le suore catanesi donarono dolci e ricetta fino a quel tempo tenuta gelosamente segreta ai messinesi come azione caritatevole. La versione messinese dei biscotti presenta un volume più generoso e una forma quadrata e vengono preparati durante la festa della Madonna della lettera, patrona della città, il 3 Giugno. Fate tutto quello che volete per le feste di ognisanti ma non perdetevi i 'nsuddri perchè passerà un altro anno prima di vederli di nuovo sulle bancarelle e il tempo fugge e il futuro è relativo . Fonti : fdcsanvincenzo.it ; tomarchio.eu ;
OSSA DI MORTU
Questa è la storia di un
anziana donna siciliana. - "I biscotti che mangi sono gli stessi che vedi stesi al sole".
I tradizionali biscotti
Ossa di Morti sono biscotti fatti seccare al sole?
Le ossa dei morti sono
dei dolcetti che qui in Sicilia insieme alla rame di Napoli e ai
toto' si comprano e regalano durante il periodo della commemorazione
dei defunti.
PROCEDIMENTO In un
pentolino portare quasi a bollore l'acqua spegnere la fiamma e
mettere dentro lo zucchero mischiando con un cucchiaio (non
otterrete un vero e proprio sciroppo visto che lo zucchero sarà
molto di più rispetto all'acqua). Impastare la farina e le spezie
con l'acqua e lo zucchero fino ad ottenere un impasto liscio ma ben
sodo.
Perché succede questa
magia? La vecchietta non mi ha spiegato ma per logica mi sembra di
aver capito che il sole colpendo i biscotti asciughi quasi
pietrificando la superficie mentre la base a contatto con la carta
forno anche il terzo giorno risulta essere ancora umida. Durante la
cottura lo zucchero tende a sciogliersi e trova come unica via di
fuga la base del biscotto lasciando questo scheletro di farina
praticamente intatto.
Quindi la meringa su
base mandorlata un mito da sfatare o semplicemente ricetta
revisionata di qualcosa che all'origine era ben altro? http://sognidizucchero.blogspot.com/2009/09/ingredienti-zucchero-farina-acqua-e.html |
LE PIPARELLE
Sono tipiche del
messinese Ingredienti: 500g farina 00, Scorza essiccata di 1 arancia, scorza di 1 limone, 1 chiodo di garofano, 150g di milele, 150g di zucchero, 200g di mandorle tostate con tutta la pelle (anche 300g, diciamo che più se ne mettono meglio è), 2 tuorli, 1 cucchiaino di pepe nero macinato, 150g margarina, 10g bicarbonato
Procedimento: MAcinare
nel boccale le scroze d'arancia e limone, il chiodo di garofano, vel
10 30 sec. aggiungere zucchero e milele 5 min 100 vel 3, aggiungere
margarina 30 sec vel 3, aggiungere farina, bicarbonato e pepe 2 min
vel 6 aggiungere le mandorle tostate e spatolare bene. Formare 2
filoni che andranno posizionati in teglia con cartaforno ben
distanziati. Infornare a 160 30 minuti, tagliare tiepidi e rimettere
in forno a 150 5 minuti, spegnere il forno e lasciarli raffreddare
dentro al forno. LA FAMIGLIA DEI TOTO'
Il ToTo' (rotondo nero) fu ideato da un pasticciere di nome Salvatore, che dopo aver condito una torta,gli rimase del cioccolato e creo' un piccolo pasticcino al quale diede il suo nome Toto'(Salvatore) Il Bersagliere (lungo nero) in onore della divisa scura di questo nobile Corpo Militare. La Regina (lungo bianco) in onore dell'abito regale femminile, fino al 46 a Catania c'era ancora la monarchia Il ToTò (rotondo bianco) creato non da molto, fu fatto nel dopoguerra e lo chiamarono Angileddu perche' ricorda la nuvola bianca dove viaggiano gli angeli (Gianni Sineri) N'CIMINATI
Chissà oggi quanti catanesi conoscono la storia di Aspanu, venditore di ‘nciminati. La leggenda narra che Aspanu alla fine dell’Ottocento e nei primi anni del ‘900, nel dolce periodo della “Bell’Epoque” catanese, si aggirasse all’interno del giardino Bellini vendendo i cosiddetti ‘nciminati, espressione tipica catanese per indicare delle ciambelline dolci ricoperte di sesamo. Tutti in città conoscevano l’umile uomo e il suo originale banco di vendita sul ventre rotondetto. Aspanu portava infatti il suo cestello colmo di dolcetti appeso al collo con una cinghia. Era un uomo senza età né identità, nessuno sapeva niente sulla sua vita privata, non era né troppo giovane né si poteva definire anziano, di bassa statura e con la faccia tonda e liscia, completamente priva di barba. Aspanu era notissimo in città soprattutto per quella sua suadente cantilena che rivolgeva furbescamente a tutti i bambini che incontrava a spasso con i papà, le mamme e i nonni, per pubblicizzare i suoi dolcetti e attirarli verso il suo banchetto. Con affetto ed ironia cantava così: “picciriddi, chianciti, chianciti ca poi ‘u papà v’accatta i ‘nsiminati” esortando i bimbi a piangere affinché i loro padri acquistassero le ciambelle ricoperte di sesamo. Un giorno Aspanu, ormai vecchissimo ma con la sua faccia da eterno ragazzo, così com’era venuto, scomparve nel nulla. Quel venditore era un uomo senza tempo, che andando beato per i viali del magnifico parco, ci ricorda di una Catania ormai antica ma vera, probabilmente non realmente morta del tutto che sa riconoscersi nella sua semplicità fatta di uomini umili e immersi nei sorrisi altrui.
Perché il 2 novembre si mangiano i legumi? Vi sarà sicuramente capitato di trovare, tra le pietanze tipiche del giorno della Commemorazione dei Defunti, anche tanti piatti a base di legumi. In Sicilia è buona abitudine, ad esempio, consumare zuppe e contorni preparati con questi ingredienti. Non tutti lo sanno, ma il motivo che sta dietro questa usanza è molto profondo e affonda le radici nel passato. Ecco, dunque, perché il 2 novembre si mangiano i legumi. Da sempre, prodotti come ceci e fave si associano al mondo dei defunti. Prima del VII secolo a.C., le popolazioni ioniche credevano che, durante la festa delle Antesterie, i morti tornassero sulla terra. Quella festività si celebrava tra febbraio e marzo e, per permettere ai propri cari di rifocillarsi prima di fare ritorno nell’aldilà, si preparavano grandi pentole di ceci, fave e fagioli. I romani erano soliti mangiare, nel corso dei banchetti funebri, le fave: credevano, infatti, che dentro il baccello giacessero le anime dei morti. Per i Romani il “tempo dei trapassati” durava un’intera settimana di febbraio. La Festa dei Morti era molto importante perché “dai morti nasce la vita, come dai semi nasce il frutto”. Diversi i riti dell’epoca: uno, fatto per chiedere la pace ai morti, consisteva nel cospargere di questi legumi le tombe. Un altro, eseguito per scaramanzia, era realizzato gettandosi le fave dietro alle spalle e recitando le parole: “Con queste redimo me e i miei“. In epoca cristiana, nelle ricorrenze dei Santi e dei Morti, le fave diventarono cibo di precetto nel 928 quando Oddone abate di Cluny ordinò che ogni anno il 2 novembre si commemorassero i defunti con speciali orazioni. Affinché i monaci riuscissero a vegliare l’intera notte in preghiera, l’abate concesse una razione speciale notturna di fave. I riti pagani, dunque, vennero “ereditati” dai cristiani che consumavano fave accanto alle tombe dei loro cari, il giorno del 2 novembre. Con il tempo, nelle case più umili, si diffuse la consuetudine di cucinare per la Festa dei Morti zuppe e minestre preparate con i legumi. Vi sono moltissimi esempi, in tutta Italia. In Sicilia, nel palermitano, si preparano le “fave a cunigghiu“. Sono un piatto che si può proporre sia con le fave fresche, che con quelle secche non decorticate. I legumi si scaldano e si condiscono con olio, sale, pepe e origano. Il nome deriva dall’usanza di mangiare le fave con le mani, incidendo la buccia con gli incisivi, in modo da fare uscire il frutto, proprio come farebbe un coniglio. Il capofamiglia, in passato, era solito gettare le fave a terra, prima di distribuirle agli altri commensali. In questo modo, allontanava dalla casa le anime dei defunti.
Novembre e la Festa dei Morti
di Nicola Lupo
(le immagine inserite, qui a caso, sono di Turi Salvatore Giordano)
Essendo ancora in
novembre, si potrebbe incominciare, dalle tradizioni popolari sui
morti, perché il loro culto era molto sentito e condizionava tutta
la vita delle famiglie.
C’erano tanti gradi di
lutto a seconda della parentela, dell’età e della circostanza in cui
era avvenuto il decesso: il lutto stretto era quello che durava più
a lungo e con manifestazioni più evidenti: infatti in quei casi gli
uomini dovevano indossare il vestito nero,la camicia bianca con
bottoni neri, e la immancabile cravatta nera e non dovevano
sbarbarsi per parecchi giorni (forse una o due settimane).
Passando al ricordo dei
parenti defunti esso era strettamente legato a loro; perciò ai figli
si parlava spesso di loro, sia che li avessero conosciuti, sia che
fossero morti prima; e, quindi, anche i regali si facevano come
mandati dalla nonna o dal nonno morto, e in genere, venivano
effettuati facendoli trovare, dentro le scarpe, il 2 novembre,
commemorativo dei defunti, o quando ricorreva la data della loro
scomparsa.
La visita ai defunti
nella prima settimana di novembre allora era un mesto
pellegrinaggio, mentre adesso, mi dicono, sia diventato un grande
ingorgo di automobili, e ai tradizionali fiori freschi, si sono
aggiunte le opere di bene fatte tramite le pie Dame di S. Vincenzo
con il cosiddetto “fiore che non marcisce”: cartellino bordato a
lutto, a riprova dell’offerta, che si depone o appende sulla tomba
del caro estinto con una frase di ricordo e l’indicazione del
parente offerente. Nicola Lupo Nicola (bronteinsieme.it)
LE “COSE” DEI MORTI (Dialogo popolare fra civitote) dal "D'Artagnan" di Nino Martoglio (28 ott. 1894).
Vincenza la Pupa, Serafina l’avara (civitote) e un commesso di negozio. Vin.- Oh Fina! Ci vieni in Piazza, a comprare le cose dei morti, per i bimbi? Ser.- Aspetta, oh, che io te lo stavo dicendo. Vin.- E andiamocene, va, mettiti in fazzolettone. Ser.- Andiamocene. Io, la verità giusta, non gli comprerei niente, ma il fatto che gli altri ragazzi, poi, gli mostrano le “cose” e fanno piangere i miei figli, mi obbliga. Vin.- E già! Non c’è potenza che a forza vogliono trovare le “cose”. Cos’è che compri tu? Ser. – Gli vorrei comprare una pupetta vestita ad Agatina, un carrettino, o se no l’omnibus a Filippo e qualche paperella con le ruote a Santina. Vin.- E cose dolci niente? Ser.- Ma, vediamo. Qualche 200 grammi di pasta di rame. Un po’ di ossa dei morti, che ne so io ora… Vin.- E quanto hai portato? Ser.- Aspetta: otto che me li ha dati mio suocero, quattro mia suocera e sono dodici, undici io e sono ventitrè, e cinque che li avevo dentro il salvadanaio e sono ventotto soldi. Vin.- E con ventotto soldi volevi comprare tutte queste cose? Oh malanova! Va compratene ceci abbrustoliti. Ser.- Chi l’ha detto? L’anno scorso ho speso tre tarì ed ho riempito una casa. Vin.- Ebbene ora vedrai. (arrivano da Patriarca e cominciano a guardare. Vincenza compra una cucina, una stanza mobiliata e un servizio da tavola, di latta, per tre lire. Serafina non ha potuto comprare niente perché tutto quello che vuole costa più di ventotto soldi). Ser.- (al commesso) Scusi. Questo lettino di ferro quanto costa? Comm.- Due lire. Ser.- Va, va, va, pazzi siete! E questa pupa? Comm.- Due e ottanta. Ser.- Di nuovo? Guarda ch’è pacifico! Tutte le cose due lire, tre lire, quattro e ottanta! Che vi pare che siamo inglesi? Comm.- Ma insomma, quanto volete spendere? Ser.- Me la date la pupa per nove soldi? Comm.- Nossignora, vada altrove. Ser.- Mezza lira nemmeno? Comm.- Ma che siete matta? Ser.- Va, facciamo undici soldi. Comm.- Impossibile. Ser.- Allora vi dico l’ultima parola e se mi richiamate nemmeno torno: Dodici soldi. Comm.- E’ fiato sprecato! Ser.- Allora andiamocene, Vincenza… (se ne va, ma dopo un po’ ritorna) Tredici soldi e sedici sanari, va, chi ha fatto ha fatto! Comm.- Allora aspettate che vi servo diversamente (piglia una pupetta piccola piccola con i capelli di stoppa) Questa qua costa cinquanta centesimi. Ser.- Quanto vedo. Niente, questa non è buona. Allora se me la da gli do otto soldi. Comm.- ..Beh, vada per otto soldi. Ser.- (esce il fazzoletto con i soldi legati dentro) Oh, Vincenza, guardami dietro, mentre li conto, prima che mi danno qualche manata e mi rubano i piccioli a tradimento. (conta gli otto soldi e torna a legare il resto) Scusi, questo “lamnibus” quanto costa? Comm.- Tre lire… ma se ne vuole ce n’è anche da quaranta centesimi. Ser.- Quanto fanno? Comm.- Otto soldi. Ser.- Allora facciamo cinque…sei, va. Che prima che vi persuaderete ci vorrà un anno. L’avete qualche paperella che cammina sola? Comm.- Sì, ma costa tre lire. Ser.- Di meno care non ce n’è? Comm.- Senta, prenda la farfalletta automatica, per sei soldi. Ser. Per quattro me la da? Comm.- No, è impossibile. Ser.- Come! Ho comprato tre cose e per giunta… Comm.- No, questo è prezzo fisso. Ser.- (sbrogliando il fazzoletto per la terza volta e contando il resto: otto di pupa, e sei l’omnibus e sono quattordici, e sei sono venti, per arrivare a ventotto quanti me ne restano? Vin.- Otto. Ser.- Giusti sono, andiamocene, (al commesso) Niente mi da di buona mano? Ppu! Quanto sono generosi in questo negozio. Ora compro 200 grammi di “cose” di rame, sette soldi, e il soldo che rimane, castagne infornate. E sono completa. (entrano dal dolciere e litigandosi per avere paste di rame in più, la Serafina si fa pigiare dalla gente che le ammaccano la farfalla e l’omnibus, riducendogliele piatti piatti) Vin.- Oh, cosa son diventati queste cose tue? Un fico! Ser.- (Accorgendosi del danno) Vih, bellamadre, e come faccio! Un momento, signori miei, non esca nessuno che qui voglio essere pagata di tutte queste cose che mi avete ammaccato! Fetenti, schifosi, e ch’è non ci vedevate, orbi canarii. Ffu! E come faccio! Guarda che danno che mi fecero gli infamoni e sbirri. Vih! Delirio mi piglia! E come faccio? Vin.- E calma, oramai il fatto è fatto. Alzati andiamocene. Ser.- Ma come, sette lire di “cosi” dei morti, tutti ammaccati. Qua, voglio essere pagata! Guarda che c’è qua! Pezzi di briganti! Vin.- E andiamocene ora. Ser.- Va a prenderla a Malta, anche tu, schifosa. Che anche tu li hai ammaccati! Ora ne devi pagare la metà; otto lire di roba!... Vinc.- Oh, grandissima donnaccia! Guardate quant’è infamona e ladra. Con una lira che ha speso in tutto, con dodici soldi di danno, sta facendo un casino e vuole essere pagata da me. Ma va a dare i fianchi, mendica avara che non servi. Ffu! Che sembri una civitota. Sciù, sciù, a la facciaccia tua!. Il boja di Bèthune. (traduzione di Turi Giordano)
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