frutticoltura, orticoltura e
micologia catanese
La
Sicilia Orientale: i prodotti tipici, gemme enogastronomiche


L’Isola
che c’è: un’isola nell’isola,questa è la realtà che viene
determinata dalla presenza nella Sicilia Orientale, del più grande
vulcano attivo d’Europa! L’Etna, per l’appunto ed il suo parco
naturale regionale! Come da tutti risaputo, le lave invecchiate e
trasformate dai fattori climatici determinano la formazione, nei
secoli, di terreni ricchi di diversi elementi, favorevoli alle
coltivazioni di montagna. Si viene a creare, così un microclima
capace di influenzare radicalmente tutto ciò che “vive” in
quell’ambiente, uomini, cose, vegetali ed animali. Un’esempio
per tutti: nella vasta area ,di circa 120 Km. di circonferenza di
base e i 3345 m. di altezza del Vulcano, troviamo piante diverse
come l’alloro, il leccio, il castagno, i pini, il faggio e la
betulla ed ancora i fichi, i fichi d’india, gli agrumi, l’ulivo,
la vite, il pistacchio ed il mandorlo. Molte città sono sorte ai
suoi piedi, la grande metropoli, Catania, ed i centri minori:
Acireale (il barocco, le Terme, il Più bel Carnevale di Sicilia),
Acitrezza, Acicastello (Riviera dei Ciclopi), Giarre, Riposto, sulla
costa ionica; Gravina, S. Giovanni La Punta, Pedara, Trecastagni,
Viagrande, Belpasso e Paternò, a mezza costa; ed infine Adrano,
Bronte, Randazzo (Città medioevale), Castiglione di Sicilia, S.
Alfio, Milo, Zafferana Etnea, S. Venerina, a quote piu alte.
Nicolosi e Linguaglossa, stazioni sciistiche. Tutte queste località
facevano parte anticamente della Val Demona ed a sud della vasta
area, occupata dalla Piana di Catania: Caltagirone (Città della
ceramica), Scordia, Ramacca, Palagonia, Grammichele, Vizzini,
Mirabella Imbaccari, S. Michele di Ganzaria. Bellezze da vedere da
toccare, impregnate di Barocco Siciliano, il Barocco della Val di
Noto, oggi patrimonio dell’Umanità! Mare e monti, con la
provincia di Messina, il Parco dei Nebrodi, la Madonna Nera di
Tindari, abbracciate dal Tirreno e dallo Ionio, con le coste che
vanno dalla Città della ceramica, Santo Stefano di Camastra, S.
Agata M., Capo d’Orlando, Naso, Patti, Barcellona Pozzo di Gotto,
Milazzo, fino ad est a Giardini Naxos, colline e pianure, sormontate
da terrazze, e naturali come balconi fioriti, così nella bella e
dolce Taormina, la cui vista dell’Etna rievoca i miti di Polifemo,
di Vulcano, di Aci e Galatea, di Scilla e Cariddi, di Eolo, di
Ulisse, ed i ricordi di Dei che si specchiarono nel mare, nelle
fonti del Ciane e dell’Anapo, così nella fontana di Aretusa, ed
abitarono questi lidi come fecero a Siracusa, culla di splendide
civiltà. Città da scoprire, attraverso tutto quello che ci hanno
lasciato in dono: il Teatro, le Latomie, l’Isola di Ortigia.
Siracusa, anche santa, con il suo Santuario Mariano dedicato alla
“Madonna delle Lacrime”. All’interno, troviamo un’arearicca
di storia di cultura e di tradizioni, con città e centri importanti
per la Sicilia Orientale: Enna, il capoluogo, con il suo lago
naturale Pergusa e Piazza Armerina, meta golosa per gli appassionati
di archeologia, e gastronomia come anche a Nicosia. Infine, e non
ultima, la provincia di Ragusa, con i suoi monumenti barocchi,di
Modica, Ragusa e Ragusa Ibla, e Chiaramonte Gulfi, Comiso, Vittoria,
lspica, Scicli, località “verdi”: provincia-polmone verde della
Sicilia tutta, all’avanguardia nella zootecnia, nell’agncoltura,
nel commercio e ricca di spiagge ancora intatte, deliziosamente
selvagge, in cui sono stati realizzati i films del “Commissario
Montalbano”dei romanzi dello scrittore siciliano Camilleri.
Iniziamo il nostro viaggio da est, sui sentieri eno-gastronomici,
spostandoci, poi verso sud, ed ancora all’interno, nel suo cuore,
sulle coste, sulle montagne e scoprire la Sicilia Orientale,
attraverso i prodotti della terra, del lavoro dell’uomo e delle
tradizioni vitivinicole e culinarie.
In provincia di Messina, varcato lo stretto, possiamo saziarci con i
prodotti ittici freschi ed appetitosi, tra cui in particolare il
pesce spada, simbolo dello Stretto, in tutte le sue ricette insieme
alle cozze nere del lago di Ganzirri. Ben ricercato è u sciusceddu
sorta di polpettine con ricotta ed al forno. Nelle montagne dei
Peloritani e dei Nebrodi, si andrà alla ricerca del formaggio
Maiorchino, delle provole, fine e raffinata quella di Casal Floresta
sui Nebrodi e qui anche la carne dei maialini quasi selvatici. Sul
Tirreno, a mezza costa, si segnalano i salumi dei Nebrodi, il salame
di S. Angelo in Brolo Igt, l’olio Valdemone. Tra i dolci, la
ottima ed ormai famosa Pignulata messinese ed infine le pesche di
Moio Alcantara. Il vino Faro Doc, una reliquia da trovare
assolutamente. Nelle isole Eolie, oltre i capperi e cucunci delle
Lipari, le conserve di verdure e di pesci, cercherete la Malvasia
delle Lipari, padronale e non! I1 vino Salina IGT.
In
provincia di Catania vi aspettano le paste: alla Norma, al nero di
Seppia, con le Sarde. Tra le verdure ed i contorni: la caponata di
peperoni o di melanzane o mista, la parmigiana di melanzane, le olive
di Nocellara dell’Etna, il maccu di fave.
Il pesce vi attirerà con le sarde a beccafico, le polpette fritte di
“neonato”, le alici marinate, il tonno alla cipollata, la tonnina
fritta, tutte condite e/o cotte con l’olio dell’Etna. Tra le carni
ricordiamo di assaggiare il falsomagro, comunque piatto tipico
siciliano, la gelatina di carne di maiale “u zuzu”, il sangeli un
misto di sangue bovino con zucchero-cacao-miele-ecc., sfincioni
salati, crespelle con acciughe o ricotta.
Delizia e croce: i dolci come i bersaglieri, gli iris ripieni di
crema, viscotta “cca liffia” inzuppati nel cioccolato liquido,
sfincioni dolci, inzulle, nucatuli, cucciddati, rame di Napoli le ossa
di morti, le crispelle o zeppole di San Giuseppe con miele ed arancia,
quaresimali, sciauni, coddureddi alle nocciole e miele, paste di
mandorla e frutti finti di pasta di mandorla “martorana”, agnello
pasquale di marzapane e “a cuddura ‘ccu l’ovu” pasquale.
granite ed i gelati, la mostarda di vino cotto e la cotognata di
melacotogna, da non perdere. Famosi le nocciole di
Castiglione-Linguaglossa-Milo, le mele “cola” dell’Etna, il
pistacchio e i dolci di Bronte, il miele di Zafferana Etnea, il
cavolo-rapa ed i limoni di Acireale, il limoncello e l’amaro dell’Etna
di Santa Venerina, le Arance rosse di Sicilia Igp: di Mineo,
Palagonia, Grammichele, Militello in Val di Catania, Ramacca e
Catagirone, il carciofo
violetto di Ramacca, la fragola e la fragolina di Maletto, la patata
novella di Acireale e Giarre, l’uva da tavola di Mazzarrone, i fichi
d’india dell’Etna Igt, le arance di Patemò, l’olio d’oliva
Monte Etna DOP, ed i vini a Doc dell’Etna ed il Cerasuolo di
Vittoria (Caltagirone).
La provincia di Enna è rinomata oltre chè per il più famoso
formaggio Pecorino Siciliano Dop, prodotto in tutta l’isola, anche
per il Piacentino Dop, prodotto solo nel territorio comunale di Enna a
cui può essere aggiunto la polvere di zafferano che gli conferisce
una tenue colorazione gialla.
Ricercate sono le frascatola di cavolfiore. Interessanti sono la pesca
tardiva e le fave di Leonforte ed anche il torrone-cubbaita, gli
sciauni e sciaunelli, le cassatele a mezza luna e le fasciatele di San
Filippo di Agira, oltre che i salsameli, dolci duri di Regalbuto, i
dolci alle mandorle.
La provincia di Ragusa, caratterizzata da una lunghissima tradizione
nella produzione agro zootechica ed orticola, di ortaggi e verdure
coltivati anche in serra tra cui il pomodoro di Vittoria, la cipolla
di Giarratana, la carota di Ispica. Oltre al famosissimo fommaggio Dop
Ragusano, la provola ragusana, la mozzarella ragusana, l’olio ed il
miele dei Monti Iblei, saranno da ricercare sicuramente le scacce di
Modica, “u pastizzu a Comisoi mpanatiegghi” sfoglia di pasta con
carne di vitello tritata e cioccolato, zucchero ecc., e la “stemperata”,
salsa tipica da condimento a freddo ed anche i cavatieddi conditi con
salsa o ragù. Importante la cioccolata Dop di Modica ed i vini
Cerasuolo di Vittoria ed Eloro Doc.
La provincia di Siracusa ci accoglie con le numerose conserve di
sgombro e tonno, con il tonno alla ghiotta, con le polpette e le
salsicce di tonno, la cernia alla matalotta, le “mpanate”siracusane,
la focaccia lumera, gli sparacelli, la peperonata, i pomodorini “ciliegino”
di Pachino (Igp), il melone di Pachino, la mandorla di Avola, i dolci
di Noto, la patata novella di Siracusa, il limone di Siracusa, l’olio
Monti Iblei Dop, il miele di Ferla e Sortino, i moscati di Noto e
Siracusa e l’Eloro Doc.
In tutta l’isola potrete assaggiare arancini di riso fritti a cono
od a palla, la cassata siciliana, i cannoli di ricotta, la frutta
secca, i fichi guarniti e ripieni di mandorle, di noci ed i gelati
artigianali.
A questo punto vi troverete alla fine del percorso e dirigerete il
vostro timone verso il mare ed i territori nisseni, girgentini,
trapanasi e palermitani, per concludere come in una grande awentura
questo fantastico viaggio nel mondo eno-gastronomico italiano! Venite
a trovarci nell’Isola dei tesori!
http://www.chaine-des-rotisseurs.it/portal/default.asp?id=11&idcategoria=30&lang=ita&sez=organigramma

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clicca sul cartello del Comune per le specialità del suo
territorio.

MAZZARRONE
La
coltivazione dell'uva da tavola nel Mazzarronese affonda le sue radici nel
secolo scorso, come si evince da alcuni atti pubblici di compravendita di
terreni coltivati a vigneto stipulati tra la fine del 1800 e l’inizio del
1900. Anche il Pastena, nel suo libro “La civiltà della vite in Sicilia”,
riporta che alla fine del secolo scorso la produzione di uva da tavola rappresentava il 5 % della produzione viticola del
«Mandamento di Caltagirone». Nel corso degli anni a seguito di innovazioni
tecniche e evoluzioni varietali l’uva da tavola di Mazzarrone ha assunto
sempre maggiore rilevanza sino a diventare parte integrante e imprescindibile
della vita locale.
Come
si consuma. L’uva possiede numerose proprietà benefiche per l’organismo,
che sono sfruttate al meglio se si consuma il frutto la mattina a digiuno: è
disinfettante e antivirale, diuretica e lassativa, attiva le funzioni
epatiche, facilita la digestione, contribuisce a ridurre il livello di
colesterolo nel sangue. In cucina, si consuma fresca o si può utilizzare per
la preparazione di dolci, marmellate, gelatine e sorbetti.
Si usa anche in cosmesi: il suo succo si utilizza per schiarire e ammorbidire
la pelle.
Come
si conserva. L’uva, se tenuta a temperature molto basse e con un tasso di
umidità tra l’85 e il 90%, può essere conservata fino a sei settimane.
Come si produce. La forma di allevamento utilizzata per la coltivazione
dell'uva da tavola è il tendone; per la cultivar Cardinal è utilizzata anche
la controspalliera. Fra le tecniche di coltivazione ha particolare importanza
la copertura dei vigneti con film plastico, adeguatamente fissato alla
struttura del vigneto, allo scopo sia di anticipare la maturazione a giugno
che posticipare la raccolta fino alla fine di dicembre. Altro elemento
importante, fra le tecniche di coltivazione, è la potatura che viene eseguita
al secco e al verde.
Molto importanti, al fine di migliorare qualitativamente la produzione, sono
gli interventi sulla fruttificazione, diradamento dei grappoli, sistemazione
dei grappoli ed interventi sui grappoli.
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SAN
CONO
Il
Ficodindia appartiene al genere Opuntia della famiglia delle Cactacee.
Originario dell'altopiano Messicano venne introdotta in Europa dagli spagnoli
verso la metà del 1500 a seguito della conquista del Nuovo Mondo.
Inizialmente venne coltivato negli orti e nei girdini dei nobili. Nelle
regioni del Nord non andò, però, oltre questi spazi privilegiati, riuscendo
a superare l'inverno solo in luoghi riparati o all'interno delle serre. Nelle
più miti regioni mediterranee, il ficodindia trovò invece condizioni
ambientali ottimali: si diffuse velocemente e si naturalizzò al punto da
divenire uno degli elementi più comuni e ceratterizzanti del paesaggio. Il
ficodindia è una pianta arborescente che può giungere a 3-5 m. di altezza,
anche se in coltura si tende a limitare lo sviluppo a non più di 2-2,5 m.. E'
caratteristica peculiare l'articolazione della parte aerea in cladodi
(comunemente dette "pale"), segmenti lunghi 30-40 cm, larghi 15-25
cm e spessi 1,5-3, uniti alla base fino a formare lunghe branche. Le foglie
sono effimere e caduche. I cladodi basali tendono a lignificare al
quarto-quinto anno di età fino a formare un tronco ben definito. La parte
interna dei cladodi, a cui è demandata la funzione fotosintetizzante,
particolare nelle cactacee, è costituita da un tessuto parenchimatico opaco
che assolve la funzione di immagazzinamento dell'acqua e che determina
l'adattabilità del ficodindia a condizioni di estrema siccità. Sulla
superfice dei cladodi si trovano le areole (130/160 per cladodio)
caratteristiche gemme ascellare modificate tipiche delle Cactacee. Le spine
vere e proprie, lunghe da 1 a 2 cm e saldamente inserite sono piuttosto rare
nelle forme di ficodindia coltivate in Italia. I glochidi, invece, sono sempre
presenti nelle areole; tali "spinette", lunghe pochi millimetri non
risultano sclerificate alla base e qundi sono facilmente amovibili.
L'apparato
radicale, infine, è superficiale, concentrandosi nei primi 30 cm. di
profondità. I fiori del ficodindia sono ermafroditi, hanno il calice e la
corolla formati da sepali poco evidenti e petali appariscenti di colore
giallo-aranciato, numerosi stami che circondano il gineceo, costituito da un
pistillo sormontato da uno stigma multiplo. L'ovario è infero, uniloculare,
con diversi ovuli disposti in placentazione parietale. I fiori si concentrano
sulle areole lungo il margine superiore della corona del cladodio. La
fioritura avviene in modo scalare nel periodo compreso tra l'ultima decade di
maggio e la prima quindicina di giugno. I frutti derivati dalla fioritura
ordinaria (noti come "agostani" o "latini") maturano
scalarmente a partire dall'ultima decade di agosto fino alla fine di
settembre. La coltura intensiva del ficodindia in Italia è tuttavia
finalizzata quasi esclusivamente alla produzione di frutti tardivi, noti anche
come "bastardoni" o "scozzolati", derivati da una seconda
fioritura ottenuta grazie all'asportazione dei fiori e dei cladodi emessi in
primavera. Tale tecnica detta "scozzolatura" è utilizzata per
indurre rifiorenza e la conseguente produzione di frutti qualitativamente più
pregiati a maturazione autunnale. Il frutto del ficodindia è una bacca
uniloculare, polispermica e carnosa, composto da un epicarpo che circonda la
porzione edule del frutto (polpa). A maturazione del frutto, l'epicarpo assume
il colore caratteristico della cultivar (gialla, rossa o bianca) e diviene
facilmente separabile dalla porzione commestibile, che rappresenta circa il
55-60% del frutto. I semi rappresentano il 2-5% del peso del frutto. In
Italia, il ficodindia in coltura specializzata interessa quasi esclusivamente
la Sicilia, dove è localizzato il 90% della superficie coltivata nazionale.
Nelle altre regioni del Meridione, tranne qualche eccezione in Puglia, in
Calabria ed in Sardegna, il ficodindia è presente in orti familiari o in
giardini con funzione di bordatura, ma non in impianti intensivi.In Sicilia,
oltre il 70% delle colture si concentrano in tre aree: "Colline di San
Cono", "SudOvest etneo" e "Valle del Belice". L'area
di San Cono è la più importante ed è localizzata nella Sicilia Orientale,
all'incrocio tra le Province di Catania, Caltanissetta ed Enna.
Le
principali cultivar prodotte in Italia sono:
la
"Gialla" (o Surfarina, o Nostrale) che rappresenta l'80-90% degli
esemplari che compongono i ficodindieti specializzati;
la "Rossa" (o Sanguigna) che rappresenta circa il 10% degli impianti
specializzati;
la "Bianca" (o Muscaredda, o Sciannarina) che rappresenta circa il
2% degli impianti specializzati.
Il frutto viene generalmente consumato allo stato fresco, opportunamente
sbucciato. Tuttavia, a livello locale, risultano molteplici le elaborazioni
gastronomiche ottenute, quali ad esempio la marmellata,
"l'estratto", consistente in un liquido sciropposo, i "mustaccioli",
ottenuti dal succo ristretto per ebollizione cui si aggiunge farina di semola
ed aromi, la "mostarda", preparata in modo analogo ma addizionata di
succo d'uva. Il frutto può essere conservato anche attraverso canditura.
«Il ficodindia dell'Etna è
un concentrato di natura ancora tutto da scoprire»
C'è chi lo definisce il frutto più eco-compatibile
perché per crescere e maturare non ha bisogno di alcun trattamento
chimico, né di concimi né di antiparassitari, non serve neanche
l'irrigazione, quindi non consuma acqua né luce, e cresce sui terreni
più aridi e sciarosi. Arrivato in Europa nella seconda metà del 500
sulle navi spagnole, pianta ornamentale nei giardini dei nobili, poi
piatto dei poveri, il ficodindia è una delle immagini simbolo della
Sicilia. Una pianta che ne rappresenta identità, cultura, anima
mediterranea. Dolce e profumatissimo, ricco di minerali come calcio e
fosforo e di vitamina C, dalle proprietà salutari, diuretico e
cicatrizzante, il frutto del ficodindia - nelle varietà "muscaredda"
bianca, "sulfarina" gialla, "sanguigna" rossa - allunga ancora le sue
straordinarie qualità note già dagli Aztechi prestandosi ad usi sempre
più nuovi, spesso ripescati dalla sapienza antica delle nonne o di
popoli lontani che da secoli utilizzano "pale" e frutto. «E' una pianta
che ha valenza ambientale, salutare, economica, industriale. Cresce e si
sviluppa anche sui terreni marginali e inospitali dell'Etna, è un'ottima
pianta tagliafuoco e frangivento e molti agricoltori la piantano a
confine come siepe. Il suo frutto ha un mercato sempre crescente per sue
caratteristiche salutistiche ed è assolutamente biologico perché non
subisce alcun trattamento. Un vero concentrato di natura», spiega
Salvatore Rapisarda, agronomo, produttore di fichidindia e presidente
del Consorzio Euroagrumi, organizzazione di produttori ortofrutticoli
che raccoglie 26 cooperative e circa 800 aziende agricole tra cui
numerosi produttori del ficodindia dell'Etna Dop nelle zone di Adrano,
Belpasso, Biancavilla, Bronte, Paternò, S. Maria di Licodia e Ragalna.
Negli ultimi anni, prosegue Rapisarda, il frutto è diventato molto
apprezzato non solo nel nord Italia ma anche all'estero «anche per le
nuove modalità con cui viene venduto, senza spine e confezionato in
pacchi, con pochi semi, e in versione quarta gamma per la grande
distribuzione, quindi già sbucciato e in vaschetta trasparente. Ma anche
sotto forma di marmellata e liquore».

L'intento dei produttori è quello di allungare di mesi il periodo di
produzione. «Con la i ricercatori dell'università di Catania coordinati
dalla professoressa Alessandra Gentile sono stati fatti numerosi studi
sulla cosiddetta "scozzolatura" che se viene ritardata sposta in avanti
la crescita dei "bastarduni", così come avviene con l'uso dell'acqua».
L'occasione per parlarne è un incontro divulgativo intitolato
"Trasferimento di innovazioni tecniche agronomiche e di gestione del
prodotto nella filiera del ficodindia" che si terrà il 7 giugno nella
"Tenuta della principessa" a Biancavilla. Ancora troppo poco rispetto al
Messico dove del frutto e della pianta si utilizza proprio tutto. E si
usano anche in cucina. «Si preparano piatti gustosi con le "pale", i
nopalitos che proporremo anche il 7 nella cena tutta "al ficodindia".
Per non dire che gli infusi con i fiori di ficodindia sono un toccasana
per la prostata» elenca ancora Rapisarda, e dai semi «si estrae un olio
ricco di vitamina E dalle proprietà antietà che è già presente in molte
creme naturali». Altro che "industriali del ficodindia", il titolo della
fortunata commedia di Massimo Simili, paradigma della truffa costruita
ad arte, del paradosso che diventa trionfo di furbizia e barzelletta
insieme. «Un precursore! - sorride Rapisarda - il ficodindia è una
pianta ancora da valorizzare che potrebbe aiutare molto l'economia
siciliana».
O. g.
Lasicilia.it 31/05/2013

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Puma
Cola, regine dell’Etna
di
Paola Pasetti (In Viaggio - supplemento a La Sicilia)
C’è stato un tempo in cui l’Etna poteva a buon titolo dirsi il
regno delle mele. Di quelle autoctone, s’intende, almeno una
quindicina di varietà (nella maggior parte dei casi andate quasi
perdute) i cui nomi sono tutto un programma: come la Rotolo, chiamata
così per le sue dimensioni (un rotolo, antica unità di misura,
equivaleva infatti a circa 800 grammi); la Turco, dalla buccia scura,
color granata; la mela Lappio, da “lappusa”, ossia dal sapore
astringente. Cultivar passate alla storia e oggi quasi del tutto
scomparse. I meleti etnei sono stati per decenni un unicum nel panorama
frutticolo siciliano, tanto più che in quella fascia altimetrica dell’Etna
compresa
tra 700 e 1500 metri sul livello del mare il melo ha trovato condizioni
pedoclimatiche particolari, capaci di conferire ai frutti proprietà
organolettiche uniche. Così, finché non sono arrivate le mele “del
Continente”, quelle nostrane
- seppur coltivate su terreni impervii e difficili - avevano potuto
ritagliarsi anche sul mercato dell’isola una fetta importante.
La più coltivata, definita a buon titolo “regina dell’Etna”, era
la mela Cola. “Puma Cola”, come vengono intese da queste parti: un
nome che è derivato - pare - dal fatto che questa particolare varietà
si diffuse in principio a Nicolosi, in una zona limitrofa al convento di
San Nicola. Forma cilindrica arrotondata, buccia gialla segnata da
piccole lentiggini color ruggine, polpa croccante e leggermente acidula.
La mela Cola è stata coltivata ed è ancora presente su vari versanti:
meleti si trovano anzitutto a Biancavilla e Ragalna, ma anche nel
distretto Trecastagni-Pedara- Nicolosi, sul lato Sud; Zafferana e areale
Milo-San’Alfio-
Mascali, a Est.

Da qualche decennio, però, la Cola ha dovuto cedere lo scettro della
più coltivata a sua “figlia”: la Gelato-Cola. O Cola-Gelato, se si
preferisce. Un ibrido nato dall’innesto su un’altra varietà
autoctona dell’Etna, la “Gelatu”, oggi
quasi del tutto scomparsa. Chi ha avuto la fortuna di addentarla, ne
ricorderà sicuramente la tipica vitrescenza della polpa, da cui per
alcuni deriverebbe il nome.
Le caratteristiche della “nuova nata” la rendono diversa dalla Cola
per il sapore della polpa, meno acidula, per il profumo più intenso e
per la grana più raffinata. A occhio nudo, la si riconosce comunque per
la forma tronco-cilindrica e per il colore che va dal giallo-verdolino
subito dopo la raccolta al paglierino chiaro, quando la maturazione
arriva a compimento.
Chi voglia conoscere più da vicino e apprezzare il sapore di questi
prodotti del Vulcano non ha che da mettersi in cammino senza perder
tempo: ottobre è infatti il mese della raccolta, che si protrae, man
mano che si sale di altitudine, fino all’ultima decade del mese.
Fino a poco tempo fa erano le mele più diffuse sul Vulcano. Oggi
rischiano di scomparire come è già accaduto ad altre varietà
autoctone. Lungo il sentiero della Scalazza alla scoperta dei vecchi
meleti
Non c’è migliore occasione, quindi, per fare un salto nei paesini
etnei. A partire dal versante Sud, da quella Nicolosi che fu culla della
Puma Cola, proseguendo in direzione est verso Pedara, Trecastagni, fino
ad arrivare a Zafferana Etnea, uno dei centri di maggior produzione di
queste mele.
Una passeggiata in macchina lungo questo percorso, attraverso le
piacevoli strade provinciali immerse nel verde, riappacifica con il
mondo. I centri abitati, poi, accolgono il visitatore con le loro
botteghe aperte anche la domenica mattina, quando la montagna vive per i
gitanti alla ricerca di aria buona. Un’occasione ghiotta per provare
anche gli altri sapori tipici dell’Etna: funghi, miele, fichidindia,
castagne, olio, vino. Tutti, insieme alle mele, si possono trovare nelle
botteghe, nei mercatini locali o, più facilmente, lungo le strade man
mano che si sale: panieri intrecciati ricolmi di frutta (o, meno
poeticamente, secchi gialli di plastica) dal ciglio della strada
invitano chi transita a fermarsi per un’acquisto, come si usa dire
oggi, a chilometri zero.
Chi voglia, poi, visitare un meleto e non tema una piacevole passeggiata
di circa un’ora, da Zafferana potrà spingersi fino alla Scalazza, un’antica
mulattiera - oggi praticabile grazie all’intervento di alcune
associazioni di volontariato - che nell’Ottocento costituiva l’unica
via di accesso ai frutteti coltivati dagli zafferanesi alle falde di
Monte Pomiciaro.
Per
raggiungerla, bisogna lasciare la strada asfaltata che da Zafferana sale
verso Piano dell’Acqua all’altezza del fontanile di Scalazza. Subito
sulla sinistra si apre una stretta stradina sterrata che scende per
qualche centinaio di metri all’interno della grande conca in cui
confluiscono valle San Giacomo e il vallone Cavasecca. La Scalazza
inizia proprio lì, alla base del costone che divide le due vallate. Una
visione mozzafiato: il sentiero, in gran parte lastricato, è
completamente immerso nel bosco di castagni; cento tornanti consentono
di coprire un dislivello di quasi 500 metri, dai 700 di Piano dell’Acqua
ai 1200 della zona di Cassone,
dove si trovano, appunto, diversi meleti. È in un luogo così che si
può apprezzare fino in fondo l’unicità di queste “vecchie” mele,
frutto, come tutto ciò che si coltiva sui terreni scoscesi del vulcano,
della infinita sfida tra l’uomo e la natura. )))
ETNA IL POSTO DELLE
CILIEGIE
LE VARIETÀ
Mastrantonio, Raffiuna, Napoleona
e Maiolina La piattaforma del gusto nasce sotto il vulcano
La Ciliegia deLl’Etna va alla conquista dei mercati
nazionali ed esteri e dei consumatori. Ottenuto, pochi mesi fa, il
marchio Dop, l’associazione e il consorzio dei produttori proseguono a
ritmo serrato le attività di promozione e divulgazione, ponendosi nuovi
e ambiziosi obiettivi.Su più di 530 ettari, nella provincia di Catania,
gli alberi autoctoni di ciliegio riempiono il paesaggio di fiori e
profumi, dal litorale a ben oltre mille metri d’altezza. La Dop è stata
ottenuta dalle varietà Mastrantoni, Napoleone, Raffiuna e Maiolina. La
produzione cerasicola etnea raggiunge mediamente le 1.300 tonnellate,
interessando circa dodici comuni. Un universo dalle grandi potenzialità.
Proprio per dare rappresentanza e voce univoca al settore è nata quattro
anni fa l’associazione produttori della Ciliegia dell’Etna, che ha
subito cominciato a stilare protocolli d’intesa con numerosi entilocali:
Giarre prima, Trecastagni, Zafferana, Sant’Alfio, Linguaglossa,Milo,Fiumefreddo
di Sicilia,Piedimonte Etneo e il Parco dell'Etna poi.«L’associazione,
che riunisce 25 operatori,sta progredendo a piccoli passi — spiega il
presidente Ivana Sorge — ma purtroppo scontiamo la mancanza di una
mentalità che spinga all’unificazione delle forze. Al Nord la maggior
parte degli operatori è consorziata, qui lo sono in pochi:probabilmente
perché non si comprende bene il tesoro che si ha per le mani. I
protocolli, al momento tredici ma altri ce ne sono da sottoporre alla
firma, fanno sì che l’ente ci riconosca unici interlocutori per la
diffusione del marchio Dop della ciliegia dell’Etna».Dell’associazione
fanno parte piccoli e grandi operatori, da quelli con 70-100 piante fino
a quelli con 500-1000 piante. «I primi — aggiunge Sorge — sono
ovviamente i più propensi ad associarsi perché si rendono più facilmente
conto della forza che deriva dalla collaborazione». Da tempo
l’associazione realizza un tour per coinvolgere altri operatori e il
prossimo anno conta di raddoppiare gli associati. Ad affiancarla, in
questa impresa, c’è il Consorzio per la tutela della Ciliegia dell’Etna,
costituito nel marzo 2004. Il presidente è Salvino Barbagallo, già
assessore regionale, produttore per passione, per sua stessa ammissione
affascinato dai colori e dai profumi delle ciliegie: «Il consorzio punta
a completare la filiera integrando anche i trasformatori. Intanto il
prossimo anno partiremo con la commercializzazione, passo per il quale
aspettavamo il marchio Dop. Quindi verrà perfezionato il protocollo di
produzione e nascerà anche un bollettino con i dati sulla produzione».
Il consorzio continua ad attirare soprattutto i produttori che, avendo
altre attività, vogliono comunque mettere a frutto il terreno: il
conferimento del prodotto al consorzio è in tal senso una garanzia. «Per
avere il nostro prodotto — dice Barbagallo ci cercano da tutte le parti.
La “Metro”, per esempio, è stata la prima catena con la quale abbiamo
firmato un contratto. Naturalmente questo è un primo passo, una volta a
regime potremo iniziare a correre. Ecco perché i produttori sostengono
che la cerasicoltura abbia ottime prospettive. E perché puntano con
fiducia all’espansione dei mercati di sbocco dei prodotti».Gli obiettivi
del Consorzio sono sintetici e precisi: la riconversione dei numerosi
terreni abbandonati sull’Etna; un incentivo per quanti decidano di
impiantare ciliegie nell’area etnea; una condizione di tranquillità
nella commercializzazione del prodotto; la crescita occupazionale
nell’ambito produttivo, ma anche in prospettiva in quello della
trasformazione (confettura e non solo). Ovviamente non mancano le
minacce, riconducibili essenzialmente alla concorrenza, non sempre
leale, degli altri Paesi del Mediterraneo. «Alle banchine del porto di
Catania ma anche di Palermo — osserva il presidente del Consorzio —
arrivano ciliegie nordafricane e turche, spesso commercializzate come
ciliegie dell’Etna. Si tratta di concorrenza sleale, anche perché grazie
al costo di produzione irrisorio vengono vendute a 50 centesimi». Ed è
per questo motivo che il consorzio pensa di istituire un ufficio di
vigilanza, così da arginare simili fenomeni. (O.V.)
E Trecastagni diede i natali al caratteristico “Don
Antonio”

Si chiama ‘Mastrantoni” una delle varietà di ciliegia
dell’Etna che ha ottenuto il marchio Dop. Il nome suona molto
caratteristico. E in effetti lo è. Come spiegano i produttori, la
denominazione deriva dalla varietà nata in maniera spontanea, “Don
Antonio” (o “Mastrantonio”, appunto), a Tre- castagni. Si tratta di un
ibrido spontaneo originatosi da un seme di Raffiuna e si presenta come
un frutto di buona pezzatura con polpa croccante e di ottimo sapore. E
stato scoperto che la Mastrantonio, caratterizzata grazie al lavoro
dell’Unità operativa dell’assessorato di Giarre, in una sua fase di
maturazione ha un concentrato di antociafine superiore persino alle
arance rosse.
Un’annata da dimenticare Produzione in calo dell’80%
È un’annata da dimenticare, per i produttori
cerasicoli, quella del 2007. Gli operatori accusano una moria di fiori,
e dunque della produzione dell’80%, dovuta alla monilia, che ha
compromesso la resa delle piante. E al danno, sostengono i produttori, è
seguita la beffa, perché i quattro giorni pressoché ininterrotti di
pioggia, a giugno, hanno ulteriormente ridotto quanto era riuscito a
salvarsi dalla precedente minaccia. La produzioni è stata quindi ridotta
al lumicino, costringendo gli operatori a rivedere anche i piani di
commercializzazione. Sui danni subiti dalla Ciliegia dell’Etna il
parlamentare regionale Fausto Fagone ha presentato un’interrogazione
all’Ars.
È del 30 novembre 2006 il decreto per la Protezione
transitoria accordata a livello nazionale alla denominazione «Ciliegia
dell’Etna», «per la quale — si legge — è stata inviata istanza alla
Commissione europea per la registrazione come Denominazione di origine
protetta». Il decreto fa riferimento a «una piattaforma varietale
composta dalle seguenti tipologie locali o ecotipi: la Mastrantonio, la
Raffiuna, il gruppo Napoleona (precoce-verifica-forestiera) e la
Maiolina». Quindi indica la zona di produzione che «comprende in tutto o
in parte il territorio amministrativo dei comuni di Giarre, Riposto,
Mascali, Fiumefreddo di Sicilia, Piedimonte Etneo, Linguaglossa,
Castiglione di Sicilia, Randazzo, Mito, Zafferana Etnea, Santa Venenna,
Sant’Alfio, Trecastagni, Pedara, Viagrande, Nicolosi, Ragalna, Adrano,
Bianca- villa, Santa Maria di Licodia, Belpasso, Aci Sant’Antonio,
Acireale».
http://ciliegiaetna.blogspot.it/2007_11_01_archive.html |
MALETTO
I prodotti della terra, la posizione geografica, il clima, fanno sì che
Maletto punti le sue carte sullo sviluppo del turismo e, in particolare,
dell'agriturismo. La campagna è ricca di antichi casali che racchiudono parte
della storia di questo antico paese etneo. La
produzione delle fragole ha reso Maletto famosa nel mondo. Grazie all'arte dei
fragolicoltori e alla particolare posizione territoriale, questo frutto
possiede delle proprietà (profumo, sapore e colore) che lo rendono unico. La
coltivazione è stata introdotta negli anni '50. La scoperta di acque
sotterranee nella zona a valle dell'abitato e la presenza di numerosi pozzi,
hanno permesso la coltivazione della cosiddetta "fragolina",
utilizzata principalmente nell'industria dolciaria. La piantina di fragola,
che nasce spontaneamente nei boschi, viene trapiantata a pieno campo, senza
altri procedimenti artificiali di maturazione che ne possano alterare le
caratteristiche organolettiche. Ciò conferisce alla fragola di Maletto una
straordinaria squisitezza e fragranza. Oggi questo prodotto è presente nei
mercati ortofrutticoli italiani ed esteri, ed è molto ricercato. Gustare una
fragola di Maletto significa fare il pieno di un profumo e di un gusto che
solo queste terre riescono ad infondere al rosso e polposo frutto.
Ogni anno, nel mese di giugno, Maletto diventa la città delle fragole,
richiamando centinaia di turisti e di visitatori.

Nel corso della Sagra, le maestranze locali realizzano una gigantesca
torta alla fragola di oltre mille chili, che viene offerta a tutti i
partecipanti Durante la manifestazione vengono esposti in appositi stand le
fragole in piantine e in cassette e sono offerte come assaggio gratuito ai
visitatori. Il frutto matura tra i primi di maggio e la fine di giugno e
nell'ambito della sagra sono esposti diversi tipi di fragole: la fragolina
di pasticceria, la fragola "rifiorente", che matura da gennaio a dicembre, e
la fragola tradizionale, dal sapore più dolce e dall'odore più profumato. La
sagra dura tre giorni e si svolge di solito dal venerdì alla domenica.
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SCORDIA.
Le arance a polpa rossa. Città adagiata nella piana di Catania, a sud del
fiume Simeto, al confine fra le province di Catania e Siracusa, Scordia deve
il caratteristico aspetto del suo paesaggio di macchia mediterranea, al verde
intenso degli agrumeti che permane tutto l'anno, offrendo sfumature cangianti
a seconda delle stagioni.
Qui
la coltivazione degli aranci è presente sin dalla fine del XVIII secolo,
quando i primi innesti furono impiantati sull'arancio amaro, la cui coltura,
insieme a quella del Limone, i contadini locali già praticavano.
Nacquero così i primi agrumeti o "giardini", come si usa dire da
queste parti. Da allora, i "giardini", si sono progressivamente
diffusi sul territorio di Scordia, fino a diventare la primaria fonte di
reddito per i suoi abitanti.
La principale varietà colturale (o cultivar) è il TAROCCO, arancia a polpa
rossa con le sue diverse varianti. Sono presenti pure altri cultivar di arance
a polpa rossa quali il MORO e il SANGUINELLO.
Le arance a polpa rossa sono le ottime arance dalla polpa di colore rosso -
rubino, dovuto alla presenza di particolari sostanze, le ANTOCIANINE, che ne
pigmentano la polpa e il succo donandole non solo quella nota di colore che le
rende veramente appetitose, ma anche una grande carica salutare.
I farmacologi già da tempo riconoscono che le ANTOCIANINE attribuiscono al
frutto varie proprietà terapeutiche e curative indispensabili per una
salutare e corretta alimentazione.
In particolare: - intervengono attivamente a sostegno delle difese del nostro
organismo nell'eliminazione delle scorie metaboliche (i radicali liberi); - rafforzano le mucose gastriche prevenendo così l'insorgere di gastriti e di
ulcere;
- proteggono le pareti vascolari e favoriscono una buona circolazione; - riducono il tasso di colesterolo;
- favoriscono l'azione del fegato; - rigenerano la porpora visiva migliorando la vista;
- sono ottimi antiossidanti, al centro di alcune interessanti ricerche e
sperimentazioni volte a sconfiggere il cancro.
Le arance a polpa rossa sono dolcissime, pur mantenendo zuccheri e calorie al
di sotto della media e costituiscono un'importante scorta di Vitamina C
(presente in quantità ben maggiore che nelle arance a polpa gialla), di
sodio, di potassio e di altri sali minerali.
Sono il frutto che accompagna la nostra vita, prezioso per la salute, naturale
aiuto nella gravidanza, nella crescita, nello sviluppo e nell'età avanzata
(Salvatore Pennisi)
_______________
Il mondo degli Agrumi
è talmente vasto e articolato che ogni suo aspetto,
culturale e colturale, potrebbe essere, da solo, oggetto di un intero
volume. Si tratta, infatti, non solo di alcuni dei prodotti alimentari, in
particolare le arance e i loro derivati, più diffusi e consumati a livello
mondiale, ma di frutti, come il cedro, che hanno accompagnato lo sviluppo
dell’agricoltura sin dagli albori della civiltà indoeuropea, a Babilonia,
6000 anni orsono, fino a diventare parte importante della prima grande
religione monoteista, l’ebraismo.
Ogni agrume è, infatti, testimone di epoche e di grandi
civiltà e dovunque essi siano stati coltivati hanno sempre suscitato
meraviglia tale da essere divenuti rapidamente protagonisti delle lettere e
delle arti, oltre che dei mercati e della gastronomia. Così, l’arancio è il
simbolo stesso della civiltà islamica europea, diffusa nella Sicilia
arabo-normanna e in Andalusia a cavallo dell’anno mille e nei secoli
successivi. Simbolo di sapienza agronomica e, nello stesso tempo, di
diletto. Ma gli agrumi diventano, poi, in qualche modo, protagonisti del
Rinascimento italiano, e, in particolare, della bellezza delle Ville
Medicee, che ne sono simbolo imperituro.
L’idea stessa del paesaggio italiano, come luogo di
eterna primavera, reso immortale da Botticelli, con il boschetto di agrumi
che la rappresenta, fa sviluppare, in tutte le grandi corti europee la moda,
se non la necessità, delle orangeries, la cui tradizione, seppur in altro
modo, continua oggi con la fortuna dell’agrumicoltura ornamentale di fattura
italiana.
Stessa sorte tocca al limone, senza il quale il paesaggio
della Costa Amalfitana non potrebbe immaginarsi e che nel XIX secolo dalla
Sicilia raggiunse i mercati di tutto il mondo, quando alla navigazione a
vela fece seguito quella a vapore. E, ancora, il mandarino, che conquistò la
Conca d’Oro palermitana nel XIX secolo e del clementine capace di cambiare
il volto della piana di Sibari e dell’arco ionico tarantino, dando luogo,
negli ultimi decenni del XX secolo, a un sistema colturale utile a garantire
sviluppo economico in territori fino ad allora marginali.
Per non parlare, poi, di alcune specificità, tutte
italiane, anzi, calabresi, come la coltivazione del cedro e del bergamotto,
i cui prodotti, per ragioni affatto diverse sono comuni a larga parte del
mondo, anche se purtroppo, poco del loro valore aggiunto rimane nel nostro
Paese o, almeno, nei luoghi di coltivazione.
Abbiamo, volentieri accolto l’invito di coordinare questo
volume, che non poteva mancare nella Collana Coltura&Cultura di Bayer
CropScience. Lo abbiamo fatto immaginando un percorso articolato, tra
scienza e arte, in più di 50 capitoli, ma coerente con lo stile e la ragion
d’essere della Collana. Abbiamo chiamato a collaborare con noi oltre 60
Autori, tutti nomi di rilievo assoluto nel mondo degli agrumi e in quelli
comunque ad esso legati.
Il nostro obiettivo, che ci auguriano sia condiviso dal
Lettore, è stato quello di aver ancorato la divulgazione alle solide radici
della ricerca scientifica. Abbiamo voluto fornire al lettore informazioni
chiare, ricche di particolari, a volte anche di aneddoti, capaci, fin dove
possibile, anche nella scelta delle immagini, di compendiare il rigore della
ricerca con la vivacità dell’informazione; rispecchiando, in definitiva, i
valori propri del giardino di agrumi come luogo “fruttifero e dilettevole”,
dove scienza e arte si fondono.
E' un atto di fiducia verso un mondo che tanto ha dato
alla cultura del nostro Paese e tanto ha contribuito alla sua bellezza,
certi di poter continuare ad affermare, con Stendhal, che “C’è proprio un
Paese dove gli aranci crescono in piena terra? Chiedevo alla zia e avendo
spiegato la zia Elisabeth che c’era questo Paese e si chiamava Italia...”.
Eugenio Tribulato & Paolo Inglese
http://www.colturaecultura.it/titoli-agrumi.asp
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LEONFORTE.
Le pesche nel sacchetto. Una sorpresa nella terra degli aranci e dei mandorli.
La Sicilia è terra di agrumi, olivi, mandorli,
fichi d’India. Le pesche, si direbbe, sono roba dell’Emilia Romagna, della
Campania, del Piemonte. Roba da frutteti iperspecializzati. Al limite, su quei
terreni assetati e in quel caldo africano si potrebbero cercare le primizie,
che so, una pesca che matura a maggio, magari anche prima. E invece no.
Nel cuore della Sicilia ci sono pesche antiche e, mentre l’Italia ormai da
un secolo coltiva soltanto varietà americane e corre dietro alle “pesche di
moda”, qui si sono conservate. Nessuno le ha disturbate perché non erano
così importanti: a Leonforte la produzione vera era quella di agrumi e di
frumento. Gli alberi di pesche nascevano fra gli aranci, e si lasciavano lì.
Nascevano dai semi, per caso, e per caso si incrociavano. E siccome qui non
siamo sulle coste assolate, ma alle pendici dei monti Erei, erano perlopiù
pesche tardive.
Ci volle un po’ di tempo, ma poi qualcuno si accorse che quegli alberi erano
preziosi: quale altra regione italiana poteva permettersi pesche appena
raccolte ai Santi? Quale altra zona siciliana aveva la fortuna di Leonforte:
possedere ricche sorgenti d’acqua? Perché le pesche devono essere irrigate,
altrimenti non vivono.
Così, negli anni ’50, nasce il primo pescheto “specializzato”: poca
cosa, un terreno di due tumuli (mezzo ettaro), ma nella celebre Contrada Noce,
“la zona migliore - ci spiegano - con i terreni argillosi e bagnati dalle
acque della Gran Fonte”.
Nel 1951 Carmelo Salomone, uno dei pionieri della pesca di Leonforte, con quei
due tumuli guadagna una cifra ai tempi straordinaria: due milioni. Ma dopo
appena tre anni, gli agricoltori ricevono un telegramma: bisogna sospendere la
raccolta perché le pesche appena consegnate sono marce. È arrivata la mosca
mediterranea, un flagello. La coltivazione è abbandonata: per anni le pesche
rimangono sugli alberi. Fino all’idea geniale. Un certo Pappalardo di
Acireale, che a Leonforte possiede un appezzamento di agrumi, inizia a
difendere i frutti con un sacchetto. È il 1965. Poco per volta la pratica
dell’insacchettamento si diffonde e la storia della pesca di Leonforte
ricomincia.
La storia di una piccola “follia”, di un lavoro certosino che inizia a
giugno, ogni anno. I frutti ancora piccoli e verdi sono insacchettati a mano,
uno per uno. I sacchetti di carta pergamenata si chiudono con un sottilissimo
fil di ferro: proteggono le pesche dalla mosca, ma anche dal vento, dalla
grandine e poi consentono di raccoglierle quando sono dolci e mature. Un
lavoro per uomini (in Sicilia le donne non vanno in campagna) che viene pagato
a cottimo: 35 lire per ogni sacchetto (in un giorno i più veloci ne legano
più di 2 mila). Fino agli anni ’70 la carta si comprava a Giarre: le donne
di Leonforte se la facevano tagliare su misura e la cucivano a macchina. Anche
fare i sacchetti era un piccolo mestiere: si guadagnavano 4 o 5 lire al
sacchetto.
Ora i sacchetti si comprano già incollati, ma il lavoro manuale è ancora
tanto: bisogna dare il rame agli alberi, potarli, dare l’olio bianco alle
gemme quando sono gonfie e rosa (rigorosamente l’ultimo trattamento),
irrigare, concimare, fare un’ultima potatura a giugno (quella verde, per
togliere i succhioni e diradare i frutti). Anche la raccolta è un’operazione
delicatissima: alla fine di settembre i sacchettini con il loro prezioso
contenuto vengono staccati dall’albero con una leggera rotazione del
picciolo (guai a strapparli). Poi si scartano le pesche e si selezionano,
ancora una volta a mano e ancora una volta una per una: si eliminano i frutti
con qualche difetto e si dividono gli altri in base alle dimensioni: da una
parte le più piccole e via via le più grandi, divise meticolosamente in base
al diametro.

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BRONTE,
capitale italiana del pistacchio! La Sicilia è l'unica regione italiana dove
si produce il pistacchio ("pistacia vera") e la cittadina etnea, con
oltre tremila ettari in coltura specializzata, ne esprime l'area di
coltivazione principale (più dell'80% della superficie regionale) con una
produzione dalle caratteristiche peculiari.
Bronte, Eden di pistacchio, con un frutto dal gusto e dall'aroma
universalmente riconosciuti come unici e particolari.
L'"oro verde", così è denominato il "pistacchio verde di
Bronte", rappresenta la principale risorsa economica del vasto territorio
della cittadina etnea.
Concorreranno la terra e le sciare dell'Etna, la temperatura o il portainnesto,
le tradizioni di coltura tramandate da padre in figlio, fatto è che la
pistacchicoltura brontese, a differenza dei prodotti di provenienza americana
o asiatica, in massima parte con semi di colore giallo, produce frutti di alto
pregio, molto apprezzati e richiesti nei mercati europei e giapponesi per le
dimensioni e l'intensa colorazione verde.
Il pistacchio brontese è dolce, delicato, aromatico. Soprattutto è unico.
Fra le varie qualità coltivate nel Mediterraneo e nelle Americhe possiede
colori e qualità organolettiche che ne fanno un unicum in tutto il mondo con
un suo sapore soave che i frutti prodotti altrove non hanno. Viene apprezzato
nei mercati italiani ed esteri per l'originalità del gusto e l'adattabilità
in cucina e in pasticceria. E' usato nell'industria dolciaria sopratutto per
preparare torte, paste, torroni, mousse, confetti, gelati, e granite, ma è
squisito anche nei primi e secondi piatti o arancini; è utilizzato anche
nella preparazione degli insaccati (ottimo nelle mortadelle e nelle
soppressate) e nel settore cosmetico.
A Bronte se ne raccolgono oltre 30 mila quintali e, quello con guscio (la
"tignosella") si vende a circa 4,00/6,00 euro al chilo e a
9,00/15,00 quello senza guscio ("sgusciato"). Una ricchezza di quasi
15 milioni di euro che rappresenta poco più dell'1% della produzione mondiale
di pistacchi.
L'ottanta per cento del prodotto brontese è esportato all'estero, sopratutto
in Europa, il restante 20% trova impiego nell'industria nazionale (il 55%
industria delle carni insaccate, il 30% nell'industria dolciaria ed il 15%
nell'industria gelatiera, con un rapporto gelateria industriale/artigianale
che potrebbe essere del 60/40%).
Il
frutto viene commercializzato sotto diverse forme: Tignosella (pistacchio non
sgusciato, i brontesi lo chiamano "babbalucella"), pelato (sgusciato
e privato dell'endocarpo), granella, farina, bastoncini, affettato o pasta di
pistacchio. Certamente quasi nessun agricoltore brontese vive più di solo
pistacchio: la coltivazione occupa solo una parte dell'impegno lavorativo e
fornisce una fetta di reddito; è in pratica una seconda attività, ma
essenziale per la sopravvivenza della famiglia e della comunità e forse è
più la passione che l'economia a spingere i brontesi ad impiantare ancora
alberi di pistacchio (che daranno i primi frutti solo dopo circa dieci anni).
Nella zona si contano quasi mille produttori, la maggior parte con piccoli
appezzamenti di terreno sciaroso di meno di un ettaro e qualche grosso
produttore con un multiplo di ettari. Il frutto raccolto viene in genere
smallato ed asciugato ad opera del produttore stesso, che poi vende il suo
pistacchio in guscio alle aziende esportatrici o lo conferisce alle
cooperative. L'Oro Verde di Bronte nelle diverse fasi di maturazione (in
fioritura ad aprile, nel mese di maggio ed a fine agosto). A destra in basso
una vecchia macchina per rimuovere ("sgrollare") il mallo,
l'involucro coriaceo che ricopre il frutto. Sulla sinistra della "machina
ppi sgrullari i frastuchi", due antichi recipienti della tradizione
locale: "u stutafocu" (si riempiva di brace ardente per ottenere la
carbonella) e "u menzarangiu" (grosso recipiente di rame usato per
bollire alimenti o, anche, fare la mostarda di fichidindia)
.
Il Mediterraneo è stato da sempre uno dei principali centri di scambio e di
valorizzazione delle produzioni agro-alimentari mondiali. È stato,
tradizionalmente, il mare del gusto, degli aromi, dei sapori, delle spezie.
Una peculiare caratteristica che ha disegnato e formato la cultura, l'economia
ed anche il paesaggio, trasformandolo profondamente ed in modo quasi
irreversibile.
Le spezie in genere ma anche il basilico, il rosmarino, il pepe, l'olivo, gli
agrumi, i carciofi, il vino e la vigna e mille altri prodotti e coltivazioni
di maggiore o minore diffusione hanno invaso e trasformato questo spazio
geografico e culturale, portando allo scambio di merci ma anche al confronto
culturale e al mantenimento di un costante valore comune di sapori e
tradizioni.
I prodotti di origine mediorientale rappresentano un particolare aspetto di
questo patrimonio ed hanno avuto una notevole influenza nella cultura
gastronomica europea e mediterranea. Il cus cus, il peperone, perfino il vino,
la castagna e cento altri prodotti derivano dal progressivo e millenario
scambio e il Mediterraneo ne ha rappresentato lo spazio di comunicazione.
Il Pistacchio, un frutto dalla storia antichissima, noto ai Babilonesi, Assiri,
Giordani, Greci, citato addirittura nel libro della Genesi e riportato
nell'obelisco, fatto innalzare dal re dell'Assiria, attorno al VI secolo a.C.,
è uno di questi prodotti agro-alimentari, che ha contribuito a delineare il
patrimonio culturale-gastronomico dei popoli mediterranei. Di questo prezioso
frutto, portato in Sicilia dagli Arabi, Bronte rappresenta la capitale
italiana.
L'Iran è il principale produttore mondiale di pistacchio (56%) con una
superficie di 230.000 ettari di terreno coltivato, seguito dalla Turchia, con
39.000 ettari, gli Stati Uniti, 31.000 (dove è presente la cultivar "Bronte")
e la Siria, con 20.000. Nell'Unione Europea solo Italia, Grecia e Spagna ne
sono produttori (i primi due con circa 9.000 ettari di terreno coltivato e la
Spagna con 1.500, di cui 2.000 in Andalucia).
In Sicilia il Pistacchio cresce in prevalenza a Bronte con l'80% della
superficie regionale coltivata (e nei comuni di Adrano e Ragalna) e nelle
province di Agrigento (i cui centri di produzione sono Favara e Raffadali) e
di Caltanissetta (S. Cataldo). La produzione biennale media siciliana è di
circa 32.000 quintali di prodotto sgusciato, l'80% dei quali viene esportato
all'estero.
A Bronte alcune cooperative ed una decina di aziende esportatrici, in
concorrenza fra loro, alcune ottimamente attrezzate e con avanzata tecnologia,
si occupano della lavorazione e della commercializzazione del pistacchio.
Si è costituita anche un'associazione di pasticceri che utilizzano il frutto
esaltandolo nei loro tradizionali prodotti (paste, torte, gelati, torroni,
fillette, panettoni e colombe, torroncini, creme, pesto, ...).
Il "pistacchio verde di Bronte", perennemente minacciato da
importazioni di qualità assolutamente inferiore, ha oggi conquistato il
dovuto riconoscimento di prodotto DOP: il Disciplinare di produzione è stato
pubblicato sulla Gazzetta ufficiale fin dall'Ottobre 2001.
Ma si è perso tempo. Solo dopo quattro anni, il 3 novembre 2004, è stato
finalmente costituito il Consorzio di tutela che dovrebbe iniziare a breve il
proprio lavoro.
La Denominazione d'Origine Protetta riguarda una zona di produzione, compresa
fra i 300 e i 900 metri s.l.m., che ricade nei territori di Bronte, Adrano e
Biancavilla. La peculiarità del pistacchio brontese è il colore
uniformemente verde vivo della sua pasta, nonchè la sua pronunciata
aromaticità, per cui è senz'altro privilegiato nella manifattura dei
torroni, dei prodotti dolciari e dei gelati ma soprattutto delle carni
insaccate di pregio e nella gastronomia di alta classe. Tali caratteristiche,
uniche fra i prodotti similari di altre zone, sono egregiamente valorizzate
proprio nel luogo di produzione.
Ogni anno in alcune viuzze e piazze del centro storico di Bronte si svolge da
parecchi anni una sagra (la Sagra del Pistacchio).
Dal pesto alla crema, dalla torta al gelato, dall'arancino alla salsiccia la
Sagra è il trionfo del pistacchio in tutte le sue varianti; si celebra nel
mese di settembre e nella scorsa edizione ha richiamato ben 100 mila
visitatori. E' l'occasione che la città offre ai numerosi visitatori per fare
conoscere le raffinate prerogative e le proprietà dell'"oro di Bronte".
Il clou della Sagra sono le degustazioni del frutto e dei prodotti che vanno
dalla salsiccia alla pasta al pistacchio, dalle torte ai torroni, al gelato,
alle crepes, alla filletta, oltre a numerose altre prelibate dolcezze (col
pistacchio di Bronte viene prodotto anche un liquore, il pesto, una crema da
spalmare sul pane, un ottimo arancino, il formaggio, il salame, le classiche
antiche fillette, il caffè, ...e numerose altre prelibatezze dal gusto
unico).
(da www.bronteinsieme.it)

Non è sfuggita neanche all’occhio, da sempre molto
attento, dei ricercatori di Slow Food,
tanto da farne un presidio tutelato e pubblicizzato in giro per il mondo.
E’ autoctona e la sua coltivazione rispetta i parametri
di un’agricoltura che, forse, non esiste più. Nei campi, a cavallo
fra le province di Catania e Messina,
cresce la pesca “irregolare”: la chiamano
tabacchiera perché, appunto, ha tutte le fattezze del contenitore
che, in passato, veniva utilizzato per conservarvi il tabacco da fiuto.
E’schiacciata e per nulla tondeggiante.
La pesca tabacchiera
si sviluppa là dove le temperature sono più rigide, fra le terse e vivide
giornate dei centri pedemontani del catanese, da
Bronte ad
Adrano passando per
Biancavilla, e di quelli messinesi
della Valle dell’Alcantara come
Roccella Valdemone.
Basta aprirla ed annusarne la polpa per comprenderne
l’atipicità. All’interno, infatti, è bianca come le vette invernali di quel
vulcano che sovrasta molti dei campi di produzione. Solo quella terra,
infatti, e le rigide temperature ne possono assicurare la crescita: e, poi,
il mondo.
Questa “atipica” è conosciuta in diverse aree del globo, trasportando con sé
la tradizione di una vita, fatti di campi e lavoro.
Perché, per farla nascere e crescere, è necessaria
l’attitudine al sacrificio, al lavoro che
sembra non finire mai. Drenare la terra e cospargerla,
costantemente, di acqua: solo in questo modo, la
pesca tabacchiera può abbandonare
quelle terse e vivide giornate e farsi mondo.
|
RAMACCA.
Il Violetto e la sua Città:Ramacca. Cittadina agricola sorta ai margini
sud-occidentali della piana di Catania, all'inizio del XVIII sec., vanta un
territorio di 305,382 kmq, uno dei più estesi della Sicilia. Questo si
articola in basse colline, morbidi declivi e vaste estensioni pianeggianti.
Bellissime masserie sparse in tutto il territorio arricchiscono lo stupendo
paesaggio di veri e propri capolavori d'architettura rurale. Il territorio
ramacchese stato abitato
fin dalle epoche più remote. Ciò è dimostrato dai numerosi siti
preistorici, scoperti nelle contrade Torricella, S. Maria, Poggio Croce,
Perriere Sottano, dalla presenza di una città indigeno-greca sulla Montagna
di Ramacca, abitata fin dal VII sec. a.C, fino all'età ellenistica. Gli scavi
archeologici hanno portato alla luce reperti, molti dei quali sono esposti
nelle sale del Museo Archeologico Civico.
Il carattere urbanistico del paese presenta una pianta ortogonale, con vie
larghe e rigorosamente squadrate. Il centro di Ramacca è costituito dalla
piazza Umberto I, che ha la morfologia di un ottagono regolare, al cui lato
meridionale sorge il settecentesco Palazzo baronale, oggi sede del Municipio,
del Museo Civico Archeologico e della Biblioteca Comunale.
Le
Caratteristiche del Carciofo: II carciofo (Cynara
scolymus L.) appartiene alla famiglia delle Asteraceae (ex Compositae), tribù
delle Cynareae.
Il carciofo è una pianta davvero "generosa", di cui si può
utilizzare praticamente tutto: dai capolini per il fresco a tavola o per la
trasformazione agroalimentare, ai carducci o alle foglie fresche e secche per
l'alimentazione del bestiame, per finire con le foglie e le radici da cui si
estraggono ortofenoli ed acidi utilizzati in farmacologia e nell'industria dei
liquori. Il consumatore è poco informato sugli aspetti qualitativi e
nutrizionali di questo ortaggio. Visto il periodo di raccolta (fine
autunno-inverno) ostile a molti fitofagi, in alcune zone viene prodotto senza
alcun intervento fitosanitario, o comunque tali interventi risultano rari ed
in casi di emergenza. Un'altra caratteristica da prendere in considerazione è
il suo valore officinale, infatti, grazie ad una particolare sostanza, la
cinarina, contenuta nelle foglie, nello stelo e nell'infiorescenza, svolge
un'azione benefica sulla secrezione biliare, favorisce la diuresi renale e
regolarizza le funzioni intestina!!. Oltre ad essere un eccellente protettivo
epatico il carciofo abbassa il tasso di colesterolo nel sangue, con benevoli
effetti sulla circolazione sanguigna e sull'attività cardiaca. Inoltre al
carciofo è attribuita una forte capacità antiossidante. L'elevato contenuto
di inulina lo rende particolarmente idoneo all'alimentazione dei diabetici.
Grazie alla ricca presenza di composti vitaminici, infine contribuisce a
ridurre la permeabilità e la fragilità dei vasi capillari. In cosmesi, il
succo svolge un'azione bioattivante, vivificante e tonificante per la pelle.
I carciofi arrostiti sulla brace sono un'abitudine ebraica.
(da "I sapori lontani della cucina
siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
Sebbene
proveniente dalla regione francese che gli dà il nome, anche il
Marmande può essere considerato un ecotipo locale. Il frutto è
di pezzatura
medio-grossa, schiacciato, con le tipiche costolature molto
evidenti e una collettatura verde molto marcata. La polpa è
spessa, poco acquosa e dolce. Vista la scarsa consistenza e la
limitata resistenza post-raccolta, i frutti vengono raccolti e
venduti a inizio invaiatura.Il
Marmande è uno dei pomodori più gustosi in assoluto. Ne
esistono moltissime varietà, che vengono commercializzate con
nomi come Merinda, Marmandino e perfino RAF. Le differenze fra
le varietà sono poche nell’aspetto, ma rilevantissime nel
gusto. In tutto il mondo si cerca di migliorare, ma il più
saporito Marmande è tuttora quello prodotto nel sud della
Sicilia, in una stretta lingua di terra fra Pachino, Marzameni,
Portopalo. Qui la speciale composizione del terreno vulcanico,
ricco di sali minerali, il regime dei venti, tipico di quella
zona, permettono la produzione, da febbraio fino all’inizio di
maggio, di una vera prelibatezza. Ma non è da
meno la varietà Beef, assonanza per la sua grandezza simile
alla bistecca americana ovvero il
Rizzo (Rizzu) Catanese, che si coltiva in quasi tutta la Piana
di Catania soprattutto fra Adrano, Belpasso, Biancavilla e
Bronte. Nei mercati popolari catanesi abbonda in estate e questo
prodotto orticolo è riconoscibile dall'aspetto corpulento e
rosso, con strane costolature da farlo sembrare un rospo. Si fa
perdonare per l'eccellente sapore, così dolce da non
farci pentire per averlo scottato per quasi un'ora nella
pentola.
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Le cinque fioriture del «Femminello»
Dai primofiore ai maiolini, dai verdelli ai bastardi e ai marziani per
la cultivar dominante nella zona fino agli Anni 50.
Il limone rappresenta la specie più emblematica della zona costiera
orientale etnea, nella quale trova effettiva localizzazione grazie al
clima favorevole. La limonicoltura è pertanto una componente dominante
del paesaggio della riviera jonico etnea, per questo motivo meglio nota
come «riviera dei limoni». La dominanza si va attenuando, proprio per
ragioni climatiche, a mano a mano che dalla costa si procede verso
l'interno; la coltura, in genere, è più presente nelle aree a quote
inferiori ai 150-200 metri. La sua coltivazione, nel corso degli anni
‘50, è stata progressivamente sostituita, lungo la zona costiera ionica,
a quella della vite, almeno nelle aree compatibili per condizioni
orografiche, climatiche e per la disponibilità di acqua di irrigazione.
Anche per questo motivo, nella zona il limone spesso coesiste con altre
colture sia arboree sia erbacee; e a volte risulta persino consociato
con fruttiferi diversi, tra cui il ciliegio. La coltura, a causa di una
crisi di mercato che tende a diventare strutturale, attraversa una fase
delicata che si coglie anche con riferimento alle cultivar utilizzate
(il Femminello, varietà dominante fino agli anni ‘50, ha ceduto nel
tempo il posto ad altri cloni più resistenti ai gravi attacchi del
malsecco) e alla scarsa uniformità della produzione.
Sulla cultivar «Femminello» si possono elencare ben cinque fioriture
principali a cui corrispondono fruttificazioni che assumono particolari
denominazioni. La più importante dà origine a frutti che maturano in un
arco di tempo molto lungo: da ottobre a marzo. Questi vengono chiamati
«invernali» e hanno un epicarpo più o meno rugoso, acidità elevata, semi
presenti in numero variabile. I frutti derivati da questa fioritura che
maturano più anticipatamente (tra la fine di settembre e i primi di
ottobre) sono noti commercialmente con il termine di «primofiore».
I «maiolini», chiamati anche «biancucci» o «bianchetti» presentano un
epicarpo poco rugoso, un colore giallo pallido, un minor numero di semi
e una più bassa acidità rispetto a quelli invernali. La fruttificazione
è spesso a grappolo. La maturazione cade normalmente nei mesi di
aprile-maggio.
I famosi «verdelli» giungono invece a maturazione nell'estate dell'anno
seguente e spuntano ottimi prezzi sui mercati nazionali ed esteri. I
«verdelli» si formano spesso a grappoli. Essi sono caratterizzati da un
epicarpo liscio e una bassa acidità, mentre i semi sono quasi tutti
abortiti.
Abbiamo poi i «bastardi» che si presentano con epicarpo liscio, di
colore giallo carico, con stilo persistente e maturano dopo circa un
anno. Infine i «marzani»; non sono mai molto numerosi, con forma più o
meno rotondeggiante, epicarpo rugoso, umbone largo e schiacciato,
acidità elevata, semi più o meno numerosi. I «marzani» vengono di solito
raccolti assieme ai limoni «invernali».
17/09/2011 La Sicilia
TURCA (tonda nera) Il periodo
della semina è assai dipendente dalla zona in
cui si opera. Nel nord si semina sotto tunnel o in cassone ai primi di Marzo.
Bisogna insomma tener presente che, per svilupparsi, la piantina di melanzana
necessita di una temperatura piuttosto costante che si aggiri intorno ai 15°
centigradi. Si semina a spaglio, piuttosto rado per non dovere poi diradare
troppo, e su un substrato composto da terriccio fine mescolato con pari quantità
di torba concimata. Seminate preferibilmente sul bagnato con uno strato di mezzo
cm circa di sabbia. Tracciate dei solchetti nell’appezzamento adibito allo scopo
ed appoggiate i soggetti a distanza di 50 cm l’uno dall’altro sulla fila. La
distanza tra i solchi si aggirerà fra i 60-70 cm. Una volta che sono poste tutte
le piante in un solo solco colmatelo di terra premendo bene intorno alle
piantine stesse. La melanzana per ben produrre, necessita di potatura: si devono
asportare cioè i getti secondari che si sviluppano all’ascella dei getti
primari: su ogni pianta non ne devono restare più di 8-10. Il raccolto è scalare
ed il consumo deve essere immediato.
SITA (Tonda violetta) -
PIANTA DI ORIGINE
Pianta erbacea annuale della famiglia delle Solanacee con
radice fittonante e fusto eretto, rigido e ramificato, un po’ spinoso
che raggiunge circa 70-80 cm, foglie lobate, fiori solitari ascellari,
violetti, anch’essi un po’ spinosi. I frutti sono bacche, violacee, o
bianche, di forma tonda, oblunga od ovoidale, con la parte superiore
avvolta in un calice. La superficie è lucente, liscia o a costole.
Grandezza, forma e colore si differenziano a seconda della varietà.
UTILIZZAZIONE ALIMENTARE La parte edibile è costituita dai frutti dotati di
buccia spessa e polpa carnosa di colore biancastro. Fra le varietà più diffuse
ricordiamo la Gigante bianca di New York, la Precoce di Barbentane, la Violetta
lunga di Napoli, la Violetta tonda. Le melanzane vengono consumate sia tagliate
a fette che a dadi, cotte, sia grigliate che fritte, impanate o lessate. Spesso
questo ortaggio entra in ricette elaborate come ad esempio melanzane alla
parmigiana, o melanzane ripiene.
COLTIVAZIONE Predilige climi temperati o caldi, e soffre il gelo. Viene
coltivata, in semenzaio riscaldato, nel sud Italia in gennaio-febbraio,
al centro-nord in marzo. Quando le piantine hanno raggiunto 6-7 cm di
altezza ed hanno emesso la quinta foglia, si trapiantano in vivaio, in
terreni poco profondi, di medio impasto o sabbiosi, ricchi di sostanze
organiche e dopo 2 mesi si piantano nell'orto alla distanza di 50 cm
sulle file e 70 cm tra le file. L’irrigazione del terreno deve essere
costante. La raccolta si effettua da giugno in quando i frutti non sono
del tutto maturi e si protrae fino a Settembre.
Sono stati gli arabi a portare dal lontano Oriente le melenzane in
Sicilia. Come tutte le solonacee contengono un alcaloide amaro e
scarsamente tossico: la solanina, che si credeva generasse "malinconici
umori ed eccessiva lascivia" da dove il nome malum insanum. Nell'Italia
del centro nord dovevano passare secoli prima che la melenzana entrasse
in cucina.
(da "I sapori lontani della cucina
siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori
L'aglio
siciliano è tutto ottimo, particolare quello selvatico dell'Etna
presso Randazzo o Trecastagni e soprattutto quello dei Nebrodi. Ma
l'aglio siciliano per eccellenza è a Nubia, piccola frazione di Paceco
(Trapani). Da sempre fonda la sua economia sulle saline e sulla
coltivazione dell’aglio
rosso, tanto da far acquisire a Nubia la denominazione dialettale di “u
paisi di l’agghi”
cioè il paese dell’aglio. Tale
coltivazione viene ancora oggi praticata con metodi tradizionali che si
sono perpetuati nel tempo che vanno dall’attenta selezione dei bulbilli,
alla tecnica di coltivazione rispettosa dell’ambiente, all’impianto e
raccolta manuale fino alla fase di asciugatura e intrecciatura, sempre
rigorosamente manuale. Un tempo le trizze di aglio erano composte anche
di centinaia di teste, erano lunghissime, e si tenevano appese nelle
abitazioni per attingerne l’aglio necessario alla preparazione dei cibi.
Il
Basilico (Ocymum basilicum) è una
erbacea annuale che raggiunge anche i 60 cm d’altezza. Le foglie
sono differenziate a seconda della varietà. E’ un arbusto
profumato assai utilizzato come aroma in cucina, per sughi al
pomodoro, insalate fresche ovvero per il classico pesto.
La semina può essere effettuata direttamente in vaso o
nell’orto, avendo cura di proteggere la zona di semina con del
tessuto non tessuto, quando la temperatura non è ancora stabile.
Il terreno deve essere di medio impasto e ben drenato e per
quanto riguarda il terriccio il basilico non presenta
particolari esigenze. Ottimo quello coltivato a Valverde.
L'olio
"Monte Etna" DOP è ottenuto dalla varietà Nocellara etnea per
almeno il 65% e da altre varietà presenti nella zona (Moresca, Brandofino,
Biancolilla, etc.). Al consumo ha un colore giallo con riflessi verdi, odore
fruttato leggero, sapore fruttato con leggera sensazione di amaro e
piccante.
L'olio extra vergine si ottiene da olive sane, raccolte entro il
periodo compreso tra l'invaiatura delle drupe fino alla seconda decade di
gennaio, variazione dettata dalla diversa altitudine dei territori di
produzione. Dopo la raccolta le olive vengono conservate in recipienti
areati fino alla molitura per la quale sono ammessi solo processi meccanici
e fisici, al fine di ottenere un olio che sia il più possibile fedele alle
caratteristiche peculiari del frutto.
La zona di produzione delle olive destinate alla produzione
dell'olio extravergine di oliva a denominazione di origine
protetta comprende, nell'ambito del territorio amministrativo
della regione Siciliana, i territori olivati dei comuni (atti a
conseguire le produzioni con le caratteristiche qualitative
previste nel disciplinare di produzione) che elenchiamo di
seguito:
Provincia di Catania: Adrano, Belpasso, Biancavilla, Bronte,
Camporotondo Etneo, Castiglione di Sicilia, Maletto, Maniace,
Motta S. Anastasia, Paterno', Ragalna, Randazzo, Santa Maria di
Licodia, San Pietro Clarenza.
Provincia di Enna: Centuripe.
Provincia di Messina: Malvagna, Mojo Alcantara, Roccella
Valdemone, Santa Domenica Vittoria.

QUELLA SECCA
foto di Francesco Raciti
La calia e simenza è un tipico alimento consumato in tutta la Sicilia in
occasione delle feste patronali (come quella di Sant'Agata a Catania o di Santa
Rosalia a Palermo) o altri eventi di grande rilievo, solitamente nelle feste
rionali e durante le processioni sia in estate che in inverno. La calia si
prepara tostando (in siciliano caliannu) dei ceci nella sabbia bollente e
salata. La simenza, invece, si ricava dai semi di zucca secchi, che subiscono la
stessa preparazione della calia.
Solitamente, calia e simenza vengono mangiati in compagnia durante le
processioni o le semplici passeggiate nelle vie della città. Sono vendute da
venditori ambulanti che le preparano sul posto in quanto sono più buone mangiate
tiepide e croccanti.
La quarume (in siciliano "pietanza calda"), italianizzata in caldume, è uno dei
tipici piatti da strada di Palermo e Catania. Un venditore di quarume è detto
quarumaru.
La si può trovare, dalla mattina alla sera, sia nei mercati rionali che presso
alcuni banchi di rivendita sparsi in tutta la città.
È composta da viscere di vitello (tipicamente ventra, matruzza, centopelle e
ziniere) bollite nella "quarara" con cipolle, sedano, carote, prezzemolo. Viene
servita calda con sale, pepe, olio, limone.
La calia (dal latino colius = polvere). Ceci tostati nella sabbia che
i siciliani consumano per passatempo insieme ai calacausi (arachidi) e a
simenza (semi di zucca tostati e salati.
(da "I sapori lontani della cucina
siciliana" di Gino Schilirò - Lancillotto e Ginevra Editori

Dal termine latino fungus e da
quello greco mykés derivano rispettivamente i nomi fungo (o micete) e
micologia (la scienza che si occupa dello studio dei funghi). I funghi
sono organismi dotati di nucleo, privi di clorofilla, che si originano
da spore e si riproducono generalmente sia in maniera sessuata che
asessuata, e le cui strutture somatiche normalmente filamentose (ife),
sono circondate da pareti cellulari contenenti cellulosa o chitina, o
entrambe. Quando le condizioni ambientali e nutrizionali sono
favorevoli, dal micelio si forma il corpo fruttifero (detto fungo) dal
quale verranno prodotte le spore.

Il paesaggio vegetale dell’Etna, soprattutto in
epoche recenti, è stato caratterizzato da una lunga quanto massiccia
azione antropica che ne ha quasi completamente modificato le
caratteristiche originarie e la composizione e che ha contribuito a
degradare o distruggere alcune zone un tempo ricche di flora fungina.
La maggior parte dei versanti etnei, soprattutto
nella parte basale del vulcano, sono, infatti, ampiamente urbanizzati o
utilizzati per pratiche agricole, la cui crescente diffusione (e il
conseguente diboscamento ad esse connesso), ha contribuito ad alterare
profondamente la copertura vegetale primitiva, modificata notevolmente
anche da cause naturali tra le quali, non ultima, l’attività eruttiva
dell’Etna.
Nonostante le catastrofi naturali e il disturbo
antropico, il territorio etneo, per fattori climatici, pedologici e
vegetazionali costituisce ancora una vasta area idonea per la crescita e
lo sviluppo di numerose specie di macromiceti.
Dal punto di vista vegetazionale il territorio etneo
annovera infatti diversi elementi comprendenti esempi di vegetazione
tipicamente mediterranei, benché frammentari, presenti sul piano basale
del vulcano, esempi di vegetazione forestale a carattere mesofilo e
termofilo presenti sul piano montano e esempi di vegetazione xerofila
tipica dell’alta montagna mediterranea.
La fascia che va dalla zona costiera fino a circa
1000 m s.l.m., comprende infatti una vegetazione tipicamente
mediterranea, con diversi aggruppamenti vegetali riferibili all’Oleo-Ceratonion
e al Quercion-ilicis.
La fascia che va dai 1000 ai 2000 metri di quota è
caratterizzata da una vegetazione in cui prevalgono i boschi di querce
caducifoglie, i castagneti, le pinete e, a quote più elevate, le faggete
che, al di sopra dei 2000 metri, lasciano il posto ai colorati pulvini
dell’Astragalo dell’Etna (Astragalus siculus Biv.), specie endemica
etnea.
Betulleti a Betula aetnensis Raf. (betulla
dell’Etna, specie endemica esclusiva etnea) sono presenti sul versante
orientale, nord-orientale e in minor misura su quello occidentale del
vulcano (da oltre 1400 m fino ai 2000 m s.l.m.). Oltre tali quote il
betuleto, diradandosi, lascia il posto all’astragaleto e ad interessanti
specie pioniere.
Al di sopra dei 2100 m s.l.m., cespugli di Astragalo
siculo, Saponaria siciliana (Saponaria sicula Raf.) e Cerastio tomentoso
(Cerastium tomentosum L. var. aetneum Janka), creano altre suggestive
macchie di colore. A quote superiori ai 3000-3050 m, raggiunti a stento
dalle specie più ardite, domina incontrastato il mondo inorganico.
http://www.dipbot.unict.it/funghi_etna/
Le diverse aree boscate presenti sull'Etna (pinete,
faggete, castagneti, ecc.) ospitano una ricca flora fungina sia di specie
ubiquitarie che caratteristiche delle varie fitocenosi.
I generi più rappresentativi sono: Agaricus, Amanita,
Boletus, Coprinus, Cortinarius, Cystoderma, Hebeloma, Hygrophorus, Hypholoma,
Lactarius, Leccinum, Macrolepiota, Russula, Tricholoma, Xerocomus, ecc.
La maggior parte delle specie sono commestibili, alcune
tossiche e pochissime velenose mortali quali Amanita phalloides ed Amanita verna.

I sentieri dei funghi
di Pietro Nicosia
Boschi, campagne, sono i luoghi dei funghi. Cercare
queste prelibatezze impone un contatto stretto con la natura ma anche
una conoscenza dei luoghi in cui è più facile trovarli e delle
caratteristiche che ne consentono il riconoscimento. Meglio sempre
affidarsi ad un esperto che sappia distinguere i funghi commestibili da
quelli tossici per evitare spiacevoli sorprese.
Comunemente vissuta come l'epilogo delle vacanze, la
seconda metà di agosto è il periodo più atteso dagli appassionati della
pratica mitologica che, a fine estate, coronano la loro attesa per
provare a scovare, sotto i loro bastoni, il porcino più bello.
C'è, innanzitutto, da dire che la stagione dei funghi
è essenzialmente decisa dagli eventi meteorologici, che trasformano
l'attesa in gioie o in dolori.
Come mai dimenticare quell’agosto piovosissimo (di
qualche anno fa) che trasformò una stagione nera per i vacanzieri
balneari, nella stagione più bella per i fungaioli.
Agosto piovoso significa porcini sicuri, e questo
grazie alla concomitanza di un terreno umido e di una temperatura,
ancora, calda.
Qui, comunque, non vogliamo certo fare un trattato di
micologia, e non ci rivolgiamo certo a chi non è mai andato per boschi a
scovare qualche micete, al quale consigliamo (per adesso) di comprarli i
funghi, in attesa di fare un corso in una qualche associazione
mitologica, per tentare al più presto la fortuna. E non ci rivolgiamo
nemmeno a chi è un fungaiolo accanito, a cui questo articolo farà
sicuramente ridere, visto che non riusciremo di certo a raccontare tutta
la sua sapienza, fatta di anni ed anni di paziente ricerca che rimane,
però, patrimonio personale oscuro al resto del globo.
E allora ci rivolgiamo a chi - come chi scrive - ha
tanta strada ancora da compiere (ma non è certo alle primissime armi) e
qualche dritta spassionata, è lieto di riceverla, sull'arte mitologica
in Sicilia. Prima di addentrarci nei particolari, vogliamo suggerire ai
fungaioli che leggeranno queste righe, di aver sempre rispetto per la
natura; il rispetto non è mai tanto, ed alcuni comportamenti comuni nei
boschi, sono certamente da demonizzare in quanto, se praticati da tutti,
alla lunga trasformeranno il sottobosco in un deserto. Ed allora,
scegliamo i cestini, anziché le buste di plastica, per permettere alle
spore dei funghi che abbiamo scovato, di cadere e deliziarci anche in un
futuro prossimo.
Un accorgimento, questo, che tornerà a nostro
vantaggio di sicuro. Così come tornerà a nostro vantaggio lasciar
crescere quel fungo così piccolo da non costituire nemmeno un boccone,
meglio memorizzare bene il posto, e tornare fra qualche giorno, sperando
che nessuno si sia accorto della nostra precedente scoperta. E lasciamo
anche quei funghi che, visibilmente, sono già andati. Certo è tanta la
sofferenza che si prova a lasciare un porcino alto 20 centimetri anche
quando questo è evidentemente bacato, perché costituisce sempre un
trofeo da mostrare agli amici; il contributo che - comunque - potrà
ancora dare all'ecosistema, sarà superiore alla nostra vanità. E allora
veniamo a 3 itinerari che vogliamo suggerire a chi, alla fine
dell'estate, si dedicherà a cercare il porcino della "vita".
La prima "dritta" ricade all'interno del Parco
dell'Etna, nella zona più umida del territorio del vulcano, e per questo
maggiormente frequentata dai fungaioli.
La zona è denominata Giarrita, e si trova nell'area B
del Parco, dove è consentita la raccolta di funghi, anche se in quantità
modeste. Per ulteriori informazioni, comunque è bene contattare l'Ente
Parco dell'Etna.
Per recarsi sul posto bisogna portarsi sino a
Fornazzo frazione di Milo (raggiungibile da Zafferana-Milo per chi
proviene da sud; da Linguaglossa, Fiumefreddo o da Giarre per chi
proviene da nord). Raggiunto il piccolo abitato di Fornazzo (eletto
villaggio ideale d'Italia per le magnifiche condizioni ambientali)
bisogna immettersi sulla Mareneve e percorrerla per circa 10 chilometri.
L'area della Giarrita è quella subito dopo il punto base per
l'escursionismo numero 16 delle Case di Pietracannone. In ogni caso auto
ferme ai bordi della carreggiata, indicheranno che i fungaioli sono già
all'opera (prima di noi) nell'area tutt'intorno. Ad elevatissimo
interesse micologico, è la zona del Parco dei Nebrodi, vera e propria
culla per infinite distese di funghi di ogni genere, dai buonissimi
boleti alla pregiatissima amanita cesarea o fungo d'uovo.
L'area che suggeriamo è quella compresa fra Cesarò e
San Fratello, lungo la strada statale 289.

I due comuni distano 50 chilometri di funghi. Da una
parte e dall'altra del corso stradale, tagliando il Parco ed
attraversando le zone A, B e C, si estendono i boschi, nei quali mettono
radici bontà d'ogni tipo che attendono solo di finire nei nostri tegami.
A metà strada circa, a Portella Femmina Morta, c'è la deviazione per
Monte Soro e per il Lago Biviere, dove eventualmente poter fare una
capatina per meglio conoscere i Nebrodi. Limitrofa ai Nebrodi è l'ultima
nostra segnalazione, che riguarda la strada statale 120 (sulle carte
stradali anche s.s. 117) nel tratto compreso fra Nicosia e Mistretta,
che per alcuni chilometri rappresenta il margine occidentale del Parco
dei Nebrodi. A metà strada circa si trova la Riserva Naturale
Sambughetti Campanito, dove c'è pure un'area attrezzata in cui,
eventualmente, fermarsi per una pausa.
E allora, non ci resta che augurarvi buona
passeggiata e tanti panieri colmi di funghi.
http://win.lafrecciaverde.it/n122/funghi/art.html

Sono
quelle specie fungine che dopo il consumo, non arrecano di norma alcun
disturbo. Hanno un sapore accettabile e rispondono altresì a determinate
caratteristiche organolettiche. Ad ogni modo questa considerazione va
attuata su funghi abbondantemente cotti. (Vengono escluse da queste
considerazioni il Genere Boletus gruppo edulis, l’Amanita caesarea e il
Coprinus comatus). A proposito del Genere Boletus e relativo gruppo,
occorre però tener presente le problematiche relative ad intossicazioni
di tipo gastroenterico emerse in questi ultimi anni.
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Helvella crispa
Spugnola crespa
Funci di chiddi rizzi
Munacheddi
In boschi di latifoglie o
misti. |
Cystoderma terreyi Harmaja
Cistoderma color cinabro
In boschi di aghifoglie,
di latifoglie o misti. |
Hydnum repandum
Steccherino dorato
Funciu musca
Funci di iaddu
latifoglie e aghifoglie |
Tricholoma terreum
Kummer
Tricoloma terreo, Moretta
Func'i canittu
In boschi di aghifoglie. |
Pleurotus eryngii
Quélet var.ferulae Lanzi
Fungo della ferula
Funci di ferra o
Fungi di Ferla |
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Pleurotus eryngii
Quélet var. nebrodensis
Funci di firrazzolu
Su radici di Laserpitium. |
Tricholoma populinum
Lange
Tricoloma del pioppo
Funci di chiuppu
Associato al pioppo. |
Sarcodon imbricatus
Karsten
Steccherino bruno
Ventri di crapa
In boschi di aghifoglie. |
Macrolepiota procera
Singer
Mazza da tamburo,
Cappellino
Func'i coppu, Nippiteddu
aghifoglie o prati. |
Morchella conica
Persoon
Spugnola bruna
(dopo prolungata cottura)
Ventripecura
In boschi di aghifoglie. |
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Lycoperdon echinatum
Vescia echinata
Funci tabbaccari
In boschi di latifoglie |
Pleurotus ostreatus
Kummer
Orecchione, Gelone
Funci di traversa
Su tronchi di latifoglie |
Helvella lacunosa
Cappello da prete
Funci di chiddi rizzi
Ubiquitaria. |
Lactarius deliciosus
S.F.Gray
Lattario, Sanguinaccio
Rusitu, Russiddu
boschi di aghifoglie |
Cantharellus cibarius
Gallinaccio, Galletto
Cricchia di jaddu,
Iadduzzu, Ciurrittu |
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Morchella esculenta
Spugnola gialla
(dopo prolungata cottura)
Ventripecura
Ubiquitaria. |
Chroogomphus rutilus
Chiodetto
Funciu vavusu
Funciu viscidu di zappinu
In boschi di aghifoglie |
Hydnum rufescens
Steccherino dorato
Funciu musca, Funci di
iaddu
latifoglie e
aghifoglie. |
Amanaita Caesearea
Ovulo buono o Fungo reale
querce e castagni
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Nell’ambito della flora micologica etnea, particolare
interesse merita la famiglia delle Boletaceae s.l. che annovera specie
dal carpoforo carnoso con imenio a tubuli e pori, perlopiù micorriziche,
molte delle quali commestibili, altre tossiche.
Le prime sono molto bene rappresentate soprattutto
dai "porcini" genericamente noti, in vernacolo, come fùncia purcina e
fùnci fimmineddi (funghi porcini).

gruppo di "boletus edulis etna"
(foto di Francesco Raciti)
gruppo dei BOLETI (famiglia
delle Boletacee)
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Boletus edulis Bull.:Fr.
(Porcino bruno)
testa di fagu, (testa di faggio); fùnciu di siddu,
cenosi a leccio e a betulla e in genere presso latifoglie
(castagno, faggio) e pino laricio
Rifugio Citelli, Vituddi, Serra la Nave, Filiciusa, Milia,
Tardaria, Rinazzi. |
Boletus aereus Bull.: Fr.
(Porcino nero)
testa niura (testa nera); fùnciu di siddu; pùrcinu niùru
(porcino nero); lardaru, per la taglia robusta
latifoglie, querce, castagni e noccioli, bosco misto a cerro
e roverella, leccete
Cerrita, Monte la Nave, Fontana Murata, Rinazzi, Zafferana
Etnea, Citelli, S. Alfio |
Boletus pinophilus Pilát
& Dermek
testa russa, (testa rossa); funciu siddu)
pino laricio
Linguaglossa |
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Boletus aestivalis (Paulet)
(Porcino estivo)
fùnciu lardaru; siddu
cenosi a leccio e a
betulla,comune anche nelle faggete, nei castagneti e
noccioleti dell’Etna
Monte Minardo, Monte S. Maria, Monte Maletto,
Serra la Nave, Tardaria, S. Alfio
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Boletus regius Krombh
presso latifoglie
Bosco del Flascio. |
Bolentus Fragrantes: B.
fragrans Vittad
fùnciu ebreu (ebreo);
fùnciu di castagna,
f. di pumu; f. di castagno, f. di pomo
querce e lecci
Milo, Bosco del Flascio; Monte Minardo,
Filiciusa-Milia |

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Boletus impolitus Fr.
B oleto dal cappello
granuloso
fùnciu d’ogghiu (fungo d’olio, per l’imenio da giallo a
giallo-verdognolo, giallo-olivastro).
querce e lecci
Milo, Bosco del Flascio; Monte Minardo, Filiciusa-Milia
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Boletus Suillus
granulatus (L.: Fr.) Roussel
fùnciu di zappinu
pino laricio in cenosi a
betulla
Rifugio Citelli, Linguaglossa, Monte Scavo, Monte Maletto |
Boletus S. luteus (L.:
Fr.) Roussel
fùnciu zappinu, vavusu (bavoso)
pino laricio in cenosi a
betulla
Rifugio Citelli, Linguaglossa, Monte Scavo, Monte Maletto |
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Boletus Gyroporus
castaneus Quèl (Bull.: Fr.)
fungo del castagno
fùnciu di castagna, (fungo di castagno); fùnciu cannila
(fungo candela)
boschi di latifoglie,
prevalentemente castagneti e quercete
Nicolosi, S. Alfio, Tardaria, Etna nord-ovest |
Xerocomus chrysenteron
Quélet
b oleto dorato
Funciu
di filici
Boschi di latifoglie.
Tardaria, Etna nord-ovest |

Funghi autunnali – a cura di Enzo Crimi
24 agosto 2015
Fungo_porcino, La disciplina della raccolta e della
commercializzazione dei funghi è finalizzata a salvaguardare
l’ambiente, la salute pubblica e a promuovere, nel rispetto
della conservazione del patrimonio naturale, l’incremento
dei fattori produttivi e dell’economia locale che sono anche
gli obiettivi della legislazione nazionale in materia. La
raccolta dei funghi è subordinata al possesso di un
tesserino nominativo che viene rilasciato dai comuni di
residenza dei richiedenti, previo il versamento di una quota
in denaro e un attestato di frequenza di un corso di
formazione da rilasciare da associazioni micologiche. Il
tesserino amatoriale permette la raccolta sino a 4 chili di
funghi, mentre il tesserino professionale permette di
raccoglierne sino a 12 chili. I proprietari all’interno dei
propri fondi, non hanno necessità di acquisire il tesserino
ma devono ugualmente attenersi alle altre modalità di
raccolta. Affinchè non si incorra in fastidiose infrazioni,
sarebbe opportuno che i raccoglitori si attenessero
scrupolosamente al seguente decalogo di legge preparato dal
Corpo Forestale che svolge funzioni di vigilanza:
1. Non bisogna raccogliere funghi nelle ore notturne;
2. Non raccoglierne in quantitativi maggiori a quelli consentiti dalla
legge (amatoriale sino a 4 kg giornalieri – professionale sino a 12 kg
al giorno);
3. I funghi raccolti devono essere riposti e trasportati in contenitori
areati realizzati preferibilmente con fibre naturali intrecciate onde
consentire la diffusione delle spore;
4. Per raccogliere funghi non bisogna usare rastrelli o altri mezzi che
possono danneggiare lo strato umifero del terreno ed é vietato
introdursi con automezzi all’interno di aree demaniali recintate e/o
fuori piste carrabili all’interno dei Parchi Regionali;
5. Non bisogna distruggere nessun tipo di fungo, seppur non commestibile
e procedere nella raccolta con discrezione e possibilmente in silenzio
per non disturbare gli animali innocui ed evitare quelli pericolosi (le
vipere sono ancora attive);
6. Non bisogna raccogliere funghi in aree degradate quali vecchie
discariche o siti industriali;
7. Non bisogna raccogliere funghi se si è minori di 14 anni e non
accompagnati da persone adulte in possesso di tesserino;
8. I funghi raccolti vanno puliti nel luogo di raccolta;
9. Non bisogna raccogliere funghi all’interno di aziende faunistiche
venatorie in periodo di caccia;
10. La vendita di funghi è soggetta all’autorizzazione del comune e
sanitaria.
In caso di violazione dei suddetti dettami o di eventuali altre
fattispecie, ai trasgressori saranno confiscati i funghi raccolti e
comminate delle sanzioni che variano da 10,00 a 344,00 euro. Infine
ricordarsi che i funghi sono sempre un alimento difficile da digerire;
evitare quindi il consumo da parte di bambini, donne in gravidanza,
persone che soffrono di intolleranze alimentari o disturbi dell’apparato
digerente.
Enzo Crimi
Commissario Superiore Comandante del Corpo Forestale della Regione
Siciliana – Bronte
http://www.lagazzettacatanese.it/funghi-autunnali-a-cura-di-enzo-crimi/
COME SI PULISCONO
I PORCINI
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gruppo dei LECCINI (famiglia
delle Boletacee)
I "Leccini", nel vernacolo genericamente liccini,
sono rappresentati da specie commestibili, anche se non particolarmente
pregiate, presenti presso latifoglie e, prevalentemente, sotto carpini e
noccioli.
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Leccinum carpini
sotto pioppi e betulle
Milo, S. Alfio, Etna nord-est
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Leccinum aurantiacum
Porcinello Rosso
fùnciu d’abbaneddu (fungo di pioppo tremulo)
faggeta pioppi e betulle
Etna nord
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Leccinum scabrum
Porcinello Grigio
fùnciu di vituddu (fungo di betulla)
cenosi pura a betulla
Rifugio Citelli, Bosco
della Cubania, Monte Vituddi, Monte Nunziata, Etna sud-est
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Leccinum melaneum Pilát & Dermek
fùnciu di vituddi o d’abbaneddu
bosco misto
Rifugio Citelli, Bosco
della Cubania, Monte Spagnolo, Monte Nunziata, Monte Scavo |
Leccinum lepidum (Bouchet
ex Essette)
Porcinello della sabbia
Liccinu, Func'i vacca
In leccete e sugherete .
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Leccinum vulpinum
fùnciu di vituddi o d’abbaneddu
bosco misto
Rifugio Citelli, Bosco
della Cubania, Monte Spagnolo, Monte Nunziata, Monte Scavo |

Come
Riconoscere i Funghi
L’unico modo certo per distinguere i funghi
mangerecci da quelli velenosi e mortali è sicuramente quello di
conoscere con certezza le diverse specie ed essere in grado di assegnare
loro un nome ed un cognome, allo stesso modo in cui si fa con una
persona di sicura conoscenza; anche nell'”arte” di cercare i funghi vale
sempre l’antica prudenza: meglio conoscere poche specie bene piuttosto
che molte e male.
Allo stesso tempo, si consiglia, a chi intende
dedicarsi alla raccolta dei funghi, di imparare a riconoscere bene le
specie velenose mortali; fortunatamente dalle nostre parti non sono
molte e il saperle riconoscere bene, anche da lontano, è già una cosa
buonissima.
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Oudemansiella radicata Singer
Collibia o
Agarico radicato
Su tronchi marcescenti di faggio.
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Laccaria laccata Cooke
Agarico laccato
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Stropharia aeruginosa Quélet
Agarico
Strofaria
Su residui legnosi marcescenti.
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Russula delica
Colombina bianca
Func'i cani
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Geastrum triplex Junghuhn
Geastro a tre strati
Funciu d'acquazzina
In boschi di aghifoglie o misti. |
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Tricholoma focale
Tricoloma
In boschi di aghifoglie.
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Collybia butyracea Kummer
Collibia butiracea,
Collibia a cappello
latifoglie e
aghifoglie.
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Coprinus micaceus
Coprino micaceo
Funciu di fumeri
Su tronchi in decomposizione. |
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Sotto
la parvenza della bellezza e dei colori di alcuni funghi può nascondersi
l’insidia del veleno, in alcuni casi mortale; da sempre i funghi hanno
mietuto vittime tra le persone incaute che se ne sono cibate dopo averli
raccolti senza una indispensabile e certa conoscenza micologica.
Purtroppo ancora oggi si riscontrano molti casi di avvelenamento e di
morte da funghi velenosi; questo perché molte persone inesperte si
affidano a personali criteri di valutazione con i quali ritengono
erroneamente di poter conoscere e distinguere i funghi commestibili da
quelli cattivi.
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Lycoperdon perlatum
Vescia gemmata,
Funci
tabbaccari
Ubiquitario. |
Lenzites betulinus
Fungo di betulla
Funciu di lignu
Su legno marcescente di
latifoglie. |
Lactarius vellereus
Lattario vellutato
Funciu picurinu
latifoglie e
aghifoglie. |
Leucopaxillus gentianeus (Quélet)
Agarico amarognolo
In boschi di aghifoglie. |
Lycoperdon pyriforme
Vescia
Funci ri tabaccu
Su legno marcescente di
parchi e giardini. |
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Lactarius
controversus
Peveraccio,
Peverone
Funcia lattara
In boschi di pioppo.
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Trametes versicolor
Poliporo zonato, Poliporo versicolore
Funciu di lignu culuratu
Su legno marcescente di
latifoglie. |
Tricholoma saponaceum
Tricoloma saponaceo
Funciu sapuni
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Tricholoma aurantium
Tricoloma aranciato
In boschi di
aghifoglie.
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Lactarius blennius
Lattario grigio-verde
In boschi di faggio.
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Ganoderma lucidum
Ganoderma lucido, Poliporo laccato
A pipa do nannu
Su legno interrato di latifoglie. |
Amanita citrina Gray
Tignosa paglierina
Funciu di cerza
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Astraeus hygrometricus
Vescia di lupo stellata
Pidita di lupu a stidda
Ubiquitario. |
Cortinarius trivialis
Lange
Cortinario a gambo squamato
In boschi di latifoglie. |
Tricholoma ustaloides
Romagnesi
Tricoloma bruciato
In boschi di latifoglie. |
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Russula acrifolia
Russula a lamelle appressate
latifoglie e di
aghifoglie. |
Russula torulosa
Russula dal cappello rosso
Russula di zappini
boschi di aghifoglie. |
Schizophyllum commune
Schizofillo comune
Su legno marcescente di
latifoglie
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Scleroderma meridionale Demoulin et
Malençon
Scleroderma giallo
Tabacchera
In luoghi sabbiosi, |
Scleroderma verrucosum (Bull)
Scleroderma verrucoso
Tabacchera
Su terreni sabbiosi ricchi di
sostanze nutritive. |
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Phallus impudicus
Satirione
Pizzu fitenti
In boschi di latifoglie o misti.
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Pisolitus arhizus
Pisolito
Funciu tabacchera
Su terreni sabbiosi |
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False
Credenze sui Funghi
È falso ritenere che l’annerimento del cucchiaio
d’argento, dell’aglio e della cipolla mediante la cottura sia
significativo della tossicità dei funghi; può essere così per alcuni
funghi, ma ne esistono alcuni, letali, che non hanno nessuna di queste
reazioni.
È falso ritenere che i funghi che vengono mangiati
dalle lumache o da altri insetti siano di conseguenza commestibili; è
risaputo che gli animali con organismo differente dal nostro possono
cibarsi di funghi velenosi per l’uomo senza nessuna conseguenza.
È falso pensare che i funghi possano divenire
velenosi con il solo contatto con animali o piante velenose.
È falso che i funghi possano diventare velenosi
quando crescano sotto determinate piante piuttosto che altre.
È sempre falso credere che la velenosità dei funghi
possa essere rivelata dalla vivacità dei colori, dall’odore, dalla loro
viscidità, dal mutamento del colore della “carne” una volta esposta
all’aria; molti funghi velenosi e letali non hanno nessuno di questi
caratteri che al contrario possono essere riscontrati in molte varietà
commestibili.
È parimenti falso che i funghi completamente bianchi
e di sapore gradevole siano sicuramente commestibili; infatti tra di
essi troviamo l’Amanita primaverile che è uno dei funghi più velenosi e
sicuramente mortale.
È errato il metodo di far assaggiare prima i funghi
ad un animale domestico (gatto o cane) per giudicare un fungo
commestibile; questi animali hanno una sensibilità ai veleni diversa
dalla nostra.
Esistono persone che sono convinte che i funghi, una
volta essiccati, perdano le loro proprietà venefiche; niente di più
falso, anzi, con l’essiccazione i funghi perdono solo l’acqua e al
contrario ciò che resta ha una concentrazione di veleno ancora più alta.
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Paxillus involutus
(Batsch)
Paxillo a margine
involuto
Funciu' ncarcaterra
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie.
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Hebeloma sinapizans (Paulet) Gillet
Ebeloma a odor di senape
Funciu sinapu
In boschi di latifoglie o misti. |
Hypholoma fasciculare (Huds: Fr) Kummer
Falso chiodino, Zolfino
Funciu di zasa
Su legno marcescente di latifoglie e
di aghifoglie.
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Lactarius
torminosus (Sch.: Fr.) S.F.Gray
Peveraccio delle coliche,
Lapacendro
malefico
Funciu pilusu
In boschi di betulla. |
Amanita muscaria Hooker
Funciu dannusu
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie.
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VELENOSI E
MORTALI |
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Amanita pantherina Krombholz
Panterina
Funciu di cerza
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Tricholoma sulphureum (Bull.: Fr.)
Kummer
Agarico zolfino o giallo
Funci d'infernu
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Amanita phalloides (Vaill.: Fr.) Link
Tignosa verdognola
Funciu di cerza
In boschi di latifoglie e di
aghifoglie. |
Assente (finora) dal territorio etneo è
B.
satanas Lenz
(fùnciu lardaru o fùncia lardara)
rinvenuto nel siracusano e nell’ennese. Responsabile di
gravi sintomi intestinali. |
Fra i porcini, abbastanza noti e diffusi sono anche alcuni boleti
del gruppo dei
"luridi famiglia
delle Boletacee"
che, com’è noto, comprende sia specie sospette,
sia specie che, contenendo tossine termolabili, diventano eduli solo
dopo prolungata cottura e che, per tale motivo, vengono indicate, nel
vernacolo, come
fùnci di pignata (funghi da pentola).
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Boletus legaliae Pilát
fùncia lardara,
fùnciu canciaculuri
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Boletus torosus
responsabile di
buona parte delle intossicazioni da ingestioni di boleti nel
territorio
bosco misto e
castagneti
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Boletus luridus
Schaeff
fùnciu
canciaculuri (fungo che cambia colore); mussu di voi
(muso
di bue) per il colore olivastro-bruno del cappello;
presente anche
nei castagneti. Presso latifoglie, in lecceta, faggeta e
castagneto
Monte Fontana, Monte Cerasa, Milo. |
Boletus
rhodopurpureus Smotl.
Boleto porporino
russeddu
bosco misto e
castagneti, leccete e quercete.
|
Meritano particolare attenzione anche i russeddi e le
creste di gallo, in quanto
alla loro ingestione sono da imputare la maggior parte delle
intossicazioni da funghi ad imenio non lamellare che si verificano nel
territorio etneo.

Conosciamo i Funghi!
La tradizione della raccolta dei funghi è molto
radicata nella Provincia di Catania,sia in pianura che in montagna. E'
infatti un territorio ricco di ottime specie commestibili.
Fra le tante specie di funghi è però possibile
trovarne alcune non commestibili,talvolta anche velenose e
potenzialmente mortali. Sottoporre tutti i funghi raccolti al controllo degli
Ispettori Micologici dell'Azienda USL,oltre che essere accessibili a
tutti ,offre la sicura garanzia di poter gustare questi ottimi prodotti
del sottobosco in tutta tranquillità e sicurezza.
I NOSTRI CONSIGLI PER CHI LI RACCOGLIE:
Solo alcune specie di funghi sono commestibili,quindi
evitate la raccolta indiscriminata di tutti i funghi ritrovati, perchè
questo provoca un grave danno all'ambiente.
Raccogliete esemplari interi e completi di tutte le
parti necessarie alla determinazione della specie, pulendoli
sommariamente senza tagliare la base del gambo.
Non raccogliete esemplari con vermi o parassiti;varie
intossicazioni dipendono da funghi avariati.
Non raccogliete funghi in aree sospette di
inquinamento (es. discariche,strade ad intenso traffico,ecc.)
Non usate mai sacchetti di plastica per la raccolta
ma cesti rigidi ed aerati.
Se trovate funghi sconosciuti, non raccoglieteli
tutti per poi buttarli, ma prendetene pochi e fateli esaminare. Mai
fidarsi dei "presunti esperti" o di chi si vanta di "....li ho sempre
mangiati!!!".
Non superate mai la quantità massima di raccolta
gionaliera stabilita in 3 Kg.
PER CHI LI CONSUMA:
Non esistono metodi empirici per verificare se un
fungo è commestibile o velenoso.
Le prove con aglio o argento non hanno nessun
fondamento scientifico.
I funghi spontanei devono essere limitati ad un
quantitativo moderato.
Tenete presente che ogni individuo reagisce in modo
diverso di fronte ad un pasto a base di fungo.
PER IL CONTROLLO:
Tutti possono accedere liberamente al controllo dei
funghi eseguito dagli ispettori Micologici dell'Azienda USL 3:
cercatori, commercianti, ristoratori.
E' importante portare tutti i funghi raccolti.
Un campione non è sufficiente, i funghi lasciati in
casa possono contenere anche un solo pezzo di specie velenosa o mortale.
I funghi sottoposti a visita devono essere: Freschi
(non congelati, secchi o già cotti), interi, non frantumati o tagliati
nè raschiati o privi di parti essenziali per il riconoscimento, sani ed
in buono stato di conservazione.
PER CHI LI ACQUISTA:
Si consiglia di richiedere in visione la
certificazione rilasciata dall'Azienda USL nel rispetto delle vigenti
normative.
PER CONSERVARLI:
I funghi sono alimenti facilmente deperibili, quindi
conservateli in frigorifero e consumateli nel più breve tempo possibile.
Cucinateli prima di congelarli.
Per conservarli sott'olio attenetevi a scrupolose
regole di igiene e sterilizzate i vasetti per eliminare eventuale
presenza di spore botuliniche.
IN CASO DI DISTURBI DOPO IL CONSUMO DI FUNGHI COSA
BISOGNA FARE:
recatevi immediatamente al pronto soccorso al primo
sospetto o
sintomo
di malessere; portate con voi eventuali avanzi del pasto e dei funghi
consumati; non tentate"terapie" autonome; non ingerite nulla (sopratutto
alcolici); fornite indicazioni utili per l'identificazione delle specie
fungine consumate e del loro luogo di raccolta.
DOVE E DA CHI FAR CONTROLLARE I FUNGHI
SPORTELLI MICOLOGICI
L'Ispettorato Micologico dell' Azienda U.S.L. 3 è
stato attivato nell'Ottobre 2003 ed ha carattere stagionale con aperture
al pubblico, orientativamente, da Marzo a Giugno e da Settembre a
Novembre.
Le sedi presso le quali è possibile procedere a detto
controllo sono indicate nella successiva tabella secondo i seguenti
orari:
Contestualmente è stata già riattivata la
reperibilità presso i Pronto soccorso ospedalieri per gli eventuali casi
di intossicazione da funghi spontanei.
A tal proposito si ricorda ai cittadini che, ove
possibile, per agevolare il riconoscimento dei funghi responsabili di
intossicazione, è sempre consigliato portare con sé i residui di funghi
crudi e/o cotti.
I micologi aziendali garantiranno, in collaborazione
con i 58 Comuni della Provincia, il regolare espletamento dell’attività
di vigilanza sia sulle vendita di funghi (in occasione di sagre e
similari) sia presso i ristoranti.
L’Ispettorato assicurerà presso i singoli sportelli
micologici, i seguenti servizi:
- esame di commestibilità dei funghi freschi
spontanei raccolti da privati ad uso proprio (a titolo gratuito);
- rilascio certificazione commestibilità dei funghi
freschi spontanei destinati alla vendita al dettaglio, ivi compresi
quelli destinati alla ristorazione pubblica (previo pagamento di 1,00
euro per chilogrammo su c/c 49436850 ASP Catania – causale “diritti
sanitari ispettorato micologico”).
Al fine di favorire
il rilascio di certificazione per i funghi destinati alla vendita e ai
ristoranti, si ricorda che i venditori, in possesso di certificato di
abilitazione alla vendita, potranno acquistare presso le sedi
dell’Ispettorato micologico (previo pagamento del corrispettivo tramite
c/c postale 49436850 ASP Catania – causale “diritti sanitari ispettorato
micologico”) blocchetti del valore di euro 10,00 50,00 e 100,00.
Ogni blocchetto è
composto da 10 buoni da utilizzare frazionatamente per il pagamento dei
diritti sanitari con notevole risparmio di tempo e semplificazione della
procedura.
Ai sensi della
vigente normativa nazionale (L. 352/93 e DPR 376/95) e della Legge
regionale n. 3 del 1° febbraio 2006, possono vendere funghi spontanei
esclusivamente i commercianti in possesso di certificato di idoneità
alla vendita per le singole specie di funghi, riportate sul certificato
(che il commerciante è tenuto ad esibire su richiesta dell’acquirente),
e tutti i funghi in vendita devono essere preventivamente certificati
dai micologi aziendali.
Esame per
abilitazione alla vendita di funghi spontanei
L’esame per
l’abilitazione alla vendita di funghi spontanei si terrà in data 4
settembre 2015 alle ore 9.00 presso l’aula del Dipartimento di
Prevenzione Medico del’ASP, sita a a S. Gregorio in via Tevere n. 39
Raccomandazioni per
i consumatori
Si raccomanda a
tutti i consumatori di richiedere al venditore di esibire il certificato
di abilitazione alla vendita e soprattutto di acquistare esclusivamente
funghi in possesso della certificazione dell’Asp. Tale certificazione
infatti garantisce la commestibilità dei funghi e riporta altresì la
data entro la quale gli stessi vanno tassativamente consumati.
L’Ispettorato
resterà aperto fino al 30 novembre per riaprire successivamente, in base
alla stagionalità, nel periodo primaverile.
SEDE
CENTRALE ISPETTORATO
(EFFETTUA ATTIVITÀ
DI COORDINAMENTO MA NON DI CONTROLLO MICOLOGICO)
Via Tevere n. 39
Cerza S. Gregorio tel 095-2540167/114/122 fax 095/7170179
SPORTELLI
MICOLOGICI
Tutti gli
sportelli micologici saranno aperti dal martedì al venerdì dalle ore
8.00 alle ore 9.00.
Tutti i lunedì e i
giorni successivi ad un festivo dalle ore 8.00 alle ore 10.00
Gli utenti potranno rivolgersi ai micologi dell’Asp
Catania il lunedì (e i giorni successivi ad un festivo) dalle ore 8.00
alle ore 10.00 e dal martedì al venerdì dalle ore 8.00 alle ore 9.00.
Nei mesi di ottobre e novembre saranno previste (e
successivamente comunicate), come negli anni precedenti, anche delle
aperture straordinarie nei fine settimana del periodo di maggiore
produzione spontanea
Caltagirone P.zza Marconi, 2 0933/57345 0933/353016
S.Gregorio – Cerza Via Tevere, 39 095/2540122-157-114
Giarre Via Don Minzoni, 1 -4° p. 095/7794556
095/7791898
Licodia Eubea Via Marconi, 1 095/7170179 0933/963006
Mascalucia Via Regione Siciliana,12 095/7502103
095/7502104
http://www.salvatoresaitta.it/
http://www.funghiemicologia.com/
http://www.fungaiolisiciliani.it/
http://www.etnanatura.it/funghi/

pappardelle porcini e
panna
continua.......
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LEGUMINOSE
foto di
Francesco Raciti
La
piccola grande frutta "dimenticata"
Facci
bedda, Lappiuni, Mela Ruggia, Romaneddu, Gelato Cola, Cirino,
Nuntagnisi, Barriato, Rotolo. Sono tutti nomi di varietà di mele
dell'Etna.
Frutti sconosciuti o, nella migliore delle ipotesi dimenticati e
introvabili, che non trovano posto sugli scaffali
dei supermercati. Mele piccolissime ed enormi, come il Rotolo
dall'antica unità di misura il "rotolo" (circa 800 gr.) che
sarebbero già estinte se la caparbietà di piccoli produttori non le
avesse resuscitate al gusto dei più curiosi. Frutta che, finora,
esisteva solo nel ricordo dei più anziani e che, invece, meriterebbe un
posto d'onore nelle produzioni tipiche dell'Etna.
La signora Agata Cristaldi coltiva da anni queste mele assieme a suo
marito Alfio Zappalà. "Alcune sono bellissime - dice con un
pizzico d'orgoglio - nella piazzetta del Castagno dei centro cavalli a
Sant'Alfio - per esempio il tipo Romaneddu sulla pianta è uno
spettacolo, sembra un albero di Natale, perché ogni ramo ha queste
meline a grappolo, il ramo quasi non si vede.

Sono belle da vedere e da mangiare". Da venticinque anni, da quando
si sono sposati, Agata e Alfio Zappalà hanno testardamente voluto
salvaguardare questo tipo di alberi da frutto. "Una volta non
avevano mercato - ricorda lei - oggi però c'è una riscoperta. Molti
compaesani hanno seguito il nostro esempio e la gente sta cominciando a
comprendere il valore di queste mele".
Piante
spontanee o coltivate questo tipo di frutta è, spesso tipica della
stagione autunnale. Profumati, dai colori caldi e dai nomi originali:
mele Cola, mele cotogne, pere spinelle, 'nzalore, sorbe, uva fragola,
senza dimenticare nocciole (quelle dell'Etna sono ormai una vera
rarità), melagrane e marroni la ripresa d'interesse verso i frutti di
un tempo è rivolta anche al recupero di antichi metodi di
conservazione, lavorazione e consumo alimentare e si sposa benissimo con
la ritrovata ricerca di un cibo che sia quanto più espressione del
territorio.
Ma perchè queste coltivazioni sono andate perdute?
"La frutta dimenticata non si presta alla distribuzione logistica
del mercato ordinario ma a quello del mercato locale - risponde Antonio
Coco, anima della "Fera Bio" ai Benedettini - ormai molte cose
sono purtroppo irrimediabilmente perdute, non ci sono più neanche nel
nostro repertorio gustativo. Io solo ricordo il sapore delle pere che
raccoglievo d'inverno su un cratere vulcanico dell'Etna, pere che
crescevano solo lì, ma la maggior parte delle persone non conosce più
le mele Gelato Cola. Questo discorso vale non solo per la frutta ma
anche per alcune varietà di grano, è un discorso complessivo di
erosione genetica".
"Noi abbiamo riconvertito le produzioni agricole per coltivare
ecotipi locali - spiega Carla La Placa, alla guida un agriturismo in
provincia di Enna - come la cicerchia di Aidone. Certo, sarebbe stato
molto più semplice comprare prodotti surgelati, aprire le buste e
gettare tutto nell'acqua calda, ma la nostra scelta è stata quella di
privilegiare il territorio e fornire una vetrina dei prodotti locali. Ci
costa molto di più in termini di lavoro, dalla coltivazione alla
cucina, ma è una fatica che viene ripagata - soprattutto tra i turisti
stranieri - dai quali abbiamo i maggiori riconoscimenti
Carmen Greco - La Sicilia del 16.10.2012

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Le
pesche tabacchiere della Piana di Catania (Francesco Racit)i
La
pesca tabacchiera è chiamata così per via della sua caratteristica
forma appiattita ed è una varietà di pesca tipica della Sicilia. E’
molto apprezzata per la sua polpa dolce e morbida e per il suo profumo
molto intenso. A lungo è stata di produzione piuttosto limitata, anche
perchè la sua eccessiva morbidezza la rendeva praticamente
intrasportabile.
Oggi la sua disponibilità sui mercati è maggiore e ciò è dovuto
anche ad una serie di incroci che il frutto ha subito, iniziati una
quarantina di anni fa, per migliorarne la commercializzazione.
In questo modo si è ottenuta la pesca Ufo, con polpa consistente ed un
sapore dolce che si ha anche quando il frutto non è completamente
maturo. Esistono a polpa bianca o gialla ed oggi sono coltivate
soprattutto nelle Marche, anche se, vista la grande richiesta, possono
anche essere importate dalla Spagna.

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