Cosa c'entra un sito marca Liotru con la Puglia? In effetti si tratta del mio tour fotografico durante il viaggio in quella regione nell'estate del 2005.

Potevo semplicemente pubblicare le immagini dove stava scritto "qui sono a .... ", ma non mi bastava. Siccome, per natura, non riesco ad essere banale e visto che questo sito non si chiama Puglia-Vacanze.it ma mimmorapisarda.it, l'ho trasformato in uno Speciale. Quindi, oltre alle foto scattate dal sottoscritto ho aggiunto "qualcosina" di questa bella terra facendo, al contempo, sorbire al visitatore anche i motivi di questo viaggio  ... dove si capirà perchè ...."c'entra". 

 

 

 

 

 

Io sono per metà catanese e per metà tarantino, quindi mezzo pugliese.
Di quella bellissima terra conservo nei miei ricordi le estati dell'infanzia, i bagni sulla spiaggia di San Vito, le  orecchiette con le cime di rape, la prima fidanzatina, i frutti di mare che Donato pescava e la passione per il mare che mi ha trasmesso quel vecchio Capitano di  mio nonno.

Istruttore di canottaggio, era molto conosciuto e rispettato da tutti per la sua correttezza, signorilità, lealtà e bontà d'animo. Ma soprattutto per la sua generosità, che era proverbiale: quando andava al mercato acquistava la stessa spesa presso due commercianti diversi, per non far torto a nessuno dei due!

Lo ricordo ancora quando la sera, davanti al televisore, sfidava il colonnello Bernacca sulle previsioni meteo dell'indomani. Quelle sue erano tutte sballate, ma aveva quasi sempre ragione! 

Le estati si passavano a Taranto con i nonni materni, ma soprattutto con lui. Anzi, le passavo attaccato a lui come una cozza. Quando arrivava il momento di ritornare in Sicilia era una pena perchè allagavo l'auto di famiglia del mio pianto, uno tsunami di lacrime che ci spingeva fino a Catania. In compenso ero carico carico di amore per il mare che lui mi metteva in valigia: ancorette, stemmini militari, cappelli da marinaio.

Il suo aspetto, ma anche il suo modo di essere, ricordava Il vecchio e il mare di Hemingway...."Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare .......". Quando ero con lui mi sentivo Manolo accanto a Santiago. https://www.mimmorapisarda.it/2022/221.jpg

Aveva un portamento regale, un paio di baffi da ammiraglio in un corpo possente, una camminata ammaccata che ricordava Spencer Tracy ed emanava calorosa bontà da ogni poro della sua pelle, dura e corrucciata come quella di un marinaio. Affondare le mie mani nel suo torace, avvolgermi fra le sue braccia, cercare nel sonno le sue spalle larghe come il ponte di una nave significava risalire in coperta dopo la mareggiata nel porto dei miei sogni, rappresentava un accogliente e sicuro rifugio dopo aver attraversato un mare forza otto sul cuscino. In parole povere, come per qualsiasi bambino, per me quella figura era decisamente una favola, un libro di avventure sempre a portata di mano, perennemente aperto. E sfogliarne le pagine era meglio di una lettura di Salgari!

Più stavo con lui e più cresceva in me l'amore per il mare. Osservavo attentamente le sue mani che erano bitte, le sue mascelle timoni, le sue braccia tatuate di sirene come due ancore, gli occhi erano un albero di trinchetto e il suo sorriso un boccaporto dal quale uscivano le storie più fantastiche: tempeste in mezzo al mare con onde alte  (lasciamo stare i metri....), guerre mondiali, nemici austriaci, murene lunghe così...... quante storie mi ha raccontato, quanti incrociatori colati a picco solo con le parole! Ma a bordo, dentro di lui, esisteva una stiva eccezionale perchè conteneva un cuore e un coraggio così grandi, ma tanto grandi che fu anche decorato per il suo valore: salvò due marinai in mare durante una burrasca al porto e quando gli alleati bombardarono le corazzate italiane a Taranto, in mezzo a quel girone dantesco che era Mar Piccolo c'erano lui e la sua barca per recuperare i marinai italiani. 

Avevo una gran nostalgia di rivedere i luoghi della mia adolescenza, risentire odori che ristagnavano soltanto nella mia immaginazione; volevo riascoltare i battiti del mio cuore mentre calpesto la sabbia di Viale del Tramonto e verificare se oggi palpiltavano alla stessa velocità di allora. Quella sabbia è a San Vito, magica spiaggia abitata dal dio Nettuno che ebbe anche la fortuna di ascoltare le storie di un indimenticato e leggendario Lupo di mare chiamato Zi' Cilluzzo, mio nonno, che quando se ne andò i tritoni e le sirene di quella baia incantata smisero di cantare e suonare per rendergli omaggio. Da quel giorno tutto cambiò, quel luogo non è più lo stesso e, a parte quello che scrivo in calce, assieme a lui se n'era andata dentro di me la voglia di ritornare in quei luoghi.

Ma era passato tanto, troppo tempo. 23 anni! Troppi! E poi la mia conoscenza della Puglia si limitava alla città jonica, non conoscevo altro, non sapevo niente della mia terra d'origine. Uno dei motivi perchè ho fatto questo viaggio, a parte gli amici che mi aspettavano a Barletta, con i quali condivido una passsione musicale.

Ho fatto base a Taranto e poi, parafrasando una vecchia canzone, via sulla strada di Pescara, assalito dai parenti ingordi (eccolà qui quella passione musicale) che non volevano lasciarmi andare e che si sentivano di fottere (*). Ma scaricai le mie pistole a salve, regalai le mie parole ai sordi e sono partito per conoscerla davvero la mia seconda terra.
Un po' di giorni "on the road" da solo: Porto Cesareo, Nardò, Gallipoli, S. Maria di Leuca, Castro Marina, Porto Badisco, Santa Cesarea, Otranto, Ostuni, Lecce, Barletta, Trani, Castel del Monte, Alberobello, Castellaneta, Martina Franca, Matera, Metaponto. Insomma, mancava solo Padre Pio e il tour era completo.
Con tanta musica che mi faceva compagnia, percorrevo i miei chilometri in quei paesaggi simili alla Grecia, cantando e saltando sulle canzoni ad alto volume e torturando il volante come un tamburello, con pezzi appropriati per l'occasione: quelli di Jhonny Cash, Eagles, Guthrie, Dylan, Supertramp, Rolling Stones, CSN &Y e, naturalmente, tutto lo scibile degregoriano!

A torso nudo, coi finestrini aperti che facevano volare mappe e cartine, che facevano entrare il rumore di grilli in amore e un forte odore di menta e di rucola selvatica, mi sentivo come un Ulisse in terra salentina.

Sigarette e rutto libero, la terra rossa, ulivi e case bianche a sinistra e il mare azzurro a strapiombo a destra, scoprivo ad ogni curva qualcosa di nuovo meravigliandomi ad ogni tornante e come i bambini fare "Oohhh!". Lasciandomi lo Jonio alle spalle, passavo direttamente all'Adriatico (col sole che cambia da ovest ad est) solcando coi pneumatici l'atlante geografico nell'arco di un minuto.
Da solo nel mio itinerario, senza pensare se andasse bene la meta, il ristorante, la zona, l'aria condizionata, il fumo.  Conoscere gente che mi diceva "mi sento di fottere" (*), dormire, mangiare, girare e fermarmi quando volevo, dove volevo e quanto volevo, senza chiedere pareri. 
In quei giorni mi è sembrato di volare. E' una cosa che consiglio di fare a tutti. Solo ogni tanto, fa bene alla salute. A me ha fatto bene. A Catania, prima di partire, gli amici mi dissero "Dai, dicci la verità, la Puglia è una scusa. Chi ti aspetta a Cuba, in Brasile, o a Santo Domingo? Beato te, posso venirci pure io?".

A Trani sono stato ospitato da un mio cugino tarantino. Una sera, passeggiando con lui, mi fa vedere la sua vecchia casa affacciata sul porto e mi dice "Guardando quella finestra mi sento di fottere" (*)". 

Ho pensato "oh, ma qui sono tutti mandrilli!" Chissà quali notti d'amore consumate in quella casa, oggetto dei ricordi del parente! Cugino, invece non dimenticherò mai quella birra gelata sul lungomare, alle due di notte, bevuta accanto a due tranesi che parlavano fra loro. Tu stesso, che sei pugliese, non avevi capito una mazza!

L'indomani incontro a Barletta la mia amicona Pippina, quasi una sorella. Il tempo di cogliere al  volo lo scatto di un originalissimo  manifesto elettorale prima di ammirare la galleria del grande De Nittis al Castello. Poi a pranzo a casa sua per gustare la famosa  parmigiana assieme a sua figlia Serena e a Franco, il suo prezioso (certifico!) marito. 

La sera concerto di Francesco De Gregori al Fossato assieme ad altri amici (uno dei motivi). Mentre Francesco suona si accorge che sotto il palco ci siamo io e Pippina e ci fa un gesto come per dire "che cacchio ci fate qui?". Grande concerto! Il Principe si toglie la corona e indossa un'armatura di note trasformandosi per una notte in Ettore Fieramosca, capitano di ventura per una serata in quel di Barletta, luogo di una famosa disfida fra italiani e francesi. E per quella volta è lui l'eroe di Barletta, è lui che con la sua musica fa vibrare i torrioni del castello, fa scricchiolare le feritoie, fa traballare le corazze nel maniero al suono della sua armonica quando canta Rimmel.

Beh, il resto del viaggio sono chilometri, cozze pelose, iavatun, friselle, focacce terzarule e pane di Altamura, pesche grosse come cocomeri, svariati torcicolli causati dalla bellezza delle donne pugliesi, il piacere di rivedere persone care, i miei cugini ormai coi capelli brizzolati e che invece immaginavo ancora bambini. E poi spirito d'avventura, scariche di adrenalina, emozioni e una vocina (che mi scandiva in testa puntuale come lo sciroppo per la tosse) che continuava a ripetermi "Ciao uomo, dove vai?".

Un Grazie a tutti. Un viaggio che mi ha permesso, appena in tempo, di aggiungere al titolo di questa pagina due paroline finali scritte in basso.

Infine, ... un'altra cosa che descriverò in fondo, dopo la galleria fotografica del tour.

 

 

 

INDICE

 

 

Metaponto-Matera

Martifranca-Taranto

Laterza-Alberobello

Gallipoli-PortoCesareo

S.Maria di Leuca-Castro

Porto Badisco - Otranto

Lecce - Ostuni

Barletta-Trani - Castelmonte

LA CUCINA LA MAGNA GRECIA IL TACCO D'ITALIA LA MUSICA
PUGLIESI FAMOSI TUTTE LE FOTO LINKS PUGLIA

 

 

 

 

 

Il Metapontino, la California d'Italia

 

 

METAPONTO - Tavole Palatine

METAPONTO - Tempio di Apollo Licio

METAPONTO - Bovini in allevamento

Metaponto, cuore dell’antica Magna Grecia, venne fondata nella metà del VII secolo a.C. . Verso la fine del secolo successivo divenne la patria del più grande filosofo e matematico greco: Archimede Pitagora, le cui spoglie sono sepolte presso il Foro delle Muse. Dell’antico splendore sopravvivono le Tavole Palatine - 15 delle 32 colonne - del tempio dorico dedicato alla dea Hera. La leggenda vuole che sotto una di esse sia sepolto Epeo il costruttore del cavallo di Troia.

Fra le località che si affacciano sullo Jonio è certamente la più conosciuta e non solo in Italia. Il richiamo marino e il verde della lussureggiante pineta - che si estende parallelamente alla spiaggia per oltre 30 km. si integrano in modo naturale con il richiamo archeologico.

Denominato la "California del Sud" per la fiorente agricoltura che qui si è sviluppata, la Pianura Metapontina è oggi il fiore all'occhiello dell'economia lucana. Da queste terre partono per l'Europa e per tutta Italia quantità enormi di frutta e ortaggi che, grazie a un clima costantemente mite, sulla costa jonica la bella stagione inizia a fine marzo e termina ai primi di novembre, maturano con circa uno o due mesi di anticipo rispetto alle coltivazioni di pianure più a nord.

Lido (5) da te.

METAPONTO - Lido di Metaponto

METAPONTO - Stazione

METAPONTO Castello di Torremare

Metaponto, nel comune di Bernalda, è stata concepita negli anni '60 proprio per le vacanze. La zona del lido si è sviluppata tra le foci del Bradano e del Basento.
Caratteristico è il luogo della stazione ferroviaria, proprio perché in passato era una masseria fortificata.

Il Lido di Metaponto, una delle principali località turistiche della costa Jonica, offre al turista una vacanza completa ed organizzata sotto ogni dettaglio. Si può scegliere tra campeggi, hotels o ville-vacanze, in tutti i casi posti a poche centinaia di metri dalla spiaggia e dai lidi. Durante le ore serali il lungomare si trasforma in un luogo illuminato in cui passeggiare tra bancarelle occasionali, pizzerie e gelaterie.

II complesso di Torredimare, che sorse sul versante occidentale dell'antica Metaponto, la cui area con quella della "Siritide" veniva a comprendere la "Magna Grecia" lucana. Si tratta di una masseria-casale che nel medioevo assurgerà ad una tale importanza strategica, nonché di sviluppo agricolo-commerciale. La successiva e letale azione della malaria endemica e la peste nel 1656-57 ne faranno quasi un deserto, così innescando un'irreversibile involuzione da florida e rigogliosa "civitas" a borgata pressoché disabitata. Persistono ancora, malgrado tutto, alcune strutture superstiti individuati nella piccola chiesa di S. Leone.

MATERA - I Sassi

MATERA - I Sassi

MATERA - I Sassi

I Sassi sono davvero un "paesaggio culturale", per citare la definizione con cui sono stati accolti nel Patrimonio mondiale dell'Unesco. Il Sasso Barisano, girato a nord-ovest sull'orlo della rupe, se si prende come riferimento la Civita, fulcro della città vecchia, è il più ricco di portali scolpiti e fregi che ne nascondono il cuore sotterraneo. Il Sasso Caveoso, che guarda invece a sud, è disposto come un anfiteatro romano, con le case-grotte che scendono a gradoni,e prende forse il nome dalle cave e dai teatri classici. Un paesaggio in parte invisibile e vertiginoso, perché va in apnea in dedali di gallerie dentro la pietra giallo paglierino del dorso della collina, per secoli difesa naturale e ventre protettivo di una città che sembra uscita dal mistero di una fiaba orientale."Grotte naturali, architetture ipogee,cisterne, enormi recinti trincerati, masserie, chiese e palazzi, si succedono e coesistono, scavati e costruiti nel tufo delle gravine" scrive Pietro Laureano nel suo libro Giardini di pietra.

La descrizione di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli evoca uno spalancare d'occhi: "Arrivai a Matera verso le undici del mattino. Avevo letto nella guida che è una città pittoresca, che merita di essere visitata, che c'è un museo di arte antica e delle curiose abitazioni trogloditiche. Ma quando uscii dalla stazione, un edificio moderno e piuttosto lussuoso, e mi guardai attorno, cercai invano con gli occhi la città. La città non c'era. Allontanatami ancora un poco dalla stazione, arrivai a una strada, che da un solo Iato era fiancheggiata da vecchie case, e dall'altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera".

Nelle case-grotte, la luce arriva dall'alto come in una casbah nordafricana, e la temperatura è costante a 15 gradi, con la massa termica del tufo marino che funziona da climatizzatore. Se i raggi del sole d'estate, perpendicolari e roventi, rimangono fuori, d'inverno, obliqui, scivolano sul fondo delle grotte.  Ma la discesa nei Sassi è una sorpresa continua. Tra viottoli e gradini si arriva in formidabili complessi monastici scavati nella roccia, Cenobi benedettini e laure bizantine, in cui le celle di monaci si stringono intorno a una chiesa sotterranea.

Mel Gibson, mentre percorreva le rampe e i passaggi che s'inoltrano labirintici nei Sassi di Matera, alla ricerca degli angoli giusti per installare i set delle riprese per il suo La Passione di Cristo, perse - parole sue - la testa. Per un australiano, cresciuto come attore e regista al sole di Hollywood, le ombre delle case che dopo l'ingresso diventano grotte, "quei blocchi di pietra, le parti della città antiche di 2000 anni", erano estranee alla modernità e quindi perfette per ambientare il film sugli ultimi giorni di Gesù.

 

 

 

 

 

TARANTO - Mar Piccolo - Base Militare Marina

TARANTO Vecchia - venditori di cozze

TARANTO - San Vito - Viale del Tramonto

Un’isoletta, la «Città vecchia» e la terra ferma, la «Città nuova»,un mare, quello «Piccolo», protetto e racchiuso da due penisole a formare un bacino, separato da un altro mare., quello «Grande», definiscono storicamente e geograficamente una delle più interessanti e laboriose città del nostro sud: la latina Tarentum, la nostra Taranto,ricca città della Magna Grecia. Proiettata sul mar Ionio, che da sempre è stato un’importante via marittima di scambi economici e culturali tra due civiltà, quella romana e quella greca, la Città di Taranto deve la sua origine, secondo la tradizione, a coloni ellenici di origine spartana o, forse, ancor prima, a coloni Pelasgi, efficienti e validi lavoratori del ferro (chissà se le moderne attività metallurgiche di Taranto derivano proprio da quel popolo?).
La Città Vecchia divenne isola quando fu realizzato il canale artificiale che la separa,ad Est, dalla penisola salentina a protezione del castello Aragonese, storica roccaforte,che, insieme al Ponte Girevole è il simbolo di Taranto. La Città vecchia fu completamente distrutta dal devastante intervento dei Saraceni nel 927. Dopo tale esperienza la ricostruzione seguì un criterio basato esclusivamente sulla difesa del territorio abitato per impedire un’eventuale invasione, impostando un disegno urbano elementare ma complesso, a passo d’uomo, che ancora oggi è visibile.
Attraggono il visitatore le anguste, tortuose e intricate stradine, gli stretti vicoli che,anche a scalinate, degradano verso il Mare Piccolo a formare un tessuto viario labirintico,ove, volutamente, proprio per meglio difendersi dalle non rare incursioni nemiche tra una casa e l’altra, a malapena, transita una persona. Circa mille anni fa tutti quanti abitavano in quegli spazi ristrettissimi:pescatori, marinai, artigiani, mercanti e negozianti, racchiusi in luoghi dove i raggi di sole sembravano solo una speranza. Il quattrocentesco Castello Aragonese, massiccia struttura muraria con quattro torrioni a cilindro,che si affaccia a guardia e a emblema di Taranto sul Mar Grande,è un’opera voluta a difesa della Città da Ferdinando d’Aragona che ne affidò la costruzione a Francesco di Giorgio Martini,grande esperto di edilizia e architettura militare, libero sperimentatore di nuove forme di difesa alla corte di Federico dei Montefeltro. Il Castello, edificato su precedenti strutture fortilizie bizantine, ha avuto nel tempo diverse destinazioni.

 

TARANTO - Baia del Pescatore

TARANTO - Lido Gandoli

TARANTO - Ponte girevole

È nota la strategica importanza di Taranto quale base navale della nostra Marina che trova riparo nel bacino del Mar Piccolo dominato dal famoso Ponte Girevole, inaugurato il 22 maggio del 1887, il cui funzionamento e sicurezza sono affidati al personale della Marina Militare. Il Ponte è considerato dai marinai che vi transitano, la «porta di casa». Non è raro, infatti, osservare lungo le sponde del breve canale navigabile che congiunge i due Mari, la presenza di familiari nell’attesa dell’arrivo o della partenza di unità della marina, per salutare o accoglierei marinai allineati a bordo; è un momento di vita marinara che sa di affetti, di trepidazioni e, in modo particolare, di quanto il cuore dei tarantini viva con la nostra Marina e partecipi ai suoi eventi. Infatti, non solo i parenti corrono lungo il canale, nelle varie occasioni più o meno importanti: sono tutti i cittadini di Taranto che si fanno testimoni, senza retorica, con vero slancio fatto di riconoscenza e di amor patrio.

Il Ponte Girevole è una mirabile opera dell'ingegneria navale. Al tempo della prima invasione dei Saraceni, i tarantini tentarono di scavare in questo punto, un fosso per difendersi dai nemici. Ferdinando I d'Aragona lo fece approfondire ed ingrandire quando i Turchi, assediata Otranto nel 1480, minacciavano di assalire Taranto. Filippo II lo rese navigabile; Ferdinando I di Borbone lo migliorò e alla parte nord fece costruire un ponte che fu detto "Ponte di Porta Lecce". Ma era riservato alla meccanica moderna di rendere questo canale atto al passaggio delle nostre superbe corazzate e ad unire la città vecchia con quella nuova, mercé un ponte girevole. Il gran ponte in ferro misurava 86.4 metri di lunghezza e 6,7 metri di larghezza. Quando qualche nave doveva entrare nel Mar Piccolo o uscirne, il ponte si apriva per forza idraulica in due bracci che giravano su se stessi. Fu costruito per conto del Ministero della Marina, sotto la direzione del Genio Militare locale. Demolito, fu rifatto con criteri e mezzi moderni tra il 1957 e il 1958 e edicato a San Francesco di Paola, patrono della gente di mare.

TARANTO - San Vito - Viale del Tramonto

TARANTO - Viale Virgilio

TARANTO - Mar Piccolo

Taranto mostra la sua sensibilità e l’attaccamento alle sane antiche tradizioni, rinnovando ogni anno i riti della Settimana Santa;unico nello svolgimento, quest’evento,una pubblica manifestazione di fede, si conclude con la solenne processione del Venerdì Santo che parte dalla Chiesa di San Domenico e, portando le statue che simboleggiano la passione, procede per le strade del «Borgo Umbertino». La processione è preceduta dai «Perdúne»: nel pomeriggio del Giovedì Santo coppie di confratelli della Confraternita del Carmine escono dalla loro Chiesa, una delle più belle e più amate della Città e a piedi nudi, indossato l’abito con fraterna le, effettuano un lento pellegrinaggio verso le principali chiese dove sono allestiti i sepolcri.
Non bisogna dimenticare, nel quadro delle cose notevoli di Taranto, l’altro Ponte: il Ponte di pietra di Sant’Egidio, il cui primo impianto risale al periodo bizantino; più volte ricostruito e modificato, congiunge alla terra ferma l’altro lato «dell’isola».
La cattedrale, poi, fu edificata arretrata rispetto al mare, per essere meglio difesa da incursioni nemiche. La sua facciata è un felice esempio di architettura romanica,che contrasta, ma non rifiuta, il mirabile insieme di decorazioni barocche presenti all’interno. Notevole è la Cappella di San Cataldo, Santo al quale è dedicato il Duomo di Taranto che è sormontata da una cupola semiellittica, il cosidetto «cappellone», completamente affrescata nel 1700 da un artista napoletano.

 

 

LA MIA TARANTO DI UNA VOLTA

Spesso si tornava a Taranto in estate per vedere i parenti e gustarne le bellezze marine e dei dintorni. La prima volta andammo a San Vito, in una villetta vicina al mare, ma ero troppo piccolo per ricordare qualcosa.  Era estate, tempo di mare, di sole, di bagni. Le belle spiagge della litoranea  (Lama, San Vito e Lido Bruno)  erano prese d'assalto dai bagnanti che cercavano refrigerio tra le onde e facevano a gara per l’abbronzatura più scura. Una volta, fino agli anni '50, gli stabilimenti balneari più frequentati erano situati in città e sulla strada per capo San Vito In quegli anni in alcuni bagni era possibile noleggiare la barca a remi per allontanarsi dalla riva. Molti ragazzi allora ne approfittavano per mangiare l'anguria (lasciata in acqua a raffreddare) al largo o per cimentarsi in furiose battaglie a colpi di cappelli di prete(così erano chiamate le grosse  meduse che hanno appunto tale forma). Chi non aveva il salvagente suppliva con una grossa camera d’aria gonfiata a dovere. Ritornai con papà  nella città capitale della Magna Grecia nell’estate del ’57: Il viaggio durò a lungo  ma una volta arrivati alla stazione respirammo a pieni polmoni l’aria profumata e salmastra del mar Ionio, che è lì proprio davanti alla stazione. Prendemmo la carrozza scoperta, che chiesi invece di un taxi, visto che le auto  allora avevano un nauseabondo odore di vinile e benzina, stanchi ma felici. Il cocchiere faceva trottare lestamente il cavallo per le strade poco trafficate, attraversammo il ponte di barche (il nuovo girevole, che sostituisce il vecchio ottocentesco ponte era in costruzione) per giungere infine a casa dei nonni in Via Anfiteatro.

Conoscevo bene l’indirizzo, che diverse volte avevo scritto sulle buste della lettera per i nonni e che leggevo con l’acquolina in bocca. Se vedevo il  mittente sui pacchi con i piombini e la cera lacca, erano i preziosi plichi che contenevano dolci di mandorla, fichi secchi e pecorelle di pasta reale, con la bandierina sulla schiena, che c’inviava spesso la cara nonna. Ci accolse, una volta saliti per le scale, zia Lidia, vociante e calorosa, poi salutammo i nonni e gli zii Tonino e Mario ed il nero e rumoroso cane Bull.  Il nonno era ormai anziano con  bianca lanugine sul viso e si aiutava con il bastone, la nonna stava spesso al balcone su una sedia ed osservava le gente passare per la via, facendosi un po’ d’aria nella torrida estate con un  antico ventaglio.  In casa c’era già la TV e per la prima volta in quella occasione vidi il celebre mago Zurlì, Il mago del giovedì. Quando la nonna usciva, spesso incontrava qualche ex allievo che, riconoscendola l’abbracciava calorosamente. Per lo “struscio” nelle strade centrali della città come via d’Aquino e via di Palma si vedevano passare festanti molti marinai italiani ed americani, con le loro candide divise, sul berretto si leggeva il nome della nave, al largo si intravedevano ormeggiate le navi militari delle forze USA.

A Taranto vecchia si vedevano per la strada molti ragazzi scalzi, venditori di pesce e cozze oltre ai pescatori che riparavano le reti. Dai bordi del canale  si scorgevano le navi militari con i marinai in coperta sugli attenti. I ristoranti tradizionali della città offrono una cucina leggera ma gustosa, che combina sapientemente i frutti di mare con i prodotti della terra, conditi con l'ottimo olio extravergine d’oliva tarantino . Piatti tipici come i cavatelli con le cozze, il risotto ai frutti di mare, il polpo ed il pesce alla griglia, sono accompagnati da saporiti ortaggi crudi o cucinati nei modi più vari: i pomodori, i peperoni, le melanzane, i carciofi ed i legumi sono particolarmente saporiti.

Da non dimenticare le orecchiette le chiangarèdde con le cime di rapa o al ragù, le mozzarelle e le provole fresche, o gli involtini di vitello e i fegatini alla brace, accompagnati con i vini del territorio (Aleatico di Puglia, Lizzano, Martina Franca , Primitivo di Manduria ).

Arance, mandarini, clementine, uva, fichi e angurie e  melloni bianchi non mancano mai sulle tavole imbandite, come i dolci di miele ed in pasta di mandorle, o i più tipici Carteddàte, Sannacchiùdere e Pettole, fichi secchi, leccornie preparate nell'occasione di particolari festività o ricorrenze.

 

 

Vicino al Mar Piccolo si trovavano molti ristoranti e pescherie  tipici,  quali “Cicce u’ gnure”,”Il Ponte” ,“il Gambero”,  “Il Ponte” specializzati nella pregevole ricca cucina tarantina, con piatti prelibati in gran parte a pesce e mitili. Ricordo; “i lambasciuni”,  zuppa di cozze, spaghetti di frutti di mare alla tarantina,  fave bianche, le verdure fresche, e gli squisiti dolci alla mandorla di “pasta reale” A ferragosto si andava nel paese di Carosino, che ospita ogni anno in agosto una nota Sagra e mostra-mercato del vino, occasione in cui dalla fontana della piazza principale era fatto zampillare vino, che è  gratuito per tutti i presenti, che possono attingere al rosso liquido con bicchieri di carta. Zio Tonino guardava incantato, entusiasta di tutto, ci fornica accurate spiegazioni ed esaltava i panorami incantevoli, il mare e le qualità gastronomiche della città.

I tarantini ed i miei parenti in particolare sono cuochi eccellenti e preparano per gli ospiti piatti eccelsi quali: antipasto di cozze, spaghetti alla tarantina, o chiancaredde al sugo di pesce, pasta al forno con la besciamella, qualche sarago arrostito o triglie, un po’ di melanzane con il formaggio fuso, un grappolo d’uva, fichi e melone bianco. Il tutto è annaffiato da vino bianco di Martina Franca o di Locorotondo ed una buona dose di dolci alla mandorla e ricotta per concludere D’estate lo zio si metteva  sulla sua fresca terrazza di Viale Virgilio, guardava il mare e si “schiodava” solo alle ore piccole.

Un giorno andai a trovare lo zio al BIT, di Milano, dove la Regione Puglia aveva un ricco stand; lo trovai immerso in lunghe discussioni  sulle bellezze della sua Taranto materia che da esperto conosceva nei minimi dettagli ed aveva pochi rivali. “Nà, assaggia queste friselle al pomodoro con olio di Bitonto, senti questo caciocavallo, bevi un goccio di rosso di Puglia, senti il profumo di questo vino di Manduria…”. Alla fine presi sotto braccio un bel po’ di bottiglie che mi aveva regalato e lo accompagnai  a casa, in un leggero stato d’euforia

Zio Tonino amava Martina Franca e ne parlava con entusiasmo: là c’era la miglior gente del mondo, era uno splendido paese, diceva sempre. In effetti, Martina è un’elegante cittadina situata a quattrocento metri d’altezza, adagiata, su una delle ultime colline meridionali della Murgia sud-orientale, domina l'incantevole Valle d'Itria, splendida distesa verde ricca di ulivi centenari, biancheggiante di stupendi e caratteristici trulli. La maggiore attrattiva della città è senza dubbio costituita dal caratteristico centro storico, splendido esempio di arte barocca, che con le sue stradine, i suoi bianchi vicoli, i palazzi signorili e le maestose e monumentali chiese. Oltre ad un ricco paesaggio punteggiato dai famosi trulli, si trovano le tipiche costruzioni delle masserie pugliesi.

 

 

La sera zio Tonino alle volte prendeva la macchina  e ci portava sulle lunghe spiagge ioniche, allora incontaminate, si levava scarpe e calzini, si rimboccava i pantaloni e si cimentava divertito ed entusiasta in una passeggiata sul bagnasciuga “Guarda quant’è bello u’mare!”,diceva respirando a pieni polmoni la fresca aria vespertina.

Nelle case in campagna spesso la gente teneva in giardino, verdure, pomodori viti e piante di fichi. Quando arrivava l’ospite riceveva in dono uva e splendida, saporita frutta raccolta in quel momento. Bello? “No bellissimo, magnifico, superlativo”,direbbe non a torto zio Tonino! Oggi purtroppo la speculazione ha riempito di cemento la zona guastandola, tuttavia il lungomare ionico è immenso, con quelle enormi distese d’acqua tinta di un azzurro trasparente e calda: sembra  tutta un’immensa  piscina.

Questo era zia Tonino, un illustre cittadino di Taranto città che lui amava moltissimo e che non volle mai abbandonare, anche se altrove avrebbe fatto più carriera. Questo ritratto a tratti un po’ lieve ed in parte forse esagerato e caricaturale, non vuole essere irriverente; tutt’altro, è un ricordo affettuoso. Lo zio Tonino era persona di gran cultura ed intelligenza, oltre ad aver qualità umane non comuni, sapeva apprezzare le gioie della vita e lo ricordiamo tutti con gran rimpianto.

Negli anni sessanta la farmacia di zio Mario, che l’aveva ottenuta dopo di quella di Lama era a Taranto vecchia, cuore popolare della città. La sua bottega era sempre affollata da gente che chiedeva i consigli più strampalati, quasi egli fosse uno stregone pellerossa, e si imbottiva di medicine “perchè tanto erano gratis”. “Così poco scrive dottò?’, aggiunga tante altre medicine sulla ricetta!” chiedeva la gente al medico della mutua.

Quando lo zio al primo pomeriggio (ad orari del sud), arrivava per aprire il negozio, c’era già la fila fuori in strada. “Sono arrivati i mangiatori di medicine!”, diceva ridendo, ma in realtà erano preziosi clienti. Non tutti i frequentatori erano piacevoli: una volta un anziano si tolse la dentiera e la mise sul banco: “Vede dotto’? Non c’è niente da fare, anche con l’Orasiv non sta su!”  Un’altra volta un cliente a Taranto vecchia gli portò i pannolini della moglie, per farli analizzare e vedere se era rimasta in stato interessante.

I “mangiatori” divennero poi assai più numerosi nella nuova farmacia del Sacro Cuore in viale Liguria, un bellissimo punto vendita.

 

“Le medicine sono come le illusioni, diceva zio Mario: la gente ne vuole tante”. Era giustamente molto orgoglioso del suo successo zio Mario. “Non è stato  certo facile, sono l’ultimo di tanti fratelli, eravamo in anni duri, ma sono riuscito a realizzare i miei progetti”, diceva sempre soddisfatto ed allegro, con la risata contagiosa all’Alberto Sordi, tuttavia come tutti coloro che si sono fatti da soli sapeva che era duro guadagnarsi il pane e dava il giusto valore al denaro.

Lo zio tendeva a sdrammatizzare tutto ed a trovare sempre la visuale  divertente in ogni occasione. Una sera a Lama, stava uscendo dalla farmacia, salì sulla vecchia Renault e si accorse che era senza benzina. Distributori aperti non ce n’erano (nemmeno chiusi era in piena campagna) e allora “zac! Il colpo di genio”: prese dallo scaffale un po’ di bottiglie di benzina purificata, le versò nel serbatoio e la macchina divenne una bomba. “Questa non è una macchina, ma un carro armato!”, disse ridendo, andrebbe anche con il kerosene.

Negli anni sessanta acquistò una “500”, quale macchina da città, la chiamava il frullatore, e la utilizzava in modo garibaldino, senza molta cura per la carrozzeria, Dopo più di una decina d’anni la vettura, stinta dal sole ed ammaccata nel traffico disordinato come quello di Bombay della città ionica, era alle corde.  “Che schifezza di macchina”, disse lo zio fra il serio ed il faceto: “Dopo un buon rendimento iniziale è già da buttare.”, ma il realtà fu usata ancora un po’, come auto da battaglia, fin quando non si “sguasciò” del tutto.  Quando zio Mario prendeva una multa spesso la stracciava  ridendo di gusto “A Taranto queste non le paga nessuno!”. Importante è osare… Un giorno lo zio dovette andare all’Ammiragliato: si presentò alla porta carraia, elegante, a bordo di una bella vettura. Si vedevano i cartelli minacciosi: “Alt zona militare farsi riconoscere!” Fece un cenno sicuro di alzare la sbarra al marinaio di guardia, che vista la macchina e la distinzione della persona, aprì subito scattando repentino sull’attenti: l’aveva scambiato per un Ammiraglio!

Dopo le nozze con zia Rosetta, zio Mario andò ad abitare in via Anfiteatro, sopra la nonna: una casa un po’ infelice, più avanti si trasferì in in un bel palazzo moderno.

La vecchia Taranto della mia infanzia con i marinai americani è ormai scomparsa e molto cambiata, i miei carni nonni e zii non ci sono più, anche se a Taranto sono rimasti  sono diversi cugini, tuttavia la capitale della Magna Grecia mantiene tutto suo fascino antico con la città vecchia oltre al ponte girevole, una Taranto vecchia oggi restaurata e molto migliorata.

Mauro Lupoli

 

MARTINA FRANCA (TA)

MARTINA FRANCA (TA)

MARTINA FRANCA (TA)

Elegante cittadina situata a 431 m. di altezza sul livello del mare, adagiata su una delle ultime colline meridionali della Murgia sud-orientale, Martina Franca domina l'incantevole Valle d'Itria, splendida distesa verde biancheggiante di trulli. La maggiore attrattiva della città è senza dubbio costituita dal caratteristico centro storico, splendido esempio di arte barocca, che con le sue stradine, i suoi bianchi vicoli, i palazzi signorili e le maestose e monumentali chiese. Oltre ad un ricco paesaggio punteggiato dalle antiche "casedde", i famosi trulli, e dalle tipiche costruzioni delle masserie, preziose testimonianze dell'archeologia industriale, Martina Franca gode di un vasto territorio carsico ingemmato da suggestive grotte.
Dalla sua strategica posizione, la città jonica regala alla vista dei visitatori una suggestiva panoramica sulle località limitrofe, aldilà delle quali si stende la provincia di Brindisi e Bari e, ancora oltre, il Mare Adriatico. Martina Franca, inoltre, offre la possibilità di far spaziare il proprio sguardo anche verso stupende aree boschive, rappresentate dall'incantevole Parco delle Pianelle, e verso verdi paesaggi, a sud, costellati dalle vaste coltivazioni di viti, proponendo piccole oasi di pace e tranquillità per villeggianti e principalmente per coloro che amano l'agriturismo.

 

 

La città, che conta oggi circa 49 mila abitanti, è una meta turistica molto ambita, non solo per il suo ricco e prezioso patrimonio artistico architettonico, storico ma anche per la sua vivacità culturale, che trova massima espressione nell'ormai celebre e atteso Festival della Valle d'Itria.

La cucina martinese è il frutto di un perfetto equilibrio fra le tradizioni gastronomiche contadine e la memoria storica di una popolazione, che ha fatto dell’olio e del vino i componenti fondamentali dell’arte del desinare. L'agroalimentare costituisce uno dei comparti produttivi più importanti nell'economia cittadina.
I prodotti tipici martinesi, dai formaggi ai salumi (in particolare il capocollo), dai prodotti da forno al vino, dall'olio alla pasta, sono ormai conosciuti ed apprezzati a livello internazionale grazie alla loro qualità e genuinità. Rinomata è gli arrosti di carne e fegatelli, che si possono gustare seduti al tavolino per le vie del centro. 

MARTINA FRANCA (TA)

MARTINA FRANCA (TA)

LA TERZA - Santuario

Recentemente, il Comune di Martina è entrato a far parte della rete delle "Città Slow" istituita dalla "Slow Food", associazione impegnata nella valorizzazione dei prodotti tipici dell'agroalimentare. Tra le prelibatezze gastronomiche locali premiate dalla "Slow Food" particolare importanza ricoprono il capocollo e la ricotta forte che presto diverranno titolari di propri presidi di tutela. Moltissimi sono i dolci tradizionali martinesi prodotti durante il periodo delle festività natalizie (carteddete, purcidde, pettule, entreme de vicchie) e pasquali (pucciatidde, cavaddistre, fecazzedde).

Eccoci giunti a Laterza! Avverti questo delizioso profumo? Ebbene sì, proviene proprio dai medievali forni sparsi per il paese che portano avanti l’antica tradizione della produzione degli squisiti prodotti da forno (pane, focaccia, friselle, taralli).
Non farti venire subito l’acquolina, perché prima di assaporare queste delizie percorreremo ogni angolo di questa antica cittadina.

Essa fonda le sue origini nell’età del bronzo con la civiltà Eneolitica, fino ad arrivare ai primi segni di cultura attribuiti ai Peuceti, popolo dedito alla produzione di ceramica, decorata con stesura cromatica turchina su smalto bianco. Sicuramente sarai curioso di assistere a questa secolare tradizione in una originale fornace laertina. Seguendo il nostro appassionante percorso, giungerai nella misteriosa Cantina Spagnola, chiesa rupestre recentemente scoperta, risalente al XVIII secolo, che conserva affreschi sacri e profani completate da sculture in alto rilievo.

Non molto lontano troverai la Fontana Medievale, costruita in pietra e abbellita da archi e da volti in alto rilievo. La sorgente è situata nei pressi del Santuario Mater Domini, eretto in seguito all’apparizione della Madonna col Bambino al pastore laertino Paolo Tria il 20 maggio di molti anni fa.

Alberobello, la città fatta di trulli, occupa un terreno fortemente sottoposto all'azione erosiva delle acque meteoriche, tanto in superficie quanto in profondità; le rocce calcaree stratificate offrono così il materiale da costruzione che contraddistingue non solo l'immagine della città ma l'intero territorio, abitato sin dal secolo XV da coloni cui il signore del luogo affidava la terra affinché fosse bonificata e coltivata.

 

LA TERZA - Le famose focacce

ALBEROBELLO (BA)

ALBEROBELLO (BA)

Pare che le ragioni storiche del trullo come costruzione a secco siano da ricondurre all'abuso di potere con il quale il feudatario poteva a suo piacimento allontanare il colono dalla terra senza riconoscergli alcun diritto, primo fra tutti quello di essere "cittadino", se si pensa che agli inizi del seicento i diversi nuclei familiari che si erano stabiliti nel territorio di Alberobello - attirati anche dalle franchigie concesse dai conti di Conversano - risultavano a tutti gli effetti abitanti della vicina Noci. Era nata una vera e propria comunità stabile tenuta in pugno dal conte Giangirolamo Acquaviva d'Aragona, in aperta violazione alla prammatica che vietava ai feudatari di costruire, senza il permesso del re, nuove città.
La tradizione vuole che, in occasione delle visite regie di verifica, il conte facesse abbattere nottetempo le casedde costruite a secco e sgomberare gli abitanti per ricostruirle con altrettanta velocità non appena il pericolo fosse cessato. La proclamazione di Alberobello città regia nel 1797 segnò l'inizio dell'uso della malta nelle costruzioni, che non per questo mutarono il loro fascino di edifici "senza tempo", antichi quanto la tradizione mediterranea.
Oggi i trulli di Alberobello sono circa un migliaio, vincolati come monumento nazionale dal 1930 e di recente entrati a far parte del patrimonio mondiale dell'UNESCO.

I trulli, cattedrali di pietre a secco. L'immagine del trullo, costruzione rurale senza tempo, è da sempre associata alla Puglia come una delle espressioni più tipiche della sua anima contadina. Popola le province di Bari, Brindisi e Taranto, trovando la consacrazione assoluta e monumentale nella città di Alberobello, da poco entrata a far parte del patrimonio dell'umanità tutelato dall'Unesco.
A vederli da lontano hanno l'apparenza di tende pietrificate nella campagna, addensate in alcune zone a tal punto da credere che si tratti di una visione fiabesca.
Testimoniano, con la loro presenza, una vicenda tanto affascinante quanto misteriosa, a metà tra storia e leggenda; una storia, del resto, comune a tutto il Mediterraneo, viste le analogie e le suggestioni che legano i trulli ai nuraghi sardi, ai bories francesi e a similari costruzioni esistenti in Turchia, in Spagna o in Africa.
Nel cuore verde delle Murge, migliaia di trulli innalzano verso il cielo i loro caratteristici pinnacoli di pietra. Così, da Alberobello a Locorotondo, da Martina Franca a Cisternino, ogni giorno la luce mediterranea fa della valle d'Itria il sogno immobile di una natura ancora a misura d'uomo.
L'architettura del trullo ruota intorno all'innesto di una forma conica su una sottostante struttura solitamente cubica, proponendo tra l'altro la singolare geometria della cosiddetta falsa cupola, ottenuta mediante la sovrapposizione di filari concentrici di chiancarelle che vanno via via avvicinandosi al centro, la chiave di tutto l'insieme, sottolineata dalla presenza del tipico elemento cuspidato che termina superiormente con una sfera o con un pinnacolo dalle forme piu svariate.
Spesso sui coni si ritrovano, tracciati con latte di calce, disegni sacri e profani, stelle, croci, mezzelune, simboli astrali.

 

 

 

 

 

PORTO CESAREO (LE)

PORTO CESAREO (LE)

NARDO' (LE)

Nel 1975, grazie alla volontà dei residenti che chiedevano da tempo l'autonomia dal comune di Nardò, Porto Cesareo divenne a sua volta comune a tutti gli effetti. Oggi quest'ultimo è ormai una rinomata località di bagni grazie ai suoi 17 km di spiaggia dorata in parte attrezzati e acqua molto limpida fronteggiate da un arcipelago di isolotti ricchi di vegetazione e di fauna che conta specie molto rare. Dal 1997 il Comune è sede di una delle 20 aree marine protette d'Italia per la presenza di una ricchissima e diversificata comunità marina di elevato valore biologico. L'area si estende fino a 7 miglia dalla costa, tra Punta Prosciutto a nord e Torre dell'Inserraglio a sud. Importanti sono anche la Stazione di Biologia Marina e il Museo Talassografico che contiene una raccolta malacologica, un erbario e rare specie ittiche.

Nel 2002 Porto Cesareo è balzato agli onori della cronaca per una notizia molto curiosa che ebbe molta eco e fu imitata successivamente anche in altre parti d'Italia: l'intitolazione di una statua a Manuela Arcuri. L'opera, realizzata dallo scultore salentino Salvatino De Matteis, richiama ancora adesso molti curiosi che, in vacanza nella zona, vengono a visitarla; essa rappresenta la moglie del pescatore che aspetta impaziente il proprio marito che torna dal mare. C'è da annotare, però, un triste primato: recentemente in un sondaggio il comune è risultato il secondo più abusivo d'Italia, una realtà infelice che affligge da anni questo bellissimo territorio e che le autorità di competenza non riescono a fermare.

GALLIPOLI (LE)

GALLIPOLI (LE)

GALLIPOLI (LE)

Sicuramente una tra le più gettonate mete turistiche, non solo del Salento, ma di tutta Italia, Gallipoli con i suoi dintorni, rappresentano il fiore all'occhiello dell'industria turistica della Provincia di Lecce.

Il suo Centro Storico straordinariamente intatto, si propone come un raro esempio di Città Isola protetta dal mare, con all'ingresso la splendida mole del Castello cinquecentesco, costruito sull'acqua a protezione del Porto, che era a quel tempo uno degli scali commerciali più importanti, insieme a Taranto, sul mare Jonio.

La città nuova risulta separata dal Borgo Antico da un ponte e si estende su un promontorio lungo più di 2 Km. Nella zona nuova e su tutta la costa, trovano ampi spazi le moderne strutture ricettive e l'area commerciale.

Gallipoli è ormai diventata la località turistica piu rinomata della Puglia, con le sue splendide spiagge, il mare limpido e incontaminato, le strutture turistiche in cui si preparano squisiti piatti tradizionali a base di pesce e non, e i tantissimi locali nottuni... Ma Gallipoli non è soltanto mare e spiagge ha nel suo centro storico (costruito su di un isola e collegato alla terraferma tramite un ponte del 1500) importanti monumenti storici, come castelli e chiese e fontane greche.

 

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Gallipoli dal greco "Citta Bella" è una delle più caratteristiche città Ioniche, che sa unire al suo interno splendide spiaggie, bellissimi monumenti storici ed una squisita e salutare cucina tradizionale... Certo a Gallipoli non ci si può certo annoiare, dopo una giornata in spiaggia si puo approfittare del tardo pomeriggio per ammirare il Centro Storico con il suo Castello, la Cattedrale la fontana oppure si può fare un giro e a fare shopping tra i numerosissimi negozi.., e dopo una sostanziosa e saporitissima cena con pesce fresco o prodotti tipici salentini, e poi un giro tra i numerosissimi e belli locali notturni sulla spiaggia o all'interno per conoscere nuova gente!! Insomma non vi resta che passare un pò di giorni a Gallipoli per scoprirla e apprezzarla......

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

S.MARIA DI LEUCA (LE)

S.MARIA DI LEUCA (LE) S.MARIA DI LEUCA (LE)

Santa Maria di Leuca: il cui nome gli venne attribuito dagli antichi marinai greci che provenivano dall'oriente, vedevano questo posto illuminato dal sole e perciò leukos, bianco.

Il resto del nome trae origine dallo sbarco di S. Pietro dalla Palestina, da numerose testimonianze è emerso che proprio qui abbia incominciato il suo processo di evangelizzazione, cambiando anche il nome della cittadina dedicandola alla Vergine.

Il nome De finibus terrae invece nasce dai Romani. Santa Maria di Leuca è un centro balneare e peschereccio, nell'insenatura tra Punta Ristola e Punta Meliso, sorge in una magica posizione, dove da sempre si crede che il Mare Adriatico e il Mar Ionio si incontrano.
Niente di più sbagliato, infatti da tutte le cartine nautiche e dagli accordi internazionali il Mar Jonio e il Mar Adriatico di incontrano a Punta Palascia nei Pressi di Otranto.

Figlio di questa cittadina è Aldo Riso. Nonostante i suoi continui e lunghi viaggi nell'Unione Sovietica, in Africa, nell'America del Nord e in quella Latina, innamorato della sua terra, la Puglia, ne rimane il vessillifero; è l'artista che si è dedicato a realizzare le immagini più significative, trasferendole sulla carta e sintetizzando, attraverso un pulito acquarello il vasto e sempre diverso paesaggio. Nell'acquarello, al di fuori di ogni schema restituisce a questa tecnica una forza nuova, proprio un senso del colore, è sopratutto nella luce che simbolizza tutto un mondo che sembra rimasto immobile pur attraverso il lungo viaggio nei secoli. Con questa sua espressione fa rivivere personaggi e paesaggi in una forma quasi surrealistica. Il gioco delle ombre che servono a rendere la nitidezza del tratto ed il largo uso del bianco mettono in risalto i suoi paesaggi, le strade assolate, le piazze, le case immobili sotto il sole, rese vive da un passante, da un fiore o da un panno ad asciugare. 

S.MARIA DI LEUCA (LE)

S.MARIA DI LEUCA (LE) LITORANEA SALENTINA

Perla dell'estremo lembo d' Italia, Leuca si adagia in un tratto di costa alternato da scogliere e piccole calette di sabbia. Le numerose grotte sono di grande interesse storico e naturalistico e i fondali marini sono un vero e proprio paradiso per il turismo subacqueo. Con un entroterra prodigo di storia e cultura, di paesaggi splendidi da ammirare, di sontuose e colorate ville ottocentesche che declinano verso il lungomare.

Una scalinata di 184 gradini collega la Basilica al sottostante porto facendo da cornice all' Acquedotto Pugliese che sfocia in mare, cominciato a costruire nel 1906 ma, con lo scoppio della prima guerra mondiale, i lavoro dovettero fermarsi, i cantieri si riaprirono conclusa la guerra e si giunse nella marina nel 1939. La monumentale scalinata e la colonna romana furono inviate dal Duce di Roma. La cascata è stata aperta diverse volte in sessant'anni.

CASTRO MARINA (LE)

CASTRO MARINA (LE) CASTRO MARINA (LE)

La grotta della Zinzulusa, una delle più famose ed importanti manifestazioni del carsismo costiero italiano, si affaccia con una maestosa apertura sul mar Ionio, lungo il litorale tra Castro Marina e Santa Cesarea Terme. La grotta, originatasi durante il Pliocene a seguito di intensi processi di erosione marina che interessarono l'intera Penisola Salentina, si articola in tre parti geomorfologicamente distinte. La prima, che si estende dall'ampio ingresso sino alla Cripta, è scavata in calcari compatti e risulta caratterizzata appunto da una grande varietà di stalattiti e stalagmiti e numerosi fenomeni di crollo della volta; in questa parte vi è la prima importante manifestazione idrologica della grotta, "La Conca", invasa da acque limpidissime in cui si mescolano componenti marine a componenti dulciacquicole. La seconda parte, che si estende dalla Cripta sino all'ampia cavità denominata "Il Duomo", mostra una tipica morfologia erosiva risalente al Cretacico; in questa zona la roccia si presenta meno compatta e più evidenti risultano gli esiti dell'intensa azione erosiva delle acque interne; inoltre, le stalattiti e le stalagmiti diminuiscono, come pure non si osservano evidenti fenomeni di crollo. Infine, la parte terminale che ospita le acque limpidissime del "Cocito" la cui natura anchialina è dimostrata dalla evidente stratificazione tra una lente superficiale più fredda e dolce ed un livello sottostante più caldo e salmastro.

Santa Cesarea è situata su un ripiano della scogliera che si affaccia sul Canale d'Otranto in una cornice collinare ricoperta da una fitta vegetazione di macchia mediterranea e pineta di alto fusto.
La leggenda narra che una giovane fanciulla del luogo, vissuta nel XV secolo, di nome Cesarea trovasse rifugio all' interno di una delle tante grotte che caratterizzano questo tratto di costa, volendo sfuggire alle turpi insidie di un familiare. Costui, nel tentativo di raggiungerla, precipitò in mare e tale era il suo malanimo che all'istante sgorgò dal mare proprio in quel punto una maleodorante sorgente di acqua sulfurea quasi che l'acqua volesse manifestare anch'essa lo sdegno per i propositi nefandi dell'uomo precipitato. Da allora la località venne chiamata Santa Cesarea proprio in onore della casta fanciulla.
La cittadina, offre al visitatore un insieme di rara eleganza in un contesto un tantino bizzarro con le grandiose ville costruite in massima parte in epoca recente dalla nobiltà locale per trascorrervi le vacanze estive. Gli stili architettonici di queste realizzazioni sono molto diversi fra loro (gotico rinascimentale, islamico, neo classico) ma formano un complesso piacevole a vedersi.

CASTRO MARINA - Grotte della Zinzulusa

LITORANEA SALENTINA SANTA CESAREA (LE)

 

 

 

 

 

 

PORTO BADISCO (LE)

PORTO BADISCO (LE)

PORTO BADISCO (LE)

Porto Badisco è un piccolo centro abitato da pescatori, molto frequentato nel periodo estivo da un turismo internazionale. Sorge tra "Punta Scuru" a nord e "Capo Palascia" a sud, nei pressi di Otranto. Porto Badisco è una stupenda caletta naturale della costa salentina, una piccola convalle che degrada lentamente verso il mare e forma un porticciolo naturale. Secondo la leggenda narrata da Virgilio Porto Badisco è la prima sponda adriatica toccata da Enea nel suo viaggio in Italia, in fuga da Troia. Badisco rappresenta oggi uno dei rari esempi di costa alta ancora integra dell'Italia peninsulare. Sono evidenti i fenomeni carsici ed erosivi: calette e anfratti ricchi di particolari geologici di spettacolare bellezza, come la Marmitta dei Giganti, una flora ricca di piante medicinali, una fauna selvatica nidificante, arricchita da passaggi migratori.

Il mare di Porto Badisco è una distesa blu scuro, interrotta solo dal bianco della costa frastagliata. Roccia chiara bordata dallo scintillio di schiuma bianca. L’entroterra è lievemente ondulato con valli e rilievi, punteggiato da muretti a secco, architetture chiare e isolate rocce bianche. Profumi e colori sono dovuti alla gariga. Nel vento si mescolano le essenze del mirto, del timo, della salvia, del finocchio selvatico, ecc. Il sole accende le tonalità verdi di ulivi, fichi d'india, oleandri, palme, e quercia spinosa. Una piccola caletta di spiaggia sabbiosa completa un ambiente incontaminato, apparentemente inaccessibile, e forse per questo non ancora intaccato dalle moderne forme di turismo selvaggio e dall’abusivismo edilizio.

OTRANTO (LE) - Panorama

OTRANTO (LE)

OTRANTO (LE)

Otranto, chiamata anche 'Porta d'Oriente', si affaccia nello stretto che prende il suo stesso nome, il Canale d'Otranto, situato a sud dell'Adriatico, nel punto più orientale d'Italia.

Anticamente capoluogo della terra, ancora oggi conserva l'aspetto caratteristico delle antiche città commerciali che si affacciavano sul Mediterraneo. Si mostra ai numerosi visitatori che affollano le sue coste ed il centro storico ogni anno, solare e con il suo fascino orientale. E' possibile intravedere le montagne dell'Albania, distanti 70 miglia nelle giornate più limpide. A testimoniare l'incubo delle invasioni dei Turchi sono rimaste le due torri medievali di avvistamento. Il centro storico della città è rimasto intatto nonostante la grande espansione edilizia.

Otranto si presenta ai suoi visitatori con la Cattedrale, terminata e aperta al culto nel 1088, con la sua notevole dimensione, è da ritenersi la Chiesa più grande della Puglia, di incomparabile valore è il mosaico pavimentale eseguito da un monaco, conserva i resti degli 800 martiri uccisi dai Turchi.

Otranto è anche il Castello Aragonese, con le torri, i bastioni e le mura. il borgo antico, con le strade fatte in pietra viva, strette e che si snodano a serpentina tra le case, il porto che ha sempre avuto un'importanza notevole per gli scambi con l'Oriente e infine, ma non meno importante, il mare cristallino e limpido, ricco di dune, anfratti, grotte e insenature, che insieme alla presenza dei Laghi Alimini, rendono questa cittadina veramente incantevole, da innamorarsene a prima vista.

OTRANTO (LE)

OTRANTO (LE)

OTRANTO (LE)

Otranto deve la sua suggestività soprattutto al suo borgo antico, il quale ha resistito alle burrasche del tempo e si presenta oggi come ieri. Vi si accede da "Porta Terra", che si apre lungo un bastione, recentemente restaurato, d'epoca napoleonica. Una volta entrati nel cuore della cittadina, ci si trova in una piazza triangolare, realizzata nella seconda metà del Cinquecento. Più avanti, si erge "Porta Alfonsina", costruita nel 1481 e dedicata ad Alfonso, duca di Calabria, al quale si deve la liberazione del borgo dagli Ottomani.

E' emozionante camminare sull'antico lastricato fatto di pietre vive. Corso Garibaldi rappresenta l'arteria commerciale del paese. Vanta, infatti, la presenza di innumerevoli negozietti, aperti fino a tarda serata, nei quali si può trovare di tutto: souvenir, oggettistica locale e non, cartoline, abbigliamento, ecc. Il Corso si conclude in Piazza del Popolo dove si può notare la "Torre dell'orologio", edificata nel 1799 e impreziosita dallo stemma cittadino. Successivamente, tra localini e bar, si giunge a "Porta a Mare", attraverso la quale, percorrendo una lunga scalinata in legno, si arriva al porto.
Il centro storico di Otranto si snoda attraverso una fitta rete di stradine nelle quali si possono ammirare costruzioni antiche risalenti a varie epoche. Sul mare, poi, si erge il Bastione dei Pelasgi da dove si può scorgere uno splendido panorama del porto.

 

 

 

LECCE

LECCE - Basilica S. Croce

LECCE - Basilica S. Croce

Lecce, capitale del Salento, visse, a partire dalla seconda metà del '500, un'epoca di solare fortuna destinata a durare due secoli.
Lecce divenne una piccola Versailles che attirava la nobiltà e ne macinava le rendite in una gara tra rappresentatività e arredo dei palazzi, delle cappelle gentilizie, delle chiese posto sotto devota e munifica protezione. A Lecce la presenza di numerosi ordini religiosi diede luogo a una processione di chiese (dalle facciate sontuose come altari all'aperto, vere vetrine della società del tempo), a punteggiare una fioritura artistica che valse poi alla città i titoli di Atene delle Puglie e Firenze del barocco. La città vecchia, racchiusa tra ciò che resta delle antiche mura, reca l'impronta inconfondibile di quell'epoca esuberante. Ma il barocco di Lecce è tutto particolare. Ha poco da spartire con il grande barocco della Roma seicentesca e con il barocco tedesco o siciliano. Perchè è inestricabilmente legato a un segreto tutto suo, a una formula irripetibile altrove: la qualità unica della pietra di Lecce. Un calcare marmoso di grana compatta e omogenea, ma tanto tenero da poter essere lavorato con lo scalpello e l'accetta.

All'aria indurisce e assume col tempo un caldo colore dorato. E' questa pietra che sta alla base del barocco leccese, che si esercitò più sulle decorazioni che sulle architetture: colonne tortili, cornici fastose, balaustre a trafori, frontoni ricurvi, vasi di fiori e frutta, nastri svolazzanti, putti e mascheroni. Una fantasia bizzarra e ineusaribile che dall'architettura religiosa approda alle case d'abitazione di Lecce, ornando con la stessa pietra i balconi, i portali, gli stemmi: un paradis du rococo, come scrisse un francese del secolo scorso. Il monumento che meglio illustra la Lecce barocca è la basilica di Santa Croce, il cui restauro è stato portato a termine recentemente. I lavori sono durati quasi nove anni: la friabilità della pietra, la sua ricchezza di sali, la loro solubilità a contatto con l'acqua avevano creato fratture, alveoli, incrostazioni di licheni che stava mangiando il monumento. Adesso la straordinaria decorazione della facciata, liberata dalle impalcature, può nuovamente essere letta figura per figura come un trattato di teologia, ricco di valori simbolici. Seconda tappa del visitatore che si inoltra nelle vie di Lecce è il Duomo con l'attiguo Palazzo del Seminario: ma è l'intera piazza della Cattedrale, con il campanile e lo straordinario pozzetto che è un pò il simbolo della Lecce barocca, a costruire una grande, unica scenografia. Altri monumenti del barocco leccese sono la chiesa di Santa Chiara, con un ricco portale su una facciata elegante, la chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo, eretta dai Normanni ma completata con una facciata barocca, e la chiesa dei Teatini. Ma una passeggiata a Lecce, varcata la cinta muraria che racchiude il centro storico, è sempre un itinerario a sorpresa. E sufficiente entrare a Lecce dalla Porta Rudiae, che vale come un biglietto da visita: è un vero arco di trionfo sormontato dalle statue dei santi protettori della città (Sant'Oronzo, San Domenico e Santa Teresa).

LECCE - Basilica S. Croce

LECCE - Duomo

LECCE - Piazza Duomo

Basilica di Santa Croce. La facciata della basilica, concepita come un gigantesco altare, concentra le espressioni elaborate da diverse generazioni di architetti nell’arco di circa un secolo: Gabriele Riccardi nell’ordine inferiore e Cesare Penna nella parte superiore, con successivi interventi di Francesco Antonio e Giuseppe Zimbalo. Il Riccardi, nel 1582, conferisce un forte senso prospettico all’ordine inferiore, messo in risalto da una ricchissima trabeazione. Su quest’elemento s’imposta una balconata retta da mensole-cariatidi che simboleggiano il paganesimo schiacciato dalla forza del credo cristiano. Il secondo ordine della facciata è dovuto all’intervento, nel Seicento, di Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo, architetto egemone in terra salentina dopo aver fornito prova delle sue capacità nella sistemazione del cortile del Vescovado, l’attuale Piazza Duomo, riorganizzato per volontà e su indicazione del potente vescovo napoletano Pappacoda. La parte superiore della basilica è, nella sua interezza, il simbolo del Barocco leccese; trionfi di fiori e frutta, ghirlande e puttini trattengono lo sguardo, suscitando nell’osservatore continue sorprese e meraviglia.

Pietra Leccese. Le peculiarità di questa roccia ne hanno da sempre fatto un materiale che ben si presta alla lavorazione artistica. La sua morbidezza la rende adattissima alle realizzazioni di sofisticati disegni e decorazioni intricate come merletti, all’insegna del barocco leccese; il suo colore ambrato la rende ideale per la costruzione di edifici sacri e palazzi gentilizi, ma anche dimore "rusticamente" eleganti; la solidità di questa roccia calcarea, che si indurisce col passare del tempo, la rende ottimale per "scrivere" la storia di questa terra.

 

OSTUNI (BS)

OSTUNI (BS)

OSTUNI (BS)

Ostuni è detta la "città bianca". La parte antica della città sorge sull'ultimo lembo della Murgia meridionale nella provincia di Brindisi, sulla cima di un colle a pareti ripidissime, e il suo nome, secondo la tradizione, deriva dal greco "Astu-neon", città nuova, costruita con ogni probabilità "circa duemila anni fa" sui resti di una città più antica. In provincia di Brindisi, Ostuni, eletta città d'arte nel 1998, è arroccata sulla sommità di una collina, da cui domina il territorio fitto di ulivi secolari che dalle Murge sud-orientali si estende fino al mare. All'interno della sua cinta muraria si conserva intatto un borgo medioevale, chiamato Terra, caratterizzato da un labirinto di stradine strette, scalinate, archi rampanti, palazzi dai singolari portali, piazzette e balconcini, tutto completamente imbiancato a calce, da cui l'epiteto di “Città Bianca”.

Il nome Ostuni, invece, deriverebbe dal greco “Astu-neon”, città nuova, costruita circa duemila anni fa sui resti di un insediamento ben più antico. Caduto l'impero romano, Ostuni subì una lunga serie di dominazioni straniere: gli Ostrogoti di Teodorico, i Longobardi, nel IX secolo d.C. i Normanni Altavilla che edificarono un castello poi distrutto ed il fiorente porto commerciale di Villanova, gli Svevi nel XIII secolo, gli Angioini e dal 1442 gli Aragonesi.

Ma oltre al mare, risalendo verso la piana coltivata ad ulivi (l'olio d'oliva è senz'altro il prodotto tipico per eccellenza della zona), Ostuni offre anche un panorama diverso, quello delle zone collinari interne, chiamate Murge dei trulli, punteggiato da masserie, cappelle rurali, vecchi tratturi, muretti a secco e trulli, simili a quelli della famosa e non lontana Alberobello.

A ferragosto nel centro storico si tiene la Sagra “Vecchi Tempi” dove, oltre a gustare i piatti tipici della gastronomia locale, si possono ammirare gli artigiani che ripropongono mestieri ormai scomparsi, come l'umbrellare e l'acconzopiatte (colui che aggiusta ombrelli e vasellame), o lu curdelare (il funaio che intrecciando fibre produce i fiscoli, piatti circolari di corda utilizzati per la spremitura dell'olio dalla pasta di olive).

Il 25-26-27 agosto dal 1793 si rinnova ininterrottamente, in occasione della processione dedicata al protettore della città, la tradizione della Cavalcata di S. Oronzo. 

 

 

 

BARLETTA - Scorcio

BARLETTA - Manifesto di Lega Sud

BARLETTA - Il leggendario luogo della sfida

L'esistenza del nome Barduli è testimoniata solo in età romana, ma alcuni ritrovamenti del IV sec. a.C. indicano un precedente centro apulo. Dal 584 al 590 si popolò con i rifugiati dell'importante Canosa di cui Barletta era il porto - per sfuggire ai Longobardi; ma acquistò importanza militare ed economica solo con i Normanni, e s'ingrandì con gli abitanti di Canne, distrutta da Roberto il Guiscardo nel 1083. Diventò una tappa importante dei Crociati e di tutto il traffico verso la Terra Santa; nel Duecento ospitò il Patriarca Rondolfo, fuggito da Gerusalemme. Nel 1228 Federico II, prima di partire per la Crociata, vi adunò il parlamento dei baroni. Nel 1310 fu dichiarata città demaniale. Sotto gli Angioini, nel XIV e nel XV sec., ebbe il periodo del suo massimo splendore grazie ai commerci con l'Oriente e alla costituzione di una potente flotta mercantile. Il 4 febbraio 1459 vi fu incoronato Ferdinando I d'Aragona. Nella prima metà del '500, durante le guerre tra Francesi e Spagnoli, ebbe luogo la celebre Disfida (13 febbraio 1503) fra 13 cavalieri italiani (al servizio degli Spagnoli) guidati da Ettore Fieramosca e 13 francesi comandati dal capitano Guy de La Motte, conclusasi con la vittoria degli italiani. Nei secoli successivi subì terremoti e pestilenze. Si risollevò nella seconda metà del Settecento. Nelle due guerre mondiali il valore della città fu riconosciuto con 11 medaglie d'oro e 215 medaglie d'argento. Il suo maggiore sviluppo è iniziato negli anni Cinquanta del secolo scorso. Il toponimo deriva da Barduli, formato a sua volta dalla base prelatina bard-, fango. Fra i personaggi illustri della città Pietro Mennea (per 17 anni primatista mondiale nei 200 metri con 19"72). 

Il nome di Barletta è legato al ricordo della celebre Disfida di Barletta. L'episodio è noto: il capitano francese La Motte, prigioniero degli Spagnoli in una delle tante guerre combattute su territorio italiano dalla Francia e dalla Spagna, mentre era a cena con il comandante spagnolo Mendoza, sostenne che gli italiani non fossero dei buoni combattenti. Ettore Fieramosca, capitano di ventura al servizio della Spagna, sfidò allora il condottiero e il 13 febbraio 1503 un drappello di tredici italiani affrontò sul terreno, tra Andria e Corato, altrettanti francesi; un francese cadde, gli altri si arresero con l'onore delle armi. 

BARLETTA - Castello Svevo

CASTEL DEL MONTE

BARLETTA - Souvenir digestivo

Ogni anno i cittadini di Barletta rivivono la "Disfida" con una suggestiva e pittoresca manifestazione. Davanti ad una immensa folla di turisti, convenuti da ogni parte d'Italia e soprattutto dalla Francia, vengono ricordati i momenti del fatto storico. Dalla Lettura del Cartello di sfida all'investitura del Cavalieri, al Certame Cavalleresco tra splendidi elmi e cimieri, gualdrappe, corazze e costumi sfarzosi; una suggestiva successione di quadri viventi, resi con fedeltà e realismo impressionanti. Il Centro storico della Città di Barletta , nel "quartiere della marineria" con le belle chiese, i palazzi e gli altri monunenti, conserva ottimamente l'aspetto medievale e non appare contaminato da costruzioni moderne.Imponente è il Castello Svevo di Barletta costruito da Federico Il su una preesistente Rocca normanna e, successivamente, ampliato da Carlo . Ma a caratterizzare Barletta è il cosiddetto colosso Eraclio una delle sculture in bronzo fra le più belle pervenuteci dal mondo antico. L'identificazione iconografica è incerta (Valentiniano I o Marciano?) come è incerta la sua provenienza. Si credeva, infatti, che :provenisse dal vicino Oriente, forse da Bisanzio, ma oggi par prevalere la tesi della sua provenienza dalla città di Canosa, dove si ergevano altri colossi di bronzo ormai scomparsi.

Degno di particolare attenzione è il Museo Civico dove è possibile ammirare la più vasta raccolta di dipinti di Giuseppe De Nittis (1846-1884), il grande pittore di Barletta vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, che ebbe tanto successo a Parigi, sì da essere insignito della "Legione d'Onore" a soli trentadue anni e fu autorevole rappresentante della corrente degli impressionisti. De Nittis affidò la sua fama specialmente agli squisiti ed eleganti ritratti di Parigine, ma non meno belli e suggestivi sono i suoi "paesaggi" in cui spesso tornava con struggente amore alla sua terra ("Strada campestre-Lungo I'Ofanto", "Paesaggio sotto il sole", "Fiume", "Contadini" e "Strada da Brindisi a Barletta"). 

A 12 chilometri dalla città, tra la campagna e le anse dell'Ofanto, sulla riva sinistra del fiume è Canne della Battaglia, dove avvenne l'epico scontro tra i Cartaginesi di Annibale e i Romani che nella tragica battaglia lasciarono sul campo oltre cinquantamila caduti

BARLETTA - Ettore Fieramosca

BARLETTA - Soundcheck

BARLETTA - De Gregori in concerto

Castel del Monte Nei pressi di Andria, a 540 metri sul livello del mare, isolato su di un colle della Murgia Pugliese, sorge Castel del Monte, il più famoso monumento dell' epoca dell' Imperatore Federico II di Svevia. La costruzione di Castel del Monte risale alla prima metà del '200 e sintetizza mirabilmente negli schemi plano volumetrici , tutte le influenze di stile e di cultura della cerchia artistica dell'Imperatore svevo.
Castel del Monte fu costruito tra il 1240 e il 1246, e i documenti attestano che l'Imperatore vi pose molta cura: ma pare che egli non via abbia mai risieduto, e ci si chiede se lo abbia mai visto. Per quel che si sa, solo qualche settimana, nella primavera del 1240, egli sostò da quelle parti: è stato osservato quanto la struttura di Castel del Monte renda problematica l'ipotesi dell' abitabilità, e fino a che punto il suo carattere isolato sia contraddittorio rispetto alla mancanza di ambienti di servizio al suo interno. Castel del Monte ha l'unicità della pianta ottagonale al cui centro c'è un cortile ottagonale, si pensa, originariamente occupato da una piscina. Agli angoli del poligono sorgono otto strutture, anch'esse ottagone, che hanno aspetto di torri ma la cui altezza non supera quella del corpo del castello. Non vi è fossato nè altra opera difensiva: infatti Castel del Monte non fu progettato per difendere un territorio, ma fu voluto dall'Imperatore, potremmo dire, per celebrare se stesso e il suo potere temporale. In lontananza l'edificio ha l'aspetto di una corona: ed è stato osservato come appunto otto siano le grandi lamine auree che formano la Reichkrone, la corona imperiale del X secolo oggi custodita nella Schatzkammer della Hofburg di Vienna. Il fascino e il mistero di Castel del Monte, dunque, legati a questa simbolica forma geometrica. L'ottagono, figura geometrica dall' intersezione delle due figure-base del mondo geometrico-simbolico, il quadrato e il cerchio (rispettivamente simboli, nell'architettura sacra medievale, della perfezione umana e di quella divina e pertanto immagine geometrica del Cristo Vero Dio e Vero Uomo), corrisponde al numero 8, simbolo del compimento della Rivelazione in quanto somma delle sette giornate della Creazione e di quelle della Resurrezione.

Trani - Venditori di pesce

Trani - Donne pugliesi

Trani - Fontana dell'Acquedotto pugliese

Per qesto l'impianto ottagonale, proprio dei battisteri, è stato usato in edifici sacri del mondo imperiale cristiano quali San Vitale a Ravenna e la Cappella Palatina ad Aquisgrana. Ma è molto suggestiva l'ipotesi che Federico si sia ispirato a un monumento che senza dubbio alcuno lo aveva affascinato, la moschea di Umar a Gerusalemme, che ai suoi tempi era conosciuta come il Templum Domini. Per la sua struttura ottagonale e il dedalo dei disimpegni (ma anche per il percorso obbligato) al suo interno, Castel del Monte è stato paragonato a un labirinto, con tutte le implicazioni simboliche di tale disegno (ottagonale era il labirinto sul pavimento della cattedrale di Reims). Castel del Monte è un esempio di architettura pecisa e allo stesso tempo simbolica: ciascun elemento costruttivo risponde a precise regole algebriche e astronomiche. Secondo alcuni studiosi, è stato scelto e progettato per essere il più grande osservatorio spaziale del Medioevo! Oggi, Castel del Monte completamente restaurato, è interamente visitabile: dal solenne portale in breccia corallina che nelle porzioni e nella forma ricorda gli archi trionfali di epoca romana, si accede nella prima sala a pian terreno. Questa, come tutte le camere di Castel del Monte, ha forma trapezoidale con volte a crociera.Superate due sale si accede al cortile sempre ottagonale. Da qui si aprono tre porte finemente decorate. Attraverso una ripida scala a chiocciola si accede al primo piano. La volta del vano scale è risolta con dei costoloni poggianti su mensole antropomorfe altamente espressive, pregevoli pezzi di scultura del XIII secolo. Nelle sale del primo piano di Castel del Monte, tutte naturalmente uguali fra loro, sono interessanti i marmi policromi delle colonne, le porte e le finestre in breccia corallina, i camini e infine le "chiavi di volta" dalle coperture antropomorfe. Chissà che in fondo Federico non ambisse a costruirsi un maniero-modello, a sua vera immagine, nel quale ritrovarsi con i suoi pochi saggi amici e i suoi diletti falconi. E lì vivere gli ultimi anni in solenne, beato ozio studioso, immerso in un contesto che lo proponesse di continuo lex animata in terris, isolato quasi - oseremmo dire- come una vivente reliquia della sacralità imperiale?
Certo è che la visita di Castel del Monte ci porta indietro nei secoli a rivivere (anche se solo con l'immaginazione) le antiche avventure di cui ne era palcoscenico, in tutto il suo splendore che ancor oggi ci regala.

TRANI - Porto

TRANI - Porto

TRANI - Porto

Irresistibile il richiamo dell'impressionante scenografia sul mare che accoglie il visitatore di Trani, e indimenticabile la sequenza di immagini che si presenta agli occhi di chi percorre il tratto costiero e portuale della città. L'impatto degli edifici sul panorama del mare riconduce innanzitutto all'importanza delle istituzioni che in questa scenografia vollero e seppero rappresentarsi con inedita potenza, sganciandosi all'improvviso dal tessuto di una città per proiettarsi in un immaginario di carattere universale: la chiesa, lo stato, la legge.

A partire dall'epoca sveva, nella quale Federico II fece di Trani il suo fortificato avamposto marittimo, (del quale è testimonianza il possente Castello affacciato sul mare), fino al Quattrocento, secolo di assoluto splendore in cui Trani rappresentò il più importante centro marittimo e mercantile del basso Adriatico (città che si diede gli Statuti Marittimi, a lungo appoggiata dalla città di Venezia, cui fu data addirittura «in pegno» alla fine del secolo), Trani giocò un ruolo eminente nella scacchiera regionale dei poteri e dei privilegi. Per poi diventare, alla fine del Cinquecento, sede della Regia Udienza, e da allora (e fino a oggi) «città forense» per eccellenza. Questo è il mare dei monumenti, il mare dei poteri. Ma oggi affacciarsi al porto di Trani percorrendolo con lo sguardo da sinistra a destra dà conto di due realtà meno monumentali, ma altrettanto importanti per definire il più complesso immaginario contemporaneo, quello che fa amare al turista (e all'abitante) questa città: la sfilata di bellissimi pescherecci a sinistra, dai colori intensi e dai nomi evocativi, e la distesa di barche da diporto a destra, segnali questi di un mare «abitato», di un porto funzionante e attrezzato, di una città che ancora guarda al mare pur senza l'onere di una supremazia da affermare e da difendere. Castello, Cattedrale, Tribunale, ma anche la novecentesca villa comunale, che riconduce invece ai caratteri civici e borghesi che costituiscono la radice culturale della città moderna, sono visibili dal mare ancor meglio che dalla terra, quasi fosse ancora dal mare che si attendono i visitatori, in arrivo su barche o navi (e spesso è così: molti turisti in yacht piccoli e grandi attraccano qui per rifornirsi di viveri o benzina, sulla rotta magari delle isole greche, e invece di un giorno si fermano due, tre, per poi magari decidere di affittare una casa sul porto…).

TRANI - Cattedrale

TRANI - Castello

TRANI - La barchetta di Natuzzi

E sul porto ancora: tutte le feste, le innumerevoli feste di Trani, città festeggiante e festosa per eccellenza. Feste di segno religioso, ma anche movimento allegro, brulicare di gente nelle sere d'estate, la cassa armonica illuminata su piazza Quercia che ospita concerti bandistici, e poi magari concerti e spettacoli en plein air, sempre sullo sfondo di questo mare disegnato dall'elegante cintura di pietra dei parapetti sul porto e dei moli… e poi bancarelle, ristoranti, bar, giostre affacciate sul porto, e il riflesso delle luci che riverbera madreperlaceo sulle «chianche» allisciate, e odore di pesce fresco all'arrivo dei pescherecci, che espongono il pescato all'attenzione dei veloci e attentissimi acquirenti abituali, nella sorpresa dei molti turisti che s'incamminano, di nuovo o per la prima volta, verso la teatrale piazza della Cattedrale… Cattedrale che ad arrivarci dal porto, e dal lato del molo, si presenta con la sua facciata più preziosa, quella retroabsidale, la più vicina alla schiuma del mare e dove la sporporzione dell'altezza risulta più impressionante. Il tutto scalpicciando sulle chianche. Poiché tutta Trani - edifici e lastricati stradali, come tutti i centri storici intorno - è fatta di pietra di Trani, uguale oggi a quella dei secoli passati, che ancora oggi viene cavata e lavorata in innumerevoli modi, tutti altamente codificati e mantenuti in vita dagli artigiani dell'intera zona.

E il colore di Trani che rimane impresso a lungo nella memoria è quello di questa pietra, che a differenza però degli altri paesi qui è impreziosito e «rinfrescato», per così dire, dal celeste del mare. Se poi entriamo nella città, magari attraverso lo stretto passaggio coperto di proprietà comunale che collega il porto alla piazza del mercato del pesce, e da questa poi guadagniamo il centro-città moderno, commerciale, eccoci nella città otto-novecentesca: la grande piazza quadrata, la stazione, il comune, incastrati nella regolare griglia di strade ampie e spesso lastricate. Se scegliamo invece di addentrarci dal lato della Cattedrale, saremo all'improvviso nella zona del ghetto, dove fra antiche chiese medievali possiamo imbatterci in un'altrettanto antica sinagoga… Sorprese da antica repubblica marinara e antico emporio aperto a molti popoli, da «stazione balneare» inizio secolo (che si allunga verso Colonna, col suo antico Monastero) e da moderno luogo di svago e divertimento. Sorprese offerte da una cittadina sapiente e incurante, che molte cose ha visto passare, accogliente per tradizioni e cultura, che presenta con naturalezza, e senza ombra di enfasi, le sue bellezze eclatanti.

TRANI - Pescatori al rientro

TRANI - Porto

TRANI - Porto

La Cattedrale di Trani, dedicata a S. Nicola Pellegrino, è la regina delle chiese di Puglia. La vicinanza al mare, nel quale si riflette, l'aria austera e leggera, la luminosa pietra che ne fa anche una splendida architettura di luce, rendono questo luogo di fede tappa fra le più richieste dei tour in Puglia.
Progettata in ideale posizione scenografica, testimonia lo splendore della Trani medievale. La vicenda dell'edificio ha inizio nel 1099, quando l'Arcivescovo di Bisanzio, dopo aver proclamato santo il giovinetto pellegrino Nicola, cominciò a costruire una chiesa in suo onore. In seguito visse varie fasi costruttive, ma la spinta maggiore alla costruzione fu data tra il 1159 e il 1186. Solo nel quarto decennio del XIII sec. iniziarono i lavori di costruzione del bellissimo campanile (alto m. 58,90) che si protrassero per più di un secolo. Se l'impatto con la costruzione si ha venendo dal mare, non si può non rimanere colpiti dal corpo absidale. Dalla poderosa struttura del transetto si staccano i semicilindri delle tre absidi altissime, da cui emerge prepotentemente quella centrale arricchita da un monumentale finestrone quale la struttura dell'abside richiedeva. All'esterno il corredo plastico aumenta man mano che la costruzione si eleva in altezza.
L'accesso all'interno della chiesa è possibile attraverso una porta aperta nella fiancata sud. Da qui si accede alla chiesa di S. Maria: una lunga aula divisa in tre navate da ventidue colonne di spoglio.

TRANI - Porto

TRANI - Porto

TRANI - Scorcio

Continui scavi hanno portato alla luce vasti tratti di pavimentazione musiva, visibili attraverso botole aperte sul pavimento della cripta. Una scala permette l'accesso al sacello di S. Leucio. Sempre dalla chiesa di S. Maria, scendendo alcuni scalini si accede alla cripta di S. Nicola Pellegrino. Qui colpisce la presenza di colonne di marmo greco alte e sottili che conferiscono un'impressione di levità veramente bizantina. Tra le due cripte due scalinate conducono alla chiesa superiore: una vasta aula divisa in tre navate da un doppio filare di sei colonne binate. L'impressione generale è di un accentuato sviluppo in altezza della navata centrale. L'arredo attuale tenta invano di sostituire la suppellettile antica. Unica testimonianza dell'antico splendore è ciò che resta del pavimento musivo nell'area dell'altare maggiore, sufficiente a far immaginare una chiesa sontuosamente addobbata e ricca di colore, come lo furono tutte le cattedrali pugliesi. Il campanile si alza su un imponente passaggio ogivale. La sua superficie è scandita da finestre progressivamente a più luci e culmina in una cuspide ottagonale e piramide. Tra il 1950 e il 1960 la Cattedrale fu interessata da una serie di radicali interventi volti soprattutto a recuperare l'originale struttura architettonica. In particolare: si ottiene lo splendido isolamento del monumento con la demolizione del settecentesco cappellone del Santissimo e della sacrestia; delle numerose cappelle interne della chiesa superiore; con il ripristino dell'interno, mediante rimozione dello strato di stucco lucido.

 

 

 

 

 

 

L'olio, le olive, le verdure e i farinacei - il territorio pianeggiante favorisce un'enorme produzione di cereali - cioè i prodotti più tipici dell'agricoltura, caratterizzano la cucina pugliese che, accompagnata da saporiti aromi e spezie, quali basilico, capperi ed origano, risulta particolarmente genuina e gustosa.
L'alimento preferito dai pugliesi è la pasta. La pasta caratterizza talmente la cucina pugliese che se non se ne conoscessero le origini si sarebbe quasi portati a riferirne l'invenzione a questo popolo.
Del resto, proprio per la pasta, nel lontano 1647, i pugliesi lottarono aspramente e vittoriosamente per otto giorni contro i dominatori spagnoli, che avevano posto una tassa sul prezioso alimento. Al di là della produzione industrializzata resiste ancora saldissima la tradizione della pasta fatta in casa.
Soprattutto nei paesi le donne ancora oggi preparano orecchiette, lasagne,"strascenate", "mignuicchie", "chiancarelle", "troccoli"e "pociacche".
Questi vari tipi di pasta vengono altrettanto variamente conditi: con ragù di carne o di pesce (particolarmente conosciuto il "ciambotto" barese che si ottiene mescolando numerose specie ittiche), con verdure, erbe di campo o erbe d'orto, con formaggio o senza.
Per quanto riguarda in generale la gastronomia pugliese, pur seguendo in linea di massima un indirizzo unitario, presenta sfumature diverse a seconda dei luoghi.
Le grandi aree nelle quali può dividersi la regione corrispondono per sommi capi alla divisione amministrativa fissata nel lontano 1222 da Federico II di Svevia: terra di Bari, Capitanata e Terra d'Otranto.
L'alimento che più degli altri contraddistingue le differenze tra le varie cucine è l'aglio: usato in dosi massicce nella provincia di Foggia viene utilizzato, a mano a mano che si scende verso sud, fino a scomparire del tutto nel leccese, dove si fa largo uso della cipolla. Nel Tarantino e nel Barese crescono in particolare i "lampasciuni", cipolle selvatiche che si lessano e si accompagnano all'insalata.
 La tradizione popolare pugliese è ancor oggi legata al culto del pane (la regione intera va fiera della produzione che l'ha resa famosa) e delle sue varietà, come la celebre "frisedda", una ciambella di farina, bianca o integrale, con un buco molto stretto, cotta al forno e poi tagliata in due e di nuovo cotta nel forno, quindi inzuppata nell'acqua fredda (con l'acqua calda, invece, si ottiene la "cialedda") e condita con sale, olio, pepe ed eventualmente pomodoro e cipolla.
Con circa 800 km. di costa, la Puglia basa molto della sua cucina sul pesce, che in alcune zone è veramente squisito.
Nel Barese si pescano orate, sogliole, dentici e polipetti preparati poi con saporitissimi sughi.
Molto nota è la cosidetta "casseruola di polipetti" un ragù a base di olio, cipolla, vino bianco, salsa, prezzemolo e pepe.
Altri piatti rtipici delle località di mare sono gli antipasti di calamaretti crudi, frutti di mare e olive e le zuppe di pesce.
Per queste ultime Taranto è il centro più interessante ove i prodotti degli antichissimi allevamenti di ostriche, ricci, cozze e datteri di mare, uniti ai prodotti della pesca, permettono la preparazione di numerose zuppe, intitolate ora a questo ora a quel mollusco e tutte appetitossime.
Naturalmente, pesce e frutti di mare influiscono largamente sui condimenti per le paste asciutte, che sono numerosissimi e saporiti.
Ampia è anche la scelta dei vini; pregiati i bianchi di Martina Franca e di Massafra e i rosati prodotti in tutte le Murge e nel Salento.

I Fegatelli (gnummaridde) di Martina Franca. Tappa d'obbligo negli itinerari eno-gastronomici martinesi, le numerose macellerie specializzate nel servizio di "fornello pronto", che consente di gustare carne mista arrostita nel forno a legna, appena sfornata.

Ostriche e cozze sono da sempre il vanto di Taranto. Il mare, ricco e generoso, è popolato da dentici e orate, cernie, triglie e alici, gamberi e calamari. I ristoranti tradizionali offrono una cucina gustosa ma leggera, che combina sapientemente i frutti di mare con l'ottimo olio extravergine di oliva tarantino. Piatti tipici come i cavatelli con le cozze, il risotto ai frutti di mare, il pesce e il polipo alla griglia sono accompagnati da squisiti ortaggi mediterranei crudi o cucinati con fantasia. Ottima l'unione delle orecchiette con le cime di rape. Particolarmente saporiti sono i pomodori, i peperoni, le melanzane, i carciofi e i legumi, che sapientemente combinati con frutti di mare, pesce e pasta danno alla cucina tarantina un tocco di originalità. Squisite le mozzarelle e le provole fresche.

Ecco la ricetta delle carteddate (cartellate), dolci tipici tarantini del periodo di Natale. Ingredienti: Un chilo di farina, 100 gr. di vino bianco secco, 100 grammi di olio extravergine di oliva e un po' di sale fino, vino cotto, miele o zucchero a velo. Preparazione: Impastare la farina con il vino bianco e mezzo bicchiere di olio. Se l'impasto dovesse risultare troppo duro aggiungere un po' d'acqua tiepida fino ad ottenere una massa morbida e vellutata. Fare lievitare per circa due ore. Stendere la pasta con il matterello in una sfoglia molto sottile e ricavarne, con una rotellina dentata, delle strisce larghe 5 cm e lunghe 20; ripiegare a metà nel senso della lunghezza, pinzettando con le dita, in modo da formare una specie di rosetta. Quando si sarà finito di preparare queste rosette, lasciarle riposare per 8-10 ore e poi friggerle. Appena fredde, tuffarle nel miele o nel vin cotto e cospargerle di zucchero ed anicini da guarnizione.
Chiancaredde con le cime di rapa. Chiancaredde con le cime di rapa è uno dei piatti cardine della gastronomia di Taranto. La sua preparazione è semplice e richiede circa 30 minuti. Cosa serve ? Innanzitutto 300 grammi di chiancaredde, le tradizionali orecchiette tarantine (quelle fatte in casa sono le migliori), 1 chilo di rape, 3 o 4 filetti di acciughe sott'olio, olio extra-vergine d'oliva pugliese, aglio e sale.
Dopo aver lavato le rape occorre eliminare la parte esterna delle foglie, lasciando solo le cime. All'ebollizione dell'acqua tuffarci le rape e, dopo alcuni istanti, anche le chiancaredde.
Soffriggere nel frattempo 3 spicchi d'aglio pestati e le acciughe in 4 o 5 cucchiai d'olio fino a quando le acciughe si sciolgono. Scolare la pasta e le rape e, dopo averle reinserite nella pentola, mescolare col soffritto.
Cozze arracanate. E' questo un gustosissimo piatto della tradizione gastronomica tarantina, facile da realizzare e che soddisfa anche i palati più esigenti. E’ importante che le cozze siano fresche e, per ottenere il massimo, che siano di Taranto. Gli ingredienti sono i seguenti: Kg. 1 di cozze del Mar Piccolo, pane grattugiato gr. 150, due uova, una manciata di prezzemolo, olio extravergine di oliva, sale e pepe.
Preparazione: pulire le cozze e aprirle, lasciando integra la parte interna. Conservare il mezzo guscio pieno lavandolo con delicatezza in acqua salata (possibilmente di mare per conservare tutto il sapore). Collocare poi una metà dei mitili in una tortiera da forno dove sarà stata messa pochissima acqua salata, sistemandoli con il mollusco verso l'alto. Mescolare insieme in una terrina pane, sale, pepe, prezzemolo e cospargere con metà di questo miscuglio le cozze; fare un altro strato di mitili e cospargerli, come già fatto prima. Condire con abbondante olio d'oliva distribuendolo uniformemente, e cuocere in forno per circa dieci minuti. Intanto sbattere le uova, salandole leggermente, per poi coprire interamente i mitili. Mettere la teglia in forno, fino a quando il composto si sarà ben rappreso e la superficie risulterà dorata. E' preferibile servire appena sfornato.

Il pane di Altamura è un pane tipico pugliese ottenuto da un impasto di semola di grano duro rimacinata. Affonda le sue radici nella cultura contadina delle popolazioni alto murgiane e ancor oggi mantiene un metodo di lavorazione artigianale che prevede l'uso di lievito madre, pasta acida, sale marino e acqua, con lievitazione naturale e cottura in forno a legna. Nella sua forma più tradizionale (U sckuanËte = pane accavallato) aveva pezzatura di notevoli dimensioni, era prevalentemente impastato e lavorato tra le mura domestiche, e veniva cotto in forni pubblici. Il fornaio procedeva alla marchiatura delle forme con il marchio in legno o in ferro artigianale riportante le iniziali del capo famiglia. La sua principale caratteristica, mantenuta fino ad oggi, era la durevolezza, necessaria per garantire l'alimentazione di contadini e pastori per una settimana o più frequentemente nei quindici giorni trascorsi nelle masserie disseminate tra le alture murgiane: un'alimentazione incentrata quasi esclusivamente sul pane condito con sale, olio ed immerso nell'acqua bollente.

Si abbina bene a qualunque contorno ma è particolarmente buono anche da solo, condito con un filo d’olio extravergine d’oliva, si mantiene anche per diversi giorni dopo la cottura grazie al lievito naturale ricco di fermenti vivi. Non sopporta il sottovuoto o il contatto con la plastica, si consiglia quindi, per preservarne più a lungo la freschezza, di avvolgerlo in un panno ben asciutto.
Per produrre il Pane di Altamura viene impiegato un rimacinato di semola di grano duro ricavato dalla macinazione di grani duri delle varietà appulo, arcangelo, duilio, simeto.
Le fasi di produzione del Pane di Altamura sono le seguenti: impasto, lievitazione e prima fase di riposo, modellatura e seconda fase di riposo, rimodellatura e terza fase di riposo, infornata e cottura, sfornatura. L'operazione d'impasto deve durare 20 minuti, utilizzando una impastatrice a bracci tuffanti. A ultimazione dell'operazione dell'impasto è necessario coprire la massa con un telo di cotone di un certo spessore per poter ottenere una lievitazione a temperatura omogenea. In questa condizione l'impasto deve riposare per almeno novanta minuti. A conclusione della precedente fase di lavorazione, si procede con la pesatura e la prima modellatura che vengono effettuate manualmente per consentire alla massa di essere raccolta nel suo naturale involucro fibroso. In questa condizione la pasta resta per trenta minuti. Si esegue una ulteriore modellatura manuale, seguita da un periodo di riposo di almeno quindici minuti. Prima di essere infornata la pagnotta viene capovolta e con una leggera pressione della mano, esercitata su un lato, viene accompagnata nel forno, alimentato preferibilmente a legna o a gas. I primi quindici minuti di cottura avvengono a forno aperto, mentre per i restanti quarantacinque si procede a chiudere la bocca del forno. Al termine di questo periodo, la bocca del forno viene lasciata aperta per almeno cinque minuti per consentire la fuoruscita del vapore e per favorire, di conseguenza, l'asciugamento della crosta che diventa croccante. Si procede, quindi, a sfornare le pagnotte di pane, che vengono adagiate su assi di legno.

 

 

 

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I molluschi costituiscono un alimento per l'uomo sin dal Paleolitico. La facilità di cattura, rispetto agli scattanti pesci pin­nati, ne hanno fatto per secoli il capro espiatorio della gastronomia marinara. Ma se la nobile ostrica è stata citata, quando non addirittura esaltata dai più grandi poeti e scrittori dell' antichità, quali Omero, Virgilio, Petronio, Marziale, la plebea, saporita, aromatica cozza, non solo è stata completamente ignorata dai letterati, ma è quasi sfuggita ingenerosamente persino al grande Aristotele, ed è stata troppo presto liquidata anche da Plinio il Vecchio che ce ne ha lasciato notizie così vaghe e fram­mentarie da far pensare che l'ab­bia confusa con l'ostrica.Bisogna giungere all'olandese Swammerdam (1637­-1680) perchè la cozza ottenga l'onore dei primi studi, pro­seguiti dallo svedese Linneo (1707-1778), dal francese Cuvier e dall'inglese Lister. Quindi, se il consumo di tante specie di molluschi è ancestrale. come è testimoniato dai loro resti trovati nei depositi lasciati dall'uomo preistorico nelle caverne, la stessa cosa non è pro­vata per le cozze, delle quali non sono state trovate quasi tracce, e anche il loro allevamento pare che sia stato com­pletamente ignorato dagli antichi.Secondo i francesi, che ne rivendicano la paternità, questo ha avuto inizio solamente nel XIII secolo sulle loro coste atlantiche. Nella storia un po' romanzata lasciata dal Figuier, la prima attività mitilicola fu intrapresa da Patrizio Walton, un irlandese naufragato nel 1236 col suo carico di montoni nei pressi della Rochelle sugli scogli del seno d'Aiguillon. Esule su quelle solitarie coste con alcuni montoni sfuggiti al naufragio, l'intraprendente Walton visse dapprima cacciando uccelli marini, abbondanti nella laguna. Pensando di poter trarre da quell'attività un lucroso reddito, fece tessere una tela lunga 300-400 metri e alta 3, che tese verticalmente a pelo d'acqua a mezzo di pali infissi nel fondo fangoso della stessa. Nell' oscurità della notte, gli uccelli che volavano sfiorando la superficie dell' acqua vi rimanevano impigliati. Ebbene, Walton notò che un gran numero di mitili si era fissato ai pali che sostenevano la rete, e che questi erano più gros­si e gustosi di quelli nati nel fango. per cui ebbe l'a­cuta intuizione che se ne poteva realizzare la produzione. Sembra che egli, applicandosi in questa nuova impresa, ebbe coscienza del servizio che stava rendendo all'umanità e, desideroso che le genti future ne conservassero la memoria, diede agli impianti che inventò la forma di una W, lettera iniziale del suo nome. Alla sua morte il geniale Walton aveva lasciato una tecnica presso­ché perfetta, migliorata di anno in anno per mezzo di prove e di sagace lavoro.

Una tecnica che poco si discosta­va dalle tecniche tuttora adoperate. Ci dispiace deludere i francesi, ma l'emerito Walton era stato purtroppo preceduto, probabilmente a sua insaputa (salviamo la sua buona fede), dai tarantini, i quali già dal XII secolo adoperavano un sistema diverso ma non troppo da quello da questi ideato. L' allevamento delle cozze a Taranto risale sicuramente ad epoca remota. Fonti autorevoli attestano che, risor­ta la città a opera dell'imperatore Niceforo Foca, dopo le devastazioni saracene del 927, furono subito ripre­se le concessioni delle pescherie, dalle quali i concessiona­ri traevano oltre che il pesce anche le ostriche, le cozze, e altri frutti di mare. Le cozze raccolte durante l’autunno venivano portate lungo il litorale della città in acque della profondità di 12 palmi, ritenute idonee al loro sviluppo dove venivano appese a pali, in origine di leccio, di pino in seguito e poi per lo più di castagno. VenivanoPescate, ripulite durante l’equinozio d’inverno e infine ripescate e poste in commercio soltanto nell' estate dell' anno successivo. In questi ubertosi campi marini pingui di pascolo, le cozze crescevano e ingrassavano grazie alla pre­senza dei «citri» (polle sottomarine di acqua dolce poiché, dicendola con Plinio, esse gaudent dulcibus aquis ubi plu­rimi influunt amnes), Nei soli due seni del Mar Piccolo si contano una trentina di «citri», ognuno dei quali è cono­sciuto dai pescatori locali con il proprio idronimo. Quindi proprio sulle cozze Taranto ebbe per secoli una sorta di monopolio, come testimoniato dal Kolbert che, in un suo reportage su Taranto stilato nella seconda metà dell'800, ci illustra quale importanza economica avesse raggiunto in quel periodo quest'industria: «Dei 30.000 abitanti dell' odierna città di Taranto almeno i due terzi traggono vita dal mare e dai suoi prodotti. Fra questi esercitano la parte più importante due conchiferi, la Modiola azzurra e la Modiola barbata; le modiole azzurre sono chiamate Cozze nere dalla gente del paese, le altre Cozze pelose. Le cozze di Taranto e le ostriche di Taranto si trovano in tutti i mercati d' Italia meridionale fino a Roma. Nel bacino anterio­re del Mar Piccolo, come diceva con molta

 

 

 vivacità nel suo dialetto un barcaiolo, una larga zona d’acqua bassa, alta da 3 a 15 m, circonda la spiaggia. Ivi sono disposti dappertutto, in file regolari, numerosi pali, alla distanza di 6-7 m. Tutti i pali sono riuniti da corde, alle quali vengono fissate in gran numero piccole e brevi fasci­ne, a cui si attaccano i mitili. Le corde sono fatte di una fibra vegetale, che abbonda nei contorni di Napoli. Credo che questa pianta sia la Macrochloa tenacissima, il cosiddetto Esparto degli Spagnuoli. Tali corde rimangono a lungo intatte e soprattutto sopportano a meraviglia 1'ac­qua di mare. I pescatori le chiamano Funi di paglia. «Mentre mi trovavo a Taranto in Novembre, quasi tutti i bacini di allevamento erano vuoti, ma i pescatori si affac­cendavano ovunque a riaccorciarli per ricevere nuovi ospi­ti. Non credo perciò che i mitili rimangano un anno e mezzo sulle funi, come dice Salis. Gli esemplari necessari al ripopolamento dei bacini si pescano in alto mare, oppu­re si adoperano a tale scopo gli individui giovani coltivati in appositi serbatoi separati. Le funi sono collocate per modo da rimanere in secco durante il periodo del riflusso, che a Taranto giunge a 60 cm. In certi stabilimenti vengo­no sollevate di tratto in tratto e lasciate fuori dell' acqua per qualche giorno. «Nel Mare Piccolo contai circa 30 gruppi di pali, com­posti in media di 200 pali per uno, ma non riuscii a pro­cacciarmi nessun ragguaglio intorno alla quantità e al valore dei mitili allevati nel paese: nessuno si era preoccu­pato di ciò. La somma ricavata da questo commercio dev' essere però abbastanza rilevante poiché intieri vagoni pieni di mitili freschi e conservati partono dalla città pei mercati italiani. Verso Natale il consumo di questi mollu­schi diventa addirittura enorme poiché allora in ogni casa italiana non si cena senza mangiare 1'anguilla tradizionale (capitone) di Chioggia e le Cozze nere di Taranto. Le Cozze nere fresche costavano a Taranto da 40 a 50 centesimi il chilogrammo.

 

 Le orecchiette sono un famosissimo formato di pasta e rappresentano il simbolo gastronomico della regione Puglia.
Lavorate rigorosamente a mano, le orecchiette sono rotonde e concave, con il centro più sottile del bordo e con la superficie ruvida, e con le dimensioni di circa 3/4 di un dito pollice.
La loro forma particolare abbinata alla superficie rugosa, fa si che ogni condimento vi si adatti in maniera impeccabile, anche se, l’accompagnamento perfetto per le orecchiette, sono da sempre le cime di rapa.
Per quanto riguarda le origini delle orecchiette, c’è da dire immediatamente che sono avvolte nel mistero, anche se sembra abbastanza evidente la loro natalità Pugliese.
Secondo il parere di molti esperti, le odierne orecchiette deriverebbero dalle “lixulae”,un tipo di pasta dalla forma rotonda con il centro concavo ottenuta con farina, acqua e formaggio, che veniva preparata nell’antica Roma e di cui ci lascia testimonianza anche il grande storico Varrone.
La cosa certa è che le orecchiette presero così tanto piede che nel corso degli anni diventarono un piatto molto ricercato ed amato.
A testimonianza di ciò, attorno alla fine del ‘500, negli archivi della chiesa di San Nicola di Bari fu ritrovato un documento con il quale un padre donava il panificio alla figlia e nell’atto notarile si poteva leggere che la cosa più importante lasciata in dote matrimoniale era l’abilità della figlia a preparare le “recchietedde”.
Mettete sulla spianatoia la semola mista al sale nella classica forma a fontana con una conca al centro e versatevi l’acqua tiepida.
Lavorate il tutto per almeno una decina di minuti fino a quando, all’interno dell’impasto, si saranno formate delle bollicine: continuate ad impastare per altri 5 minuti fino ad ottenere una pasta soda e liscia.
Iniziate ora a lavorare la pasta un pezzo per volta ricordandovi di coprire il resto con un panno umido per evitare che si possa asciugare. Staccate quindi un pezzo di pasta, arrotolatelo fino ad ottenere un cilindro dello spessore di una biro e tagliatelo a pezzetti lunghi circa 1 centimetro. Con la punta arrotondata di un coltello, trascinate ogni pezzetto di pasta sulla spianatoia in modo che la pasta si curvi assumendo la forma di una conchiglia. A questo punto, appoggiate ogni conchiglia sulla punta del dito pollice e rovesciatela all'indietro per ottenere finalmente le vostre orecchiette. Mettete tutte le orecchiette una accanto all'altra su di un telo o sulla stessa spianatoia per far si che si asciughino, ed ecco pronte le vostre orecchiette. Poiché le orecchiette necessitano di un tempo abbastanza lungo di asciugatura, vi consiglio di prepararle la sera prima e lasciarle asciugare per almeno una notte.
Non può mancare un consiglio su come preparare queste buonissime orecchiette: secondo la tradizione “la morte loro” sarebbe con le cime di rapa ma, ottimi accompagnamenti sono anche i broccoletti, un buon sugo di pomodoro semplice semplice o ancora, un sugo con braciole di maiale…a voi la scelta!
Nonostante il mondo intero le conosca semplicemente come orecchiette, in Puglia esistono svariati modi di identificare questo particolare tipo di pasta fresca: “recchie o recchietelle”, per la loro forma che ricorda vagamente quella di un orecchio, “chianchiarelle” se di formato piccolo, “pociacche” si di dimensione maggiore ed infine “strascinati”, a ricordare che durante la preparazione vengono “strascinate” sulla spianatoia.
Ingredienti per 4 persone: 500 g di orecchiette 1 kg di cime di rapa 1 scalogno 1 filetto di acciuga in salamoia un peperoncino intero
3 cucchiai di olio extra vergine di oliva Mondate e lavate accuratamente le cime di rapa, conservando solamente le cime e le foglie piccole e tenere.
Nel frattempo fate cuocere in abbondante acqua salata la pasta. In una padella larga versate l'olio di oliva e a fiamma media fate rosolare lo scalogno tritato finemente.
Poi abbassate la fiamma al minimo e aggiungete il filetto di acciuga lavato e sminuzzato e il peperoncino intero.
Fate insaporire il tutto per 2 minuti e spegnete la fiamma.

A meta' cottura delle orecchiette, aggiungete nell’acqua le cime di rapa. Scolate di tutta l'acqua di cottura le orecchiette con le rape.
Eliminate lo scalogno ed il peperoncino e versate il tutto nella padella e fate saltare a fuoco vivo per 3 minuti.
Spegnete la fiamma e condite a piacere un filo di olio extravergine di oliva crudo.
Non dimenticate l'acciuga!!!

 

 

Chianchiarelle tarantine

Caratterizzate da una forma più schiacciata e da una grandezza maggiore, le Chiancarelle sono apprezzatissime con ragù di carne o con le cime di rapa

La storia delle Chiancarelle (o chiancaredde) risale alla fine del ‘500: negli archivi di una chiesa pugliese fu ritrovato un documento con il quale un padre donava il panificio alla figlia.

La dote più importante che quel papà lasciava alla figlia consisteva nell’abilità trasmessa nell’arte di preparare le chiancaredde, la forma più antica delle orecchiette pugliesi.

Un aneddoto racconta che in passato vi fosse l’usanza da parte delle donne incinta di immergere in acqua bollente un’orecchietta ed un pezzo di maccherone detto zito: appena immersi, entrambi andavano su e giù nella pentola, ma se la donna vedeva salire a galla prima la chiancaredde pronosticava che sarebbe nata una femmina.

Rispetto alle orecchiette, le chiancaredde sono caratterizzate dalla forma più schiacciata e da una grandezza maggiore. Entrambe vengono preparate  con semola rimacinata di grano duro.

https://www.madeintaranto.org/chiancarelle/?fbclid=IwAR0WZ-UO1-AROW4dcnLQUeEU9FSMnAfOLWwhdMxnKD41Vtdegi6WLuuzDUI

 

 

 

 

Tartufi di mare ... ( spuènze )

U spuènze jè 'nu frutte de mare ca appartene a la famigghie de le ascidie, 'u cuerpe, non ge tène 'na fohttps://www.mimmorapisarda.it/2022/199.jpgrme definite, ma jidde jè cchiù o mene a forme de otre, e jè dette tuniche, jè difficile da vide perché stè jndr'ô mare scunnute da organisme varie cumme alghe, spugne ma se jè sfiurate o misse 'n'ombre se contrae e face vide le striature russe de le sifone.

'U cuerpe massicce jè fissate sus a 'u funne cu putènde filamende ca stonne sus 'a soje parte vendrale. Tène pure 'na tuniche spesse e coriacee.

'U sifone d'a vocche jè assaje sviluppate e se pote vide pure quanne l'animale jè cuntratte.

'U culore jè brune - grigiastre cu sfumature rossastre, mendre de jndre jè russe.

Le sifone sonde 'nternamende striate cu bande violette chiare e scure. Pote arrivà a le 20 - 22 cm de lunghezze.

Vive sus a le funnale rocciose o detritiche e 'mbrà le praterie de Posidonie, da picche metre fine a 200 m de profondità.

Se pote mangià, se mange crude e jè oggette de peshe pè essere ausate cumme frutte de mare assaje ricercate, se apre cu 'nu curtelle 'u sacche 'ndestinale e se mange 'a parte de jndre gialle.

'U guste jè asckuande assaje.

 

 

 

 

Praticata in tutto il bacino del Mediterraneo già ai tempi dei Fenici ( 2000 a.C. ) e degli Egizi la coltivazione della vite attecchì nel meridione d'Italia e in Puglia in particolare a causa dei conquistatori che stanziarono in questa regione.

Il vino pugliese era già presente sulle tavole imbandite della Roma antica come raccontano nei loro scritti Tibullo, Plinio il Vecchio e Orazio che ne decantano il profumo, il sapore e il colore.

E' grazie a loro se ci sono giunti ampi dettagli sui processi di coltivazione e vinificazione dell'uva in questa terra ai tempi dei Romani.

Più tardi ci pensò Federico II di Svevia a fare da testimonial d'eccezione per questa autentica ricchezza favorita dal sole e da un terreno particolarmente adatto alla coltivazione della vite.
La Puglia, per chi non ne fosse a conoscenza, è la regione d' Italia con la più alta produzione vitivinicola.

Per molti anni però si è puntato più alla quantità che alla qualità del prodotto e sovente il mosto pugliese è stato impiegato in altre zone d' Italia come arricchimento a produzioni con grado alcolico molto basso.

Fortunatamente le cose sono cambiate.

Alcuni bravi e coraggiosi produttori hanno cominciato, anni fà, un opera di valorizzazione della viticultura pugliese.

Grandi investimenti sono stati fatti per ammodernare le tecnologia di cantina e i reparti di imbottigliamento.

Si è poi puntato molto sulla rivalutazione del vigneto con la valorizzazione di molti vitigni autoctoni (negroamaro, malvasia nera, primitivo, uva di Troia, bombino bianco e nero).

Questo ha fatto sì che la qualità generale di vini sia costantemente aumentata, mantenendo comunque un eccellente rapporto con il prezzo.
Di pari passo sono arrivati i riconoscimenti sia a livello nazionale, che internazionale e finalmente il vino pugliese si è fatto conoscere in tutto il mondo.

Oggi la Puglia conta 25 vini a denominazione di origine controllata ( D.O.C. ) con 128 preparazioni diverse: 52 vini rossi, 28 bianchi, 22 rosati, 17 dolci e/o liquorosi e 9 spumanti.

Accanto a vini diventati un cult, come il Primitivo, prodotto nella zona di Manduria, altre produzioni, anno dopo anno, stanno salendo di quotazione.

i vini: Aleatico di Puglia Alezio Brindisi Cacc' è mitte Castel del Monte Copertino Gioia del Colle Gravina Leverano Lizzano Locorotondo Martina Matino Moscato di Trani

Nardò Ortanova Ostuni Primitivo di Manduria Rosso di Barletta Rosso di Canosa Rosso di Cerignola Salice Salentino San Severo Squinzano Galatina

 

LE AZIENDE VINICOLE

 

La Pianta di origine dell' ulivo (olea - europea) è l' Oleastro, e i primi ritrovamenti, foglie fossili, risalgono a circa un millennio di anni fa.

Lo storico Erodoto ( 484-425 a.C. ) riteneva che solo ad Atene e in nessun altro posto ci fossero gli ulivi.

Secondo la mitologia greca fu la dea Atena a piantare il primo ulivo albero che, con i suoi frutti avrebbe donato a tutti gli uomini, un succo meraviglioso. Per i Greci l’olivo era considerato una pianta sacra (simbolo di forza, di fede, di pace), tanto che chi la danneggiava o sradicava, era punito con l’esilio.
Le prime coltivazioni di olivo, invece, sono state rinvenute nel sud del Caucaso e, secondo gli storici, via via si estesero alle isole di Rodi, Cipro, Creta e poi in tutto il bacino del Mediterraneo.

Al Neolitico (5000 a.C.) risalgono le scoperte in terra di Puglia: a Torre a Mare ( Ba ) e Fasano, a sud di Brindisi. Scoperte che attestano come le olive costituivano, già da allora, alimento di importanza fondamentale per gli uomini della Puglia.

Importanti per ricostruire la storia di questa pianta dai mille usi, sono stati i ritrovamenti nel Sud dell'Italia di reperti con scene di raccolta, produzione e vendita delle olive, di monete coniate a Messina, Crotone e Taranto raffiguranti foglie e rami d'ulivo.

E, infatti, come i Greci, anche i Romani avevano imparato a fare largo uso dell'olio per la cura del corpo: uomini, donne, grandi e piccoli, malati e sani, tutti lo usavano diverse volte al giorno. Veniva spalmato sul corpo prima e dopo il bagno, come detergente e come unguento, arricchito con profumi ricavati da fiori e piante.
L’olio era usato anche per alimentare lampade e lucerne; a conferma di ciò ci sono i ritrovamenti di diverse navi olearie affondate nei mari del Mediterraneo.
Le qualità L’olivo è un albero sempre verde che predilige terreni collinari, clima marino ma indiretto, ama gli ambienti aridi e teme l’umidità. E’ una pianta molto longeva che può essere coltivata anche su terreni calcarei e argillosi.

Non esistono oli più grassi o più magri: tutti gli oli, infatti, sono costituiti per il 99% di sostanze grasse e per l’1% di componenti minori responsabili del sapore e di altri aspetti fisiologici.

La composizione dell’olio d’oliva lo rende un prodotto con qualità organolettiche ideali per una corretta alimentazione. Olio d’oliva, infatti, non solo per insaporire i nostri cibi, ma soprattutto per introdurre nell’organismo sostanze (acido oleico, caroteni, tocoferolo, vitamina E, e altri composti fenolici) che contribuiscono al suo sviluppo equilibrato, alla protezione contro le malattie degenerative e al rallentamento dei processi di invecchiamento.

La percentuale di acido oleico libero determina il grado di acidità dell’olio, infatti, in base ai gradi di acidità e gusto le sole denominazioni utilizzate per il commercio sono le seguenti: olio extravergine di oliva, olio di oliva vergine, olio di oliva, olio di sansa di oliva.
La Puglia , con i suoi oltre 50 milioni di alberi di ulivo, è al primo posto per quanto riguarda la produzione di olive e olio e per questo possiamo dire che è senz’altro la più importante regione olivicola italiana.

L’olio che vi si produce è rigorosamente extravergine (olio di oliva vergine, di gusto impeccabile, la cui acidità non può essere superiore a 1 g. per 100 g.).

L'olio extravergine di olive pugliesi, a seconda delle olive da cui è prodotto, presenta diverse caratteristiche.

La qualità più delicata di olio extravergine, di colore giallo oro, di gusto dolce con lieve pizzicore, è ideale per le preparazioni servite crude.

Il tipo medio, di colore giallo intenso, sapore soave e un pò erbaceo, si adatta per le preparazioni cotte a vapore e al sale.

Il tipo più intenso, di colore giallo verdognolo, con ricco aroma fruttato e leggermente piccante, si adatta per grigliate ed arrosti.

L'olio extravergine di oliva, inoltre, è l'ideale per le fritture poiché non modifica la sua struttura chimica fisica a temperature alte, quindi non è dannoso per la salute.

che è una delle versioni dello scapece (chiamato regionalmente scabéggio), è un piatto tipico della cucina della città di Gallipoli (Puglia).

Questo piatto ebbe la sua origine nel periodo in cui Gallipoli, città marinara, era costretta a subire gli assedi da parte delle potenze mediterranee. Per scongiurare la fame era necessario rifornirsi di cibo da conservare per molto tempo e il pesce, abbondante nei mari intorno alla città, si prestava a questo uso.

Infatti l'ingrediente principale della scapece è il pesce che viene fritto e fatto marinare tra strati di mollica di pane imbevuta con aceto e zafferano all'interno di tinozze chiamate, in dialetto gallipolino, "calette". Lo zafferano dona al piatto il colore giallo che lo rende caratteristico.

Oggi la scapece viene servita come specialità gastronomica nei ristoranti ed è un prodotto tipico delle feste patronali nel Salento.
Ingredienti: Pesce di varie qualità e ridotte dimensioni (boghe dette "ope", zerri detti "cupiddhi" o altro) olio per friggere farina aceto zafferano mollica di pane (pagnotta)
 

Preparazione: Nella scapece gallipolina il pesce non viene pultito prima di essere fritto a causa della quantità e della dimensione ridotta delle specie di pesci ultilizzati. Mantenere la lisca del pesce potrebbe sembrare strano ma questa viene ammorbidita e resa commestibile con la marinatura in aceto. Va precisato che ci sono più tipi di scapece gallipolina, differenti tra loro dal tipo di pesce utilizzato, per questo, prima della frittura, i vari tipi di pesci vengono "scucchiati", cioè separati, secondo la specie. I pesci fritti vengono disposti, a partire dal fondo della tinozza, a strati alternati con la mollica di pane imbevuta con l'aceto in cui è stato sciolto lo zafferano. La mollica che si utilizza è quella della pagnotta. La forma di pane viene privata della crosta e tagliata a metà, le varie metà vengono poi strofinate su uno strumento detto "crattacasa", una grande grattuggia formata da un semicilindro di acciaio largo mezzo metro sulla cui superficie sono stati praticati dei fori, simili a quelli di una grattugia da formaggio, larghi circa un centimetro. Una volta che la tinozza è stata riempita fino all'orlo viene sigillata con un foglio di plastica e messa a riposare in una cella frigorifera.

Un appuntamento ormai consolidato e sempre più apprezzato dell'estate molese da viaggiatori provenienti da tutta Italia. La sagra del polpo è l'evento per eccellenza dell'estate molese.La Sagra del Polpo nacque nel 1965, grazie all'allora presidente della Pro Loco cav. Nicola Parente, quale riconoscimento ai marinai per il contributo dato all'economia molese.
Attualmente è organizzata dall'Assessorato al Turismo del Comune di Mola di Bari che, attraverso una sponsorizzazione massiccia ed efficace, ha contribuito in questi ultimi anni a rendere la Sagra simbolo incontrastato del nostro paese e capace di calamitare migliaia di turisti ghiotti del tipico invertrebato.
La manifestazione, principalmente dedicata al mollusco, esalta la cucina molese, che ha nei piatti a base di pesce la sua componente essenziale. Sul Lungomare vengono allestite pittoresche bancarelle realizzate dai marinai, presso le quali è possibile la degustazione del "polpo di Mola" o Octopus vulgaris, servito in diversi modi: alla brace, in umido (Pulp che l'acque lore), gratinato (Pulp a la graffiodde) in insalata, fritto oppure crudo con un po' di limone, dopo essere stato a lungo battuto sugli scogli e arricciato.
Nel mercato ittico, inoltre, è possibile ammirare ed acquistare souvenirs, cartoline, e oggetti in genere. A rendere ancora più prestigiosa questa manifestazione, ogni anno si alternano sul palco noti cantanti della musica italiana.
Nel corso della manifestazione è possibile effettuare brevi escursioni sui pescherecci, praticando la pescaturismo.
Per maggiori informazioni visitate il sito internet all'indirizzo www.sagradelpolpo.it.

Buon appetito !

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

Con questo nome, sulla cui origine molto si è discusso, s'indica l'Italia meridionale greca. Secondo alcuni studiosi il nome di Megále Ellás (Magna Graecia) sorse, già a partire dal sec. VIII, in contrappunto a quello di Ellás, che in età arcaica indicava la Grecia con esclusione del Peloponneso. Secondo altri autori l'espressione si affermò in connessione col diffondersi del pitagorismo quasi a rimarcare la prosperità e la bellezza della regione rispetto alla Grecia vera e propria, piuttosto angusta e avara di prodotti del suolo, da cui erano venuti o discendevano gli abitanti delle varie città, chiamati col tempo Italioti. L'insediamento dei coloni greci nella Magna Grecia ebbe luogo in due fasi. La prima, in ordine sparso e a opera di gruppi di Achei, avvenne in età arcaica, tra i sec. XV e XIV a. C., e il ricordo sopravvisse nei racconti degli avventurosi viaggi verso l'Occidente favoloso (ciclo troiano). Quel remoto flusso migratorio si interruppe verso il sec. XII a. C., forse in conseguenza dell'invasione dorica della Grecia che sospinse gli Achei verso l'Asia Minore. Ma il flusso, e ora in forme più regolari e massicce, riprese nel sec. VIII a. C. o per effetto dei rapidi incrementi demografici nelle città greche di provenienza, o per contrasti scoppiati in esse, o per le attività commerciali, e si sviluppò specialmente in alcune direzioni: i Calcidesi verso la Carnpania e lo stretto di Messina (Cuma, Velia, Reggio), i Dori nella Sicilia (Siracusa, Agrigento), gli Achei del Peloponneso verso la costa calabra (Sibari, Crotone, Metaponto), gli Spartani verso il golfo di Taranto. Gli antichi empori divennero vere e proprie colonie grazie a un'agricoltura che si fece prospera nelle piane dell'entroterra e lungo i corsi d'acqua. Le antiche popolazioni locali, varie per stirpe e linguaggio, furono sottomesse o assimilate o ricacciate verso l'interno. Lo sviluppo urbanistico fu rapido con l'affermazione di alcune città dalle piante regolari, che operarono concentrazioni territoriali dandosi costituzioni anche più evolute di quelle della madrepatria, arricchendosi di templi fastosi, di cui rimangono oggi resti (Posidonia, Selinunte, Segesta, Agrigento), creando attive scuole filosofiche (quella di Parmenide a Velia e il pitagorismo a Crotone) e diffondendo l'alfabeto tra gli Italici. Il massimo splendore si ebbe tra i sec. VI e V a.C.: le emissioni monetarie in oro, argento e bronzo del tempo testimoniano il grado di prosperità. Gli apporti degli indigeni diedero poi una particolare fisionomia alle espressioni dell'arte locale. Operate le concentrazioni locali, con fondazione di numerose nuove città, non mancarono tentativi di sopraffazione delle une a danno delle altre, ripetendo gli errori che erano stati fatali alle città greche di provenienza: nel 540 a. C. Siris sulla costa lucana fu distrutta da una coalizione achea e la stessa sorte toccò nel 510 a Sibari rasa al suolo dai Crotoniati. Vi furono però anche seri tentativi di concentrazioni politiche ad ampio raggio, con le guerre contro i Cartaginesi in Sicilia e contro le popolazioni osche in discesa dall'Appennino nell'Italia meridionale sotto la spinta, in particolare nel sec. VI-V a. C., di tiranni locali. Gelone di Siracusa nel 480 sconfisse, assieme a Terone di Agrigento, i Cartaginesi a Imera, ponendo le premesse di una rapida espansione siracusana che provocò in seguito l'intervento di Atene in appoggio a Leontini: la spedizione ateniese si risolse in un disastro (413 a.C.), ma anche Siracusa ne uscì indebolita nella lotta con Cartagine e solo il tiranno Dionisio I riuscì a ripristinare, nella prima metà del sec. IV a.C., la sua egemonia in quasi tutta la Sicilia e nella stessa Calabria con la presa di Reggio e di Crotone. Taranto aveva raggiunto nelle contese locali un alto grado di potenza, ma nella seconda metà del sec. IV a. C. fu costretta a richiedere a più riprese aiuto a Sparta per difendersi dalla pressione delle popolazioni italiche, e successivamente a far intervenire Pirro per tener testa a Roma finendo, nel 272 a. C., con tutta l'Italia meridionale, sotto il dominio romano dopo il rientro di Pirro in Grecia. Nel contrasto che seguì tra Roma e Cartagine durante la prima e la seconda guerra punica, anche la Sicilia cadde sotto il dominio di Roma (Siracusa fu espugnata da Marcello nel 212 a. C.), diventando, con la sua economia agricola a intensa produzione, granaio di Roma. Le vicende connesse con la spedizione di Pirro prima e con le guerre puniche poi, provocarono una generale decadenza della Magna Grecia, che però continuò ad avere grande influsso sul piano culturale e religioso, specialmente con l'immigrazione a Roma di suoi elementi. Uno schiavo di Taranto fu il primo poeta romano, Livio Andronico, e dell'Italia meridionale erano originari altri poeti della prima letteratura latina. La Magna Grecia, anche se aveva perduto la sua autonomia politica, continuò così nella sua funzione di diffusione in Occidente della civiltà ellenica. La presenza greca lasciò tracce indelebili nell'Italia meridionale e in Sicilia. L'arte della Magna Grecia si sviluppò sulle forme della madrepatria anche se, come nella vicina Sicilia, fu caratterizzata da elementi locali, in maniera anche diversa nelle singole località.

 

 

Dal 28 luglio al 11 agosto 1480 i Turchi del Pascià Acmet assediarono la città di Otranto. Entrati con forza nella città, raccolsero gli 813 uomini superstiti. Gli abitanti furono portati sulla vicina collina della Minerva e obbligati ad una scelta: morte o rinnegare Cristo. Il primo martire fu Antonio Primaldo, il quale dopo la decapitazione si alzò in piedi e vi rimase fine al martirio dell'ultimo compagno di gloria.
Le s. reliquie dei Martiri dal 1711 sono custodite nella Cappella dei Martiri nella Cattedrale di Otranto. Altre chiese custodiscono reliquie dei Bb. Martiri: S. Maria Maddalena di Napoli, e S. Caterina - Duomo di Milano - Episcopio di Salerno, Roraima (Boa Vista e Mucajaì), Panamà (Pacora) e l'Episcopio di Bari.
I beati 800 martiri sono patroni della Città e Archidiocesi di Otranto, ma anche di S. Cassiano e di Surano.
Nell’estremo sud est d’Italia, dove il mare cristallino bagna, in mirabile alternanza, lunghe spiagge e superbe insenature rocciose, Otranto è da tempi remotissimi una città importante, crocevia di commerci, ma anche testimone di un passato eroico. Dai primi insediamenti che risalgono al 2.200 a. C. ebbe origine un centro naturalmente proteso a oriente, distante, attraverso il canale omonimo, poche miglia di mare dall’Albania e dalla Grecia. L’antica Hidruntum fu centro messapico, importante città della Magna Grecia, poi municipio romano. La sua posizione, oltre a dominare i commerci, influenzò sia la cultura che la religione. In tutta la Terra d’Otranto il rito bizantino, insieme a quello romano, sopravvisse fino al secolo XVI. Ancora oggi possenti mura proteggono il centro medievale e la Cattedrale (costruita nel 1088) col suo pavimento-mosaico realizzato tra il 1163 e il 1165. In esso un immenso “albero della vita”, raccogliendo scene sia bibliche che profane, rappresenta la storia dell’intera umanità. Anche su questo pavimento cadde il sangue innocente degli Idruntini.
Correva l’anno 1480: da neppure trent’anni, con l’occupazione di Costantinopoli da parte del sultano turco Maometto II, era caduto l’Impero Romano d’Oriente. Papa Sisto IV, giustamente preoccupato dalle mire espansionistiche musulmane, si prodigò inutilmente affinché si formasse una lega cristiana di difesa. Particolarmente contraria la Serenissima Repubblica Veneta che, per il controllo del Mediterraneo, da sempre era nemica del Regno di Napoli. Gli altri stati, invece, perennemente preoccupati a difendere ed estendere i propri domini, sottovalutarono il pericolo. Il progetto ottomano era grandioso: occupare Otranto, conquistare il sud d’Italia, poi su, fino alla Francia e ricongiungersi con i musulmani di Spagna. Il 28 luglio centocinquanta navi turche, con diciottomila uomini, sbarcarono sulla lunga spiaggia presso i Laghi Alimini. Il Re di Napoli, Ferdinando I d’Aragona, era in Toscana e la sua guarnigione, impaurita, si dileguò. Fu intimata la resa, ma i capitani, Francesco Zurlo e Antonio de’ Falconi, risposero gettando simbolicamente in mare le chiavi della città. Per dodici terribili giorni Otranto venne bombardata sia da terra che da mare, fino a quando i mori riuscirono a penetrare all’interno abbattendo una porta secondaria delle mura. Massacrarono tutti coloro che trovarono per le strade e anche nelle case, facendo poi irruzione nella cattedrale. L’Arcivescovo, Stefano Pendinelli, stava celebrando il Sacrificio Eucaristico: sacerdoti, frati e molti del popolo furono massacrati mentre pregavano. L’anziano presule, con gli abiti pontificali e la croce in mano, fu ucciso con un colpo di scimitarra che gli staccò di netto il capo. Era l’11 di agosto. Le donne furono ridotte in schiavitù, alcune anche violentate, mentre i circa ottocento uomini superstiti, dai quindici anni in su, furono imprigionati. Tre giorni dopo, incatenati e seminudi, a gruppi di cinquanta, partendo dai pressi dell’odierna cappella della Madonna del Passo, furono condotti sul Colle della Minerva. Fu chiesto loro, ripetutamente, di abiurare la fede cristiana per aver salva la vita; venti di loro riscattarono la libertà pagando trecento ducati a testa. Un anziano cimatore di panni, Antonio Pezzulla, esortò i compagni a difendere il proprio credo e fu il primo ad essere decapitato: venne quindi detto “Primaldo”. Era iniziato l’orribile massacro: le cronache raccontano che il corpo del Beato Antonio, senza testa, rimase in piedi fino all’esecuzione dell’ultimo concittadino. Profondamente scosso, il carnefice Bernabei si convertì e fu impalato poco distante. Otranto, fiorente città di dodicimila abitanti, era irriconoscibile, ma la sua eroica resistenza aveva permesso all’esercito aragonese di raggiungere il Salento e sventare il pericoloso disegno espansionistico ottomano. L’esercito liberatore fu composto anche dalle truppe del Papa (che per sensibilizzare gli stati cristiani aveva nominato nunzio apostolico il Beato Angelo Carletti) e da quelle dei Medici. Si formarono tre presidi militari (Roca, Castro e Sternatia), ma i turchi resistettero tredici mesi durante i quali la cattedrale fu trasformata in moschea e ci furono diversi scontri e scorribande nei paesi vicini. Finalmente l’8 settembre 1481 i turchi si ritirarono, complice anche la morte di Maometto II. Cinque giorni dopo si poterono recuperare i corpi dei Martiri che, nonostante giacessero, da oltre un anno, abbandonati sul colle, erano per buona parte incorrotti. La maggior parte di essi venne pietosamente sepolta nella cripta della cattedrale, altri, circa duecentocinquanta, furono portati dal Re a Napoli nella chiesa di S. Maria Maddalena, detta dopo dei Martiri (poi definitivamente nella chiesa di S. Caterina a Formiello). Ad Otranto, l’anno successivo, in cattedrale fu loro dedicata una cappella alle cui spese contribuì il Re con una donazione. L’eccidio degli idruntini ebbe vasta eco in tutta Italia: ne scrissero molti storici mentre Ludovico Ariosto compose la commedia “I Suppositi”. Nel 1539 l’Arcivescovo Pietro Antonio de Capua istruì il processo per il riconoscimento del martirio degli Ottocento, in odio alla fede cristiana. Il popolo ne invocava l’intercessione come patroni, tra l’altro proprio durante il pericolo di altri assedi (nel 1537 e nel 1644). Il 14 dicembre 1771 Papa Clemente XIV li proclamò solennemente beati. Dal 1711 le loro ossa sono custodite in cattedrale, in sette grandi armadi dai cui vetri destano ammirazione, invitandoci ad essere perseveranti nella fede. In piccoli armadi laterali sono conservati resti di carne, integri, senza alcun trattamento, dopo oltre cinque secoli; sotto all’altare vi è il ceppo della decapitazione. Al centro della medesima cappella si trova un’antica e prodigiosa statua della Madonna. Durante la presa della città un soldato, credendola d’oro, la rubò. La portò a Valona, ma quando vide che era solo di legno dorato la gettò tra i rifiuti. Vi era in quella casa una donna otrantina, tenuta come schiava, che vista la sua Madonna gelosamente la raccolse. Il permesso per rimandarla a Otranto lo ottenne quando la padrona, che era incinta, colta dalle doglie, partorì felicemente solo dopo le sue preghiere. La tradizione dice che, posta su una piccola imbarcazione, senza vela e senza che nessuno fosse a bordo, da sola tornò ad Otranto. In un’esplosione di gioia collettiva fu riportata in cattedrale, accolta dal Vescovo Serafino da Squillace.
Gli Ottocento Martiri, Patroni dell’Arcidiocesi, sono festeggiati il 14 agosto. Compatrono della città è san Francesco da Paola che dall’Eremo di Paternò, qualche mese prima dell’eccidio, dopo una premonizione mistica, scrisse al Re nel tentativo di salvare Otranto, ma non fu ascoltato. Ai suoi confratelli aveva detto: “ Otranto città infelice, di quanti cadaveri vedo ricoperte le vie; di quanto sangue cristiano ti vedo inondata”. Due secoli prima anche l’abate Verdino da Otranto (morto nel novembre 1279), dal monastero di Cosenza, aveva predetto: “La mia patria Otranto sarà distrutta dal dragone musulmano”.
Il 5 ottobre 1980, in occasione del cinquecentesimo anniversario del martirio, Papa Giovanni Paolo II visitò la città e lanciando il suo messaggio di pace additò “alle moltitudini convenute da ogni parte le vie della verità e della grazia, la fratellanza con i popoli d’oriente” (dalla lapide posta in cattedrale a perenne ricordo).
(Daniele Bolognini)

 

 

Il Salento (Salentu in dialetto salentino ), conosciuto anche come penisola salentina, è la parte meridionale della Puglia, situata tra il mar Ionio ed il mar Adriatico e delimitato dalla cosiddetta "soglia messapica", una depressione che corre lungo la linea Taranto-Ostuni e che lo separa dalle Murge. È denominato il "tacco d'Italia". I suoi vertici ideali sono:

Taranto, nell'omonima provincia; Pilone, nel territorio di Ostuni in provincia di Brindisi, Santa Maria di Leuca, in provincia di Lecce.
Ha una configurazione pianeggiante in cui si distinguono i primi rilievi delle Murge tarantine a nord-ovest, il Tavoliere di Lecce al centro, le ondulazioni delle Serre a sud. Storicamente occupa il territorio dell'antica Terra d'Otranto. Bisogna altresì precisare che il Salento, dal punto di vista linguistico, non comprende la città di Taranto (dove si parla il dialetto tarantino), né il resto della sua provincia ad ovest del capoluogo (dove si parla generalmente il dialetto pugliese), né il resto della provincia di Brindisi a nord di Ostuni (dove l'accento viene influenzato dal dialetto barese). Al di sopra di tali confini, la lingua può quindi essere definita generalmente "pugliese", appartenente alla tipologia "meridionale". Al di sotto invece, si parla il dialetto salentino, appartenente alla tipologia "meridionale estremo" e più simile alla lingua siciliana, in particolare al catanese.

Questa terra, dai greci anticamente chiamata Messapia, era appunto abitata dai Messapi, che difendevano la propria autonomia dallo strapotere dell'antica città di Taras. Tale inimicizia fra le due popolazioni fu anche narrata da Erodoto, quando raccontò della guerra scatenatasi intorno al 474 a.C. fra Taras e la Lega Peuceta, di cui i Messapi facevano parte. In seguito ai conflitti tra Roma e Taranto, cominciati nel 280 a.C. e che sancirono la decadenza della città italiota, il Salento si latinizzò a tal punto da contribuire alla nascita della letteratura latina con figure di spicco quali Ennio e Pacuvio. In questo periodo abitavano la regione le popolazioni dei Calabri e dei Sallentini, e con il nome di Calabria confluì ai tempi dell'imperatore Augusto nella Regio II: Apulia et Calabria.

Particolarmente colpita durante la guerra greco-gotica, divenne poi terra di confine fra Longobardi e Bizantini. Questi ultimi intorno al VII secolo fondarono il Ducato di Calabria aggregando la regione del Bruzio con le terre che ancora possedevano nel Salento, il cui limite nord era dato dal cosiddetto limitone dei greci, una sorta di muraglione costruito a salvaguardia del territorio dalla minaccia dei barbari e ancora esistente in diversi tratti. Fu così che il nome Calabria cominciò a essere utilizzato per designare l'odierna regione calabrese, mentre il Salento veniva progressivamente conquistato dai Longobardi che finirono per prendere anche il capoluogo Otranto. Nel 757 la città idruntina venne poi restituta all'impero bizantino, ma ormai la penisola salentina aveva perduto la denominazione originaria assumendo quella di "Terra d'Otranto".

Dal 1088 al 1465 Taranto fu la capitale del Principato di Taranto, tanto esteso da inglobare l'intera Terra d'Otranto. Sotto Raimondo Orsini Del Balzo acquisì una tale autonomia che, alla sua morte nel 1406, il Re di Napoli Ladislao giunse in armi sotto le mura di Taranto per rivendicarne il possesso. La contessa di Lecce Maria d'Enghien, vedova di Raimondino, respinse due volte il Re di Napoli, il quale alla fine si decise a sposare la contessa, ottenendo per via diplomatica ciò che non era riuscito a conquistare con la forza.

Nel 1480 Otranto fu invasa dai Turchi guidati da Ahmet Pascià, che condusse l'occupazione anche nella parte più interna della regione. Centinaia sono le torri di avvistamento lungo le coste del Salento, edificate per poter avvistare in tempo le navi saracene.

Le dominazioni spagnole e borboniche retrocessero anche politicamente la Terra d'Otranto a una regione periferica. Dopo l'Unità d'Italia, fu infine costituita la Provincia di Lecce, originariamente comprendente tutte e tre le province salentine.
La penisola salentina è culturalmente un'isola. La regione non è infatti assolutamente assimilabile alla Puglia, sia dal punto di vista linguistico che da quello architettonico, sia negli usi che nei costumi. Il paesaggio architettonico è di tipo greco per la predominanza assoluta delle case bianche "a calce", senza tetto, soprattutto in campagna e sulla costa, ma i centri storici sono caratterizzati da un lascito spagnolo del Barocco che qui assume caratteristiche sue proprie spogliandosi della sovrabbondanza pittorica degli interni e trasformando le facciate esterne di chiese e palazzi in veri arazzi scolpiti. In ciò, molta importanza ha avuto la locale "pietra leccese", tenera e malleabile e dal caldo colore giallo rosaceo. L'architettura pugliese, invece, è rappresentata soprattutto dal Romanico.

Nel territorio esistono delle piccole enclavi grecòfone (probabilmente originate da migrazioni medioevali), popolate da un gruppo etnico di lingua grica che vive nella regione storica della Grecìa salentina e, come in altre aree dell'estremo sud, alcune enclaves Arbëreshë sorte con la diaspora albanese a partire dal XV secolo guidata da Giorgio Castriota Skanderbeg.
La Grecìa Salentina, nel Salento centrale è un'Isola linguistica nonché un territorio con un'identità culturale a sè stante, dove i suoi 50.000 abitanti parlano il dialetto neo-greco noto come grecanico o griko. Questo territorio comprende dieci comuni, nove dei quali di lingua ellenofona: (Calimera, Castrignano de' Greci, Corigliano d'Otranto, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia e Zollino), più un altro non ellenofono di recente ingresso (Carpignano Salentino).
Di particolare interesse antropologico è l'ormai estinto fenomeno del "tarantismo", una forma isterica di straordinario impatto scenico, e l'invece rimontante culto per la "pizzica", la musica tradizionale e battente che un tempo accompagnava i riti di guarigione delle tarantate, cioè delle donne che si credeva fossero state morse dalla taranta. In realtà, si trattava di un originale modo di manifestarsi dell'isteria. L'antropologo Ernesto De Martino condusse degli storici studi sul fenomeno, poi confluiti nel classico testo "Viaggio nella terra del rimorso".
Grazie alle sue caratteristiche culturali, ambientali e storiche, il Salento si è affermato negli anni come meta di un turismo responsabile e di qualità, in contrapposizione alle mete classiche del turismo di massa estivo. Il Salento riveste infatti dal punto di vista turistico un'importanza notevole, potendo ospitare:

zone di particolare pregio ambientale (sono da segnalare le zone protette dei Laghi Alimini, Torre Guaceto e del Parco delle Cesine, sulla costa adriatica, di Porto Selvaggio, sulla costa ionica, nonché l'Oasi Palude La Vela sulle sponde del Mar Piccolo di Taranto. Istituiti nell'ottobre del 2006 il Parco della costa di Otranto - Santa Maria di Leuca e del bosco di Tricase ed il Parco delle Dune costiere da Torre Canne a Torre San Leonardo sulla costa adriatica) ampie coste sabbiose (tra cui quelle di Porto Pirrone e di Porto Badisco, rispettivamente teatro dell'approdo leggendario di Taras e Enea) e spettacolari scogliere a picco sul mare numerose grotte carsiche (la più famosa è la Zinzulusa), al cui interno sono stati rinvenuti pittogrammi e vari reperti paleontologici (molti dei quali custoditi nel museo di Maglie) le gravine (la più grande è la Gravina di Castellaneta) che saranno inserite nel costituendo Parco delle Gravine 

L'Altosalento è il territorio più a nord e a più alta altimetria del Salento, dove le ultime propaggini delle Murge lasciano il passo alla pianura salentina. Comprende tutta l'area centro-nord della provincia di Brindisi e parte della valle d'Itria. Non è da intendersi come un territorio dai confini ben definiti e delineati, trattandosi di una zona di confine con la sub-regione della Murgia, e presentando caratteristiche fisiche, culturali, sociali ed economiche in qualche modo diverse dal basso Salento e ancor più dalle Murge dell'entroterra barese e tarantino. Pertanto, questa zona della Puglia, non è chiamata "alto Salento" ma "Altosalento" (un'unica parola), per sottolineare le peculiarità uniche e distintive del territorio. Il territorio dell'Altosalento ha consolidato nel corso dei secoli una propria identità, resa unica dalle tracce ben visibili della civiltà contadina fondata sulla "pietra" che ha prodotto una singolare architettura rurale con trulli, masserie e muretti a secco. Il comprensorio altosalentino si sta sempre più compattando in una realtà economico-turistica omogenea; fra i comuni più rappresentativi si segnalano: Ostuni,Oria,Ceglie Messapica, San Michele Salentino, Francavilla Fontana, Mesagne, San Vito dei Normanni, Carovigno e Cisternino.

Arti Popolari Marinaresche
Arte del Giunco
E' un'arte antichissima tramandata sia per essere da supporto all'attività marinara, sia per affiancare l'economia rurale con la produzione di "panàre o panàri, sporteddhe e ciste" ossia ceste e panieri di giunco o di vimini, il cui utilizzo si può estendere persino all'esercizio della pesca.
Nel periodo di fermo i pescatori preparano "le nasse", speciali gabbie intessute con giunco e con rafe di spago a forma conica. All'interno si colloca l'esca; il pesce attratto dal miraggio del cibo penetra tra le maglie senza avere però la possibilità di uscirne, perché l'apparecchio funziona come un'autentica trappola infallibile.
Esistono diversi tipi di nasse a seconda del genere di pesca e del pescato: le nasse grandi "a pede", non si vedono più in giro; erano calate a coppia, destinate a giacere sul fondo marino. Venivano adoperate per la pesca dello zerro, ma pure delle triglie piccole.
Le nasse "a tonu" sono calate in serie di otto o dieci, servono, di norma, senza adoperare esca, per la cattura di gronghi, murene, polpi e altro genere di pesce assortito e misto ('mbiscu).
Le nasse "pe' secce" vengono immerse in serie come le precedenti ma in fondali sabbiosi, l'habitat preferito dalla seppia.
Infine le nasse "de ope" per la pesca delle boghe; possono essere innescate (da pescatori senza scrupoli) col cosiddetto "pignulu" (pillola) spesso consistente in una pallottola impastata con farina di fave abbrustolite, sospesa all'interno tramite una funicella. Immersa la nassa, l'impasto si scioglie gradualmente sino ad intorbidare l'acqua circostante, sì da attirare con un forte odore particolare le ope.
Nel mare di Gallipoli è ancora praticata la pesca con le nasse, sebbene parzialmente.
L'arte delle reti

A tale mestiere non più artigianale, si dedicavano gli stessi pescatori e talora venivano coinvolte persino mogli e figlie a cui veniva affidato il momento della confezione. Le dimensioni delle reti si calcolano con l'unità di misura che è consueta per i pescatori, ossia "lu passu", il passo, pari a circa 185 cm.
Esistono due categorie di reti: quelle "a maglia" e quelle "a filo"; le prime a maglia reticolata, le seconde con fili di vario spessore e varia lunghezza.
Ad eccezione delle reti da tonnara con fibra di cocco, tutte le altre erano realizzate con filati di cotone, anche del tipo makò o di canapa, periodicamente tinte di color marrone rossastro allo scopo di non marcire ma anche di essere alquanto trasparenti sott'acqua.
Da: "
Gallipoli e il suo mare" di Gino Schirosi Coordinamento Editoriale: C.R.S.E.C. LE/ 48 Gallipoli
Gallipoli e il mare
E' difficile non notare il forte legame esistente tra Gallipoli e il mare, non solo perchè la città è protesa sull' acqua ma perchè la pesca rappresenta la prevalente fonte di ricchezza per la popolazione.
Sui moli che costeggiano la città si incontrano pescatori, più o meno giovani, intenti a riparare le reti o a sistemare le barche prima e dopo la partenza. Sono uomini che si dedicanao a questa attività perchè è stata loro tramandata dai padri e a loro volta la inegnano ai più giovani.
Parlando con i pescatori si può scoprire che non tutti lavorano allo stesso modo e negli stessi orari. Esistono, infatti, diversi tipi di pesca per ogni periodo dell'anno ed ognuno di essi richiede l'utilizzo di strumenti diversi.
Tipi di pesca - Sono sette i tipi di pesca:
a strascico - effettuata con i motopescherecci: si calano in mare reti a forma di sacco e le si trascinano; in questo modo i pesci rimangono intrappolati dentro.
li tramacchiati - si calano le reti (formate da due esterne a maglie larghe e una, a maglie fitte, al centro) in acqua per almeno dieci ore. Passato questo tempo vengono ritirate partendo dall'estremità gettata per prima.
a tratta - è un tipo di pesca per la quale si sa un filo di nylon legato a una barca in movimento alla cui estremità viene legato un pesce in plastica che galleggia e attira "ricciole" e calamari;
la chiangi - è realizzata da tante barche e si pratica quando è buio con le"lampare" che abbagliano i pesci i quali restano intrappolati nelle reti. Con la chiangi si pescano "cupiddhi e ope";
la togna - dagli scogli, con un lungo filo di nylon alla cui estremità viene sistemato un gamberetto come esca, si cattura la preda;
le nasse - sono campane realizzate con giunchi e una apertra inferiore che permette ai pesci di entrare attratti da pezzi di pane e, poi, non riescono più ad uscire restando intrappolati: Con le nasse si pescano vari tipi di pesce. L' unico inconveniente è rappresentato dai delfini che, attratti dal pesce intrappolato, distruggono le nasse;
a fiacca - è un tipo di pesca praticata durante le ore notturne nelle zone dove il fondale è basso: si pratica con almeno due persone; una illumina il mare con un grosso faro e l'altra guarda l'acqua con uno specchio ed ha una fiocina per catturare i pesci. Appena questo viene abbagliato e si immobilizza, il pescatore "lu 'nfioscina".

(proloco gallipoli)

 

 

La musica popolare ha nel Salento un sapore del tutto particolare. Risulta legata all’antico mondo contadino, alle sue insicurezze, alle sue credenze.

Il tarantismo, secondo la credenza popolare, era una malattia provocata dal morso della tarantola, piccolo ragno che si manifestava soprattutto nei mesi estivi (periodo della mietitura) e che provocava uno stato di malessere generale – dolori addominali, stato di catalessi, sudorazioni, palpitazioni – in cui musica, danza e colori rappresentavano gli elementi fondamentali della terapia. Sembrerebbe che il morso fosse un pretesto per risolvere traumi, frustrazioni, conflitti familiari e vicende personali.

Da essa scaturisce la “Taranta” o anche detta "pizzica" che è una danza rituale dell'Italia del Sud, le cui origini risultavano diversficate. Si tratta di una danza tipica anch'essa del Salento, che conserva la funzione di ballo curativo contro il mitico morso della tarantola.

La musica è l'elemento più importante della terapia; infatti, la Tarantata (persona morsa dalla tarantole), che giaceva sul suolo o sul letto, ascoltandola cominciava a muovere la testa e le gambe, strisciava sul dorso, sembrava impossibilitata a stare in iedi e quindi si manteneva aderente al suolo, identificandosi con la tarantola. Successivamente batteva i piedi a tempo di musica come per schiacciare il ragno, compiva svariati giri e movimenti acrobatici, finché stremata dagli sforzi, crollava a terra.

Addirittura, senza inibizioni, si muoveva in modo impudico mostrando le parti intime del corpo.

La tarantola, si narra, così, graziata da S. Paolo, il Santo celebrato il 29 giugno a Galatina (LE), veniva condotta presso la cappella del Santo, beveva l'acqua sacra del pozzo adiacente ad esaa e ripeteva simbolicamente un breve rito di danza. Si racconta inoltre che la statuta di S. Paolo venisse allontanata dalla cappella per evitare che la Tarantata ci si arrampicasse e la facesse cadere. C'era imfatti anche questo rischio. Quella dei Tarantati è una possessione terapeutica: per prima si ha l'identificazione con la tarantola e dopo il suo allontanamento.

È molto curioso come i Tarantati fossero predisposti a cogliere anche le più piccole dissonanze e quando se ne accorgevano sospiravano ed erano afflitti. Dopo aver ballato per giorni e giorni, dopo aver sudato, guarivano, fino a che l'anno successivo, intorno al 29 giugno, si preparavano a rivivere i ciclici “ri-morsi”.

La produzione musicale risulta molto varia, tuttavia risulta possibile distinguere tre grandi filoni: la Pizzica Tarantata, la Pizzica de core e la danza delle spade.

La pizzica Tarantata
E’ una danza terapeutica che nasce dal rito di guarigione delle Tarantate, durante la messa-esorcismo che ogni 29 giugno si svolgeva presso la cappella di San Paolo a Galatina, santo protettore di tutti coloro i quali sono morsi da animali velenosi. L’esorcismo poteva in ogni caso svolgersi anche in privato, tra le mura domestiche, con l’ausilio di tamburelli, violini, armoniche a bocca e altri strumenti musicali.

Il soggetto morso dalla Taranta che era per lo più donna ballava, al suono dei tamburelli, per ore in preda all’epilessia causata dal veleno, fino a che liberata dal veleno perdeva i sensi. Ad ogni estate in prossimità del 29 giugno il tormento del veleno si rinnovava così come si ripeteva il rito i liberazione. Alcuni studiosi hanno legato il fenomeno al ruolo particolarmente sottomesso nel mondo contadino della donna, che aveva in questa manifestazione l’unico momento di liberazione dalla depressione. Secondo Ernesto De Martino, “il morso esprime conflitti psichici cifrati emergenti dall'inconscio”.

Pizzica de core
E’ un ballo che si presenta con alcune varianti della pizzica Tarantata. Infatti la pizzica de core rappresenta i sentimenti d’amore, erotismo e passione nel rito di corteggiamento tra un uomo e una donna. In questo ballo la donna balla al ritmo frenetico dei tamburelli e violini sventolando un fazzoletto rosso, il colore della passione, con il quale invita a ballare colui che il capriccio le indica. Stanca di questo compagno, ne invita un altro e un altro ancora a suo piacimento, donando il fazzoletto solo a colui che sarà stato in grado di rapirle il cuore assecondando ogni suo desiderio, ogni sua fantasia.

Danza delle spade
E’ un antico rituale di derivazione greca. La sua genesi non è perfettamente conosciuta, si basa sul continuo conflitto tra il bene il male. Anch’essa nasce sul ritmo della pizzica al suono di tamburelli e violini. Essa deriva dai duelli rusticani, che si tenevano quando l’onore e l’orgoglio erano stati feriti, con le faide tra famiglie che insanguinavano i paesi. Durante la festa di San Rocco s’incontravano e davano il via a questo mito leggendario che è diventato la danza delle Spade.

In origine essi venivano combattuti con coltelli e spade affilate. Successivamente il duello è diventato una semplice danza i coltelli e spade vengono mimate con il movimento del braccio con il dito indice e medio protesi come una lama. Durante la danza si mima un duello vero e proprio con tanto di attacchi, di affondi e difese. La manifestazione più rappresentativa è a Torre Paduli, in un immenso piazzale, ogni 15 agosto in occasione de festeggiamenti di San Rocco.

Il "Neo-tarantismo", e' un fenomeno nuovo che coinvolge larghe fasce di popolazione. E' un movimento che esprime il bisogno di "altra" musica, per nuovi rapporti comunicativi e relazionali, una domanda di danza catartica fruibile oltre i suoi connotati storici legati alla sofferenza e alla vergogna.
Come ogni grande movimento culturale, anche Salento e Taranta nasce e si sviluppa dal basso contrapponendosi alla globalizzazione, al livellamento culturale ed al tentativo di cancellare le diversità attuati dai mass media.

E sono soprattutto i giovani che portano avanti questo movimento che innesca momenti di danza collettiva, nelle piazze, nei centri sociali, nei pub, nei teatri ed in qualsiasi altra struttura che proponga concerti di musica popolare.

Il tarantismo trova la sua massima espressione in agosto allorquando viene data vita a tutta una serie di manifestazioni culturali in varie Locali a Otrantota' del Salento. L'evento piu' imponente e' sicuramente la notte della Taranta, un festival itinerante che coinvolge tutti i Comuni della Grecia salentina che ha il proprio clou a Melpignano (Le) il 17 agosto nei pressi del convento degli Agostiniani.

Origini storiche del tarantismo
L'origine di questo ballo ci riporta ancora una volta ad oriente ed alle popolazioni saracene. Infatti la culla di questo genere musicale è Lucera ove, intorno all'anno 1000, si erano insediati i Saraceni vivendo per quasi un secolo, incrementando i rapporti commerciali con il Salento.

Essi vi portarono i propri canti ed i propri balli. Successivamente il ballo comincio' a connubiarsi con il morso del terribile ragno che procurava gravi malattie e febbri molto alte. Infatti l'antidoto contro il veleno era sudare ballando sulle note sfrenate del ballo saraceno.

Lo strumento essenziale per suonare la pizzica è il tamburello importato dai Saraceni poi modificato nel tempo. Quello moderno è di forma circolare con sonagli, prima assenti, e con una membrana di pelle e viene suonato in diversi modi:
1) nel Salento l’ipotenar (la parte dallando el polso sotto il pollice) batte sulla membrana dando il ritmo, in questo caso il tamburello svolge un compito reggente dell’intera melodia;
2) ancora nel Salento il tamburellista fa scorrere le dita sul tamburello facendo vibrare solo i sonagli, in questo caso il tamburello svolge una funzione di cornice, quasi di abbellimento;
3) nella tarantella Campana il tamburello viene solo agitato anche in questo caso il suono è di abbellimento;
4) nel Lazio il suono continuo di questo strumento si è perso, infatti viene suonato solo nel ritornello della canzone, dal cantante solista, e la membrana è percossa dal palmo, a volte senza seguire il ritmo.

La Notte della Taranta è il più grande festival musicale dedicato al recupero della pizzica salentina e alla sua fusione con altri linguaggi musicali che vanno dalla world music al rock, dal jazz alla sinfonica.

Nato nel 1998 su iniziativa dell'Unione dei Comuni della Grecìa Salentina e dell'Istituto Diego Carpitella, in questi anni il festival è cresciuto di dimensioni e prestigio culturale grazie all'intervento della Provincia di Lecce - che dal 2001 è entrata a far parte degli enti che promuovono e organizzano La notte della Taranta - e della Regione Puglia dall'edizione 2005.
La "pizzica" è la musica che scandiva l'antico rituale di cura dal morso immaginario della tarantola, il pericoloso ragno velenoso. La tradizione vuole che per liberare la vittima, di solito una donna, si suonassero incessantemente i tamburelli a ritmo vorticoso finché non veniva sciolta dall'incantesimo. Al suono dei tamburelli si accompagnava un ballo ossessivo e ripetitivo, che contribuiva ad esaurire il veleno. Altre varianti della pizzica tarantata sono il ballo del corteggiamento tra uomo e donna e la "danza dei coltelli" anche detta "pizzica a scherma".

L'ossessione del ritmo nella musica e nella danza sopravvivono ancora oggi e ne sono interpreti alcuni tra i migliori musicisti salentini che, riuniti nell’Ensemble La Notte della Taranta, incontrano i più importanti nomi della musica internazionale, diretti dai maestri concertatori che negli anni sono stati: Daniele Sepe (prima edizione 1998), Piero Milesi (maestro concertatore per due edizioni del festival, nel '99 e nel 2001), Joe Zawinul (2000), Vittorio Cosma (2002), Stewart Copeland (2003).

Con la concertazione di Ambrogio Sparagna dal 2004 è nata l’Orchestra Popolare La Notte della Taranta, che ha assorbito al suo interno l’Ensemble arricchendosi di tutte le sezioni di strumenti tipiche di una orchestra.
Ogni anno il festival presenta una parte itinerante nei Comuni della Grecìa Salentina della durata di 10/12 giorni (con l’edizione 2005 si arriva a 15 giorni), durante i quali si esibiscono i più importanti gruppi del panorama tradizionale salentino e della scena world internazionale. A chiudere il festival è poi il "concertone finale", la "notte" che dà il nome all'intero evento, e che è il frutto di una produzione originale con un maestro concertatore chiamato a rileggere il repertorio della tradizione salentina e a produrre un progetto originale, diverso di anno in anno. Questa logica ha dato vita ad inediti dialoghi come quello fra la tradizione popolare e la musica colta attraverso l'incontro dell'Ensemble La Notte della Taranta con l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Lecce (nell'edizione 2001 diretta da Piero Milesi), quello fra la cantante israeliana Noa e la lingua grika nell'edizione 2002 o ancora quello fra le sonorità rock dell'ex Police Stewart Copeland, batterista, e i ritmi percussivi della taranta.
L'Orchestra è nata nel 2004 sulla base di quello che nelle precedenti edizioni del festival (dal 1998) era l'Ensemble La Notte della Taranta, una ventina fra i migliori musicisti di pizzica e taranta di tutto il Salento. Dalle audizioni dirette da Ambrogio Sparagna e organizzate su tutto il territorio regionale pugliese ha preso vita quella che oggi è l'orchestra, una sessantina di musicisti che nella loro compagine rappresentano un formidabile strumento di promozione culturale.

Nuovo epicentro culturale, luogo privilegiato attraverso cui realizzare modalità creative ed esecutive che sperimentano linguaggi poetici rielaborando antichi repertori, l'orchestra ha per protagonisti gli strumenti tipici della nostra tradizione musicale (organetti, tamburelli, zampogne, mandolini, violini, chitarre battenti, ciaramelle) organizzati tra loro mediante specifiche sezioni in relazione alle loro funzioni.

In questo organico alcuni strumenti, come ad esempio gli organetti, assumono grande importanza in quanto sono in grado di assolvere simultaneamente a funzioni melodiche, armoniche e ritmiche. Altri invece, come i tamburelli, riescono a riprodurre una ricchezza poliritmica di assoluto valore.

Centrali in questo sistema sono le voci, che riproducono il principio in uso nella cultura di tradizione orale dell'egemonia della parola cantata, riproponendo così il tratto costitutivo della tradizione musicale italiana secondo cui è la parola che "comanda" e la musica ha la funzione di rafforzare il suo potere comunicativo.

Nel corso del 2005 l’orchestra popolare La Notte della Taranta ha “esportato” la sua musica non solo oltre i confini regionali, esibendosi a Venezia per la chiusura del Carnevale in Piazza S. Marco; a Bologna in Piazza Maggiore; a Roma sia nell’Auditorium Parco Della Musica per l’inaugurazione della stagione estiva, che in occasione della Notte Bianca; ma ha varcato anche i confini nazionali e continentali trasportando in Cina, ospite della terza edizione della “Settimana della musica popolare di Chaoyang”, i ritmi percussivi dei tamburelli, il suono degli organetti, dei tanti strumenti a corde e a fiato e le migliori voci della tradizione salentina.
Straordinaria l'attenzione dei media che cresce di anno in anno. In particolare l’edizione 2005 del concertone finale è stata seguita da tutte le principali testate nazionali fra quotidiani, periodici ed emittenti televisive e radiofoniche che hanno riprodotto l'eco di un progetto di ampio respiro su scala anche internazionale. Tutti i telegiornali nazionali RAI hanno dedicato al festival un ampio servizio il giorno successivo al concertone, seguito anche da SKY TG24 e dal Tg La7.

Oltre 80.000 le presenze di pubblico stimate nel piazzale degli Agostiniani di Melpignano per il solo concertone finale. Più almeno altre 70.000 presenze disseminate su tutto il periodo del festival.
Il Tarantismo

È difficile per chi vive nel Salento non aver sentito parlare, almeno una volta, delle "tarantate", donne di un tempo, neppure troppo lontano, che durante la stagione estiva, nei giorni del raccolto, curve in due sulle ginocchia, venivano "pizzicate" dal ragno, dalla taranta.
E con il morso la crisi: forti dolori addominali, sensazione di spossatezza, necessità di restare a letto. Fino a quando qualcuno non riconosceva l'origine del male e ne indicava la cura: bisognava chiamare l'orchestrina, suonare e indurre la malata a "ballare".
Cominciava, in un crescendo di percussioni e di suoni, la danza della malcapitata, al suolo e in piedi, strisciando, mimando l'andatura del ragno, roteando il capo,
tentando di arrampicarsi sulle pareti; e così per un giorno, o anche più. La crisi si ripeteva per anni, per molti anni, durante la bella stagione, preceduta dagli identici sintomi, liberata attraverso la danza ossessiva, in attesa del suo ritorno, 12 mesi più tardi. Ne hanno scritto uomini di scienza, antropologi ed etnologi, ne hanno ricercato le cause, descritto i gesti, interpretato i segni. Di certo si è stabilito che non esiste in Puglia alcun ragno in grado di provocare quei sintomi; le cause del tarantismo vanno ricercate altrove.
Innanzitutto, nella cultura di una terra, la Puglia, da sempre crocevia di popoli, di storia, mediterranea per natura sua propria, terra di sole e di sofferenza, di antichi riti tribali e di simboli pagani mai dimenticati. "Terra di mezzo" e come tutte le terre di mezzo magica e sacra.
Il ragno diventa l'espediente, il segno, la forza scatenante di una sofferenza più profonda, repressa, mai vinta: la sofferenza di chi lavora la terra, di individui ai margini del vivere sociale, che nel ragno e nel ballo trovano l'unica occasione per porsi al centro dell'attenzione, per dar libero sfogo alle frustrazioni di un anno.
Non a caso la taranta preferisce le donne, emarginate fra gli emarginati, vittime di una società patriarcale e contadina che le relegava in un ruolo subalterno ed oscuro.
Rivincita mitica, dunque; capovolgimento delle regole quotidiane, come un tempo il carnevale o i misteri del medioevo. Per un giorno è possibile impazzire, ballare.
Ma non basta; chi ha visto una di queste donne ballare, sa che la frenesia è reale, sconvolge, dilania; la cultura non può da sola spiegare il malessere profondo, esaurirne le cause.
Le tarantate, nuove menadi di Puglia, aprono uno spiraglio su simbolismi ancora più arcani.
Da sempre il serpente, il ragno ed altri animali striscianti sono simboli sessuali; ricordi di una società matriarcale, poi vinta da invasori che portavano nuove immagini e nuove divinità.
Apollo che sconfigge il serpente Pitone, Indra che si sbarazza di Vrtra, Iahweh che vince il Leviatano, lo stesso Dio cristiano che condanna il serpente segnano il trionfo di una ideologia solare, del maschile sul femminile.
Il ragno è l'idea della terra madre che riaffiora, è la forza di simboli e rituali antichi, non vinti dal Cristianesimo e dalla ragione.
Già nel '700 la Chiesa tentava di dare una coloritura cristiana al tarantismo; oggi, ogni 28 e 29 giugno i tarantati salentini (in numero sempre minore) sono "costretti" a ripetere la loro danza il giorno di San Paolo, all'interno della chiesa di Galatina.
Chiedono la grazia al santo, ed alla fine della frenetica danza, sperano che l'anno successivo non debbano più ballare.
Ma San Paolo, legato per mille strade ai serpenti ed ai ragni, viene dopo: è un'aggiunta cristiana.
In origine c'è il morso della taranta, il ballo, il tamburo, cerchio mitico simbolo dello spazio sacro; in origine ci sono la terra e la psiche; e ricordi ancestrali, che ciascuno di noi si porta dentro.

 

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OSTUNI - foto di Antonio Treccarichi

 

Domenico Modugno, detto anche Mimì, come molti lo ricordano, nasce a Polignano a Mare il 9 gennaio del 1928, nei pressi della piazza, all'epoca denominata, Minerva. Dell'infanzia non si hanno particolari notizie se non del suo trasferimento, insieme alla famiglia, a San Pietro Vernotico, piccolo paese in provincia di Brindisi. Qui, Mimì comincia giovanissimo a dedicarsi alla musica, strimpellando la chitarra e suonando la fisarmonica. Una volta raggiunta la maggiore età, Mimì decide di trasferirsi a Torino, dove troverà lavoro in una umile fabbrica. Successivamente, per assolvere agli obblighi di leva, Domenico Modugno torna nel suo paese, ma egli sa che questo stazionamento non durerà a lungo. Infatti, dopo aver assolto i doveri militari, Mimì si trasferisce a Roma, in cerca di fortuna e il suo sogno, sicuramente a lungo covato, diventerà per il nostro Mr. Volare, ben presto una realtà.
A Roma, nel 1951, Mimì partecipa ad un concorso per attori indetto dal Centro Sperimentale di Cinematografia vincendo una borsa di studio, in quanto si rivelò il miglior alievo della classe di recitazione. Infatti, alcune sue apparizioni, eseguite durante il periodo degli studi, confermano il suo precoce talento: De Filippo lo vuole in un suo film - "Filumena Marturano" - così come il regista De Robertis per il film "Carica Eroica" del 1952. In questi anni, si rivela fondamentale, per il nostro artista, l'incontro con Franca Gandolfi, che a distanza di qualche anno, nel 1955, diventerà sua moglie.

Questi sono gli anni più proliferi della carriera di Domenico Modugno. Prende parte a trasmissionmi radiofoniche e scrive ballate in dialetto. Ma il vero successo planetario giunge con la canzone "Nel blu dipinto di blu" ("Volare"). In controtendenza ad ogni stereotipo musicale dell'epoca, "Volare" consacra il successo di Modugno, che nel 1958 vinse il Festival di Sanremo. Ma non solo, "Nel blu dipinto di blu" viene tradotta in ogni lingua, scala tutte le classifiche musicali raggiungendo la vetta e nello stesso anno, in America del Nord, Domenico Modugno riceve due Grammy Awards in quanto "Volare" è la canzone dell'anno (1958), come pure il disco.
Parte per diverse tournée, in particolar modo negli Stati Uniti e nell'America Latina.
L'anno successivo (1959) vince ancora una volta il Festival di Sanremo con la canzone "Piove" (o "Ciao, ciao Bambina) e ancora l'anno successivo, ottiene il secondo posto con "Libero".
Nel 1960, un incidente lo costringe a stare lontano dalle scene, e solo un anno dopo, Domenico Modugno compare come attore protagonista e compositore delle musiche della commedia musicale "Rinaldo in campo" di Garinei e Giovannini. La commedia passerà alla storia come record d'incassi, tanto da poter essere definita come il più grosso successo teatrale di tutti i tempi in Italia.
Per molto tempo Domenico Modugno non si ferma, è un vulcano in piena attività e ciò fa sì che potesse ricevere numerosi premi e riconoscimenti per la carriera.

All'apice del proprio successo, però, durante una trasmissione televisiva, Mr. Volare viene colpito da una trombosi e da ciò accusa menomazioni nel linguaggio e nei movimenti.
Dal 1987 Domenico Modugno si dedica alla politica e anche in questo campo sembra aver successo. Infatti, viene eletto deputato del Partito Radicale e di cui era anche il presidente. Cominciano le battaglie in difesa dei diritti civili per le classi più deboli e denuncia le pessime condizioni dei pazienti ricoverati presso l'ospedale psichiatrico di Agrigento.
Nel 1991 torna a farsi sentire nuovamente la malattia, ma senza fermare la sua voglia di cantare. Infatti, nel 1993, Domenico Modugno incide l'ultimo disco, "Delfini" insieme al figlio Massimo e torna a Polignano a Mare per quello che sarà l'ultimo concerto della sua cariera.
Dopo aver fatto volare intere generazioni, Domenico Modugno muore il 6 agosto del 1994, nella sua dimora a Lampedusa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rieccomi.

 

Gli ultimi quattro giorni del viaggio li ho dedicati al mio zione.

E' uno zio acquisito, ma per me è stato ed è come un padre, un fratello, un amico. E la cosa è reciproca. Una persona davvero speciale, non so se nel nuovo millennio si possa ancora trovare una persona come lui.
Oggi è impensabile pensar di scovare un uomo che si dispera perchè non vuol incontrare Godot, ma non per la paura o il dolore fisico che questo incontro comporterebbe ma perchè non vuole abbandonare questo dono che Dio gli ha fatto: la sua vita, che ha vissuto fino in fondo in maniera splendida; un'esistenza che non ha mai rinnegato, sputato o maledetto.

Lui l'ha amata la sua vita, l'ha assaporata al cento per cento, c'è salito sopra come su un ottovolante e se fosse possibile rifarebbe punto per punto tutto quello che ha fatto senza toccare una virgola, un respiro, una parola, una vangata, una fucilata. Se, per miracolo, nascesse di nuovo risposerebbe certamente sua moglie della quale è ancora perdutamente innamorato, rifarebbe lo stesso lavoro e si farebbe destinare a Metaponto, di nuovo, per farsi ancora un altro giro di giostra!

Non so quante volte ho sentito questa frase "se dovessi rinascere, farei questo e quest'altro...". Lui no, ripeterebbe tutto senza cambiare nessuna battuta, primo secondo e terzo atto.

Metaponto è un luogo che nel 56', quando lui arrivò da Taranto, doveva essere come Piovarolo nel film di Totò; un luogo dove ognuno, colto dalla nostalgia, avrebbe fatto di tutto pur di scappare e  tornare nella città.

Ma lui, appena scoprì quel Paradiso che nessuno riusciva a "vedere" capì subito, al contrario di altri che cercano effimere felicità, che quello era un dono divino. Capì che soltanto lì avrebbe potuto vivere a misura d'uomo, raccogliere tutti i frutti che la natura gli metteva a disposizione senza nessuna formalità, respirare ogni mattina l'odore della campagna e del mare, vivere davvero in modo biologico, concepire il commercio con gli abitanti del luogo solo con scambi in natura e tramutando la moneta in verdure, ortaggi, fichi, pesce, fagiani, salumi, lavoretti e cortesie. Insomma, appena arrivò in quella terra capì in un attimo di che pasta era fatta la felicità.

E' stato proprio quel vivere "ruspante", il godersi fino in fondo la terra che ha coltivato, dimenticare (se mai le ha pronunciate) parole quali "ansia", "tristezza", "malinconia" che lo hanno forgiato a dovere fino a fargli capire davvero come si dovrebbe vivere nel vero senso della parola. Forse è stato un privilegiato e nemmeno lo sa.

Che vita avrebbe mai potuto fare un uomo che a 25 anni girava per le strade in Lambretta, con la fidanzata seduta dietro sul sellino e davanti il suo  Leo, fedele bracco da quaglie?  E che a 75 va a ballare il Liscio al Lido, con le ragazze che fanno a gara per due salti (zomp) con lui mentre la moglie gli corre dietro con le camicie di ricambio? 

Ho desiderato ripassare in quel viale di eucaliptus che emanano odori inebrianti e in fondo alla strada, all'improvviso, quel bianco serbatoio d'acqua che tutti noi cugini chiamiamo col nome di mio zio., un simbolo che considero quasi la porta dell'Eden. Proveniendo dalla provinciale, dove in un unto preciso un cartello indica "Metaponto", girando a destra da quella porta si cominciano ad annusare strani e familiari odori: l'odore di semola del pane di Matera che vendono nei forni, quello della nafta in un disordinato (ma ordinato) garage n. 21, quello di rucola che cresce dentro un'Opel diesel che gironzola da mattina a sera per tutto il borgo, quello che proviene dalla cucina di mia zia.
Tempo fa venne a Catania e quando lo accompagnai alla stazione lo salutai e lo vidi affacciarsi dal finestrino, già anziano e coi capelli tutti bianchi.

Mentre il treno cominciava a muoversi, sapendo che difficilmente sarei ritornato in Puglia, mi sembrava che quel vagone, con quel fantastico passeggero a bordo, si portasse via tutta la mia infanzia per non rivederla più, consentendomi soltanto di poterla raccontare agli amici: le mie estati a Metaponto, le infruttuose battute di caccia che finivano con i pallini scaraventati sulle angurie, le anguille del Basento, suo figlio utilizzato per confondere le tortore e farle avvicinare al suo fucile, le masserie ripitturate da cima a fondo, i bisognini all'aria aperta di campagna con la speciale carta igienica fornitami da mio zio: foglie d'ortica! E poi le notti passate sulla sua barca a tirare le reti, a pescare gli sgombri al bolentino, ad attendere le alici sulla sabbia fredda all'alba, ad arrostire enormi cefali di fiume, a sparare nei pomeriggi al tiro al piattello; le visite alle aziende agricole con mucche, oche e mezzadri che sembravano balzati fuori da un dipinto di Fattori o dai libri di Giovannino Guareschi. E come dimenticare il suo orto con l'antistante "officina"? (il garage dove mette subito sott'olio i suoi prodotti). I suoi vecchi cani li ho conosciuti quasi tutti, come le sue galline insaziabili, polli, colombe, capponi, conigli restii all'accoppiamento e che per punizione si ritrovavano la sera in salmì.

Gli  facevo compagnia anche quando lavorava. E quando era libero dal servizio, ogni tanto "si andava in servizio" lo stesso: ci recavamo allo Scalo per missioni burlone nei confronti dei suoi colleghi o (se proprio volevamo fare i bravi ragazzi) raccoglievamo lumache per la cena vicino i binari della stazione, illuminati da quelle affascinanti luci blu-violetto. Insomma, estati piene di tutto...di tutto..quello che quest'uomo mi ha insegnato. 

Ebbene, quella mattina alla stazione di Catania, tutto quel ben di Dio se lo stava portando il treno. Al ritorno in auto piansi, perché sapevo che se anche fosse ritornato in Sicilia, mai avrei riprovato quelle gioie. Cioè ..... nei suoi luoghi, a casa sua, dà il meglio di se stesso. Fuori casa gioca per il pareggio, ma in casa ottiene sempre tre punti!
Questo viaggio mi ha consentito di arrivare ancora in tempo a riassaggiare quei vecchi sapori, di rivivere e fotografare i ricordi di quella spensieratezza che soltanto lui e mio nonno mi hanno saputo regalare. 

Una mattina mi sono presentato da lui e gli ho detto "Adesso sarò la tua ombra. Per due giorni non ti mollo, ti seguirò dovunque andrai", sicuro che andandogli appresso avrei scoperto sempre qualcosa di nuovo, di fantastico. 

Appena gli dico questa frase il suo viso, come sempre, si trasforma magicamente da persona adulta a bambino monello: le labbra birbanti gli si cominciano ad allargare, le sue orecchie vibrano, una ruga scugnizza solleva le sue gote briccone che gli fanno diventare gli occhi così birichini da portarli in un collegio. E quando rivedo quella faccia discola, quella faccia da monellaccio, capisco subito cos'ha in mente. Già immagino quello che lui sta pregustando, cosa mi sta riservando, le trappole che mi sta preparando. In fondo era quello che voleva: passare un paio di giorni col suo vecchio compagno di giochi, preparargli subito un letto pieno di molliche e che sarà teatro di goliardici attentati notturni.

E così è stato: quattro giorni appresso ad un grande uomo che è l'Agriturismo fatto persona, che qualsiasi itinerario ti farà percorrere non sarà mai un percorso banale perché ha già in testa quale incontro meraviglioso vuol farti fare col suo secondo amore: la natura. E se lo assecondi, è felice di presentartelo, il suo amore.
Fino a quando esisterà quel serbatoio bianco lui sarà lì, ed io sono felice di aver avuto la fortuna di godermelo ancora una volta, di aver bevuto quell'acqua. Andarlo a trovare è come andare al Luna Park e ritornare bambini. Sembrerà assurdo, ma arrendersi e cedere alle sue diavolerie, riuscire ad entrare nella sua filosofia "gavettona" è carburante per l'anima. 

Un pomeriggio l'osservavo mentre dormiva: si addormenta dopo tre secondi esatti assumendo la posizione di un bambino mentre fa la nanna, girato di lato e con le mani sotto la guancia. E mentre è nelle braccia di Morfeo sorride, beatamente, e allarga le sue guance innocenti con l'espressione di colui che gode per qualcosa: forse sogna lepri che saltano o anatre di plastica che dovrà sistemare per scherzo nello stagno a danno di un ingenuo cacciatore.

Ecco, quando un uomo dorme così non si può definire diversamente: è un'anima pura. A un uomo così c'è da augurargli soltanto una cosa: ancora tanti giri di giostra!! 

 

Te lo dico proprio come si dice da voi: adesso anch'io mi sento di fottere!

Mimmo.

 

Dicono che c'e' un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare.

Io dico che c'era un tempo sognato, che bisognava sognare.

(Ivano Fossati)


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(*) "mi sento di fottere" è un termine usato specialmente nella bassa Puglia per esternare sconforto e malinconia.

Sta di fatto che un siciliano in vacanza in Puglia rischia grosso e il pericolo di prendere un paio di ceffoni è notevole. Di contro, una donna pugliese in vacanza in Sicilia rischia grosso lo stesso. Ma non per prendere ceffoni.

 

(P.S. Giuro di non averlo mai saputo prima di questo viaggio!)

 

 

 

 

 

 

 

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