Fra i musicisti, oltre Vincenzo Bellini, ricorderemo Giovanni Pacini (cui è stata dedicata la villetta omonina, detta anche dei varagghi, cioè degli sbadigli), Pietro Antonio Coppola, (nato ad Enna ma catanese di adozione, gli fu intitolato il vecchio "Comunale" andato distrutto in periodo di guerra neI 1943), Giovanni Bucceri, Giuseppe Perrotta, Francesco Paolo Frontini, Pietro Platania, Antonio Savasta, Vincenzo Alonzo Lombardo, Giovanni Rizzotti, Alfredo Sangiorgi, Filippo Tarallo, Ascanio Bazan, Martino Frontini, Antonio Gandolfo, Santo Santonocito, Salvatore Malerba, Enrico Mineo, Generoso Sansone. Cantanti lirici di fama mondiale come Di Stefano e Fisichella, quindi gli altri tenori Franco Lo Giudice, Giuseppe Anselmi, Giuseppe Fontanarosa, Salvatore Patti, (padre della grande Adelina), Giulio Crimi, il soprano Tina Celi, i baritoni Enrico Roggio e Carmelo Maugeri, il basso Paolo Nastasi. Fra gli scrittori e poeti ricorderemo Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto, Mario Rapisardi, Domenico Tempio, Nino Martoglio, Vitaliano Brancati, Giuseppe Villaroel, Ercole Patti, Antonio Aniante (pseudonimo di Antonio Rapisardi), Giovanni Centorbi, Titomanlio Manzella, Boley (pseudonimo di Francesco Buccheri), Pippo Fava, Gesualdo, Manzella Frontini, Nello e Massimo Simili, Giuseppe Artale, Domenico Castorina, Francesco Guglielmino, Giovanni Formisano, Guido Pietro Cesareo, Ottavio Profeta, Antonio Bruno, Ferdinando Cajoli, Arcangelo Blandini. E poi quei grandi poeti che meriterebbero una definitiva riscoperta quali Antoni di Oliveri, Bartolomeo Asmundo, Giovanni Nicolò Rizzari, Pietro Pavone, Giuseppe Borrello, Giuseppe Marraffino. Fra gli artisti di Teatro (e di Cinema) i grandissimi Angelo Musco e Giovanni Grasso, Rosina Anselmi, Umberto Spadaro, Saro Urzì, Turi Pandolfini, Nino Zuccarello, Tommaso Marcellini, Giacinta Pezzana (torinese di nascita), Michele Abruzzo (nativo di Sciacca), Oreste Bilancia, Totò Majorana, Franco Corsaro, Marinella Ragaglia, Virginia Balestrieri, Mimì Aguglia, Giovanni Grasso jr, Turi Ferro. Commediografi come Orazio Motta Tornabene (La Giostra, U spurugghiafacenni), Antonino Russo Giusti (L’eredità dello zio canonico, Gatta ci cova, Il cittadino Nofrio), Francesco De Felice (Il santo, Il campanaccio), Saverio Fiducia, anche noto scrittore (Passeggiate sentimentali, Notte senz’alba), Giuseppe Patané (L’orecchio di Dionisio, Fra’ Diavolo), Giuseppe Macrì (Fiat voluntas Dei), Pippo Marchese (I Don, Il vitello d’oro) ecc. Fra gli storiografi (senza andare troppo indietro nel tempo perché allora dovremmo segnalare, assieme ad Enrico Aristippi e G. B. De Grossis, molti altri) Vito Maria Amico, Vincenzo Casagrandi, i Cristadoro, Salvatore Battaglia, Ugone Falcando, Vito Coco, Carmelina Naselli, Vincenzo Finocchiaro, Enzo Maganuco, Santi Consoli, Francesco Ferrara, Francesco Granata, Matteo Gaudioso, Vincenzo Cordaro, Benedetto Condorelli, Francesco Pastura, Orazio Viola, Pietro Carrera, Nicola Niceforo, Nunzio Vaccalluzzo, Salvatore Lo Presti, Arturo Trombatore, Guglielmo Policastro, Antonino Germanà Di Stefano. In più la schiera dei viventi. E poi la grande famiglia Platamone, i vulcanologi Gemmellaro, il filologo Nicola Spedalieri, il critico Gino Raya, il mecenate Antonio Ursino Recupero, il geofisico Filippo Eredia, il latinista e critico Concetto Marchesi, il pedagogista della Scuola idea/istica Giuseppe Lombardo Radice, l’archeologo e accademico Ignazio Paternò Castello principe di Biscari, il politico e grande sindaco idolatrato dai catanesi Giuseppe Giuffrida De Felice, l’insigne naturalista Giuseppe Gioeni (in suo onore sorse l’Accademia Gioenia), i giornalisti Alfio Russo e Concetto Pettinato, uno dei più celebrati mandolinisti del mondo: Giovanni Gioviale, il mitico schermitore e maestro d’armi Agesilao Greco, l’indutriale Mario Sangiorgi che creò il complesso omonimo fra i più completi d’Europa, i fisici Enrico BoggioLera ed Ettore Majorana, enorme ingegno misteriosamente scomparso nel 1938, il restauratore morale e spirituale di Catania, dopo l‘immane terremoto del 1692, Giuseppe Cilestri. I maestri del Foro Giovanni Albanese, Luigi Macchi, Giovanni Motta, Giovanni Auteri Berretta, Mario Benenati, Gabriele Carnazza, Salvatore Paola, Giuseppe Simili. I grandi giuristi come Mario Cutelli, Santi Di Paola, Vincenzo Gueli, Vincenzo Lanza, Dante Majorana, Attilio Castrogiovanni, ideologo del separatismo siciliano. I grandi della Medicina, specialisti di fama nazionale, come Salvatore Citelli (appassionato alpinista costruì il Rifugio sull’Etna che porta il suo nome), Gesualdo Clementi, Gaetano Fichera, Raimondo Feretti, Carlo Gemmellaro, Giovanni Reguleas, Giuseppe Lino, Antonino Longo, Giuseppe Muscatello, Euplio Reina, Francesco Russo, Salvatore Tomaselli, GB. Ughetti, Santi Currò, Eugenio Aguglia. Insegnarono all’Università nomi di eccelsa fama come il leggendario Giacobino Nepomuceno Gambini, Nicolò Tezzano, Salvatore Battaglia, Andrea Capparelli, Pietro De Logu, Vincenzo Giuffrida, GB. Grassi Bertazzi, Vincenzo Gueli, Federico Ciccaglione, Francesco Guglielmino, Ignazio Landolina, Guido Libertini, Antonino Clementi, Salvatore Marchese, Bernardo Colnago, Giuseppe Recupero, Orazio Condorelli che fu anche apprezzato uomo politico, Nicola Coviello, Vincenzo Tedeschi, Francesco Tornabene (fondò l’Orto Botanico), Giorgio Piccitto, Gustavo Vagliasindi, Santi Mazzarino, Carmelo Ottaviano, Giulio Natali, Gian Filippo Ingrassia (inventore della medicina legale), Ettore Romagnoli, Paolo Savy-Lopez, Francesco Carnelutti. Oltre i celebri, e conosciuti in tutto il mondo: Emilio Greco e Francesco Messina, furono noti artisti i pittori Alessandro Abate, Natale Attanasio, Giuseppe ed Antonino Gandolfo (zio e nipote), Michele Rapisardi, Giuseppe Sciuti, Calcedonio Reina (fu anche letterato), Roberto Rimini, Olivio Sozzi Archimede Cirinnà, Pasquale Liotta, Carmelo Comes, Saro Mirabella; gli scultori Francesco Licata, Carmelo Florio, Francesco Di Bartolo e Francesco Rapisarda (anche raffinati incisori come lo fu Antonio Zacco), Mimmo Maria Lazzaro, Carmelo Mendola, Francesco Schilirò, Antonio Calì, Salvo Giordano, Eugenio Russo, Rosario Frazzetto. Gli architetti Carmelo Aloisi, Francesco Battaglia, Sebastiano Ittar (anche provetto incisore e figlio di Stefano). Gli ingegneri Ignazio Landolina, Giuseppe e Paolo Lanzerotti. Gli editori Battiato Giannotta, Prampolini, Muglia, Di Paola. I cantastorie famosi in tutta Italia Orazio Strano Grasso, Busacca, Balsamo e altri. |
Aristotele loda le sue leggi perché più precise di quelle di Zaleuco. Pare che la sua legislazione riguardasse specialmente il diritto familiare, ma doveva estendersi anche ad altri aspetti della vita. Questa legislazione era famosa per l'arcaica severità delle pene, per quanto i legislatori di questo tempo tendessero a mitigarle di fronte al più progredito sentimento umanitario. Di Caronda ci é ricordata una legge che puniva i reati militari, come la diserzione, non già con la pena di morte, usuale in tutti i codici, ma stabilendo che il colpevole fosse esposto per tre giorni sul mercato in veste femminile. Aristotele parla anche di una legge contro i rei di falsa testimonianza. E’ assai dubbio che Caronda abbia dato a Catania anche una costituzione. Della sua persona non sappiamo nulla. L'aneddoto, riferito a suo riguardo e attribuito anche ad altri legislatori, secondo cui, essendo intervenuto inavvertitamente armato nell'assemblea, mentre una legge sua proibiva di assistervi in armi pena la morte, appena se ne accorse, si trafisse con la propria spada in ossequio alla legge, é pura leggenda.
Descrisse in un poema, l'Elena, l'illecito amore di Paride con Elena, il che - raccontò poi Platone - offese la donna; i fratelli di lei, i Dioscuri, lo accecarono per vendetta; il poeta, per ritrovar la vista, dovette comporre un poema, la Palinodia (ritrattazione), col quale si rimangiò tutto. La sua produzione fu abbondante: 26 libri di inni, poemetti epico-lirici e canti amorosi; fra questi la Caduta di Troia, la Orestea (l'uccisione di Agamennone da parte della moglie Clitemnestra e l'uccisione, per vendetta, di Clitemnestra da parte del figlio Oreste), tre poemi sulle fatiche di Ercole. Fu chiamato 1'Omero della lirica corale; gli si attribuisce un'importante innovazione metrica, consistente nel dividere i componimenti lirici corali nei raggruppamenti di strofe, antistrofe ed epodo, che tutti i poeti melici corali adottarono poi. Scappò da Imera e si rifugiò, per molti degli ultimi anni della sua vita, a Catania, essendo venuto in odio a Falaride dopo il racconto del cavallo e del cervo. Catanesi ed imeresi gli innalzarono un monumento; quello di Catania fu eretto all'ingresso della città, che allora era costituito dalla porta di Aci: all'incirca dov'è anche oggi la porta di Aci, ossia piazza Stesicoro.
Nato
a Catania il 3.11.1801. Compositore siciliano. Mostrò sin da bambino
una spiccata predisposizione per la musica, l'aveva nel sangue. Gli era
stata trasmessa dal vecchio don Vincenzo Tobia Bellini, suo nonno
(originario dell'Abruzzo, a Catania nella seconda metà del Settecento e
divenuto maestro di cappella del principe di Biscari) e poi dal padre,
Rosario, (nella natia Catania svolgeva funzioni di maestro di cappella e
insegnante di musica, organista e compositore) anche lui apprezzato
musicista, ma sempre in bolletta e alle prese con la vita di tutti i
giorni, tanto avara. Sposando Agata Ferlito, il 17 gennaio 1801, il
giovane Rosario aveva messo casa in un appartamento al primo piano del
palazzo Gravina-Cruyllas di fronte alla chiesa di San Francesco e con
tre balconi sulla via del Corso. Ma dopo la nascita di Vincenzo (nella
notte fra il 2 e il 3 novembre 1801) e degli altri figli (Carmelo,
Francesco, Michela, Giuseppa, Mario e Maria), la famiglia, ormai
numerosa, fu costretta a sloggiare per trasferirsi in una casa ancor
più modesta, in via S. Agostino, a due passi dall'abitazione di don
Vincenzo Tobia, che già da qualche tempo impartiva lezioni al
promettente nipote, tirandoselo dappresso anche quando suonava nei
salotti dell'aristocrazia e nelle chiese, per cui in breve tempo quel
ragazzino, grazioso e simpatico era noto in tutta Catania. Nel 1819,
Vincenzo ottenne dal Decurionato di Catania una sovvenzione (borsa di
studio) di onze 36 per anno e per lo spazio di 4 anni - 459 lire - per
il proseguimento dell'istruzione a Napoli, dove prese subito dimora
iscrivendosi al reale collegio di musica S.Sebastiano e avendo a maestri
G. Furno, Giacomo Tritto e Antonio Nicola Zingarelli. Fu quest'ultimo,
in particolare, a indirizzarlo verso il melodramma di scuola napoletana
e le opere strumentali di Franz Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart. Prolifico
compositore di musica sacra, ariette, musica strumentale e da camera,
Bellini concluse il corso di composizione presentando un'opera
semiseria, Adelson e Salvini (1825); l'opera ebbe grande successo e il
Teatro San Carlo di Napoli gliene commissionò subito un'altra, Bianca e
Fernando (il cui titolo diventò poi Bianca e Gernando) allestita nel
1826. Con
questi successi Bellini ripagò la fiducia accordatagli dal Decurionato
catanese che si era assunto le spese degli studi del promettente
giovanetto, il quale fin dalla più tenera età aveva rivelato uno
spiccato talento musicale, tanto da scrivere ad appena sei anni la sua
prima composizione (Gallus cantavit). E
per i circoli della nobiltà il piccolo Bellini scrisse le sue prime
ariette e probabilmente qualche brano strumentale. Furono anni di studio
severo e anche di più serie e impegnative composizioni, che rivelavano
già il taglio del musicista di talento e ormai maturo a spiccare il
volo verso i massimi teatri del mondo. Riconoscimenti confermati l'anno
dopo (1826) quando al San Carlo, presente il re di Napoli Francesco I,
il suo secondo lavoro, Bianca e Gernando, aveva ricevuto applausi
unanimi, spontanei, davvero incoraggianti anche nelle ventiquattro
repliche dell'opera. E infatti, dopo le due opere a Napoli, eccolo a
Milano (1827); approdò alla Scala, chiamato dall'impresario Domenico
Barbaja, e il 27 ottobre dello stesso anno presentò su libretto di
Felice Romani (che scriverà per lui anche i versi per le successive sei
opere), Il pirata. Un vero trionfo, che schiuse al musicista ogni
strada, facendogli scordare così l'infelice flirt napoletano con
Maddalena Fumaroli, andato a monte per l'ostilità del padre della
fanciulla (che morirà qualche anno dopo). Con quest'opera cominciò
anche la feconda collaborazione di Bellini con il tenore Giambattista
Rubini (che terrà a battesimo quasi tutti i suoi lavori), come stretti
saranno i legami con Giuditta Pasta. Le
opere di maggior rilievo di Bellini nacquero nel breve arco di tempo che
va dal 1827 al 1835. Si tratta di una produzione non certo copiosa, e
questo non solo per la breve vita del compositore, ma soprattutto per il
suo modo di intendere la composizione. In contrasto con l'affannosa
prolificità degli altri operisti dell'epoca, costretti da esigenze
impresariali a massacranti tours de force, Bellini dichiarò di non
voler scrivere più di un'opera all'anno, per potervisi dedicare
completamente. Come scrisse in una lettera, era persuaso che il successo
di un'opera dipendesse "dalla scelta di un tema interessante, da
accenti caldi di espressione, dal contrasto delle passioni".
Un'attenta gestione dei suoi guadagni lo mise in condizione di attuare
questo programma. Nacquero così, una all'anno, le opere che
consacrarono la fama di Bellini in Europa e che ne fanno ancora oggi
l'esponente più puro del romanticismo musicale italiano. A Londra e
Parigi, conteso dai salotti, Bellini incontro' la Malibran, Heine,
Chopin, Musset, Liszt e si lego' d'amicizia con Rossini che fu prodigo
di suggerimenti durante la composizione della nuova opera, I Puritani e
i Cavalieri. Nel 1834 Bellini accettò di comporre l'opera per il
Theatre Italien di Parigi che venne rappresentata nel 1835 e fu il suo
ultimo lavoro. Quando
Heinrich Heine, il bizzarro poeta tedesco, nel salotto parigino di
Cristina Trivulzio, principessa di Belgioioso, predisse a Vincenzo
Bellini che sarebbe morto giovane, non immaginava certo che quella
frase, detta forse soltanto per far dispetto a quel musicista che
arrivava dall'estremo sud e che gli era in quel momento piuttosto
antipatico perché si muoveva con garbo, con civetteria ed era sempre
elegante fino all'affettazione, di lì a qualche anno gli avrebbe
procurato la patente di menagramo. Era il 1833. Al
bel catanese restavano poco meno di due anni di vita e nulla allora
lasciava prevedere (anche, se fin dal '30, talvolta in maniera violenta,
si era manifestato il male che lo avrebbe portato alla tomba, una
tremenda febbre infiammatoria gastrica biliosa, diceva lo stesso
Bellini) una fine così imminente e dolorosa. Il musicista anzi appariva
in forma e come sempre era al centro del generale interesse, adulato -
soprattutto dalle più belle donne di Parigi - inoltre, stava per
concludere l'accordo con il Theatre Italien per I Puritani, data il 24
gennaio del 1835 con trionfale successo. Le ovazioni degli spettatori e
le simpatie, peraltro, avevano accompagnato Bellini ininterrottamente
(tranne qualche angustia iniziale per Zaira, Norma e Beatrice di Tenda,
subito però riscattata da convinti consensi del pubblico e della
critica) da undici anni, da quando cioè, ventiquattrenne, nel teatro
del Reale conservatorio napoletano di San Sebastiano, dove aveva
compiuto gli studi, aveva presentato la sua prima opera, Adelson e
Salvini. La
fama del maestro catanese varcò presto anche le Alpi. Il pirata fu
acclamato a Vienna, mentre il maestro stabiliva il centro dei suoi
interessi musicali, economici e anche amorosi a Milano, città nella
quale risiedette ininterrottamente fino al 1833, accolto e richiesto nei
circoli della migliore società: "Viveva esclusivamente delle
scritture teatrali e, a differenza dei suoi colleghi Rossini, Pacini,
Mercadante, non assunse mai nessun ufficio, per esempio di insegnante di
conservatorio o di direttore musicale di teatro d'opera. Per contro,
seppe smerciare le proprie opere in Italia assai più care della media
corrente e inoltre visse per mesi ospite nelle ville di campagna delle
famiglie Cantù e Turina. Con Giuditta Turina, moglie infelice del
latifondista e fabbricante di seta Ferdinando Turina, Bellini ebbe
un'appassionata relazione amorosa iniziata nell'aprile del 1828 a
Genova, dove il compositore aveva inaugurato con successo il teatro
Carlo Felice con la seconda versione dell'opera Bianca e Fernando, e
durata fino al 1833" (Friedrich Lippmann).
Non
manca al quadro la lite con i parenti ricchi: le zie zitelle, le
avarissime "mummie" e lo zio Salvatore che, in virtù del
maggiorascato, aveva avuto in eredità tutto il patrimonio, a patto che
restasse celibe, per amministrarlo in favore anche dei fratelli. Le
controversie si composero probabilmente negli anni Quaranta e i rapporti
familiari furono in seguito buoni come rivelano le lettere dello
scrittore e la conclusione di un matrimonio in famiglia tra Mario, il
fratello di Giovanni detto Maro, e Lidda, figlia naturale di don
Salvatore e di una contadina di Tèbidi. Compiuti
gli studi primari e medi sotto la guida di Carmelino Greco e di Carmelo
Platania, Verga segue le lezioni di don Antonino Abate, poeta,
romanziere e acceso patriota, capo di un fiorente studio in Catania.
Alla sua scuola, oltre ai poemi dello stesso maestro, legge i classici:
Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Monti, Manzoni e le opere di Domenico
Castorina, poeta e narratore di Catania, di cui l'Abate era un
commentatore entusiasta. Nel
1845, a causa di un'epidemia di colera, la famiglia Verga si trasferisce
a Vizzini quindi nelle sue terre di Tèbidi, fra Vizzini e Licodia. Qui
termina di scrivere il suo primo romanzo, iniziato l'anno precedente,
"Amore e Patria", che, al momento, non verrà però pubblicato
per consiglio del canonico Mario Torrisi, di cui il Verga fu alunno. Per
desiderio del padre si iscrive alla facoltà di legge dell'Università
di Catania, senza dimostrare tuttavia molto interesse per gli studi
giuridici, che abbandona definitivamente nel 1861 per dedicarsi,
incoraggiato dalla madre, all'attività letteraria. Nel
1860 si arruola nella Guardia Nazionale istituita dopo l'arrivo di
Garibaldi a Catania, prestandovi servizio per circa quattro anni. Fonda,
dirigendolo per soli tre mesi, insieme a Nicolò Niceforo e ad Antonino
Abate, il settimanale politico "Roma degli Italiani", con un
programma unitario e anti-regionalistico. Nel 1861 inizia la
pubblicazione, a sue spese presso l'editore Galatola di Catania, del
romanzo "I carbonari della montagna", cui aveva lavorato già
dal 1859; nel 1862 uscirà il quarto e ultimo tomo del libro che
l'autore invierà, fra gli altri, anche ad Alexandre Dumas. Collabora
alla rivista "L'ltalia contemporanea", probabilmente
pubblicandovi una novella o meglio il primo capitolo di un racconto
realista. L'anno successivo lo scrittore viene colpito da un lutto
famigliare: perde infatti l'amato padre. Nel maggio si reca, per la
prima volta, rimanendovi almeno fino al giugno, a Firenze, dal 1864
capitale d'Italia e centro della vita politica e intellettuale. Di
questo periodo è la commedia, inedita, "I nuovi tartufi" (in
testa alla seconda stesura si legge la data 14 dicembre 1886), che fu
inviata, anonima, al Concorso Drammatico Governativo. Nel
1867 una nuova epidemia di colera lo costringe a rifugiarsi con la
famiglia nelle proprietà di Sant'Agata li Battiati. Ma il 26 aprile
1869 parte da Catania alla volta di Firenze, dove soggiornerà fino
al settembre. Viene introdotto negli ambienti letterari fiorentini e
prende a frequentare i salotti di Ludmilla Assing e delle signore
Swanzberg, venendo a contatto con scrittori e intellettuali dell'epoca
come il Prati, l'Aleardi, il Maffei, il Fusinato e l'Imbriani
(quest'ultimo autore di capolavori a tutt'oggi ancora poco conosciuti).
In questo stesso periodo, ha inizio l'amicizia con Luigi Capuana,
scrittore e intellettuale meridionale. Conosce anche Giselda Fojanesi,
con la quale compie il viaggio di ritorno in Sicilia. Comincia a
scrivere "Storia di una capinera" (che uscirà a puntate nel
giornale di moda "La Ricamatrice"), e il dramma "Rose
caduche". Corrisponde regolarmente con i familiari, informandoli
minutamente della sua vita fiorentina (da una lettera del '69:
"Firenze è davvero il centro della vita politica e intellettuale
d'Italia qui si vive in un'altra atmosfera [ ...] e per diventare
qualche cosa bisogna [...] vivere in mezzo a questo movimento
incessante, farsi conoscere, e conoscere, respirarne l'aria,
insomma"). Nel
novembre 1872 si trasferisce a Milano, dove rimarrà, pur con frequenti
ritorni in Sicilia, per circa un ventennio. Grazie alla presentazione di
Salvatore Farina e di Tullo Massarani, frequenta i più noti ritrovi
letterari e mondani: fra l'altro i salotti della contessa Maffei, di
Vittoria Cima e di Teresa Mannati-Vigoni. Si incontra con Arrigo Boito,
Emilio Praga, Luigi Gualdo, amicizie da cui deriva uno stretto e
proficuo contatto con temi e problemi della Scapigliatura. Inoltre, ha
modo di frequentare la famiglia dell'editore Treves e il Cameroni. Con
quest'ultimo intreccia una corrispondenza epistolare di grande interesse
per le posizioni teoriche sul verismo e sul naturalismo e per i giudizi
sulla narrativa contemporanea (Zola, Flaubert, Vallés, D'Annunzio). Il
1874, al ritorno a Milano in Gennaio, ha una crisi di sconforto: il 20
del mese, infatti, il Treves gli aveva rifiutato "Tigre
reale", cosa che lo spinge quasi a decidere il rientro definitivo
in Sicilia. Supera però rapidamente la crisi buttandosi nella vita
mondana milanese (anche in questo caso un documento prezioso sono le
lettere ai familiari, in cui è possibile leggere un minutissimo
resoconto, oltre che dei suoi rapporti con l'ambiente editoriale, di
feste, veglioni e teatri), scrivendo così in soli tre giorni
"Nedda". La novella, pubblicata il 15 giugno nella
"Rivista italiana di scienze, lettere
e arti", ha un successo tanto grande quanto inaspettato per
l'autore che continua a parlarne come di "una vera miseria" e
non manifesta alcun interesse, se non economico, al genere del racconto. "Nedda"
è subito ristampata dal Brigola, come estratto dalla rivista. Verga,
spinto dal buon esito del bozzetto e sollecitato dal Treves, scrive
nell'autunno, tra Catania e Vizzini, alcune delle novelle di
"Primavera" e comincia a ideare il bozzetto marinaresco "Padron
'Ntoni" (che confluirà poi nei "Malavoglia"), di cui,
nel dicembre, invia la seconda parte all'editore. Raccoglie intanto in
volume le novelle scritte fino ad allora, pubblicandole presso il
Brigola con il titolo "Primavera ed altri racconti". Il
romanzo procede lentamente, anche a causa di un altro duro contraccolpo
emotivo, la perdita di Rosa, la sorella prediletta. Il
5 dicembre muore la madre, alla quale era legato da profondo affetto.
Questo evento lo getta in un grave stato di crisi. Lascia allora Catania
per recarsi nuovamente a Firenze e successivamente a Milano, dove
riprende con accanimento il lavoro. Nel
1880 pubblica presso Treves "Vita dei campi" che raccoglie le
novelle apparse in rivista negli anni 1878-80. Continua a lavorare ai
"Malavoglia" e nella primavera ne manda i primi capitoli al
Treves, dopo aver tagliato le quaranta pagine iniziali di un precedente
manoscritto. Incontra, a distanza di quasi dieci anni, Giselda Fojanesi,
con la quale ha una relazione che durerà circa tre anni. "Di là
del mare", novella epilogo delle "Rusticane", adombra
probabilmente il rapporto sentimentale con Giselda, descrivendone in
certo modo l'evoluzione e l'inevitabile fine. L'anno
successivo escono finalmente, per i tipi sempre di Treves, "I
Malavoglia", invero accolti assai freddamente dalla critica. Inizia
i contatti epistolari con Edouard Rod, giovane scrittore svizzero che
risiede a Parigi e che nel 1887 darà alle stampe la traduzione francese
dei "Malavoglia". Frattanto, stringe rapporti di amicizia con
De Roberto. Comincia a ideare "Mastro-don Gesualdo" e pubblica
in rivista "Malaria" e "Il Reverendo" che all'inizio
dell'anno aveva proposto a Treves per la ristampa di "Vita dei
campi" in sostituzione di "Il come, il quando ed il
perché". Nasce anche il progetto di ridurre per le scene
"Cavalleria rusticana"; a questo scopo intensifica i rapporti
con Giacosa, che sarà il "padrino" del suo esordio teatrale.
Sul piano della vita privata continua la relazione con Giselda che viene
cacciata di casa da Rapisardi per la scoperta di una lettera
compromettente. Ha inizio la lunga e affettuosa amicizia (durerà oltre
la fine del secolo: l'ultima lettera è datata 11 maggio 1905) con la
contessa Paolina Greppi. Il
1884 è l'anno dell'esordio teatrale con "Cavalleria
rusticana". Il dramma, letto e bocciato durante una serata milanese
da un gruppo di amici (Boito, Emilio Treves, Gualdo), ma approvato da
Torelli-Viollier (il fondatore del "Corriere della Sera"), è
rappresentato per la prima volta, con Eleonora Duse nella parte di
Santuzza, con grande successo il 14 gennaio al teatro Carignano di
Torino dalla compagnia di Cesare Rossi. Si conclude, con la
pubblicazione della prima redazione di "Vagabondaggio" e di
"Mondo piccino", ricavati dagli abbozzi del romanzo, la prima
fase di stesura del "Mastro-don Gesualdo" per il quale era
già pronto il contratto con l'editore Casanova. Il 16 maggio 1885 il
dramma "In portineria", adattamento teatrale de "Il
canarino" (una novella di "Per le vie"), viene accolto
freddamente al teatro Manzoni di Milano. Ha inizio una crisi psicologica
aggravata dalla difficoltà di portare avanti il "Ciclo dei
Vinti" e soprattutto da preoccupazioni economiche personali e della
famiglia, che lo assilleranno alcuni anni, toccando la punta massima
nell'estate del 1889. Confida
il suo scoraggiamento a Salvatore Paola Verdura in una lettera del 17
gennaio da Milano. Si infittiscono le richieste di prestiti agli amici,
in particolare a Mariano Salluzzo e al conte Gegè Primoli. Per
distendersi, passa lunghi periodi a Roma e lavora contemporaneamente
alle novelle pubblicate dal 1884 in poi, correggendole e ampliandole per
la raccolta "Vagabondaggio", che uscirà nella primavera del
1887 presso l'editore Barbèra di Firenze. Nello stesso anno esce la
traduzione francese de "I Malavoglia", anch'essa senza
riscontrare alcun successo di critica né di pubblico. Dopo
aver soggiornato a Roma alcuni mesi, all'inizio dell'estate ritorna in
Sicilia, dove rimane (tranne brevi viaggi a Roma nel dicembre 1888 e
nella tarda primavera del 1889), sino al novembre 1890, alternando alla
residenza a Catania lunghi soggiorni estivi a Vizzini. Nella primavera
conduce a buon fine le trattative per pubblicare "Mastro-don
Gesualdo" nella "Nuova Antologia" (ma in luglio romperà
col Casanova, passando alla casa Treves). Il romanzo esce a puntate
nella rivista dal 1° luglio al 16 dicembre, mentre Verga vi lavora
intensamente per rielaborare o scrivere ex novo i sedici capitoli. Nel
novembre ne ha già iniziata la revisione. Ad
ogni modo, continua l'"esilio" siciliano, durante il quale si
dedica alla revisione o, meglio, al rifacimento di "Mastro-don
Gesualdo" che, sul finire dell'anno, uscirà presso Treves.
Pubblica nella "Gazzetta letteraria" e nel "Fanfulla
della Domenica" le novelle che raccoglierà in seguito nei
"Ricordi del capitano d'Arce" e dichiara a più riprese di
esser sul punto di terminare una commedia. Incontra, probabilmente a
Villa d'Este, la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo cui rimarrà
legato per il resto della vita. Rinfrancato
dal successo di "Mastro-don Gesualdo "progetta di continuare
subito il "Ciclo" con la "Duchessa di Leyra" e
"L'onorevole Scipioni". In questo periodo, inizia la causa
contro Mascagni e l'editore Sonzogno per i diritti sulla versione lirica
di "Cavalleria rusticana". A fine ottobre, però, si reca in
Germania per seguire le rappresentazioni di "Cavalleria", che
è pur sempre un capolavoro della musica, a Francoforte a Berlino. Nel
1893 si conclude, in seguito a transazione col Sonzogno, la causa per i
diritti su "Cavalleria", già vinta da Verga nel 1891 in Corte
d'appello. Lo scrittore incassa così circa 140.000 lire, superando
finalmente i problemi economici che lo avevano assillato nel precedente
decennio. Prosegue intanto le trattative, iniziate nel '91 (e che si
concluderanno con un nulla di fatto), con Puccini per una versione
lirica della "Lupa" su libretto di De Roberto. Si stabilisce
definitivamente a Catania dove rimarrà sino alla morte, tranne brevi
viaggi e permanenze a Milano e a Roma. Nel biennio 1894-1895, pubblica
l'ultima raccolta, "Don Candeloro e C.", che comprende novelle
scritte e pubblicate in varie riviste tra 1889 e il '93. Nel '95
incontra a Roma, insieme a Capuana, Emile Zola, importante esponente
della letteratura francese e fautore della corrente letteraria del
Naturalismo, una poetica assai affine a quella del Verismo (anzi, si
può dire che quest'ultimo sia la "versione" italiana di
quello). Colpito
da paralisi cerebrale il 24 gennaio 1922, muore il 27 dello stesso mese
a Catania nella casa di via Sant'Anna, 8. Tra le opere uscite postume,
oltre alle due citate, vi sono la commedia "Rose caduche", in
"Le Maschere", giugno 1928 e il bozzetto "Il
Mistero", in "Scenario", marzo 1940.
Nino
Martoglio, a soli 19 anni esordì nel giornalismo pubblicando a Catania
il settimanale politico-letterario-umoristico edito dal 1889 al 1904 D'Artagnan,
interamente ideato e scritto da lui, avente lo scopo di discutere arte,
letteratura, teatro, politica, ecc.. L'iniziativa ebbe notevole
successo, anche perché Martoglio vi presentò le sue prove poetiche,
genuinamente dialettali e intrise di una comicità immediata. Questi
versi gli meritarono l'elogio di Carducci e la popolarità nella città
etnea. Nel 1901 decise di volgersi al teatro, nel tentativo di riportare
alle platee di tutta Italia il teatro dialettale siciliano, che l'attore
Giuseppe Rizzotto aveva divulgato anni prima. Avendo scoperto alcuni
attori isolani dotati di una dirompente vis comica, nell'aprile del 1903
debuttò con la compagnia da questi formata e da lui diretta, al Teatro
Manzoni di Milano. Il
suo linguaggio è semplice e scorrevole, e nonostante il bagno nei canti
popolari, ha qualcosa di letterario, di fine, come il linguaggio
digiacomiano che è il vero modello a cui si rifà; e anche quando il
Martoglio descrive, la descrizione non è mai fine a se stessa, vibra
sempre dei sentimenti dell'autore. E grazie alle eccezionali capacità
degli interpreti (Giovanni Grasso, Marinella Bragaglia, Angelo Musco),
le opere di Martoglio raggiunsero ben presto una straordinaria
notorietà. Il primo volume fonografico a veder la luce fu " O
scuru o' scuru " (1895); in tutto quattordici sonetti dialogati,
genere iniziato cinque anni prima da Nino Pappalardo con "
Siciliana ", ma che il Martoglio porterà a vera forma d'arte.
Ancor prima che apparissero in volume i sonetti di "'O scuru 'o
scuru", sul D'Artagnan erano apparsi molti dei sonetti raccolti poi
col titolo di Lu fonografu; si tratta forse dell'opera migliore del
Martoglio, certamente della più nota e della più caratterizzante. Il
giornalista, l'umorista e l'autore di teatro si fondono nel poeta, ne
affinano la sensibilità, ne smorzano quel certo tono melodrammatico di
cui parla Luigi Capuana; I suoi primi testi, I civitoti in pretura e
Nica, costituirono l'inizio di un'intensa attività che si esplicò
nella composizione di una ventina di commedie, alcune delle quali in
lingua italiana. Nel 1903 organizzò e diresse la Compagnia drammatica
siciliana. Cominciò così a fiorire quel teatro dialettale siciliano di
cui Grasso, incupendo le tinte, sarebbe stato l'espressione tragica e
Musco, con l'estemporaneità delle sue battute, l'espressione comica e
beffarda sino al delirio buffonesco. Come
autore, Martoglio pose in scena una Sicilia colorita e credibile,
trovando i suoi personaggi fra il popolo e, seppur non vigoroso creatore
di caratteri, si mostrò però abile inventore di vicende movimentate e
di dialoghi scoppiettanti. Nino Martoglio fu un vittorioso. Vinse tutti
gli ostacoli, tutte le diffidenze, tutte le gelosie. Il teatro siciliano
difatti, vive: ha ormai un larghissimo repertorio e una fin troppo
numerosa schiera di attori. E finché vivrà, vivranno per la delizia
dei pubblici del mondo, Mastru Austinu Misciasciu del S. Giovanni
Decollato (1908), caricatura di una religiosità popolare ingenua, Don
Cola Duscio del L'aria del Continente (1910), rappresentazione satirica
dello snobismo di un borghesuccio isolano che affetta disprezzo per le
usanze e le abitudini siciliane, e i vari personaggi di Scuru, Sua
Eccellenza, Il Marchese di Ruvolito, Taddarita, Nica e Capitan Sèniu.
Il suo nome è legato principalmente a due opere composte per Musco: San
Giuvanni decullatu (1908), caricatura di una religiosità popolare
ingenua, e I maestri del Martoglio, anche per il sonetto dialogato, sono
da ricercarsi a Napoli, dove lavoravano il Di Giacomo e il Russo, dai
quali trae spunti d'ambiente e contrasti sociali che fa rivivere nelle
scene della sua Catania, soprattutto " 'O fùnneco verde
"(1886) del Di Giacomo è il suo modello. Anche il grande Luigi
Pirandello subì il fascino dell'attivismo di Martoglio e cedendo alle
sue insistenze scrisse nel 1916 direttamente in dialetto Pensaci,
Giacuminu! e Liolà, due lavori che nello stesso anno vennero messi in
scena dalla compagnia di Angelo Musco. Nello stesso tempo il grande
agrigentino scrisse due commedie in dialetto, sempre per la compagnia di
Musco: 'A birritta cu' i ciancianeddi (Il berretto a sonagli) e 'A
giarra (La giara). Bisogna anche dire che Pirandello scrisse in
collaborazione con Martoglio 'A vilanza (1917) e Cappiddazzu paga tutto
(1917) messa in scena soltanto nel 1958. Un intreccio fecondo, dunque,
in un momento irripetibile attraversato dalla Sicilia negli anni a
cavallo tra Ottocento e Novecento. Meno
conosciuta, ma valida e memorabile, fu anche la sua attività
cinematografica. Nel periodo dal 1913 al 1915 Martoglio si dedicò alla
regia, diresse quattro films, tra i quali Teresa Raquin e Sperduti nel
buio (considerato il miglior prodotto della nascente cinematografia
italiana) , films muti ricordati nella storia del cinema italiano per la
loro originalità e intensità espressiva, collegata al naturalismo
dialettale di cui l'autore aveva dato già larga prova nel teatro. Nel
pieno fervore della sua attività lo colse la morte: per uno sciagurato
incidente, aprendo per sbaglio una porta che dava in una tromba
d'ascensore nell' Ospedale Vittorio Emanuele di Catania per visitare il
figlio malato; è cosa di tale e tanta crudeltà, che veramente fa
disperare e innorridire.
E
non parlò solo ai piccoli, fu anche illustre scrittore, di lavori per
il teatro di commedie e di drammi dialettali, come "Malia", e
"Paraninfo"; di romanzi come "Giacinta" e "Il
Marchese di Roccavardina", "Homo", e altri libri di
critica. Nacque a Mineo, in provincia di Catania, nel 1839 da una
famiglia benestante di proprietari terrieri dominata dalle figure degli
zii Antonio e Mimì, ebbe una giovinezza serena e una educazione
alquanto tradizionale nel contesto della borghesia isolana.Nel 1857
s'iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Catania. Cominciò
ben presto ad interessarsi alla letteratura e in special modo alla
poesia popolare, seguendo la sensibilità romantica, allora dominante.
Gli anni che immediatamente seguirono - fino al 1863 - furono tuttavia
caratterizzati dai primi contatti letterari nell'ambito cittadino, che
indubbiamente lo confortarono nelle scelte immediate e lo indirizzarono
verso un'esperienza artistica assai lontana dalla cerchia universitaria.
Nel 1863 tornò a Mineo, dove compose dei drammi, sempre d'ispirazione
romantica, poi rappresentati da una compagnia d'attori filodrammatici. Nel
1861 componeva un dramma in versi,Garibaldi, improntato al clima
romantico del tempo e dava inizio, dopo l'abbandono degli studi di
giurisprudenza, a un'intensa attività poetica culminata nei sonetti di
Vanitas vanitatum (1863) e nelle prime esperienze nell'ambito del
folklore siciliano alle quali l'aveva sospinto la calda amicizia di
Leonardo Vigo, raccoglitore instancabile dei canti popolari siciliani. Nel
1864 troviamo il giovane Luigi trasferito a Firenze (a spese della
famiglia) che, in quanto capitale d'Italia, accoglieva l'élite
culturale del paese, protagonista della vita artistica della città,
frequentatore assiduo del Caffè Michelangiolo e dei salotti letterari,
ove si riunivano i nomi più illustri della cultura fiorentina; qui il
Capuana conobbe il Prati, l'Aleardi e cominciò ad interessarsi
all'opera di Balzac e di altri romanzieri francesi.Intanto, per
arrotondare l'esiguo mensile inviatogli dalla famiglia accettava il
lavoro di cronista teatrale della Nazione, impegnandosi in un'attività
giornalistica che avrebbe agito positivamente nella sua formazione come
stimolo al ripensamento critico e alla elaborazione della sua poetica.
Proprio nelle colonne della Nazione veniva precisandosi la fisionomia
del critico: rinuncia a ogni impostazione romantica e scelta di uno
sperimentalismo attivo a cui non erano estranee le appassionate letture
straniere; un continuo desiderio di ampliare la propria cultura a
contatto di ogni esperienza innovatrice. Infine un primo ma non sommario
incontro con i saggi desanctisiani lo aveva avviato verso l'estetica
hegeliana, e quindi alla necessità della sperimentazione formale per il
rinnovamento dell'arte contemporanea. Dalle pagine del cronista doveva
muovere in seguito la molteplice e complessa attività del critico.
Molti nomi nuovi ricorrono nel suo taccuino: Balzac, certo, e lo Zola e
i Goncourt, ma anche i nuovi astri del teatro francese, l'Augier, il
Sardou e il Dumas. Proprio sotto l'egida del Dumas, appare nel periodo
fiorentino la prima novella, Il dottor Cymbalus, pubblicata sulle
colonne della Nazione. Nel
1869, per motivi di salute, decide il ritorno a Mineo, vi intrecciò una
relazione con una popolana, dalla quale ebbe dei figli in seguito
abbandonati. In Sicilia rimarrà per sette anni, trattenuto dalla morte
del padre e dalla cura dei suoi interessi privati. Nel 1871 diviene
ispettore scolastico e si dedica con passione ai problemi della
istruzione obbligatoria; nel 1872 è eletto sindaco di Mineo e la sua
attività di pubblico amministratore sarà così energica da fargli
attribuire la meritata etichetta di De Pretis di Mineo. Accanto
al maturarsi del critico si fa strada irrefrenabile la disposizione
narrativa che lo conduce, in alcune novelle, alla sperimentazione di
tecniche diverse e a farsi sostenitore di esperienze contrastanti, anche
se l' interesse per la poetica naturalistica ha il sopravvento in questi
anni, contribuendo alla formulazione della non esatta etichetta di
campione del verismo italiano ch'egli non accettò mai in un'accezione
semplicistica. Nel
1877 chiamato dal De Meis, e seguendo l'esempio del Verga, abbandona di
nuovo la Sicilia, questa volta per Milano dove gli sembra concentrarsi
la cultura più viva della nuova Italia. Si
apre così il periodo milanese (1877-81) nella vita di Capuana.
Lavoratore instancabile, diviene assiduo collaboratore del Corriere
della Sera e la sua firma richiama progressivamente l'attenzione di un
vasto strato di pubblico. Intanto,
a contatto con la Scapigliatura e con le correnti dell'avanguardia
postromantica, amplia notevolmente il proprio orizzonte spostandolo sul
piano europeo, soprattutto con l'ardita impostazione del suo lavoro
narrativo: pubblica la raccolta di novelle Profili di donne (1877) e il
primo romanzo Giacinta (1880), un'opera di largo respiro e di netta
impostazione naturalistica che sarà in seguito ridotta per il teatro e
di nuovo edita con notevoli varianti nel 1885. Compaiono nell'80 i primi
studi sulla letteratura contemporanea, seguiti a breve scadenza,
nell'82, dalla seconda serie; si organizza così anche la fisionomia del
critico militante, impegnato nell'affermazione dell'estetica hegeliana e
nella battaglia per il trionfo in Italia delle nuove poetiche europee:
dal naturalismo zoliano allo psicologismo bourgetiano. Al centro delle
polemiche veriste egli si batte per un'arte che non sia estranea alla
società del suo tempo, ma insieme concede ampia libertà alla sua sete
di ricerca e al bisogno di sperimentare ogni via che assicuri il
rinnovamento formale. Con l'amico Giovanni Verga diviene una delle punte
della giovane letteratura: intorno ai due siciliani si forma un gruppo
che ha notevole peso nella vita culturale della città. Dopo
un breve soggiorno a Mineo, nell'82 é chiamato a Roma per sostituire
Ferdinando Martini alla direzione de Il Fanfulla della domenica. Al
giornale resterà circa due anni: un periodo breve ma intenso che gli
consente incontri proficui: dal Sommaruga allo Scarfoglio, dalla Serao a
D'Annunzio. Raccoglie intanto una nuova serie di novelle (Homo) e dà
inizio a uno dei filoni più originali della sua esperienza narrativa,
quello della fiaba, spinto su questa strada dalla sua antica passione
per il folklore e la poesia popolare e dal costante incitamento
dell'amico Giuseppe Pitrè. Vedeva la luce così la raccolta di fiabe
C'era una volta (1882), seguita da una lunga serie di opere analoghe (Il
regno delle fate, Il raccontafiabe, Seguito al C'era una volta, ecc.) e
da una ricerca assidua nel settore della narrativa per l'infanzia e la
gioventù, che doveva approdare a un piccolo capolavoro come Scurpiddu
(1898), un racconto lungo in cui gli elementi realistici trovano un
felice rapporto con la sotterranea radice fantastica. Dal
1884, per alcuni anni, é di nuovo nel ritiro di Mineo, dove nel 1885
sarà rieletto sindaco. In questo periodo attende alla stesura delle
opere di maggior impegno sia nel campo della saggistica, sia in quello
della narrativa, dando veste definitiva ai romanzi ai quali da tempo
pensava: Profumo (1890), La sfinge (1897), il Marchese di Roccaverdina
(1901). Inoltre,
lavora accanitamente alle novelle, seguendo il duplice binario dello
studio delle passioni borghesi e dell'indagine realistica nell'ambiente
paesano (Le paesane, del 1894 e le Nuove paesane del 1898). Proprio in
questo settore del suo lavoro il Capuana troverà il rapporto più
felice tra le istanze realistiche della sua poetica e le qualità innate
della sua fantasia, in un contesto psicologico non aggravato dalla
volontà documentaristica. A
Roma nel 1895 conosce la giovane Adelaide Bernardini, che nel 1898
diviene sua moglie e compagna affettuosa degli ultimi anni. E a Roma
ottiene l’incarico di letteratura italiana alla facoltà di Magistero.
Nel 1902 é chiamato a coprire la cattedra di estetica e stilistica
all'università di Catania, ormai celebrato come una delle glorie della
cultura isolana fino alla morte, avvenuta nel 1915. Negli ultimi anni
lavora all’ultimo romanzo, Delitto ideale (1902) , ad altre novelle ed
alla produzione teatrale dialettale, ottenendo notevoli consensi con il
dramma Malia e con le commedie Lu cavaleri Pidagnu (1909) e Lu paraninfu
(1914). Giornalista,
drammaturgo, commediografo, critico, è da considerarsi come una delle
figure centrali della letteratura italiana del secondo ottocento e del
primo novecento. Senza dubbio il centro della sua molteplice attività,
anche come sbocco del lungo dibattito teorico, resta la produzione
narrativa con la quale, allorquando giunge a superare le strettoie dello
sperimentalismo naturalista, s'impone come sicuro e coraggioso
innovatore. In particolare Le paesane, Giacinta e Il marchese di
Roccaverdina sono i lavori ove maggiormente raccoglie le sue ambizioni d’interprete
della società del suo tempo.
Si
dedicò all’insegnamento fino al ’41, anno in cui tornò a Roma e
pubblicò Gli anni perduti da lui stesso considerato il suo primo vero
romanzo, già qui è chiaro l’allontanamento dall’ideologia fascista
e l’amarezza verso la realtà storico-politica del suo tempo. Nel ’42
pubblicò Don Giovanni in Sicilia, romanzo di satira al gallismo
siciliano (vanità sessuale del maschio del sud che cerca, attraverso la
fantasia, un’evasione dal chiuso mondo bigotto della provincia). Fu in
quell’anno che, al teatro dell’Università , conobbe l’attrice
Anna Proclemer, se ne innamorò e 5 anni più tardi la sposò. Presso la
rivista "Aretusa" pubblicò, nel ’44, il racconto Il vecchio
con gli stivali affrontando per la prima volta il tema dell’uomo
distrutto e sopraffatto dalla macchina inesorabile del proprio tempo.
Nel ’46 Brancati si stabilì definitivamente a Roma e, nel ’49,
pubblicò Il bell’Antonio, a puntate, sul settimanale "Il
mondo". E’ una satira di costume che, attraverso l’impotenza
del protagonista, fa intravedere, la crisi e il fallimento del regime.
Il romanzo riscontrò il favore della critica e dei lettori e, nel ’50,
vinse il Premio Bagutta. Separatosi
dalla moglie nel 1953, morì a Torino l’anno successivo. Nel ’55
venne pubblicato, rispettando le sue ultime volontà, il romanzo
incompiuto Paolo il caldo, con prefazione di Alberto Moravia. Brancati
lavorò anche per il cinema:scrisse la sceneggiatura del film Anni
difficili (1947), tratto da "Il vecchio con gli stivali".
Signori in carrozza (1951), L’arte di arrangiarsi (1955, di Luigi
Zampa), Altri tempi (1952), di Alessandro Blasetti, Guardie e ladri
(1951), di Mario Monicelli, Dov’è la libertà e Viaggio in Italia
(entrambi del ’54), di Roberto Rossellini. Del 1960 è il film Il bell’Antonio
di Mauro Bolognini, con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale,
trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo e del 1973 Paolo il
caldo, diretto da Marco Vicario e interpretata da Giancarlo Giannini e
Ornella Muti. Fra
le opere teatrali di Brancati ricordiamo: Le trombe di Eustachio del ’42,
Don Giovanni involontario del ’43, Raffaele del ’46, La governante
del ’52. Per la Saggistica: I piaceri, I fascisti invecchiano
(entrambi del ’46), e Ritorno alla censura del ’52.
"Ercole
Patti: alla ricerca della felicità perduta". Cercare
nella produzione letteraria di Ercole Patti "domande
radicali", potrebbe anche sembrare una fatica inutile. Liquidato in
modo tanto sbrigativo quanto ingiusto con l'etichetta di scrittore
leggero, d'intrattenimento e superficiale, lo scrittore catanese ha
pagato per anni lo scotto di una popolarità legata, tra la fine degli
anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta, alle infelici
trasposizioni filmiche di alcuni suoi racconti e romanzi. Se si eccettua
"Un bellissimo novembre", affidato alla regia di Mauro
Bolognini nel 1969, i film che vengono tratti dalle sue opere letterarie
negli anni che seguono - "La seduzione" che Fernando Di Leo
nel 1973 trae da "Graziella", "La cugina", diretto
nel 1974 da Aldo Lado, "Giovannino" diretto da Paolo Nuzzi nel
1975 - sono stati giustamente accatastati nella soffitta della storia
del cinema. Nonostante ciò - e pure senza eccessiva fatica - è
ugualmente possibile scoprire all'interno della sua produzione
letteraria, la costante trattazione di un tema niente affatto
superficiale: quello della felicità. Nei
suoi romanzi (Giovannino, Un amore a Roma, La cugina, Un bellissimo
novembre, Graziella, Gli ospiti di quel castello) ci si imbatte in una
felicità consumata e deludente, ma anche compiaciuta, a tal punto che,
considerato l'esplicito autobiografismo, viene spontaneo chiedersi se la
visione edonistica dei personaggi non coincida del tutto con quella
dell'autore. La lettura del "Diario siciliano", invece e quasi
inaspettatamente, proietta una luce diversa sull'argomento. C'è qui,
come dice Massimo Onofrio [1] la voglia di ripristinare e di riscoprire
qualcosa che l'Ercole Patti giovane e immaturo s'era lasciato sfuggire:
"Se nei romanzi un'aurorale promessa di felicità viene consumata,
come per un processo di combustione, fino a un inesorabile approdo di
disillusione quasi leopardiana, nel Diario, secondo un percorso che, non
a caso, è a ritroso nel tempo (dal 1974 al 1931), la felicità perduta
viene come forzosamente ripristinata." Il
"Diario siciliano" viene pubblicato nel 1971 e, caso unico
nella produzione di Patti, ha un sottotitolo che rimanda
inequivocabilmente a Marcel Proust e alle domande radicali di un autore:
"Alla ricerca della felicità perduta". La
ricerca di Patti ha, tuttavia, chiare connotazioni stilistiche personali
e sembra sfruttare (o derivare da) l'esperienza di sceneggiatore che,
anche se quasi per caso e solo in collaborazione con professionisti del
settore, aveva già svolto. E' una ricerca fatta per immagini e con la
tecnica del "riavvolgimento" filmico, un album di fotografie
che il lettore può sfogliare a suo piacimento, saltando da un racconto
all'altro. Già nel Prologo – L’adolescenza – è anticipato,
tuttavia, che queste immagini non restano "fotogrammi fissi",
ma si mutano in sensazioni e riflessioni, fino ad esplodere in precise
domande: che cos’è la felicità? come si raggiunge? come si conserva?
come si recupera? Non tanto per "deviazione professionale", ma
soprattutto per quella scrittura da sceneggiatore che "scorre nelle
vene" di Patti (come in altro contesto s'è avuto modo di
rilevare2), continuiamo la nostra ricerca prendendo a prestito la
tecnica cinematografica. Se "zoommiamo" fino ad arrivare al
cuore del Diario, ed esattamente al 17° racconto di 34 in esso
contenuti, troviamo un racconto chiave datato 1963 che, guarda caso,
riprende il sottotilo: "Alla ricerca della felicità perduta". Conviene,
allora, prendere le mosse da questo racconto per "scoprire"
(ancora un termine tecnico cinematografico che si presta benissimo
all'indagine che si intende portare avanti) la vera essenza della sua
poetica. Il
racconto si apre con un'epigrafe che precede la data. Essa dice:
"Non ho più la mia vecchia casa fra i limoni, ne ho costruito una
davanti al mare di Pozzillo…". In seguito - zoom dello zoom -
l'accenno alla vecchia casa fra i limoni viene ripreso e fa da
introduzione al tema della felicità perduta: "Il ricordo di quelle
case di campagna che si confondono nel mio pensiero mi è rimasto nella
mente come l’espressione più alta della felicità. La felicità può
venir fuori dalla descrizione minuta degli oggetti che ci sono in una
vecchia casa di campagna…" Segue
l'elenco dettagliato di questi oggetti, i particolari che "si
possono osservare guardando da vicino sotto la luce radente che arriva
dalla campagna". Essi sono: "un piccolo nido di formiche che
escono dalla connessura tra lo stipite e il davanzale su cui è piantato
in mezzo un vecchio rampino arrugginito e contorto al quale in tempi
remoti si legava qualche tenda o uno storino di legno; e lì vicino tre
olive di cui una un po' annerita dimenticate sulla vecchissima pietra
bianca porosa accanto al buco col cannello di piombo da dove è uscita
l'acqua di tante lunghe piogge dopo essersi raccolta nel retro del
davanzale; e un poco più in là il segno circolare di ruggine lasciato
da qualche grossa chiave di cantina o da un oggetto di ferro che sono
stati abbandonati a lungo chissà quando; e un ramo dell'albero di gelso
che cresce nell'orto di sotto e viene a sfiorare il davanzale con le sue
foglie; e una data incisa con un chiodo sulla pietra bianca dello
stipite durante una di quelle lontane gite autunnali che si facevano in
comitive rumorose; e due coccinelle che si inseguono e battono sul vetro
impolverato; e su tutti questi piccoli segni e oggetti riverbera la luce
un poco smorta di novembre che illumina un passerotto caduto dal nido e
morto su una zolla del cortile; e dietro la finestra che si affaccia su
quel cortile pieno di erbacce c'è in un angolo un vecchio mobile
relegato in campagna, mancante di un piede che è stato sostituito con
un pezzo di legno qualsiasi e c'è lì vicino un divano largo fatto di
fili di grosso spago intrecciati un po' allentati sul quale si può
dormire dolcemente nel pomeriggio come su un'amaca." Se
si potesse dare un consiglio ai lettori che si accostano per la prima
volta all'opera di Patti, mi piacerebbe poter suggerire loro
l'importanza di questo racconto e consigliarne la lettura o come
introduzione generale, o come conclusione definitiva. C'è, in esso,
infatti, il riassunto di tutti i racconti contenuti nel Diario e, con
una serie di rimandi a catena, la summa dell'intera opera letteraria di
Patti.
La
magnifica stagione milanese culmina nei successi, non meno trionfali, di
Roma. Accadde un fatto assolutamente inaspettato: i Sovrani d'Italia
chiamano Angelo Musco al Quirinale. E come ci dobbiamo vestire? si
chiedono, sbalorditi, i comici della Compagnia. Musco con sano senso
professionale, spiega ai suoi collaboratori che non si tratta di fare
sfoggio di bel vestire, bensì di offrire un saggio della propria arte
di attori. Viene scelta la commedia Rondinella di Francesca Agnetta. La
compagnia si inchina ai Sovrani, poi inizia a recitare come in un
normale teatro. Dei miei comici ero sicuro - annota Musco - una volta
presi dall'azione scenica e investiti delle loro parti, non ebbero
nemmeno un momento di distrazione e spiegarono il massimo impegno. Ma di
me stesso, in verità, io non mi sentivo sicuro. L'episodio merita di
essere raccolto, a distanza di tanti anni, perché testimonia la
spiccata professionalità di Musco. "Abituato a recitare nei teatri
pieni di pubblico ed a sentire le continue risate o i mormorii di
approvazione e gli applausi, quell'ambiente regale e quel solenne
silenzio mi mettevano attorno un senso di freddo che mi avviliva e mi
sgomentava. I miei occhi si posavano spesso sul volto di S. M. il Re,
impenetrabile. E mi chiedevo: Si diverte, o si annoia? E' soddisfatto
dello spettacolo, o s'è pentito di avermi fatto venire?... A un tratto
mi colpì qualche risata sommessa che proveniva da un gruppo di dame
sedute più indietro: stavo per consolarmi un poco, ma ecco che Sua
Maestà si volta a guardare le dame che ridono. Allora mi scoraggiai del
tutto. Càspita, pensai, non ride e non vuole nemmeno che ridano gli
altri... Ma è Re e si capisce che comanda lui..." Il dubbioso
stato d'animo non dirada, sino alla fine della rappresentazione, quando
il cerimoniere viene a chiamare l'attore per condurlo al cospetto di
Vittorio Emanuele III. Biografia: Angelo
Musco nacque a Catania nel 1871. Quattordicesimo figlio di un bottegaio,
fu costretto a lavorare in giovanissima età. Fece, male ed
insofferente, il barbiere, il calzolaio e il muratore. Manifestava già
le attitudini istrioniche cantando canzonette per le strade della
città. A 12 anni compì la sua prima esperienza di attore in una
compagnia napoletana, tutta di siciliani, che fallì poco dopo. Nel
1899 entrò nella compagnia di Giovanni Grasso senior, attore tragico di
straordinaria efficacia. Alla fine dello spettacolo egli parodiava la
tragedia interpretata da Grasso e con due piroette e pochi lazzi
asciugava le lacrime, secondo le antiche tradizioni delle Atellane e dei
Mimi. Riuscì a conquistare il pubblico, che immancabilmente gli gridava
dal loggione: Angilu! 'A musca. Era una canzoncina che eseguiva più che
con la voce, con smorfie e gioco di gambe, sfruttando l'assonanza del
titolo e del contenuto della stessa con il suo cognome. Nacque
progressivamente, però, una rivalità professionale tra i due attori,
anche se non intaccò i rapporti personali. Musco si staccò da Grasso e
passò alla compagnia di Marinella Bragaglia. Nel 1914, finalmente
capocomico, presentò a Napoli la Comica compagnia siciliana del Cav.
Angelo Musco. Facevano
parte della compagnia le due sorelle Anselmi, una delle quali, Rosina,
divenne la sua fedelissima compagna d'arte. Per circa un anno furono
tempi bui e Musco ed i suoi attori dovettero arrangiarsi per
sopravvivere. Nell'aprile del 1915 decisero di giocare l'ultima carta ai
Filodrammatici di Milano, dando Paraninfu di Capuana. L'indomani, il
noto critico Simoni, fornendo forse la più efficace descrizione di
Musco, scriveva sul Corriere della Sera: Egli è un comico
irresistibile... E'
un comico tutto istinto, dagli occhi accesi, dalla faccia bruciata,
bizzarro, indiavolato, colorito come una maschera del tempo fecondo. Due
anni dopo, sull'Illustrazione italiana, ancora un lusinghiero ritratto
dello stesso Simoni, che rileva la raggiunta notorietà dell'attore
nella città di Milano. Fra il 1915 e il 1917 cominciò, infatti, la sua
fortuna e divenne un attore popolarissimo, molto apprezzato dalla
critica al punto che i maggiori scrittori siciliani, come Pirandello,
Capuana e Martoglio, scrissero per lui. La commedia è la stoffa e
l'attore è il sarto, che la taglia, la trasforma, la ricompone: questa
era la teoria dell'intrepretazione teatrale di Musco. Egli aveva un
grande talento di osservatore dell'umanità, spontaneità e gioia di
vivere, che riversava sul suo lavoro di attore, spingendosi a
trasformare il testo dell'autore, intrecciando ad esso battute originali
ed estemporanee. Narrano
gli annali che il primo film di Musco è la registrazione di San
Giovanni decollato (1917-18). Seguono, dopo quattordici anni di pausa,
dieci titoli, molti dei quali campioni d'incasso nei quattro anni che
precedono la morte: Cinque a zero di Mario Bonnard; Paraninfo (1934), di
Amleto Palermi, con Rosina Anselmi ed Enrica Fantis; L'eredità dello
zio buon'anima (1934), di Palermi, con la Anselmi ed EWlsa De Giorgi;
Fiat voluntas dei (1935), pure di Palermi, con Nerio Bernardi e Maria
Denis; L'aria del continente (1935), di Gennaro Righelli, con Leda
Gloria; Re di denari (1936), di Enrico Guazzoni, con Leda Gloria, Mario
Ferrari e Nerio Bernardi; Lo smemorato (1936), di Righelli, con Paola
Borboni e Franco Coop; Pensaci, Giacomino! (1936), ancora di Righelli,
con Dria Pola ed Elio Steiner; Il feroce Saladino (di Mario Bonnard, con
Rosina Anselmi ed Alida Valli; Gatta ci cova (1937), di Righelli, con
Rosina Anselmi, Elli Parvo e Silvana Jachino. Sono film che non
spiccano, nel panorama certamente minore di un cinema dominato dai
telefoni bianchi ed imbrigliato dalla censura di Luigi Freddi. Eppure,
hanno contribuito a fissare, nella memoria di tutti noi, l'immagine
vivissima del grande attore, dell'umorista colorito, del conoscitore
profondo della Sicilia e della sua complessa spiritualità. Sono la
testimonianza di un fenomeno che ha pochi riscontri nella storia del
nostro teatro popolare: una vita d'attore che resta incisa a bulino nel
ricordo e financo nella gestualità, nei tic verbali e gergali di intere
generazioni. Per trovare un confronto al mito di Angelo Musco bisogna
scomodare un'altra memorabile leggenda del nostro teatro fra le due
guerre, quella di Ettore Petrolini. Ancora oggi, infatti, sussurriamo
Gastone... con lo stesso allusivo e birichino con cui, davanti ad un
burocrate impettito e spocchioso, facciamo il gesto di intingere la
penna ripetendo l'irriverente "Cavaliere, abbagno?". Tra i
suoi grandi successi teatrali, San Giovanni decollato e l'Aria del
continente di Martoglio, La Patente, Pensaci Giacomino, Il berretto a
sonagli, Liolà di Pirandello, Cavaliere Pedagna di Capuana. Musco
morì improvvisamente a Milano il 6 ottobre 1937. Quando la sua salma
venne restituita a Catania, il 14 ottobre, ad attenderla alla stazione
vi era una sterminata folla, presenti tutte le autorità.
Più
che la Nascita di Venere, lo coinvolge la dolce Flautista della
fiancata, che viene ad occupare lo stesso posto della fanciulla in carne
ed ossa di cui è innamorato. Nella
sua arte, come nella poesia e nella vita, la donna resterà sempre
idolo. Maurizio Calvesi scrive che l'arte di Emilio Greco è, almeno
apparentemente, di facile accesso, e non soltanto per le sue iconografie
che in presa diretta parlano della bellezza nella sua duplice specie,
ideale e di natura, cogliendone una magistrale sintesi; ma anche per i
valori formali che agevolmente raggiungono la sensibilità
dell'osservatore, perchè dalla sensibilità provengono e della
sensibilità costituiscono la più riconoscibile incarnazione, per la
finezza del modellato, le vibrazioni della luce, la fermezza dei volumi
e, nella grafica, la sottigliezza del segno che si sposa alla delicata
intensità dei chiaroscuri Scultore
e incisore, fu titolare della cattedra di scultura dell'accademia di
belle arti a Roma, inoltre insegnò a Salisburgo e Monaco. Attraverso
uno dei suoi versi è possibile intuire il suo profondo interesse per la
scultura "FORSE NON FU VANO AMARCI SE LA TUA IMMAGINE ETERNAMENTE
VIVRÀ NEL BRONZO ..." in una sue recente intervista citando gli
scritti di Giacinto Spagnoletti, afferma che l'orgoglio supera qualsiasi
altro sentimento umano, poiché è seguito dal godimento dell'atto
creativo. Quest'ultimo amaramente sopraffatto dal dubbio e
dall'autocritica verso l'opera terminata. è proprio questa la ragione
per la quale non si è mai affezionato a nessuna delle sue opera.
E.Greco oltre ad essere un ottimo scultore, artefice delle opere esposte
in una mostra tenutasi a Seul, in occasione dei giochi olimpici, è
anche un ottimo incisore e disegnatore. Lo stesso Picasso visitando una
sua mostra al museo Rodin ha affermato "GRECO È IL PIÙ GRANDE
DISEGNTORE CHE ABBIAMO IN EUROPA"
Tradusse
alcuni classici latini (Livio, Orazio, Tacito, Virgilio), e lesse
attentamente Machiavelli e Guicciardini, insieme coi maggiori poeti
italiani da Dante fino ai suoi contemporanei. Ma è da rilevare anche la
particolare attenzione dedicata ad alcuni tra i pi discussi
rappresentanti della cultura francese, come Carlo Rollin (1661-1741), il
quale da figlio di coltellinaio era diventato rettore dell'università
di Parigi, e Antonio Goguet (1716-1758), che aveva tentato di affermare
uno stato di natura sulla base dell'etnografia, dimostrando che le idee
discendono sempre dai fatti. Ben presto il Tempio acquist fama di buon
poeta e fu accolto nell'Accademia dei Palladii e nel salotto letterario
del mecenate Ignazio Patern principe di Biscari. Dopo la morte del padre
(1775), fu costretto a trascurare gli studi per continuarne l'attività
commerciale, ma gli affari andarono male e contrasse debiti, senza
riuscire a raddrizzare il bilancio familiare. Perduta anche la madre,
spos certa Francesca Longo, che mor nel dare alla luce una bambina.
Allora prese una balia per la figlia, la gnura Caterina, che divent la
sua compagna fedele e gli diede un altro figlio, Pasquale. Nel 1791 fu
nominato notaio del casale di Valcorrente, ma forse non prese mai
possesso di questo ufficio. Pochi anni prima di morire ottenne una
pensione sul Monte di pietà e sulla Mensa vescovile, poi anche un
sussidio dal Comune di Catania. Mor il 4 febbraio 1820. Domenico
Tempio è da considerare il maggiore poeta riformatore siciliano, la cui
voce si leva contemporaneamente a quella del Parini in Lombardia. Egli
fu ammirato e lodato dai suoi contemporanei, ma dopo la morte la sua
opera fu quasi dimenticata, tranne alcuni componimenti di carattere
licenzioso che, pubblicati alla macchia, gli diedero ingiusta fama di
poeta pornografico. Con la ripresa degli studi sul Settecento siciliano,
dopo la seconda guerra mondiale, anche l'opera del Tempio è stata
rivalutata e sottoposta a un serio esame critico. L'educazione del
Tempio, come s'è visto, era fondata sulla base di uno schietto
illuminismo con una forte componente classicistica. La sua lingua
(tranne qualche rara eccezione) è quella siciliana, e conferma una
lunga tradizione di autonomia linguistica e letteraria che, dal volgare
siculo, si estende fin quasi ai nostri giorni. La poesia tempiana vuol
essere libera, denuncia i vizi e le malvagità degli uomini, e addita
nell'ignoranza la prima causa di ogni male (Odi supra l'ignuranza). La
sua satira, spesso aspra e pungente, mira al rinnovamento morale della
società e al riscatto degli uomini dalla miseria, ma i valori poetici
emergono spesso al di sopra delle intenzioni. Cos accade nelle favole,
dove il ritratto si trasforma in paesaggio umano, e nei poemetti, dove
l'episodio si apre alla contemplazione della natura. Nel poemetto La
Maldicenza sconfitta difende la libertà della poesia e l'indipendenza
del poeta; in Lu veru Piaciri combatte ogni falsità ed esalta
l'operosità dell'uomo; nella Mbrugghereidi condanna le malefatte di un
prete imbroglione; nel ricco canzoniere tende a smitizzare il quadro di
una Sicilia arcadica e felice per avviare un lento ma sicuro processo
verso il realismo, onde anche la malinconia diventa dolore della natura.
I bozzetti drammatici (La scerra di li Numi, Lu cuntrastu mauru, La paci
di Marcuni, Li Pauni e li Nuzzi) degradano l'Olimpo al livello delle
spicciole miserie umane. L'opera
maggiore di Domenico Tempio è il poema La Caristia (in venti canti e in
quartine di settenari), dove il poeta descrive i tumulti popolari cui
diede luogo, a Catania, la carestia del 1797-98. Nella sommossa che
divampa si aggirano, finalmente in funzione di protagonisti e non pi di
schiavi diseredati, le figure spettrali degli affamati. La Carestia,
sopra il suo carro stridente, si aggira tra una folla di disperati
famelici, che ondeggia e irrompe con furia irresistibile. I brani lirici
si inseriscono nella tragedia come parentesi di pace e di abbandono,
creando uno sfondo amoroso che è il mondo vagheggiato, ma non
raggiunto, dal poeta. Ognuno di quei pezzenti rivoluzionari ha una sua
triste storia da raccontare, ed è il complesso di tutte queste storie
umane che determina l'unità e la genuinità del poema. Se Giovanni Meli
è il maggiore rappresentante dell'Arcadia siciliana, Domenico Tempio è
l'interprete pi efficace di quei fermenti rinnovatori che erano
penetrati ampiamente nell'Isola nel corso del sec. XVIII. L'impulso
naturalistico impresso alla cultura siciliana dal Tempio tra Sette e
Ottocento attenuerà le risonanze romantiche nella Sicilia greca e
determinerà, sullo stesso piano morale e nello stesso ambiente catanese,
la ripresa veristica di fine secolo. L'edizione
delle poesie tempiane fu pubblicata, vivente l'autore, a cura di
Francesco Strano, col titolo Operi di Duminicu Tempiu catanisi (Stamparia
di li Regj Studi, Catania, 1814 tomo I e II, 1815 tomo III). Il poema La
Caristia fu pubblicato postumo, a cura di Vincenzo Percolla (1848-49).
Altra edizione delle Poesie di Domenico Tempio poeta siciliano, con
l'aggiunta di inediti, è quella del Giannotta in 4 volumi (1874). Le
poesie licenziose furono raccolte da Raffaele Corso (1926). Un'ampia
silloge è in Opere scelte, a cura di Carmelo Musumarra, con un saggio
su Domenico Tempio e la poesia illuministica in Sicilia (1969); altra
edizione, della Caristia e delle Favole. Odi. Epitalami. Ditirambi.
Altro vino, a cura di Domenico Cicci, è del 1968. Due ricchi volumi,
con saggi introduttivi e commento di Vincenzo Di Maria e Santo Cal
(Domenico Tempio e la poesia del piacere) contengono Lu veru piaciri e
le poesie licenziose
Mario,
oltre ad amare la letteratura e la storia, suonava discretamente il
violino e coltivava la pittura. Studiò dai gesuiti. Nel '59 esordiva
con l'Ode a Sant'Agata vergine e martire catanese. Lettore
appassionato di Alfieri, Monti, Foscolo, Leopardi e di vari autori
risorgimentali, scrisse, ancora adolescente, un Inno di guerra,
agl'italiani e l'incompiuto poemetto Dione, nella cui prefazione esalta
le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta, partecipando così
all'atmosfera politica di quei mesi, culminati coll'impresa di Mille,
che pose fine alla monarchia borbonica. Per
contentare il padre, frequenta un corso di giurisprudenza, ma non
giungerà a laurearsi. Invece lo interessa moltissimo lo studio dei
classici greci e latini, che gli suggeriscono le prime traduzioni, le
ricerche filologiche e filosofiche di carattere positivistico. Frutti di
questo periodo formativo il poemetto Fausta e Crispo e i Canti. Nel
'65 parte per Firenze, allora capitale del Regno, per il centenario
della nascita di Dante, cui dedicò l'ode declamata in quell'occasione,
e qui, in un clima acceso da fermenti mazziniani e repubblicani, stringe
amicizia coi poeti Dall'Ongaro, Prati, Aleardi, Fusinato, Maffei, col
dotto Pietro Fanfani, con l'orientalista De Gubernatis e con altri
importanti artisti e intellettuali. Nel
'68 pubblica il suo primo poema, La Palingenesi, dove in 10 canti
polimetri condanna la corruzione del clero e difende l'azione
moralizzatrice di Lutero, prospettando col connubio arte-scienza il
ritorno del cristianesimo alla purezza originaria. Il successo
dell'opera (Verga fu uno dei primi a congratularsi) echeggia anche
all'estero (Victor Hugo è tra i più significativi estimatori), mentre
il municipio di Catania assegna all'autore una medaglia d'oro e il
ministro Correnti lo chiama a insegnare letteratura italiana nell'ateneo
catanese. Nel
'72 escono i versi de Le Ricordanze che, pur nei limiti dell'imitazione
leopardiana, rivelano una genuina vena intimista. Nello stesso anno
sposa Gisella Fojanesi. Uno
studio critico su Catullo gli vale nel '75 la nomina a professore
straordinario di Letteratura italiana e l'incarico di Letteratura latina
all'Università di Catania. Già
da qualche anno il poeta è dedito alla stesura del suo secondo poema,
il Lucifero, ispirato dalle Guerre de Dieux del Parny, ma anche da
Milton e dal carducciano Inno a Satana. Il poema, in 15 canti polimetri,
pur essendo diseguale a livello artistico (a efficaci descrizioni e
qualche episodio memorabile oppone una certa macchinosità d'insieme e
non rare cadute di tono per non dire di gusto), resta l'espressione più
significativa della poesia italiana d'indirizzo positivista. Per il
Lucifero, che esce nel '77, Rapisardi riceve un biglietto entusiastico
di Garibaldi, che si firmò "suo correligionario", mentre
l'arcivescovo di Catania ordinò, pare, un autodafé del libro. Insignito
-lui, schietto repubblicano- del titolo di Cavaliere della Corona
d'Italia (per aver celebrato, nell'XI canto del poema, le guerre
d'indipendenza e l'ossario di Solferino) e nominato professore ordinario
di Letteratura italiana e latina dal ministro della Pubblica Istruzione
Francesco De Sanctis, che lo stimava, Rapisardi pubblica nell'83 i versi
sociali (e sarcastici) di Giustizia, che trovarono vasti consensi (suo
epicentro sta nel Canto dei mietitori). Quest'opera nel '24 sarà
addirittura proibita dalla politica fascista. Alla fine dell'83 rompe il
matrimonio con la moglie, che intanto s'era legata al Verga. Il
Carducci, al quale aveva "devotamente" inviato una copia del
Lucifero, resosi conto d'essere oggetto di caricatura in alcuni versi
dell'XI canto ("plebeo tribuno e idrofobo cantor, vate di
lupi"), apre con Rapisardi quella polemica che avrebbe divido
l'Italia letteraria degli anni '80. Dall'epistolario del Carducci si
scoprono fin dagli anni '60 frasi poco tenere nei confronti del
Rapisardi, che certo non era di carattere facile. D'altro canto, di
tutti i poeti della sua generazione, egli in fondo stimava solo Arturo
Graf. Molte delle sue frecciate tuttavia rimasero o inedite o affidate
alla discrezione dei suoi interlocutori epistolari. Di pubbliche vi
furono solo le allusive caricature schizzate in certi passi dei poemi.
Naturalmente la polemica col Carducci è una storia a sé. Nell'84
usciva il poema Giobbe, che è il suo capolavoro: la figura del
protagonista, umiliato e castigato da Dio senza motivo, diventa un
simbolo dell'umanità sofferente. I distici dove il personaggio grida a
Dio la sua disperazione (libro III della parte I) toccano altezze forse
ineguagliate nella poesia italiano del secondo Ottocento. Nell'85
inizia a convivere con una diciottenne assunta come segretaria, Amelia
Poniatowski, figlia di genitori ignoti: gli sarà compagna fedele per
tutta la vita. Nell'87
dà alle stampe le splendide Poesie religiose, forse il suo vertice
lirico, cui seguono i cesellati Poemetti ('92) e gli Epigrammi ('97),
nonché delle impegnative traduzioni di opere di Catullo, Shelley e
Orazio, anche se la cosa più importante resta la traduzione e lo studio
critico del poema La natura di Lucrezio ('79). Nel '94 pubblica il suo
quarto e ultimo poema, L'Atlantide, dove, ispirandosi ai Paralipomeni
del Leopardi, disegna nelle vicissitudini del poeta Esperio la società
italiana lasciva e inetta, additando nella corruzione il principio dei
mali. Nel mentre disprezza la borghesia, canta le figure di Newton,
Darwin, Pisacane, Marx, Cafiero e altri grandi della storia universale. Denuncia
con lucidità e coraggio la criminale politica del governo Crispi (vedi
la repressione dei "fasci siciliani"), nella prefazione a Gli
avvenimenti di Sicilia e le loro cause ('94) e nel dialogo Leone ('95),
che spiegano le feroci repressioni dei moti contadini e operai, nonché
nel pamphlet Africa orrenda ('96) e in alcune poesie, avverse al
truculento colonialismo. Negli
ultimi anni si chiude in un silenzio ostinato, indifferente agli onori
dei concittadini, che superano di gran lunga quelli tributati a Verga,
De Roberto, Capuana… Non lo toccano neppure le critiche di molti
studiosi (specialmente il Croce), anche se tra le sue carte si sono
trovati feroci epigrammi a gran parte dei letterati dell'epoca:
Fogazzaro, Croce, Pascoli, Carducci, D'Annunzio… Egli
muore nel 1912 a Catania: al suo funerale parteciparono oltre 150.000
persone, con rappresentanze ufficiali che giunsero addirittura da
Tunisi. Catania tenne il lutto per tre giorni. Nonostante questo, a
causa del veto opposto dalle autorità ecclesiastiche, la sua salma
rimase insepolta per quasi dieci anni in un magazzino del cimitero
comunale. Il
nome di Rapisardi, rimasto in ombra per tutto il periodo del fascismo,
riemerse dopo la Liberazione, grazie agli studi di Concetto Marchesi,
Asor Rosa, La Penna e Saglimbeni.
Amico
di Verga e di Capuana, De-Roberto aderì subito al naturalismo
esasperandone i postulati di rappresentazione impassibile e
documentaria, ma subendo anche l'influsso dello psicologismo di P.
Bourget. La compresenza delle due suggestioni si protrasse per tutto
l'arco creativo di De-Roberto, determinando squilibri e approssimazioni:
così nelle raccolte di racconti La sorte (1887), Documenti umani
(1888), Processi verbali (1890). E nei numerosi romanzi: Ermanno Raeli
(1889), L'illusione (1891), Spàsimo (1897), Messa di nozze (1911). Solo
nel romanzo I Vicerè (1894) le qualità di De-Roberto riescono a
emergere. "I Vicerè" narra la storia della nobile famiglia
siciliana de gli Uzeda nell'arco di tempo che va dai primi moti
dell'isola al le elezioni del 1882. Gli Uzeda sono dilaniati da accaniti
con trasti d'interesse che oppongono il principe Giacomo, duro e avi do,
al dissoluto conte Raimondo, il cinico e corrotto don Blasco al nipote
Ludovico, anch'egli monaco senza vocazione, e alla so rella, donna
Ferdinanda. Questi contrasti hanno per cornice i grandi avvenimenti
dell'unità italiana. Alle beghe di fratelli e parenti si aggiunge la
lotta che tutti insieme sostengono per conservare gli antichi privilegi,
per mantenere, nel rapporto tra sfruttatori e sfruttati, la parte dei
dominatori: nonostante il naufragio di alcuni singoli come don Eugenio
finito in miseria. Don Blasco è pronto a approfittare della
soppressione dei conven ti per acquistare i beni degli ordini
ecclesiastici. Il vecchio don Gaspare non esita a fingere simpatie
liberali riuscendo a farsi eleggere deputato. Consalvo, l'ultimo degli
Uzeda, si mescola a faccendieri e corruttori pur di farsi eleggere. Il
naufragio degli ideali della borghesia liberale è emblematizzato dalla
figura di Giulente, giovane patriota che nonostante il ma trimonio con
una Uzeda, non ottiene la sperata promozione sociale e risulta sconfitto
alle elezioni politiche. Attraverso le vicende degli Uzeda lo scrittore
compone un va sto affresco dell'aristocrazia siciliana nel momento del
diffici le passaggio dal regime borbonico alla nuova realtà sociale
dell'Italia unita, acquisendo alla tecnica naturalistica italiana una
capacità nuova di penetrazione, fredda ma vigorosa, nel tes suto vivo
della storia e della lotta politica nazionale. In que sta prospettiva si
esaltano le doti dell'osservatore spietatamen te "arido e
fisso", del pittore di scene fastose e lucide, del creatore di
personaggi stravaganti e sgradevoli.
La
sua era una famiglia illustre, quella dei Majorana-Calatabiano, ramo
cadetto dei Majorana della Nicchiara; a quest'ultima andarono il blasone
gentilizio e le ricchezze terriere, alla prima il blasone
dell'intelligenza. Era l'ultimo dei cinque figli di Fabio, (fisico, nato
nel 1877), a sua volta ultimo dei cinque fratelli (i primi quattro
erano: Giuseppe, giurista e deputato, nato nel 1863; Angelo, statista,
1865; Quirino, fisico, 1871; e Dante, giurista e rettore universitario,
1874). Ettore era un genio della fisica, precocissimo, eccentrico,
misantropo, ombroso, indolente, dagli occhi cupi grandi e nerissimi. Trasferitosi
con la famiglia a Roma nel 1923, vi studiò Ingegneria per quattro anni,
poi cambiò facoltà e si laureò in fisica nel 1929 con una tesi sulla
teoria quantistica dei nuclei radioattivi. Fu tra i più promettenti
allievi di Enrico Fermi, sotto la guida del quale si occupò di
spettroscopia atomica e successivamente di fisica nucleare. Con Orso
Mario Corbino, Emilio Segré e Edoardo Amaldi entrò a far parte del
gruppo dei "Ragazzi di via Panisperna". Dal 1931, conosciutosi
il suo straordinario valore di scienziato (ragionatore, non
sperimentatore), fu invitato a trasferirsi in Russia, a Cambridge, a
Yale, nella Carnegie Foundation; ma rifiutò. Le
sue più importanti ricerche riguardano una teoria sulle forze che
assicurano stabilità al nucleo atomico: egli per primo avanzò infatti
l'ipotesi secondo la quale protoni e neutroni, unici componenti del
nucleo atomico, interagiscono mutuamente grazie a forze di scambio
(Sulla teoria dei nuclei, 1933, - posteriore all'analogo lavoro di
Werner Heisenberg solo come pubblicazione -) la teoria è tuttavia nota
con il nome del fisico tedesco (teoria di Heisenberg) che giunse
autonomamente agli stessi risultati. Nel campo delle particelle
elementari, Majorana formulò una teoria che ipotizzava l'esistenza di
particelle dotate di spin arbitrario, individuate sperimentalmente solo
molti anni più tardi da P. Dirac, e W. Pauli fra il 1936 ed il 1939
(Teoria relativistica di particelle con momento intrinseco arbitrario,
1932). La sua equazione a infinite componenti pubblicata nel 1932
costituisce la prima teoria unitaria quanto-relativistica delle
particelle elementari, descritte attraverso un unico campo bosonico o
fermionico, secondo una linea di "algebrizzazione" della
dinamica che servirà da modello alla teoria della "democrazia
nucleare" e alle teorie "costruttive" di Simmetric. Sia
la teoria del 1938, sia la teoria simmetrica dell'elettrone e del
positrone del 1937 risolvono il problema degli stati a energia negativa
della teoria di Dirac del 1928; questa tentava di unificare meccanica
quantistica e relatività speciale per il solo caso dell'elettrone ed è
stata considerata uno dei più grandi lavori del secolo ed è paragonata
alle unificazioni teoriche di Newton, Maxwell, Einstein. Tale problema
legato a quello "degli infiniti" ancora solo parzialmente
risolto, aveva portato ad una crisi profonda aperta dal lavoro di L. D.
Landav e R. E. Peierls. Ancora
più grande allora, come giudicare Fermi, eppure a tutt'oggi non
valutata appieno, bisogna considerare l'opera di Majorana. L'articolo
su: "Il lavoro delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze
sociali", pubblicato postumo nel 1942, in cui è proposta una
"sociologia quantistica", indeterministica , è specchio della
vastità di interessi di Ettore Majorana, vicino più alla tradizione di
"fisici-filosofi" come Heinberg, N.H.D, Bohr e A. Einstein,
che alla fisica italiana del tempo, più sperimentalmente orientata. Per
la sua ritrosia a pubblicare, un enorme quantità di ricerche è rimasta
in forma di manoscritti (scrisse otto opere), in parte non ancora
analizzati e in parte ora perduti. L'impatto diretto della sua opera
sulla comunità scentifica è stato, pertanto, molto più ridotto di
quanto avrebbe potuto essere, a prescindere dalla sua prematura
scomparsa. Dopo
aver soggiornato a Lipsia e a Copenaghen, rientrò a Roma, ma non
frequentò più l'istituto di fisica. Al concorso nazionale per
professore universitario di Fisica, bandito nel 1936, non volle
partecipare, nonostante la segnalazione fatta da Fermi a Mussolini, che
certamente avrebbe vinto. Si trasferì da Roma a Napoli (albergo
Bologna) dove accettò invece la nomina per meriti speciali a titolare
della cattedra di Fisica teorica all'Università di Napoli nel 1937. Si
chiuse in casa e rifiutò persino la posta, scrivendo di suo pugno sulle
buste: "Si respinge per morte del destinatario".
Ci
riesce. Nel '72 conduce la prima Canzonissima, con Loretta Goggi come
partner e Marcello Marchesi e Dino Verde come autori. Poi altri
programmi: La freccia d'oro (1970), Senza rete (1974), Spaccaquindici
(1975), Un colpo di fortuna (1975), Secondo voi (1977), Luna Park
(1979). Un'apparizione
anche in teatro: L'ora della fantasia, nel '72, con Sandra Mondaini, in
una riduzione di Maurizio Costanzo. Una presenza costante, invece, come
signore di Domenica in: dal 1979 - quando sostituisce Corrado - all'85
(poi di nuovo nel '91). Ma
dopo il biennio 1984-86 (binomio Fantastico 5 e Serata d'onore) passa
alla Fininvest come direttore artistico. Alla corte di Berlusconi rimane
poco. Un anno di riflessione e poi è di nuovo alla Rai: sulla seconda
rete con una serie di Serate d'onore, sulla terza con Uno su cento. Nel
'90 il ritorno a Rai Uno con Gran Premio e poi con Fantastico. Lo
aspetta un altro decennio di successi: nel '91 Varietà e Domenica in,
nel '92 Partita doppia, nel '93 C'era due volte, nel '94 Numero Uno,
Tutti a casa e Luna Park, nel '95 Papaveri e papere e l'anno successivo
Mille lire al mese. Ma Pippo Baudo diventa soprattutto il deus ex
machina del Festival di Sanremo, di cui ha già presentato le edizioni
'68, '84, '85, '87 e dal '92 al '96. Nel '94 ne assume la direzione
artistica, stessa carica che ricopre per le reti Rai fino al maggio '96. Nel
'98 ritorna a Mediaset dove realizza un programma sulla storia della
musica italiana (La canzone del secolo) e alcune serate speciali (sulla
moda, sulla musica classica). Poi di nuovo il rientro alla casa madre
con un programma su Rai Tre dal titolo Giorno dopo giorno di Alvise
Borghi con la regia di Maurizio Fusco. Nel
2000 conduce la trasmissione Nel cuore del padre, in onore di Al Bano
Carrisi. In seguito - a fine 2000 - conduce con grande successo
Novecento-Giorno dopo giorno, un programma dove fatti e vicende del
Novecento vengono rivisitati in studio con testimoni e protagonisti
d'eccezione. E da gennaio 2001 è l'ideatore e il conduttore dello
spettacolo di Rai Uno Passo doppio. Nel settembre 2001 conduce un
programma di RaiUno su Padre Pio, dal titolo Una voce per Padre Pio. Viene
scelto per la conduzione e la direzione artistica del Festival di
Sanremo del 2002.
Cresce
con la musica nel sangue e già a 14 anni fa serate ne locali e suo
padre la porta in giro. Ha una cover band,i "Moon's dog party"
con cui fa cover del calibro di Janis Joplin,Aretha Franklin, Otis
Redding e altri grandi del rock-blues. La
sua vena poetica viene fuori già dai sui primi anni di frequentazione
di "perito informatico", infatti vince il concorso regionale
per la miglior poesia : All'uomo occorre morire per dare un senso al
destino ma bisogna nascere per conoscere il chiarore del proprio mattino
Pur frequentando questo tipo di scuola Carnen non ama il computer, anzi
c'è da dire che non le piace per niente,infatti "Mi facevo passare
i compiti dalla mia amica-compagna Angela",come dice
scherzosamente. A
La mattina stava a scuola a studiare e la sera andava a suonare e
cantare nei pub. "I
miei professori mi facevano le interrogazioni programmate, perchè
sapevano del mio lavoro. "Intanto conosce i centri sociali e per un
periodo fa parte di CL, ma poi decide di abbandonare. Londra. Finita
la scuola decide di andare a Roma perchè le viene proposto qualcosa di
interessante, ed è proprio lì che scrive Quello che sento; ma sfuma
tutto e Carmen se ne torna a Catania dove si iscrive all'Università in
lingue. La
sua bella voce viene notata ad un matrimonio quando incontra il suo
produttore, Francesco Virlinzi. Qui inizia l'esordio della cantantessa
che va a Sanremo giovani portando la splendida "Quello che
sento", ancora con i capelli lunghi, timidina e un po' impacciata.
Arriva poi a Sanremo dove porta "Amore di plastica". Inizia
a farsi conoscere e ad entrare nel cuore di molti quando poco dopo fa
uscire il suo primo album "Due parole" contenente 11 canzoni,
quasi tutte acustiche. Porta la sua musica in giro, gira due videoclip,
di Amore di plastica e Lingua a Sonagli che vengono trasmessi spesso. NelL'anno
dopo ritenta a Sanremo con Confusa e Felice, ma viene bocciata dalle
giurie anche se questa canzone diventerà un tormentone nelle
radio.Intanto fa esperienza aprendo il tour di Raf, suona qualche sua
canzone e qualche cover. Ad Aprile del 97 esce il suo album Confusa e
Felice,che si rivela molto bello e molto e molto fortunato e Carmen
inizia ad avere un grande successo che merita a piene mani. Dopo
un lungo tour definita da lei"un tour lungo un anno",si
rinchiude nelle sale registrazioni e incide il suo terzo album
"Mediamente isterica" che esce a fine Ottobre del 1998 e anche
questo si rivelerà un grande successo. (di
Mìcol)
Le
sue prime incisioni discografiche escono per l' etichetta sperimentale
Bla Bla, dal 1971 al 1975: Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries, Clic,
Madamoiselle le Gladiator. Ricordi
pubblica Battiato (1976); Juke Box (1977) e L' Egitto prima delle sabbie
(1978); con quest' ultimo brano per pianoforte Battiato vince nel 1978
il premio K. Stockhausen. Nel
1979 pubblica L' Era del Cinghiale Bianco, primo lavoro con la Emi
Italiana. Seguono
Patriots (1980), e nel 1981 La voce del padrone, che staziona al vertice
della classifica italiana per un anno, vendendo oltre un milione di
copie. Battiato
diventa un Ò"caso", materia di studio per intellettuali e d'
ispirazione per i musicisti. Gli
album successivi sono: L' arca di Noè (1982), Orizzonti perduti (1983),
Mondi lontanissimi (1985), Echoes of sufi dances (1985). Nel 1985
intanto avvia le edizioni L' Ottava, in collaborazione con Longanesi, e,
nel 1989, l' omonima etichetta discografica per musica "di
frontiera" , fra la composizione colta, la canzone e la musica
etnica, pubblicando sei titoli fra l' 88 e l' 89. Ma sin dal 1984 al
lavoro per Genesi. L'
opera debutta al Teatro Regio di Parma il 26 aprile 1987, accolta con
trionfale consenso. Per
la Emi escono ancora: nel 1987 Nomades (Emi Spagnola), nel 1988
Fisiognomica e nel 1989 il doppio album dal vivo Giubbe rosse. Nel 1991
Battiato incide Come un Cammello in una grondaia - contenente, oltre a
lieder ottocenteschi, Povera Patria, che diviene subito simbolo di
impegno civile - e lavora alla sua seconda opera lirica, Gilgamesh, che
debutta con successo al Teatro dell' Opera di Roma il 5 giugno 1992. Segue
il tour di Come un cammello....; Battiato è accompagnato dall'
orchestra I Virtuosi Italiani, Antonio Ballista e Giusto Pio. Il
4 Dicembre 1992 con i Virtuosi Italiani è a Baghdad, in concerto con l'
Orchestra Sinfonica Nazionale Irachena. Nel settembre del '94, su commissione della Regione Siciliana, per l' ottavo centenario della nascita di Federico II di Svevia, viene rappresentata nella Cattedrale di Palermo l' opera "Il Cavaliere dell" intelletto" . Nell' autunno del '94 esce Unprotected, album live registrato durante la tournee' dello stesso anno che si conclude in Libano il 7 agosto al Festival di Beiteddine e nel '95, sempre per la Emi, "L' ombrello e la macchina da cucire". Il libretto del "Cavaliere dell' intelletto" e i testi de "L' ombrello e la macchina da cucire" sono del filosofo Manlio Sgalambro. Nell'autunno del 96, con la casa discografica Polygram, esce "L'imboscata" contenente, tra l'altro, il brano " la cura" con la quale al cantautore viene attribuito il premio come miglior canzone dell'anno. Nel 97 segue anche il ritorno di Battiato nei palasport con un lungo e applauditissimo tour. A Settembre del 1998 esce "Gommalacca", contenente il singolo di grande successo Shock in my town, album che ha proseguito il discorso musicale iniziato con" L'imboscata", arricchendolo ulteriormente di sonorità dure e spigolose. Il 22 Ottobre 1999 viene pubblicato "Fleurs", album del quale Franco Battiato interpreta 10 canzoni altrui e 2 inediti. Sito ufficiale www.battiato.it
Il suo nome e il suo talento di tenore dalla voce bene impostata e con una dizione chiarissima, sono legati in maniera indissolubile al sodalizio artistico e affettivo con Maria Callas. I due cantarono insieme per la prima volta nel 1951 a San Paolo (Brasile) in occasione di una rappresentazione della Traviata diretta dal maestro Tullio Serafin. Assieme a lei si è poi esibito negli anni successivi in diverse opere e concerti, incidendo anche dischi per edizioni divenute storiche per il loro valore documentario. Il 3 dicembre 2004 era rimasto gravemente ferito durante un'aggressione da parte di alcuni rapinatori mentre si trovava nella sua casa di Diani, in Kenya. Ricoverato all'ospedale di Mombasa, le sue condizioni si sono rivelate più gravi di quanto fossero apparse in un primo momento. In seguito alle ferite riportate, il 7 dicembre era entrato in coma ed il 23 dicembre, dopo un lungo viaggio di trasferimento verso l'Italia, veniva ricoverato in un ospedale milanese, dov'è morto il 3 marzo 2008. Di Stefano, chiamato dagli amici Pippo, ha avuto una brillante carriera che si è protratta dagli anni quaranta fino all'inizio dei settanta. Figlio unico di un calzolaio, carabiniere in congedo, e di una sarta, Giuseppe Di Stefano era stato educato in un seminario dei Gesuiti, e per qualche tempo aveva meditato di avvicinarsi al sacerdozio. Iniziò la sua carriera di cantante, cimentandosi nella musica leggera cantando con lo pseudonimo di Nino Florio. Allievo del baritono Montesanto, dopo una breve esperienza di cantante a Ginevra, in Svizzera, debuttò ufficialmente nel 1946 a Reggio Emilia interpretando il ruolo di Des Grieux nella Manon di Massenet. Con il medesimo ruolo, avvenne il debutto l'anno successivo al Teatro alla Scala di Milano. Appena un anno dopo, avvenne il debutto al Teatro Metropolitan di New York, quale Duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi. Questo importante ruolo fu ricoperto da Di Stefano, sempre al Metropolitan, per diversi anni. Risale
invece al 1957 l'esordio in suolo britannico dove, al Festival lirico di
Edimburgo, interpretò il ruolo di Nemorino nell'Elisir d'amore di
Donizetti. Quattro anni dopo, il palcoscenico del Covent Garden di
Londra lo avrebbe visto impegnato nella parte di Mario Cavaradossi nella
pucciniana Tosca. Generoso e istintivo, ha abbracciato un repertorio molto vasto, che va dal lirico puro dei primi anni, come Des Grieux nella Manon di Jules Massenet o Arturo ne I Puritani di Vincenzo Bellini, fino a ruoli del repertorio lirico spinto, o drammatico, per Cavaradossi in Tosca, Don Alvaro La forza del destino di Giuseppe Verdi, Calaf nella Turandot pucciniana o lo Chenier in Andrea Chenier di Umberto Giordano. Ha avuto al suo attivo una notevole discografia, diretto dai principali direttori dell'epoca: Victor De Sabata, Tullio Serafin, Antonino Votto, fino a Herbert Von Karajan. Le sue interpretazioni più apprezzate sono comunque state quelle dal vivo. Dagli
anni settanta ha tenuto alcuni seminari, degli stage di canto e nel
1973, il cantante accompagnò Callas nell'ultima tournée mondiale della
cantante greco-statunitense. Nel 1975, a Spoleto, ha tenuto un master
per i vincitori del Concorso Nazionale di canto "A.Belli",
firmando anche un'aria dell'opera La bohème. Luciano Pavarotti ne ammirava la voce ed una volta raccontò “Il mio idolo è Giuseppe di Stefano, lo amai ancor più di Beniamino Gigli e questo mi costò addirittura, per l'unica volta in vita mia, uno schiaffo da mio padre, che continuò a preferirgli Beniamino Gigli”. Giuseppe Di Stefano fu sì un tenore lirico, ma dalla passionalità e carnalità squisitamente siciliana, indimenticabili e di ineguagliato livello sono le sue “Cavallerie Rusticane” ed i suoi “Pagliacci”.
Gerardina
ha conseguito il diploma in ragioneria. Un titolo di studio voluto solo
per tranquillizzare i genitori, ma con la ferma convinzione che nella
vita non le sarebbe mai servito. Non
a caso ha sempre alternato la contabilità e la partita doppia allo
studio, per lei molto più attraente, della chitarra e del pianoforte.
Dopo la scuola superiore, infatti, lascia Catania e si trasferisce a
Roma. Qui inizia a farsi le ossa: i primi provini, le prime tournée
come corista, seguono tante promesse e delusioni. Poi
l'incontro con Caterina Caselli, attenta a cogliere il suo talento.
Firma il contratto con la Sugar nel 1992 e lo stesso anno si presenta al
Festival di Sanremo, nella sezione Nuove Proposte, con il brano Non ho
più la mia città. Prodotta artisticamente da Mauro Malavasi, la
canzone è subito un successo e conquista il secondo posto al Festival.
Nel 1993 esce l'album Gerardina Trovato ed è uno dei successi
dell'anno: oltre duecentomila copie si vendono solo in Italia e un
grande riscontro c'è anche nel resto d'Europa. Il suo secondo singolo
estratto dal disco, Sognare sognare, diventa una delle hit più
gettonate dell'estate 1993. Nello stesso anno Gerardina Trovato e il suo
gruppo sono ospiti della tournée di Zucchero. È il debutto nei grandi
stadi. Il
suo secondo album Non è un film, prodotto tra l'altro da Celso Valli,
è un nuovo successo. Nell'album c'è la canzone Non è un film, che
riporta Gerardina in gara tra i big al Festival di Sanremo'94, dove
arriva quarta. Subito dopo, la Trovato, parte in tournée nei teatri
italiani con Andrea Bocelli, duettando nella trascinante Vivere. Per
tutto il '95, Gerardina scrive nuove canzoni, coordinata da Mauro
Malavasi. Nel 1996 esce il suo terzo Lp Ho trovato Gerardina, undici
brani di grande raffinatezza e grinta. La reggaeggiante, Piccoli già
grandi, è il vero hit del disco. Tra i successi dell'album anche un
toccante duetto con Renato Zero, È già. Anticipato dal singolo Il sole
dentro, scritto dal cantautore partenopeo Enzo Gragnaniello, nel 1997
esce Il sole dentro. Le sue più belle canzoni, con sedici brani di cui
due inediti: il già citato Il sole dentro e Nascerai, entrambi prodotti
da Mauro Malavasi. Dopo una lunga tournée nelle principali città
d'Italia, Gerardina prende tempo per se stessa. Viaggia, scrive canzoni,
sta con gli amici e la sua famiglia. Nel
2000 partecipa al Festival di Sanremo nella sezione Campioni, con la
canzone Gechi e vampiri, che è stata prodotta dal deus ex machina del
pop mondiale dello scorso anno, Brian Rawlings, che si è lasciato
conquistare dalla forza vocale della catanese.
Partecipa come corista alla tournée Urlo Tour e alla realizzazione dell'album Spirito Divino di Zucchero. E con lo stesso artista prende parte al video Pelo nell'uovo, che vince il World Grammy Award di Montecarlo nel 1993, come miglior video dell'anno. In seguito partecipa come corista alla realizzazione dell'album Buon compleanno Elvis di Ligabue. Dal 1993 al 1997 è voce solista del gruppo Funky Company. Partecipa come voce al disco della cantante Corona The rhythm of the night. Ed è voce femminile del grande successo Un attimo ancora dei Gemelli diversi. Nel 2000 esce l'album Come un sogno e vince il Festival di Sanremo nella sezione Giovani. Nel febbraio 2001 si presenta al 51° Festival di Sanremo, con la canzone Anche tu.
Ora, cinquant’anni dopo il suo primo romanzo, Bonaviri torna alle strade del suo paese, da cui in realtà, nei suoi libri, non si era mai separato. Torna alla nebbiolina bluastra che invadeva i vicoli, alla sua personale religione degli affetti, al sarto e ai suoi cinque figli. Senza avere più pudore dell’autobiografia. Ma con una differenza: la morte di tre dei suoi fratelli irrompe nel ricordo. Sono intrusioni dolorose, note di diario, una data, quasi delle sgrammaticature, degli strappi. Arrestano solo per poche righe, qua e là, il flusso della narrazione, ma spargono ovunque un senso di minaccia, di mestizia. È il presente che impone la sua contabilità luttuosa. Ora davvero per alcuni dei protagonisti della sua vita il ritorno a un’infanzia favolosa è definitivamente impossibile. Come quella di massaro Masi, questa volta la sua voce ci arriva "strisciata di nerezza". Da un passato fuori dalla storia.
In
precedenza aveva però già realizzato servizi nell'Europa dell'est nel
periodo della caduta del muro (Polonia, Ungheria, ex Cecoslovacchia), in
Arabia Saudita dopo l'invasione del Kuwait e negli Stati Uniti all'epoca
della prima campagna elettorale che si concluse con la vittoria di
Clinton. A
Parigi ha poi coperto diversi avvenimenti, a più riprese: dal
bicentenario della rivoluzione dell'89 ai vertici politico-diplomatici
all'epoca della crisi del golfo, ai summit del G7, alle elezioni
presidenziali del '96. Per
molti anni, dunque, Michele Cucuzza è stato uno dei protagonisti del
Telegiornale, condotto con impeccabile professionalità, a cui si
successivamente affiancata anche la conduzione della rubrica di
approfondimento "Pegaso". Poi, qualche anno fa, la svolta. La
sua partecipazione al programma comico "La Posta del cuore"
segna infatti il suo l'esordio nel mondo della spettacolo. Qui Cucuzza,
coaudiuvato dall'autrice e conduttrice della trasmissione Sabina
Guzzanti, accetta di recitare la parte di se stesso, inscenando di volta
in volta "gag" basate sulla presunta rottura del suo rapporto
con l'immaginaria fidanzata Cinzia Pandolfi. L'autoironia del suo
intervento sfugge ai dirigenti Rai che lo reclutano subito per la
conduzione giornaliera di "La vita in diretta", programma
pomeridiano di ampio respiro. Dall'ottobre 1998, il giornalista è
dunque legato a doppio filo al nome di questa trasmissione, inizialmente
diffusa su RaiDue, poi promossa sulla più importante RaiUno. Il
rotocalco d'informazione, grazia all'ammaliante giornalista e al solido
staff alle spalle, si rivela subito campione di ascolti. Nel
maggio 1999 conduce su RaiUno, insieme a Katia Ricciarelli e Gianfranco
D'Angelo, il programma di intrattenimento serale "Segreti e...
bugie", di Raffaella Carrà, Sergio Japino, Giovanni Benincasa e
Fabio Di Iorio. Il
25 dicembre 1999 conduce invece un'edizione speciale di "La vita in
diretta", pensata per festeggiare il Natale con il suo pubblico.
Nel 2000 ancora la cronaca, lo spettacolo, il divertimento con "La
vita in diretta", ora appunto su RaiUno. Ormai
il suo ruolo nel fare spettacolo spazia a tutto campo. Infaticabile, nel
dicembre 2000 conduce, con Luisa Corna, lo spettacolo "Sanremo si
nasce". Particolarmente sensibile all'impegno sociale, Michele
Cucuzza è testimonial dell'associazione "Attivecomeprima",
che lavora a sostegno delle donne colpite dal cancro. Molto vicino e
sensibile a Telethon, ha condotto per tre anni consecutivi il
telegiornale informativo e partecipato attivamente alla maratona
televisiva. A
settembre 2001 presiede la commissione tecnica di Miss Italia. Sempre
nello stesso mese inizia a condurre l'edizione 2001-2002 di "La
vita in diretta". Nell'edizione di Miss Italia 2002 è nuovamente
il presidente della giuria tecnica; e nel settembre dello stesso anno
torna alla guida dell'edizione 2002-2003 del suo programma d'elezione,
di cui è il vero e proprio mattatore. Il format conta ormai un numero
notevolissimo di "aficionados", grazie alla sua formula
accattivante che miscela diverse componenti e argomenti sempre in presa
diretta con l'attualità. "La vita in diretta" ha infatti la
capacità di unire cronaca, attualità, inchieste e grandi avvenimenti,
ma anche gossip, cronaca rosa, incontri con i personaggi della
televisione, del cinema, della musica e dello sport.
Per il quotidiano di Catania ha realizzato, oltre ai più importanti servizi sportivi, inchieste su temi di scottante interesse sociale, compreso un "libro bianco" sugli ospedali siciliani che resta tuttora uno dei più significativi esempi di un giornalismo di denuncia. Cannavò ha svolto attività di inviato speciale in tutto il mondo, seguendo i maggiori avvenimenti sportivi degli ultimi quarant’anni, tra i quali nove Olimpiadi a Roma, Tokyo, Messico, Monaco, Montreal, Mosca, Barcellona, Atlanta e Sydney. Chiamato alla "Gazzetta dello Sport" - prima come corrispondente, poi come inviato - Candido Cannavò ha assunto la vicedirezione del maggiore quotidiano sportivo italiano nel marzo 1981, a fianco del direttore Gino Palumbo. Nominato condirettore nel novembre 1982, ha completato la sua scalata il 1° marzo 1983 quando gli è stata affidata - su designazione dello stesso Palumbo - la direzione del giornale che, continuando nella sua crescita, è diventato il più diffuso quotidiano sportivo d’Europa ed il primo assoluto in Italia per numero di lettori. La direzione di Cannavò si è protratta per 19 anni, sino all’11 marzo 2002. Candido Cannavò ha vinto numerosi premi giornalistici nazionali ed internazionali, tra i quali il Premio Ischia nel 1998 e la Penna d’oro del Coni nel 2003. Il C.I.O. gli ha conferito l’Ordine Olimpico nella sessione del 1996 che ha preceduto l’Olimpiade di Atlanta. Nel 1997 gli è stato assegnato l’Ambrogino d’Oro, quale cittadino milanese benemerito. Nel 2002 il presidente Ciampi gli ha conferito al Quirinale l’onorificenza di grande ufficiale al merito della Repubblica. L’esperienza umana e professionale di Cannavò ha dato vita a un volume, "Una vita in rosa", pubblicato dalla Rizzoli, che percorre, attraverso lo sport, la storia italiana di oltre mezzo secolo. Il libro ha vinto il premio Cianciano 2003 ed è stato finalista del Bancarella. Cannavò è sposato e ha tre figli, uno dei quali - Alessandro - svolge la stessa attività paterna quale caporedattore al "Corriere della Sera" .
Nato
a Siracusa il 28 ottobre 1963, Mario Venuti è uno di quei musicisti che
hanno contribuito in maniera talmente forte all'innovazione della musica
italiana che si stenta a capire il motivo per cui sia rimasto nell'ombra
così a lungo. Come spesso capita nel nostro paese, le scoperte
finiscono per non esser altro che riscoperte, o meglio: definitive prese
d'atto di qualità da tempo evidenti. Da quando gira sulle radio una
canzone orecchiabile come 'Veramente', anche il nome di Mario Venuti ha
cominciato a circolare con insistenza. Eppure era il suo nono disco
quello lanciato dal singolo… Cresciuto
con la passione per gli XTC, i Prefab Sprout, gli Smith, influenzato dal
cantautorato italiano di cui però non stenta a vedere i limiti, Venuti
all'inizio degli anni '80 forma una band destinata ad avere un grande
impatto sulla scena musicale del nostro paese. Non si va lontani dal
vero dicendo che, assieme ai Litfiba, i Denovo hanno dato il via a quel
"nuovo rock italiano" che ha saputo svecchiare le tradizioni
italiche alle soglie degli anni novanta. Cinque dischi in cui la ricerca
non si esaurisce se non con lo scioglimento della band nel 1990. Alcune
canzoni restano di patrimonio collettivo. Come "Niente insetti su
Wilma" e "Se tengo il passo". Passano
quattro anni e, dopo varie collaborazioni, Venuti arriva al suo primo
disco solista. Si tratta di "Un po' di febbre", album in cui
vengono in luce caratteristiche di eclettismo e originalità che nei
Denovo, per ovvie ragioni, non potevano essere riconosciute.
"Fortuna" è uno splendido brano, capace anche di diventare un
hit radiofonico.Nel frattempo si apre una collaborazione destinata a
segnare la carriera di Mario. C'è in giro una ragazza di Catania
scoperta dal manager di Mario, Francesco Virlinzi. Sta lavorando al suo
album d'esordio e ha bisogno di un aiuto. "Amore di plastica"
con cui Carmen Consoli verrà conosciuta dagli italiani al Festival di
Sanremo 1996 è firmato anche Mario Venuti. Il 1996 è anche l'anno del
secondo album. "Microclima" è un altro tocco di classe. Dove
si possono rintracciare le sonorità mediterranee mischiate a paesaggi
sonori che spaziano dal pop inglese ai Tropici. Nel
'97 Sanremo arriva anche per Mario che vi partecipa con "Il più
bravo del reame": Una scusa di qualità per pubblicare "Mai
come ieri", album che contiene brani scelti dalla passata
produzione (compresi i Denovo) e brani assolutamente originali, fra cui
il brano eponimo cantato insieme a Carmen Consoli. L'attività live
intanto conferma le doti del musicista che sul palco dà il meglio di
sé. Sembra spianata la strada del successo. Ma la scomparsa di Virlinzi
nel novembre del 2000 interrompe la lavorazione ad un nuovo album. Al
dolore si mescola il vuoto per i fan in attesa. Tutto
però è soltanto rimandato. "Grandimprese" esce nel 2003.
Dieci canzoni lanciate da "Veramente". Dieci pezzi sofisticati
e leggeri. Grandi suggestioni sonore, visive, letterarie. La leggerezza
che accompagna il riconoscimento di piccole felicità ("Un attimo
di gioia") s'intreccia perfettamente a invettive antitiranniche
quantomai attuali ("Re solo"). Il successo è finalmente
arrivato. La pazienza premia la qualità. La qualità resiste grazie
alla pazienza e alla tenacia. Diamo a Cesare quel che è di Cesare.
Chapeau, monsieur Venuti!
Uno
dei suoi camei celebri è "Ecce Bombo" di Nanni
Moretti.Giornalista,scrittore, inviato speciale di
"Panorama",Giampiero Mughini è laureato in Lingue e
Letterature Moderne,con una specializzazione in francesistica.La
carriera nel mondo della carta stampata inizia con il quotidiano romano
"Paese Sera";tra i fondatori del "Manifesto",
abbandona la redazione dopo tre giorni per incompatibilità con i
colleghi. Provocatore,polemista,"guastatore",Giampiero Mughini è un veterano del piccolo schermo:nel 1987 affianca Loretta Goggi in "Ieri,oggi e domani";nel 1989 conduce su Rai Tre "Mai dire mai",mentre nella redazione sportiva di Italia 1 anima due edizioni de "L'appello del Martedì" (1991-1992,1992-1993).Per Mondadori pubblica"Il grande disordine",titolo preceduto da "La ragazza dai capelli di rame".A partire dalla stagione 1999-2000,Mughini è tra i protagonisti di "Controcampo", programma di approfondimento sui grandi temi sportivi di fine settimana.
Si è sposata con Claudio Simonetti, ma il matrimonio non è durato molto. Nel 1999, per recitare il ruolo di criminologa in "FINE SECOLO", fiction in 6 puntate su RAIDUE, Anna ha imparato a sparare con la pistola, ha frequentato un corso di aikido con i Nocs e ha studiato con un dirigente della Criminologia
A questo punto, siamo agli inizi degli anni '80, le loro strade iniziano a separarsi. Jerry Calà decide di continuare da solo la carriera cinematografica, e all'inizio (1981) si divide tra il set e gli spettacoli che i Gatti continuano a tenere nei teatri di tutta Italia. In particolare, la sua carriera di attore si dividerà tra i film prodotti dalla "Dean Film" e da Claudio Bonivento e quelli prodotti da Aurelio De Laurentiis. I Fichissimi, film targato Vanzina, registra un successo enorme al botteghino. A fronte di 470 milioni spesi nel film, l'incasso sarà di circa 9 miliardi! Quasi contemporaneamente, Jerry veste i panni dell'allenatore di Bud Spencer nel Film "Bomber". Nel cast troviamo anche Gegia che reciterà con lui in altri film. Il 1982 può essere considerato come l'anno in cui si sciolgono definitivamente i Gatti di Vicolo Miracoli. A questo punto Jerry interpreta con Marco Risi, il suo primo film da protagonista assoluto: "Vado a Vivere da Solo", in cui troviamo un fantastico Lando Buzzanca e la splendida Elvire Audrè, prematuramente scomparsa. La storia del Film è curiosa: un giorno Jerry si presenta da Enrico Vanzina con in mente un titolo fantastico:"Vado a vivere da solo" appunto, dal quale il film prende forma nel soggetto scritto insieme da Jerry, Enrico e Marco Risi, che sarà regista del film.Altrà curiosità: durante le riprese Jerry conosce Mara Venier (sua futura moglie), che recita una piccola parte in alcune scene che poi furono tagliate nel montaggio finale. Ma il 1982 è anche l'anno di "Sapore di Mare", primo film "corale" dei Vanzina, che ebbe un grandissimo successo di pubblico e di critica. Jerry si rifiuterà poco dopo di partecipare al seguito, diretto dal compianto Bruno Cortini. Siamo ormai nel 1983, e A Jerry viene proposto un ruolo un po' anomalo. Interpretare un ragazzo muto, soprannominato "Parola", nel Film "Bar dello sport", per la regia di Francesco Massaro. Protagonista è un grandissimo Lino Banfi, emigrante pugliese che nella fredda Torino, grazie all'indispensabile consiglio di Parola, riesce ad imbroccare un 13 miliardario. Fallito un maldestro tentativo di evitare il film, Jerry si convince della validità della proposta ed accetta il ruolo, dopo essersi esercitato con dei ragazzi sordomuti. Il film ha un buon successo al botteghino e con il passare del tempo anche in televisione. Da notare anche la presenza ancora di Mara Venier nei panni della cassiera del Bar......
Umberto Balsamo. Cantautore catanese attivo principalmente negli anni '70. Raggiunto subito un buon successo con Se fossi diversa del 1972, partecipò nel 1973 al Festival di Sanremo nel 1973 con Amore mio, che ottenne un buon piazzamento e un discreto riscontro commerciale. Da allora, per tutto il decennio i suoi successi furono diversi. I brani più conosciuti sono Bugiardi noi, 3° posto nella hit parade e soprattutto L'angelo azzurro, canzone che raggiunse il 1° posto, rimanendovi per ben 6 settimane. Il brano fu uno dei grandi successi del 1977, (28 settimane in hit parade). Nel 1979 l'ultimo grande successo con Balla (18 settimane in classifica). Negli anni '80 ha scritto brani soprattutto per altri. Alcuni suoi brani sono parecchio imbarazzanti; in special modo Futuro per Orietta Berti ("... a voi russi e americani / io non delego il suo domani..."), Italia per Mino Reitano, Nascerà Gesù per i Ricchi e Poveri.
Arrivano intanto i primi riconoscimenti al suo talento. Nel 1997 ottiene il premio ”Marisa Bellisario”, la Mela d’Oro, per l’imprenditorialità nella moda. L’anno dopo vince l’Ago d’Oro come migliore couturier e dona al museo Boncompagni Ludovisi di Roma un abito con ricamo in ceramica di Caltagirone. Intanto all’Alta Moda si affiancano i profumi, la linea beach che sarà presentata a Modamare a Positano nel 1999 e il pret-à-porter che sfila a Milano Collezioni nel 2001. Ma la moda sta stretta alla stilista, da sempre appassionata di teatro. Dal 2000 Marella Ferrera collabora con il teatro stabile di Catania, diretto da Pippo Baudo. Nel 2001 realizza per il teatro Massimo di Palermo oltre 120 costumi per ”Les Maries de la Tour Eiffel A Paris”, del regista-coreografo belga Micha Van Hoecke.
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