IL TOPO E L'ELEFANTE
C’era una volta un topo che passeggiava tra le vie della città. Guardava la gente, gli uccelli, il cielo azzurro e si riscaldava con i raggi del sole. Era un po’ spaventato per le auto che circolavano dappertutto: nelle strade, nelle piazze, persino sui marciapiedi, e quindi si sentiva in pericolo. Ma lui voleva arrivare nella piazza in cui c’era l’Elefante e non riusciva mai per paura. Appena faceva buio, andava a nascondersi sotto il suolo. Un bel giorno si fece coraggio e incominciò a passare sotto le auto, a schivare le ruote in frenata e a superare tutti gli ostacoli. Con fatica, finalmente arrivò nella piazza desiderata. Alzò la testa e guardò l’elefante che stava al centro della piazza e lo chiamò: “Elefanteee, elefante mi senti?” “E tu che ci fai da queste parti?” rispose l’elefante. “Sono curioso di sapere perché tu, grande e grosso, hai paura di noi piccoli innocenti.” “Ma a tia cu ta rissi sta fesseria? Noi elefanti non abbiamo paura dei topi e poi io sono il simbolo della città e mi chiamunu Liotru e sto al centro della piazza di fronte alla cattedrale di Agata, patrona della città. Nulla mi ha mai spaventato: colate laviche, terremoti, guerre ecc… tanto meno avere paura di te ca si nicu nicu.” “E perché ti chiamano Liotru?” gli chiese il topo. L’elefante rispose: “Liotru è una correzione dialettale del mago Elidoro, detto anche Diodoro, Liòdoro, Lidoro e Teodoro. Con lui abbiamo attraversato gli oceani e girato il mondo. Una volta siamo arrivati fino a Costantinopoli e non ti dico che abbiamo combinato!” “Cunta, cunta!” gli disse il topo. “Purtroppo, appena siamo arrivati in quella città, Eliodoro venne catturato e condotto in carcere, ma dopo un po’ riuscì a liberarsi corrompendo le guardie con delle magie e subito dopo tornammo a Catania. L’imperatore Costantino decise di far partire per Catania il suo ministro Eraclio per catturare il mago, ma quando Eraclio stava per arrestarlo, fu raggirato da Eliodoro con la scusa di farsi il bagno e dopo avvenne un grande fenomeno: tutti, lui ed io compreso, ci trovammo a Costantinopoli davanti all’imperatore che lo condannò a morte. Mentre l’imperatore stava per eseguire la sentenza, Eliodoro per ultima cosa volle una vasca d’acqua, gli infilò la testa e sparì dicendo: ‘CU MI VOLI MI CECCA A CATANIA’ e scappammo di nuovo. Aspetta, suggittu, che ancora non è finita. La moglie di Eraclio volle a tutti i costi incontrare il mago e in faccia gli disse: ‘Uomicciolo, sporchissimo, tu hai fatto viaggiare mio marito in Sicilia con tanta fatica’ e gli sputò in faccia. ‘Ti farò pentire per tutto questo,’ gli disse Eliodoro. In tutta la città portò via il fuoco, senza che nessuno riuscisse ad ottenere una scintilla, e lo fece generare solo nella parte posteriore della moglie di Eraclio. Eliodoro fu nuovamente catturato e ricondotto a morte, ma mentre il carnefice stava per dare il colpo di grazia, diventò piccolissimo, entrò nella manica del carnefice e ne uscì dall’altra parte, gridando: ‘SCAMPAI A PRIMA VOTA E CHISTA È A SECUNNA, CU MI VOLI MA TROVA A CATANIA.’” Il topo rimase a bocca aperta e gli chiese: “E poi che fine ha fatto il mago Eliodoro?” “È stato condannato e ucciso.” “Ma tu ancora sai volare?” “Cettu!” “Ma allora possiamo essere amici?” “Cettu!” “Ti posso chiamare Liotru?” “Cettu!” “Grazie, Liotru.” L’elefante invitò il topo a salire su di lui: “Suggittu, acchiana, ti farò conoscere la mia città.” “Guarda che la tua città è anche la mia,” rispose il topo. “Sì, ma io sono il simbolo e tu no, e poi non sapevi nemmeno chi fossi io.” Il topo abbassò la testa e dovette accettare la realtà: “Ok, la città è più tua che mia, però dammi una mano per salire su di te.” L’elefante, con un colpo di proboscide, lo portò sopra di lui, spostò l’obelisco e posizionò il topo comodamente su di lui. Il topo rimase incantato: “Madoooo, ma da qui è bellissimo, molto suggestivo.” U Liotru incominciò a volare sopra la città, volò così in alto che il topo con le sue piccole unghie si dovette tenere forte per non cadere. “Liotru, camina alleggiu, ca su cascu di ca non dicu mancu piu, autru ca ziu ziu.” U Liotru faceva zig zag e si rivolgeva al topo: “Suggittu, talia a Vincenzu assittatu nto centri da piazza, talia l’anfiteatro, talia a villa quant’è ranni, talia a muntagna, u lungomare, u pottu, u casteddu e i faragghiuni da trizza.” Ad un certo punto il topo incominciò a non reggere e lo invitò a scendere: “Liotru, ju mi staju ammaraggiannu, picchì no scinni e na sittamu nta na banchina?” “Aspetta, suggittu, prima ti fazzu avviri u castellu Ursinu, l’acchi da marina, poi passamu da stazioni e ti pottu o passiaturi.” Finalmente u Liotru, dopo aver fatto da cicerone, si decise a scendere: “Suggittu, teniti fotti, staju attirannu.” Una volta arrivati, l’elefante, sempre con la proboscide, fece scendere il topo a terra. Trovarono una panchina libera e si sedettero comodamente. Dopo aver fatto una bella chiacchierata, il topo guardò in faccia u Liotru e gli domandò: “Ti vedo un po’ triste, chi hai, Liotru?” “Hai ragione, suggittu, sono triste a causa di alcuni catanesi,” rispose l’elefante. “Ma picchì, chi ti ficiunu?” “A me nulla, anzi mi elogiano, si vantano di essere marca Liotru.” “E allora? Dovresti essere felice per questo,” gli rispose il topo. Ma il Liotru, con le lacrime agli occhi, confessò: “Purtroppo, volando, ho potuto constatare che maltrattano la mia città. Oltre a sporcarla, la denigrano, la insultano e se gli chiedessi: ‘Conosci la tua città?’ Ti risponderebbero: ‘Picchì a Catania chi avemu?’ E questo è molto triste. Purtroppo, la maggior parte dei catanesi è incivile e non conosce la sua città. Vedi, suggittu, tu conosci tutti i posti dove vivi ed io conosco i miei. Loro invece non sanno mancu unni stannu ri casa e poi si vantano di aver viaggiato. Appena nesciunu da casa si peddunu e in più elogiano altre città che non sono belle come Catania. Caro suggittu, ti confido una cosa: viaggiare e conoscere il mondo è bello, poi torni nella tua città e racconti a parenti e amici di aver visto e di aver conosciuto tutto, come se avessi tutta la cultura del mondo.” Poi un bel giorno amici e turisti vengono a Catania per le vacanze e ti chiedono di portarli in giro per la città. Poi, credendo di aver girato il mondo, gli risponderai: “Certo, andiamo!” Arrivati in centro ti chiederanno: “Perché l’Elefante è il simbolo di Catania?” E tu: “Mmmh?” “Cosa rappresentano quei candelabri in piazza Università?” E tu: “Mmmh?” “Bella la Chiesa del Duomo, perché si chiama Ecclesia Munita?” E poi, e poi, e poi… e l’unica risposta che saprai dare: “Mmmh… bhooo chi sacciu?” Bella cumpassa! L’importante è vantarsi e dire: “Ho girato il mondo e a Catania na vemu nenti.” Non abbiamo niente perché loro non sanno niente. Che senso ha conoscere altre città se non conosci la tua? Hai capito perché sono triste? Caro amico, mi devi fare un favore. Dimmi! Farò quello che vuoi, rispose il topo. Mi devi sostituire, devi metterti al posto mio nel centro della Piazza. Io per un po’ vado via, sono troppo triste, vado in montagna con il mio amico Cirneco dell’Etna. L’Elefante spiccò il volo in direzione Etna a trovare il suo amico Cirneco e il topo andò in piazza a sostituire l’Elefante. Il topo in qualche modo cerca di arrampicarsi e piano piano riesce a salire fino ad arrivare sopra la fontana. Era contento di prendere il posto del suo amico Liotru ed essere il simbolo della città, ma non sapeva cosa fare con l’Obelisco. Così gli venne un’idea: si mise lui sopra l’Obelisco esattamente sopra l’epigrafe M. S. S. H. D. E. P. L. anche per avere più visibilità. La mattina seguente la città si sveglia, il sole incomincia ad illuminare i palazzi e i cittadini, chi va a lavoro, chi va a passeggio, chi fa commissioni e u Liotru in montagna a godersi l’aria fresca con il suo amico Cirneco. All’improvviso un grido risuona in piazza: “NOOOO, UNNÈ U NOSTRU LIOTRU?” In poco tempo la notizia si sparse per tutta la città e tutti corrono verso la piazza. Una grande folla si raduna davanti al Palazzo degli Elefanti gridando: “Sinnucu, Sinnucu: unnè u Liotru?” Il Sindaco si affaccia dal balcone centrale del municipio e a bocca aperta, non vedendo il Liotru, rispose: “Cari cittadini, io non so che dirvi, u Liotru scappau!” Ma nessuno ancora aveva notato il topo a testa alta e petto in fuori, fiero di sostituire u Liotru. Il Sindaco chiese a tutte le forze dell’ordine di cercare l’elefante. La città era in caos e tutti a cercare u Liotru. Intanto sull’Etna, i due amici passeggiavano tranquillamente e mentre stavano dialogando tra di loro, all’improvviso sentirono una voce che proveniva da lontano: “Liotruuu, Liotruuu.” L’elefante si gira a destra e sinistra per vedere chi lo chiamava: “Cu è ca mi cecca?” Con due colpi di ali scese e si posò davanti a lui la Fenice. “E tu ca chi ci fai?” gli chiese u Liotru. “Liotru, ma chi facisti? Tutti ti stannu ciccannu, cecca ri tunnari, picchì Catania senza di tia non po stari,” rispose la Fenice. “Non posso!” “E perché?”
“Cara Fenice, ero e sono ancora triste per gli abitanti della nostra città, amano me e trascurano se stessi e la città, senza capire il male che fanno, ed è per questo che sono scappato.” La Fenice capì subito il problema e rispose: “Caro amico, sai quante volte ho voluto aprire queste ali e scappare lontano per non vedere Catania distrutta? Tantissime volte, eppure sono sempre rimasta qui per quei pochi coraggiosi catanesi che hanno deciso di restare e ricostruirla. Infatti, io sono l’esempio che tutto può risorgere più bello di prima, quindi non potrò mai scappare. Caro Liotru, tu sei il simbolo di Catania, e i catanesi amano te e la città. Ppi quattru scimuniti non puoi abbandonare tutto, quindi ti chiedo di tornare, anche se una buona parte di catanesi si meritano il sorcio come simbolo. Tanto rispetto per il tuo amico, ma non puoi assolutamente abbandonare la tua terra. Liotru, pensici. Ju mi nni staju jennu, ci manca sulu ca non virunu mancu a mmia e poi semu pessi e tu ascuta ammia. Ciao Liotru, ti aspetto nella tua bella fontana ed è lì che ti voglio vedere.” “Ciao Fenice, ci penserò,” rispose u Liotru. Il Cirneco diede ragione alla Fenice: “Liotru, scappare dai problemi è da vigliacchi e non risolverà nulla. Catania ha bisogno del tuo sostegno, devi tornare al tuo posto e far risorgere la tua città.” “Ho un’idea,” disse il Cirneco: “Parla con il tuo amico sorcio, mettiti d’accordo con lui.” “E che mi proponi di fare?” rispose u Liotru. “Devi dire al topo che dev’essere sempre disponibile in tutto.” “Sì, ok,” ripeté u Liotru, “ma cosa devo fare?” “Avvicinati, te lo dico all’orecchio…” “Mi piace questa idea, grazie Cirneco! Vado a prendermi il posto che mi spetta.” Nel frattempo il sole sta per nascondersi a ovest e l’elefante torna nella sua piazza centrale. Il topo appena lo vide: “Liotruu, Liotru sugnu cuntentu ca tunnasti, ti devo confessare una cosa.” “Dimmi suggittu!” “I catanisi su 'mpocu ntrunati.” “Picchì?” rispose u Liotru. “Ma può essere che in tutto questo tempo nessuno mi abbia notato?” “Avaja suggittu, tu pensi che non ti hanno visto? Hanno fatto finta di non vederti, i catanisi non accetteranno nessun animale all’infuori di me. Adesso scendi, devo mettermi al mio posto, devo fare un discorso alla città e tu mi devi fare un altro favore.” “Tutto quello che vuoi, di che si tratta?” rispose il topo. “Avvicinati che ti spiego…” “Bellooo! Mi piace l’idea del tuo amico Cirneco.” U Liotru si posizionò al centro della Piazza, alzò la proboscide e gridando disse: “Catanisiii! Ranni, niki e macari chiddi tisi, ascoltatemi bene. Avevo deciso di scappare per essere stato deluso da voi, poi un amico che è la metafora perfetta della città mi consigliò di tornare per il bene di tutti. Con il mio amico sorcio abbiamo fatto un patto: da oggi in poi chi sporcherà e maltratterà la città non avrà più pace, sarà ripagato con la stessa moneta. Il mio amico topo con la sua famiglia occuperà le case degli incivili fin quando questi non cambieranno abitudini e il topo sarà il vostro simbolo.” Il topo saltellava di gioia: “Sì sì sì, sarò lo stemma degli sporcaccioni.” Nel frattempo i catanesi si guardarono tra loro, seguirono con gli occhi il Sindaco che si affacciava dalla finestra del palazzo comunale, poi volsero lo sguardo verso l’Elefante che finiva il suo discorso: “Io sono il Liotru, simbolo della vostra città e resterò per sempre qui per rispetto di tutti i catanesi che dopo varie distruzioni hanno avuto il coraggio di restare e ricostruire. Spero che abbiate fatto tesoro dei miei consigli e sono convinto che direte anche ai vostri figli che il sapere si ottiene con lo studio, il lavoro e i sacrifici. Catania è una bella città con tante leggende, fiabe, favole e storia millenaria, spero tanto che l’amerete e la valorizzerete.” I catanesi a testa bassa tornarono nelle loro case con la speranza che questo esempio fosse l’inizio di una nuova civiltà.
AGATA E LO SPIRITO DEL FIUME
C’era una volta una giovane ragazza di nome Agata che passeggiava lungo le vie della sua città. Era affascinata dalle storie che aveva sentito sul Fiume Fantasma e desiderava vederlo con i propri occhi. Mentre camminava, sentì il fruscio dell’acqua. Seguendo il suono, arrivò davanti a una fontana, dove l’acqua sgorgava cristallina e luminosa. Agata si avvicinò e, con grande stupore, vide una figura emergere dall’acqua. Era lo spirito del fiume, che proteggeva le acque sotterranee della città. Lo spirito raccontò ad Agata di come il fiume avesse visto la storia della sua città evolversi nel corso dei secoli, osservando silenziosamente le gioie e le difficoltà degli abitanti.
Affascinata, Agata chiese allo spirito perché si chiamasse Fiume Fantasma. Lo spirito le spiegò che il fiume si era nascosto sotto il suolo a causa della colata lavica del vulcano. Questo evento aveva fatto sì che il fiume sparisse, diventando un fiume sotterraneo. Riappare in alcuni punti, come tu stessa stai vedendo in questa fontana. Questo modo di apparire viene soprannominato Fiume Fantasma”. Agata gli chiese se ci fosse qualcosa che potesse fare per aiutare il fiume. Lo spirito rispose che aveva bisogno dell’amore e del rispetto della gente per continuare a scorrere puro e limpido. Agata promise di raccontare a tutti la storia del Fiume Fantasma e di incoraggiare i cittadini a prendersi cura delle loro acque. Da quel giorno, la ragazza divenne la custode del fiume e, grazie al suo impegno, il fiume continuò a scorrere nascosto, portando freschezza e vita alla città. E così, il fiume fantasma e la città vissero felici e in armonia per sempre. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
IL LIBRO SEGRETO
Nella meravigliosa città di Catania, un giovane ragazzo, molto curioso, era sempre alla ricerca di nuove scoperte. Un giorno, mentre passeggiava vicino al Castello Ursino, notò una vecchia mappa che spuntava da una fessura nel muro. La mappa indicava un tesoro nascosto sotto il castello. Così decise di seguire le indicazioni della mappa e, attraverso stretti passaggi segreti e antiche scale di pietra, arrivò fino a una stanza nascosta sotto il Castello e trovò un antico scrigno. Con mani tremanti, aprì lo scrigno e non c’erano gioielli o monete d’oro, ma trovò un vecchio libro di storie, pieno di leggende e racconti della Sicilia. Capì che il vero valore del tesoro non erano le ricchezze materiali, ma le storie e le tradizioni che raccontavano della sua amata città. Iniziò a leggere le storie e le leggende contenute all’interno del “Libro Segreto”.
Ogni pagina era un viaggio nel passato, con racconti di cavalieri, principesse, draghi e misteri. Determinato a scoprire di più, decise di seguire le indicazioni del libro e di condividere le storie con tutti, in modo particolare. Infatti, ogni notte, si recava al Castello Ursino e leggeva ad alta voce una delle storie del libro. Dopo sette notti, accadde qualcosa di straordinario: una luce apparve davanti a lui, era il Guardiano del Libro. “Sei stato scelto, giovane ragazzo,” disse il Guardiano con una voce profonda e gentile. “Hai dimostrato il tuo amore per le storie e per la tua città. Come ricompensa, ti concedo il dono della narrazione eterna; le tue storie vivranno per sempre nei cuori di chi le ascolta.”
Il “Libro Segreto” continuava a rivelare nuove leggende e racconti, incantando grandi e piccini. Grazie al coraggio e alla curiosità di questo ragazzo, le tradizioni, le storie, le leggende e le favole di Catania non furono mai dimenticate, e la magia del “Libro Segreto” continuò a vivere attraverso le sue parole, incantando generazioni di abitanti e visitatori. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
IL GIARDINO MISTERIOSO
C’era una volta un giovane ragazzo che amava scrivere e aveva un dono speciale: riusciva a trasformare ogni angolo della sua amata città in storie incantevoli. Ogni volta che completava un articolo, lo portava con entusiasmo alla sua cara amica, una bellissima donna correttrice, che viveva in una casa alla periferia della città. Un giorno, mentre il ragazzo stava esplorando un monumento nascosto tra le colline, notò un dettaglio che non aveva mai visto prima: una vecchia mappa, incastonata in una cornice dorata appesa alla parete. La mappa rivelava un percorso segreto che conduceva a un Giardino misterioso. Seguì il percorso indicato dalla mappa e, dopo una lunga camminata tra sentieri molto stretti, giunse in un Monastero. Seguì un lungo corridoio e finalmente arrivò a destinazione, nel Giardino dei Novizi, pieno di fiori rari e alberi secolari. Ispirato dalla bellezza del Giardino, iniziò a scrivere ogni dettaglio. Quando tornò a casa, chiamò la sua amica correttrice per farle leggere il suo nuovo articolo. Lei rimase senza parole e, con un sorriso, disse: “Questo è il tuo miglior lavoro, amico mio.”
E così, grazie a quella scoperta inaspettata, insieme iniziarono a scrivere le storie più belle e affascinanti della loro città. Ogni racconto rendeva un monumento un po’ più speciale, e la loro amicizia si rafforzava sempre di più. Un giorno, mentre passeggiavano insieme nel Giardino, trovarono un vecchio libro che conteneva storie antiche della città. Con grande emozione, decisero di scrivere e, aggiungendo le loro storie al libro, divennero i custodi di quel Magico Giardino e delle sue storie. Mentre il sole iniziava a tramontare, si fermarono vicino a una fontana antica nel centro del Giardino. Il ragazzo prese la mano della sua amica e la guardò negli occhi. “Ho sempre pensato che questo giardino fosse speciale, ma ora so che è ancora più magico perché lo condivido con te.” Lei, sorpresa e commossa, rispose con un sorriso: “Anche io ho sempre sentito che c’era qualcosa di speciale tra noi. Da oggi, ogni storia che scriviamo insieme rende la nostra città e la nostra vita più belle.” Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
LA FENICE E IL MAGICO FIUME
C’era una volta, un fiume magico che scorreva in una splendida città e si divideva in 36 corsi. Gli abitanti amavano il loro fiume, che portava freschezza e vita alla città. Un giorno, una bella Araba Fenice, con le sue piume dorate e rosse, decise di fare un viaggio. Volando, fu attratta dalle acque del fiume e decise di fermarsi per riposare. Si posò su una roccia vicino alla sorgente e, affascinata dalla tranquillità del luogo, iniziò a cantare una melodia incantevole. Gli abitanti della città sentirono la bella melodia e si avvicinarono per ascoltare il bellissimo canto. Anche il fiume sembrava rispondere al canto della Fenice, mormorando e scorrendo dolcemente, rifletteva i colori delle sue piume. Mentre la Fenice cantava, una giovane ragazza di nome Agata, che viveva in quella città, si avvicinò per vedere da vicino il meraviglioso volatile. Agata era una ragazza coraggiosa che amava la natura e non aveva mai visto nulla di così meraviglioso. La Fenice, notando la presenza di Agata, smise di cantare e la guardò negli occhi.
“Chi sei, splendida creatura?” chiese Agata. “Sono l’Araba Fenice e vengo da lontano. Il tuo fiume è così bello e tranquillo che non ho potuto resistere alla tentazione di ammirarlo." Agata, emozionata, raccontò alla Fenice delle leggende del fiume e di come fosse considerato un simbolo di vita e rinascita per la città. La Fenice, toccata dalle parole di Agata, decise di fare un dono per tutti. "Cara ragazza, ogni volta che si avvicina la fine della mia vita, costruisco un nido e mi lascio bruciare, poi rinasco dalle mie stesse ceneri. Quando questo accadrà, lascerò una piuma dorata nel fiume, questa piuma porterà fortuna e prosperità alla città e, ogni volta che la natura la distruggerà, rinascerà sempre più bella di prima.” Agata ringraziò la fenice e corse a raccontare la meravigliosa notizia a tutti gli abitanti. Da quel giorno, ogni volta che la Fenice tornava a rinascere, una piuma dorata appariva nel fiume, portando gioia e fortuna alla città. E così, grazie all’Araba Fenice e al magico fiume, la città divenne sempre rifiorente. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
IL FIUME E IL LAGO
In una città lontana, un maestoso fiume scorreva libero e vigoroso. Questo fiume, con le sue acque cristalline, alimentava un grande lago, poi conosciuto come Nicito. Il lago era così vasto che, l’8 settembre 1652, divenne il palcoscenico di una grandiosa regata navale, un evento che attirò l’attenzione e l’ammirazione di tutta la città. Il fiume scorreva, portando con sé l’aria fresca, il calore del sole e i dolci momenti di tranquillità. Per i greci, il fiume era più di un semplice corso d’acqua: era un dio, raffigurato nelle monete con il corpo possente di un toro e il volto umano, simbolo di forza e saggezza.
Ma il destino del fiume e del lago cambiò drammaticamente con l’eruzione del vulcano Etna nel 1669. La lava incandescente costrinse il fiume a nascondersi sotto terra come un fantasma che si aggira silenzioso. In meno di sei ore, il lago di Nicito fu completamente sommerso dalla lava. Da questo fiume, un tempo, si dipartivano ben 36 corsi d’acqua, e una fontana dei 36 canali ne prese il nome. Anche questa meraviglia fu distrutta dalla lava, lasciando solo ricordi e leggende. Oggi, l’unico ricordo del lago è via Lago di Nicito, una strada che porta il nome di quel luogo incantevole. Un tempo, questa zona era uno dei luoghi più belli e suggestivi della città, adornata da piccole colline e ville incantevoli. Era un ritrovo per la società brillante catanese, un luogo dove si intrecciavano storie d’amore, amicizie e sogni. E così, la leggenda del fiume e del lago continua a vivere nei cuori e nelle menti dei cittadini del luogo, un ricordo di un tempo passato, ma mai dimenticato. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
UNA CALDA NOTTE D'ESTATE A CATANIA
U Liotru si mummuria: “Chi cauru, a stanotti si sta acupannu, ora scinnu e mi nni vaju a muntagna curennu.” Mbare Amenanu scinni, veni ccu mmia, pigghiamu da strata ritta e arrivamu a muntagna ritti ritti. Ora chiamu macari a lautri: Cola, Uzeta, Anfinomo e Anapia, caminati tutti cu mmia. A chidda ci pensu ju, e picchì ci pensi tu? Scimunitu, Gammazita viri ca no è a me zita, ci staju ricennu di nesciri do puzzu e mittirisi nto menzu. Poi jemu a potta Jaci e ni puttamu macari a Vicenzu. Vicenzu di luntanu sintiu o Liotru ca vineva do Chianu. Liotru sta fannu buddellu, viri ca ju non ci vegnu. Avaja Vicenzuuu? Chiama a Norma, arrusbighia a Sunnambula e u Pirata, arrivamu a Villa e dopu nni facemu a chianata.
Vadda c’è Pippinu, nu puttamu? No! Chissu è comu a statua da villa. Chi voi riri Liotru? Ca è senza testa! Pippinu ncazzatu arispunniu: “Ju sugnu chiddu dell’Italia Unita, su scinnu ti stuppu l’occhi cu du ita.” Arrispunniu u Liotru arirennu: “Para picca ca staju vinennu.” Era quasi l’alba, frischi frischi e che papuli nte peri arrivanu nto pizzu da Muntagna. U Liotru isau a fungia e ci rissi: “U suli sta niscennu, i vacchi stanu piscannu e Catania si sta arusbighiannu. Carusi, arricugghemini e casi, se i catanisi non mi virunu nta chiazza non putiti sapiri comu s’incazza.” Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
C'era una volta, una giovane fioraia di nome Billonia. Conosciuta per la sua gentilezza e il suo abbigliamento colorato, Billonia era una figura amata da tutti. Ogni giorno, passeggiava per le strade della città con la sua amata madre, offrendo fiori di campo alle coppie di innamorati. Le sue camicette vivaci e il suo sorriso contagioso illuminavano via Etnea e Villa Bellini. D’inverno, con sua madre trascorreva le giornate in Piazza Stesicoro, mentre d’estate si trasferivano al Giardino Bellini, dove il profumo dei fiori si mescolava con le risate dei bambini e il cinguettio degli uccelli. Un giorno la madre di Billonia si ammalò gravemente e, nonostante le cure amorevoli della figlia, morì.
Poco dopo, scoppiò la guerra e la città cadde in un triste silenzio. I divertimenti sparirono e le coppie, per paura, non uscirono più di casa. Anche Billonia, ebbe paura e si ritirò in casa. Finalmente, un giorno, le campane suonarono annunciando la pace. La gente iniziò a uscire di nuovo, a vivere e a sorridere,riprese a passeggiare alla Villa Bellini e qualcuno si ricordò della fioraia dalla camicetta colorata e dai modi gentili. La cercarono tra la gente, ma nessuno vide più la ragazza dei fiori. Ogni primavera, il profumo dei fiori riempiva l’aria, come se Billonia stesse ancora offrendo i suoi fiori con un sorriso. Ancora oggi, Billonia, la ragazza dei fiori, vive nei cuori dei catanesi. Quando qualcuno indossa abiti estrosi e porta fiori, si sente dire: “pari Billonia da Villa”. E così, la memoria di Billonia continua a fiorire, come i fiori che la ragazza distribuiva con tanto amore. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
L'ELEFANTE DI PIETRA
C’era una volta un Elefante di Pietra chiamato Liotru. Questo Elefante non era un elefante qualunque, ma un guardiano magico della città, posto al centro della piazza del Duomo. Ogni notte prendeva vita con la luce delle stelle e si aggirava per le strade di Catania, proteggendo i suoi abitanti e risolvendo piccoli problemi.
Una notte, mentre passeggiava, sentì un pianto disperato. Seguendo il suono del pianto, trovò una piccola bambina di nome Agata, che aveva perso il suo piccolo gattino. Agata era triste e spaventata, ma Liotru, con la sua voce profonda e rassicurante, le promise che avrebbe trovato il suo gattino. Insieme iniziarono a cercare per tutta la città. Chiesero aiuto ai gatti sui tetti, ai cani del parco e persino ai gabbiani del porto. Ogni animale contribuì con un indizio e, alla fine, trovarono la gattina intrappolata su un albero. Liotru, con la sua proboscide lunga e forte, sollevò delicatamente il gattino e lo riportò a terra, tra le braccia di Agata.
La bambina era felicissima e ringraziò Liotru con un grande abbraccio. Da quel giorno, Agata e il gattino visitarono ogni notte Liotru, portandogli dolci e raccontandogli storie. E così, il Liotru di Catania continuò a vegliare sulla città, sapendo che il suo cuore gentile aveva trovato una nuova famiglia. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
Un giorno, un ragazzo di nome Pippo, mentre passeggiava per le antiche strade di Catania, si fermò in una vecchia libreria e comprò un vecchio libro. Il libro raccontava di un tempo in cui la città era visitata da illustri personaggi come Adolfo Holm, Guy de Maupassant e Sabatino Lopez. Il ragazzo decise di immergersi nella lettura e, mentre leggeva, fu trasportato nel Mondo Magico del Libro. La fantasia lo portò a camminare tra le carrozze patronali che scorrevano per la città, sentendo il profumo delicato della cipria e ascoltando le risate delle donne che passeggiavano per le strade.
Mentre continuava a esplorare le vie della città, vide Gabriele D’Annunzio ed Edmondo De Amicis che scrivevano le bellezze della città. Vide anche Vitaliano Brancati che raccontava storie della Catania del Novecento, descrivendo con passione il carattere vivace e simpatico dei catanesi. Brancati spiegò come, nonostante non fosse nato a Catania, la città avesse un posto speciale nel suo cuore. Pippo, incantato da tutto ciò che aveva letto, visto e sentito, uscì dal sogno del Mondo Magico raccontato nel libro e decise di dedicare la sua vita a raccontare le storie della sua amata città. Aprì una piccola libreria, proprio come quella in cui aveva trovato il vecchio libro, e iniziò a scrivere le sue storie. Grazie a Pippo, le storie di Catania continuarono a vivere, incantando generazioni future con la bellezza e la magia di una città che non smette mai di affascinare. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
Mentre il sole sorgeva e illuminava i muri della città, Liotru, l’elefante di pietra posto al centro di Piazza Duomo, si svegliò con un desiderio. Aveva sentito parlare della famosa Pescheria, il mercato del pesce della città, e la sua curiosità era troppo grande: volle a tutti i costi andare in quel mercato. Con passi silenziosi ma decisi, si incamminò verso la Pescheria. Le strade erano tranquille e si sentiva solo il cinguettio degli uccelli. Mentre si avvicinava al mercato, si fermò per un attimo a guardare la fontana dell’Amenano, affascinato dalla cascata d’acqua. Quando arrivò alla destinazione desiderata, fu accolto da un mare di colori e profumi; il mercato sembrava avere una vita propria. Liotru si avvicinò ai banchi di vendita, dove i pesci brillavano come gioielli sotto la luce. I commercianti, sorpresi ma non spaventati, salutarono l’elefante con sorrisi calorosi. “Buongiorno, mbare Liotru!” dissero. “Cu ti ci potta cca?”
“A matinata fa a junnata” rispose Liotru e spiegò che aveva sempre voluto vedere la Pescheria e conoscere i suoi abitanti. I pescivendoli, felici di aver visto il loro Liotru, iniziarono a raccontargli storie di mare e di pesca. Gli mostrarono i pesci più rari e gli spiegarono come riconoscere il pesce fresco. Liotru ascoltava con attenzione ed era affascinato da ogni dettaglio. Alla fine della giornata, con il cuore colmo di gratitudine, ringraziò i pescivendoli e tornò nella sua piazza. Da quel giorno, ogni mattina, Liotru si svegliava con un sorriso, sapendo che la città di Catania e i suoi abitanti avevano sempre qualcosa di nuovo e meraviglioso da offrire. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
Un giorno, un pastore portava il suo gregge a pascolare sulle pendici dell’Etna. Mentre camminava, notò una grotta nascosta da una grossa pietra, dotata di un anello di ferro. La curiosità lo spinse a tirare l’anello, riuscendo a spostare la pietra e a entrare nella grotta. Con grande stupore, scoprì ventiquattro mucchi di monete d’oro. Senza perdere tempo, ne prese una parte e tornò a casa, ma quella notte non riuscì a dormire, tormentato da mille domande: di chi erano quelle monete? Chi le aveva nascoste? Il giorno seguente, decise di confidarsi con il suo miglior amico, Pippo. “Pippo, devo raccontarti qualcosa che mi tormenta.” Pippo, dopo aver ascoltato, senza stupirsi, rispose: “Con l’arrivo dei Musulmani, i catanesi nascosero i loro tesori sull’Etna. Questi tesori, chiamati ‘truvaturi’, sono custoditi dai ‘pircanti’, piccoli gnomi guardiani che impediscono il ritrovamento dei tesori. Si dice che chi trova uno di questi truvaturi possa diventare ricco. Stai attento, amico mio, non voglio che tu vaI in quella grotta.”
Nonostante le parole di Pippo, il pastore non riuscì a resistere alla tentazione e tornò alla grotta per prendere il resto delle monete. Ma appena entrò, una voce femminile rimbombò nella grotta: “COME OSI PORTARE VIA IL TESORO DEI CATANESI?” Terrorizzato, cercò di richiudere la grotta in fretta, ma nella confusione pose la pietra al contrario, con l’anello all’interno. Da quel giorno, nessuno riuscì più a trovare la grotta, e il tesoro rimase nascosto, custodito dai misteriosi pircanti. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
Entrando nel
palazzo, Giovanni rimase incantato dalle statue, dai
busti di marmo e di bronzo, e dai vasi antichi. Ma ciò
che lo colpì di più fu la vista mozzafiato del mare e
dell’Etna, che sembravano raccontare storie di antichi
dei e leggende dimenticate.
GIOVANNI E IL FANTASMA DEL FIUME
C’era una volta, nella splendida città di Catania, un giovane di nome Giovanni che viveva in un elegante appartamento al secondo piano di un palazzo settecentesco in via Sant’Anna. Giovanni amava scrivere, era curioso e amante delle passeggiate, sempre alla ricerca di nuove ispirazioni. In una calda mattina del 1867, mentre camminava per via Ferdinandea, oggi conosciuta come via Garibaldi, notò la gente che si recava verso il centro. La città era in festa per l’inaugurazione di una nuova fontana nella piazza centrale della città. Spinto dalla curiosità, si diresse verso la piazza e, al suo arrivo, rimase incantato dalla vista della nuova fontana in marmo di Carrara, opera del maestro napoletano Tito Angelini. La fontana rappresentava il fiume Amenano, con una statua che lo raffigurava come un giovane dio.
Poco dopo, Giovanni incontrò i suoi amici, Mario e Luigi. Insieme si sedettero nella grande Birraria Svizzera e, tra dialoghi, doppi sensi e risate, il sole incominciò a tramontare. Giovanni sentiva che qualcosa lo turbava: aveva la sensazione di dover tornare a guardare quel monumento da poco inaugurato. Appena si fece sera, si recò alla fontana e, mentre ammirava l’acqua che si versava nella vasca, all’improvviso accadde qualcosa: una luce magica apparve e si sentì una voce sussurrare: “Giovanni, tu che ami la tua città e le sue storie, avvicinati e ascolta il mio segreto. Io sono il Fantasma del Fiume Amenano e ogni notte, quando la città dorme, racconto storie antiche e segrete. Se prometti di custodire queste storie e di scriverle, ti svelerò i segreti più profondi di Catania.” Giovanni, emozionato, promise di mantenere il segreto e da quel giorno, ogni notte si recava alla fontana per ascoltare le storie del Fantasma del Fiume e poi le scriveva. Giovanni trovò un legame profondo con la sua città e le sue tradizioni e visse raccontando al mondo le meraviglie della sua terra. Pippo Costanzo-Cancilleri
Con un sorriso ironico, il giovane rispose: "scusate, non mi sono presentato. Io sono Vincenzo, l’autore di quest’opera, La Norma." Sorpreso ma senza freni, Nino rispose: "Na bella opera… cosi giusti!" Pure Angelo disse la sua: "Avaja mbare." Vincenzo, per sdebitarsi, propose loro: "Sentite, amici miei, posso invitarvi a cena, visto che vi ho fatto perdere del tempo?" I due compari, pensando ai soldi spesi per il biglietto, accettarono! I due compari e Vincenzo uscirono dal teatro e, mentre si avviavano verso una trattoria, Nino chiese all'autore dell'opera: "Ma cu era sta Norma?" E Angelo, mormorando sotto voce: "Sarà so soru." Vincenzo spiegò con passione: "Norma è una sacerdotessa druidica innamorata di Pollione, un proconsole romano. Hanno avuto due figli, ma lei scopre che Pollione ama un’altra donna. La sua storia è piena di passione, sacrificio e conflitto. Voi dovete pensare che nel 1832 alla Scala di Milano presentai quest'opera: ‘La Norma’. Il pubblico applaudiva con grande entusiasmo, ma i milanesi non gradirono l'opera. Io, presente al teatro sul palco dei coniugi Turina, ironicamente dissi: 'E milanisi ciadduppau a "Norma". Questa frase venne ripetuta con ironia in tutta la Sicilia e, per sgarbo al risotto milanese, si volle dare il nome a un piatto tipico catanese." "Miiii, mbare ni pessumu u meghiu!" esclamò Nino. "Ormai amuninni a mangiari e dopo voglio sapere qual è il tipico piatto." Arrivati alla trattoria, Nino e Angelo ordinarono il loro piatto preferito: maccheroni con salsa di pomodoro, melanzane fritte, basilico e ricotta salata. Vincenzo fece lo stesso e chiese ai due compari: "Ma la storia di Norma vi è piaciuta?" Lo guardarono in faccia e, indicando il piatto con le mani, i due compari risposero: "Mbare Vicenzu, a vera Norma è chista!" E Vincenzo sorridendo: appunto "Ecco il tipico piatto, La Norma."
Il
cameriere, udendo la conversazione, memorizzò tutto. Poco dopo, un
altro tavolo chiese al cameriere: "Cosa ci consiglia?" Senza
esitare, il cameriere rispose con un sorriso: "Maccheroni alla
Norma!"
IL SERVO DEL CONVENTO
In una piccola città, alla fine del XVII secolo, viveva un Servo di nome Gaetano, che lavorava in un grande convento situato in cima al Montevergine. Gaetano era molto curioso e avido, e durante la giornata non faceva altro che curiosare per tutto il convento. Un giorno, si accorse che in un lunghissimo corridoio del convento c'era una Stanza Segreta. La sua curiosità lo spinse ad aprire la porta della stanza. I suoi occhi si spalancarono nel vedere una coppa d'oro con le ostie consacrate e un velo. Non riuscendo a resistere, prese tutto e fuggì. Pochi giorni dopo, i monaci si accorsero che la porta della Stanza Segreta era stata manomessa e che la coppa, le ostie e il velo erano scomparsi. Il rimorso tormentava Gaetano, e la paura di essere scoperto lo spaventava a morte.
Una notte, Gaetano ebbe un incubo. Una fata di nome Aurora, che indossava il velo che lui aveva rubato e teneva la coppa d'oro nelle mani, gli disse: "Gaetano, quello che hai fatto sarà punito con l'impiccagione." Il Servo si svegliò di scatto e, senza perdere tempo, chiamò i monaci, rivelando che aveva avvolto le ostie in un pezzo di carta e le aveva deposte nel giardino del convento. La coppa d'oro, invece, l'aveva ridotta in minutissimi pezzi e li portava con sé in un sacchetto.
I monaci, commossi dal pentimento di Gaetano, decisero di perdonarlo. Nel luogo del ritrovamento fu innalzata un'icona, poi sostituita nel 1800 da una lapide con un'epigrafe che recitava: "A Dio Ottimo Massimo, regnando in Sicilia Carlo II di Spagna." Inoltre, i monaci donarono l'olio affinché in quel luogo ardesse sempre una lampada. La storia di Gaetano e della pisside divenne leggenda, un esempio di sincerità e pentimento. Pippo Costanzo-Cancilleri
IL VENDITORE DI CIAMBELLINE
Nel cuore del Giardino Bellini, c’era una volta un venditore di ciambelline di nome Gaspare, ma tutti lo chiamavano Aspanu. Era un uomo di circa 45 anni, con la pelle liscia e senza barba, né vecchio né giovane. Aspanu era una figura familiare per tutti i bambini della città. Ogni giorno passeggiava per il giardino con il suo cestello di ciambelline appeso al collo da una cinghia, sostenuto dalla sua abbondante pancia. La sua specialità erano i 'nsiminati, deliziose ciambelline dolci ricoperte di sesamo. Per attirare l’attenzione dei bambini, Aspanu recitava una cantilena che faceva piangere i piccoli per ottenere dal papà i croccantini: “Picciriddi, chianciti, chianciti, cca poi 'u papà v’accatta i 'nsiminati.” Era conosciuto e amato da tutti, ma nessuno sapeva molto della sua vita privata. Un giorno, senza preavviso, scomparve dalla circolazione. Si diceva che si fosse ritirato nell’albergo dei vecchi, dove trascorse i suoi ultimi giorni. E così, il venditore di ciambelline divenne una leggenda nel cuore di Catania. I bambini cresciuti raccontavano ai loro figli la storia di quell’uomo gentile che portava gioia con le sue dolci ciambelline e la sua cantilena magica. E anche se Aspanu non c’era più, il suo ricordo viveva nei sorrisi e nei racconti di chi lo aveva conosciuto. Pippo Costanzo-Cancilleri (© tutti i diritti riservati)
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