Angelo Moratti.

In una Milano ancora sconvolta per la morte del pilota Giorgio Ascari a Monza, il petroliere Angelo Moratti diventa il quindicesimo presidente del Football Club Internazionale. L'ascesa economica del nuovo presidente è incredibile, partito da semplice piazzista di oli lubrificanti, è stato infatti protagonista di una prodigiosa carriera da "self-made-man", tanto da potersi permettere di spendere 100 milioni per rilevare la società da Masseroni. Al di fuori del campo energetico, dal 1972 al 1976 fu comproprietario del Corriere della Sera insieme a Gianni Agnelli ed agli eredi della famiglia Crespi. Nel 1976, l'intera proprietà della testata fu ceduta al gruppo Rizzoli. Dal 1972 al 1974 è stato anche proprietario del giornale economico Il Globo.

È stato presidente dell'Inter dal maggio 1955, rilevando la società dal suo predecessore Carlo Masseroni, fino al maggio 1968, quando lasciò la presidenza a Ivanoe Fraizzoli. Era il periodo della Grande Inter allenata da Helenio Herrera; il giovane avvocato Giuseppe Prisco venne nominato vicepresidente della squadra. Sotto la sua presidenza venne costruito il centro sportivo di Appiano Gentile, noto poi negli anni come la Pinetina.

Nel 1951 fu tra i fautori dell'accordo tra i nerazzurri e la principale squadra di hockey su ghiaccio di Milano, l'Hockey Club Milano, la cui nuova denominazione sarà Hockey Club Milano Inter; Moratti ne divenne vicepresidente, insieme allo stesso Fraizzoli.

Con lui l'Inter ha vinto tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe intercontinentali.

Dal 5 novembre 2007 il piazzale antistante allo Stadio Giuseppe Meazza porta il suo nome. Una targa è stata posta sulla cancellata dello stadio, nella zona dell'ingresso principale. Alla cerimonia ufficiale, voluta e organizzata dal Comune di Milano, hanno partecipato figli e nipoti del presidente della Grande Inter, alcuni campioni nerazzurri del passato, Javier Zanetti e numerosi rappresentanti delle istituzioni milanesi e del club nerazzurro. Nel 2009 il Comune di Stintino gli ha intitolato una via del paese in zona Capo Falcone. La nuova via Angelo Moratti è la via antistante all'Hotel Roccaruja, costruito da Angelo Moratti negli anni sessanta e divenuto luogo di ritrovo per le vacanze di dirigenti e giocatori della Grande Inter di quel periodo. Nel 2015 il Comune di Panicale e il Comune di Piegaro, in provincia di Perugia, su proposta della Asd Tavernelle Calcio 1921, gli hanno intitolato lo stadio intercomunale di Tavernelle.

 

 

 

 

 

 


Il 28 maggio 1955, un sabato, Angelo Moratti, che acquista la società per 100 milioni, diventa il nuovo presidente e patron dell'Inter. Mentre nelle giovanili cresce gran parte dei campioni del futuro, Moratti allontana Foni e punta su Aldo Campatelli.

Il Campionato inizia bene, dopo sei Giornate l'Inter è in testa, ma una sequela di cinque sconfitte porta all'esonero. È chiamato a curare le ferite Giuseppe Meazza, che recupera posizioni e limita i danni chiudendo il 1955/56 al terzo posto. L'anno successivo Moratti punta sulla coppia Frossi-Ferrero. Il primo è un catenacciaro, il secondo un teorico dell'offensivismo puro. Una coppia in teoria complementare, in pratica inefficace. Meazza rileva ancora una volta la guida della squadra: una iniziale serie positiva porta l'Inter al secondo posto, poi cinque sconfitte consecutive la fanno scendere di parecchio. Con la vittoria nell'ultima Giornata 1956/57 i nerazzurri agguantano la quinta posizione.

Angelo Moratti diviene presidente dell'Inter. Da allora il suo obiettivo è quello di costruire una squadra che domini ad ogni livello ma gli inizi non sono facili. Moratti impiega otto anni per vincere il suo primo scudetto e in quegli anni cambia ben sette allenatori, non riuscendo mai a far decollare la sua squadra.

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ANTONIO VALENTIN ANGELILLO.

L'angelo dei record dalla faccia sporca. Fece il primato dei gol (33), ma non convinse Herrera col quale durò poco, con la sua Argentina ancor meno

Se ne è andata un'altra figurina del nostro album: Antonio Valentin Angheligio, come lo chiamavano e lo piangono oggi gli argentini che amano il football.

Antonio Angelillo aveva ottant'anni e da tempo aveva scelto il silenzio, insieme con la quiete della Toscana, terra di buen ritiro. La sua carriera fu splendida, il suo record di gol, 33 nei tornei a diciotto squadre, resta imbattuto. Angelillo è stato un centravanti, un grande centravanti per necessità e scelta di Guillermo Stabile allenatore che lo spostò da mezzala dieci metri più avanti. Il tiro era potente, la stazza anche, la tecnica elegante, pennellate di calcio sulla segatura di San Siro.

Lo scovò, quando aveva quattordici anni, Anibal Gordo Diaz e lo portò all'Arsenal di Lavallol. Antonio aveva lontani parenti lucani, suo padre era un macellaio, dunque i filetti e gli asadi non gli mancavano e ne fortificarono il fisico e le gambe di roccia. Passò al Racing, insieme con Humberto Maschio e l'anno '57 fu quello di grazia. L'Argentina vinse la coppa Sudamericana a Lima, goleando con Brasile, Uruguay, Cile, Colombia ed Ecuador, Angelillo faceva parte delle carasucias, quelli dalla faccia sporca, figli di buona donna, come li aveva battezzati un massaggiatore vedendoli seduti sfiniti, coperti di fango, in panchina. Con Antonio, Oreste Omar Corbatta, Enrique Omar Sivori e, appunto, Humberto Maschio. Era al Boca, Antonio Valentin, quando Angelo Moratti decise di portarlo in Italia, coprendo di novantacinque milioni il club bairense. Il trasloco in Italia gli creò un grosso problema, infatti saltò il servizio militare proprio nel periodo caldo della Revolucion Libertadora e venne, dunque, ritenuto un disertore. Per vent'anni non gli fu più permesso di mettere piede in Patria al punto che nel Sessanta suo padre, sul punto di morte, venne trasferito a Montevideo, in Uruguay, così da permettere al figlio di incontrarlo. Quell'Argentina degli angeli dalla faccia sporca avrebbe potuto vincere il mondiale in Svezia se il governo e la federazione non avessero deciso di troncare i rapporti con gli esuli, Maschio al Bologna, Antonio all'Inter, Omar alla Juventus. Il trio si completava a meraviglia, la geometria, la potenza, la perfidia tecnica. Angelillo giocò undici partite segnando undici gol con la maglia albiceleste, prima del gran rifiuto federale.

Furono anni belli e di scoperte per Antonio Valentin a Milano, anche se Moratti passò un periodo di incertezze, confidando agli amici che forse gli avevano spedito il fratello del fenomeno argentino. Il grande presidente decise di dare una sveglia al ragazzo frastornato dalle nebbie. La delega fu affidata ad Enea Masiero e a Livio Fongaro, sodali di pensione, che portarono a spasso Antonio per la città, il Duomo, il Castello Sforzesco, i Navigli, infine il tabarin, come venivano chiamati i locali notturni dell'epoca. Qui, alla Porta d'oro, nel sito di piazza Diaz, lo stesso cognome di Anibal Gordo lo scopritore, Antonio Valentin incontrò la bionda soubrette Ilya Lopez, al secolo Tironi Attilia, la quale si prese cura di quel bel fusto con i baffetti appena disegnati sul viso e l'aria un po' spaesata. L'amore portò Angelillo a segnare quei 33 gol famosi, dunque la storiella che fosse confuso e distratto dalla relazione regge il tempo di un tango.

In verità, due anni dopo, si appalesò a Milano Helenio Herrera che fece intendere subito di non quagliare molto con il ragazzo. Angelillo, capitano di quell'Inter non riuscì a conquistare titoli, scudetti e coppe e venne venduto alla Roma con una clausola contrattuale a lui sconosciuta: il club giallorosso si impegnava a non cederlo al Milan, alla Juventus e al Napoli. Angelillo lasciò l'Inter su volere di Allodi che aveva preso dal Barcellona Luis Miramontes Suarez, l'argentino si congedò dopo 127 partite e 77 gol. A Roma, con la presenza di Piedone Manfredini, arretrò a trequartista, segnando 41 reti in 150 partite, conquistando la coppa delle Fiere e la coppa Italia. La Roma poi non rispettò la clausola cedendo Antonio al Milan, una sola stagione, tre gol su ventuno partite e cessione al Lecco. Tornò al Milan per vincere, finalmente, lo scudetto, come partecipante.

Da oriundo lucano Antonio vestì anche la maglia della nazionale italiana, dove si trovò a fianco Josè Altafini e Omar Sivori, anch'essi oriundi, in azzurro due presenze e un gol, asterischi a margine. Le sue doti tecniche non vennero messe al servizio di alcun club, dopo il ritiro provò la panchina in serie minori e, da osservatore, portò all'Inter Javier Zanetti.

Da tempo aveva preferito il silenzio, la malattia infine lo ha portato via alla sua famiglia. Altri argentini stanno spopolando sui nostri prati di football. Antonio Valentin Angheligio ha fatto la storia e in questa va conservato con rispetto massimo.

http://www.ilgiornale.it/news/sport/angelillo-langelo-dei-record-campione-faccia-sporca-1480560.html

 

 

 

 

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L'arrivo del centravanti Antonio Valentin Angelillo e del quotato allenatore John Carver non porta ancora risultati: nel 1957/58 la squadra si ferma al nono posto in classifica. Il disastro della Stagione appena conclusa pesa sulla società, che in estate cede Ghezzi e Lorenzi e si affida a mister Giuseppe Bigogno. I risultati non sono dei migliori e a tre mesi dalla fine del Campionato

 

 

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1958/59 ritorna in panca Campatelli, che chiude terzo e perde la finale di Coppa Italia. Si mettono in luce gli attaccanti: Edwing Firmani gioca la miglior Stagione della sua carriera e Angelillo realizza 33 goal in 33 partite, risultato ineguagliato nella Serie A a 18 squadre, seppur segnando solo 5 volte nelle ultime 16 Giornate. .

 

Firmani in azione


 

 

 

Il 1959/60 è una Stagione transitoria. Parte Skoglud e in panca si siede la coppia Campatelli-Achilli. L'Andata è ottima, ma il Ritorno di Campionato è decisamente in declino e la squadra è eliminata ai Quarti in Coppa delle Fiere. Dopo una sconfitta nel derby viene esonerato Campatelli, dopo un mese tocca anche ad Achilli. Il ritorno di Giulio Cappelli permette di chiudere in quarta posizione

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Nell'estate 1960 Moratti getta le basi di quella che sarà la Grande Inter: in panchina fa sedere il "Mago" Helenio Herrera, dopo che era rimasto stregato da questo allenatore in una partita che la sua Inter perse contro il Barcellona allenato proprio da Herrera per 4-0 la stagione prima, e dietro la scrivania l'esperto uomo di calcio Italo Allodi. Herrera rivoluziona l'Inter stravolgendo le tattiche e trasformando Picchi in efficace libero, ma non manca di portare il suo estro nel calcio italiano con l'invenzione del "ritiro".

 

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Dopo una partita di Coppa UEFA nella quale il Barcellona travolge l'Inter, Moratti decide di ingaggiare l'allenatore dei catalani Helenio Herrera. La scelta, alla luce dei risultati ottenuti, si dimostra ampiamente indovinata; per completare il quadro societario viene ingaggiato Italo Allodi, un manager in grado di allestire una squadra competitiva e vincente ad ogni livello. Allodi avrebbe fatto, in seguito, la fortuna anche di Juventus e Napoli oltre che della Nazionale.
All'intelaiatura della squadra si aggiungono presto Mario Corso e due giovani della primavera: Giacinto Facchetti e Sandro Mazzola (figlio del grande Valentino). I due sarebbero diventati due bandiere nerazzurre e della Nazionale italiana.

 

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Lo Scudetto 1960/61 va alla Juventus fra le polemiche: durante lo scontro diretto con l'Inter, seconda classificata, la partita è interrotta da un'invasione di campo di tifosi bianconeri.

L'Inter vince 0-2 d'ufficio, ma la FIGC (presieduta da Umberto Agnelli) contesta la decisione, delibera che l'invasione non avrebbe condizionato lo svolgimento della gara e ne ordina la ripetizione al termine del Campionato. L'Inter risponde mandando a Torino la Primavera, che perde 9-1 e chiude al terzo posto. L'unica segnatura nerazzura è siglata su rigore dal fututo campione Sandro Mazzola, che sigilla così il suo esordio. Durante il periodo di mercato la chiacchierata vita amorosa di Angelillo porta il severo Herrera a ordinarne la cessione.

 

LA PARTITA FANTASMA

 

È il campionato 1960-61, quello nel quale il presidente Angelo Moratti ha messo l’Inter nelle mani di Helenio Herrera, un pittoresco (e costoso) allenatore argentino prelevato in Spagna, interrompendo una sconcertante girandola di tecnici sulla panchina nerazzurra. L’avvio dell’ Inter targata Herrera è stato devastante. Cinque gol a Bergamo, sei a Udine, cinque al Vicenza. Anche il derby d’Italia sorride ai nerazzurri, che a San Siro si sbarazzano della Juve per 3-1 e un mese più tardi conquistano lo scudetto d’inverno, precedendo di quattro punti i bianconeri. A introdurre la sfida di ritorno c’è però una sorprendente flessione dell’Inter, che tra marzo e aprile inciampa in quattro sconfitte consecutive, scivolando a quattro lunghezze dalla Juve. Per i nerazzurri quella di domenica 16 aprile 1961 a Torino è l’occasione per tentare di riavvicinarsi ai rivali. Il Comunale è stracolmo, al punto che le tribune non bastano a contenere tutti gli spettatori, molti dei quali sciamano ai bordi del campo, sistemandosi sulla pista di atletica (e un paio, pare, addirittura sulla panchina di Herrera).Risultati immagini per inter juventus la partita fantasma

 «La gente stava a pochi metri di distanza – ricorda Aristide Guarneri, stopper dell’Inter di allora – ma un pericolo vero e proprio non c’era». Chi la pensa diversamente è l’arbitro genovese Gambarotta, che al 31′ decide di interrompere il gioco, dopo che l’interista Morbello aveva colpito un palo. Il regolamento è abbastanza chiaro. In casi del genere, la vittoria va attribuita alla squadra ospite. Supportata da precedenti simili, dieci giorni più tardi la Lega assegna il 2-0 all’Inter, che torna a intravvedere lo scudetto. Ma il 3 giugno, alla vigilia della domenica conclusiva del campionato, la Caf accoglie il reclamo della Juve e decide che la partita va rigiocata, suggellando in pratica lo scudetto numero 12 dei bianconeri. Proteste, sospetti e accuse si rovesciano sull’ente d’appello, alimentati soprattutto dalla doppia carica di Umberto Agnelli, che è presidente della Juve ma anche della Federcalcio.

LA DECISIONE DI MORATTI

«Il verdetto della Caf, che ci faceva scivolare a due punti dalla Juve, lo apprendemmo a Catania – riferisce ancora Guarneri – dove andammo in campo col morale sotto i tacchetti e perdemmo per 2-0. Ci sentivamo presi in giro». Il più infuriato è il presidente Angelo Moratti, che dopo essersi consultato con Herrera adotta una decisione clamorosa: nella ripetizione della partita, il 10 giugno, l’Inter per protesta lascerà a casa i titolari e schiererà la squadra De Martino, come all’epoca si chiamava la Primavera, età limite dei giocatori 19 anni. Tra i ragazzi della De Martino nerazzurra c’è anche Sandro Mazzola, classe ’42, che della rivoluzionaria scelta di Moratti viene a conoscenza il martedì precedente la partita-bis. «Ce la comunicò Meazza, il nostro allenatore». Emozione, ansia e gioia si mescolano tra i giovani interisti, nessuno dei quali ha mai messo piede in serie A.Risultati immagini per inter juventus 1961

 «Per me – ricorda Mazzola – si aggiunse un problema. Il sabato avrei dovuto sostenere tre esami per completare il quarto anno di ragioneria. A casa mi dissero che lo studio prevaleva sul calcio e che a Torino non ci sarei andato. Supplicai e piansi invano. Per fortuna il preside si commosse e acconsentì a farmi sostenere gli esami di prima mattina. Un’auto della società mi aspettava davanti alla scuola per portarmi a Torino, dove arrivai giusto in tempo per giocare». Guidata dal tandem Gren-Parola, la Juve schiera quasi tutti i suoi campioni. Ci sono Mattrel e Sarti, Cervato e Colombo, Mora e Nicolè, Charles e Sivori, Stacchini e il trentatreenne Boniperti, che indossa un’insolita maglia numero 4 e che al termine della partita consegnerà le sue scarpette al massaggiatore, dicendo: «Tienele tu, Crova, a me non servono più. Oggi col calcio ho chiuso».

SIVORI SCATENATO

Se l’ultima apparizione di Boniperti coincide con la prima di Mazzola, inevitabilmente in campo non c’è partita. Nove gol della Juve, sei dei quali firmati da Sivori, e uno dell’Inter, autore Mazzola su rigore. «All’inizio eravamo un po’ imbarazzati – chiarisce Boniperti – e non avremmo voluto infierire. Ma Sivori inseguiva il Pallone d’oro, che poi avrebbe conquistato, e ci teneva a segnare il più possibile». Degli undici sbarbatelli schierati da Meazza, Mazzola sarà l’unico a diventare un campione, mentre il portiere Annibale e l’attaccante Guglielmoni avrano una carriera appena discreta.

 «Quel sabato a Torino – sottolinea Mazzola – il marcatore di Sivori era Morosi, che sognava di ripresentarsi al suo paese dopo aver bloccato il fuoriclasse argentino. Invece Sivori segnò sei volte e Morosi, disperato, mi confessò che per lui sarebbe stato difficile tornare a casa».

Il campionato 1960-61 va in archivio con la Juve campione a quota 49. Il Milan è staccato di quattro punti e l’Inter di cinque. Per i nerazzurri il giorno della rivincita arriverà dopo poco più di quattro mesi dopo il 22 ottobre 1961, allorché vinceranno per 4-2 sul campo della Juve, che concluderà il campionato al dodicesimo posto, il peggior piazzamento della sua storia, nonostante ci siano ancora Charles, Sivori, Mora e Nicolè. «Ma non c’ero più io» azzarda Boniperti, chissà quanto scherzosamente…

 IL TABELLINO

TORINO, 10 GIUGNO 1961 JUVENTUS INTER 9-1

Juventus: Mattrel; Emoli, Sarti; Boniperti, Cervato, Colombo; Mora, Charles, Nicolè, Sivori, Stacchini.

Inter: Annibale; Riefolo, Tacchini; Morosi, Masotto, Dalmaso; Manini, A. Mazzola, Fusari, Guglielmoni, Ghelli.

Reti: 11′ Sivori, 12′ Sivori, 17′ Sivori, 52′ aut. Riefolo, 54′ Sivori, 64′ Nicolè, 67′ Sivori, 78′ Mazzola (IN) rig., 79′ Mora, 90′ Sivori rig.

http://storiedicalcio.altervista.org/blog/juventus_inter_9-1_boniperti.html

 

 

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CLAMOROSO AL CIBALI!

 

"Clamoroso al Cibali". Questa la frase pronunciata da Sandro Ciotti. Per chi non lo sapesse il tutto avvenne il 4 Giugno del 1961. Un gran bel giorno. Di fronte al Catania c'era l'Inter che ormai  non aveva niente da perdere e per i nerazzurri la partita sembrava essere in discesa ma solo per dovere sportivo, visto che non aveva più speranze di vincere lo scudetto a seguito del 9-1 per protestare il responso a favore della Juve (aveva in casa il Bari). Ma contro quell'Inter ormai senza più ambizioni, il Catania tirò fuori lo stesso l'orgoglio per motivi di bandiera. clicca qui per sapere di più

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L’ANTEFATTO - Ultima giornata di campionato. L’Inter è seconda in classifica a due punti dalla Juve. Ma dopo si dovrà ripetere Juventus-Inter, lo scudetto è ancora possibile. La partita si era giocata in  campionato il 16 aprile ma era stata sospesa dall’arbitro Gambarotta perché oltre cinquemila spettatori che non avevano trovato posto sugli spalti si erano piazzati a bordo campo. Decisione della disciplinare: 0-2 per l’Inter. La Juve non ci sta, presenta ricorso (Umberto Agnelli è presidente della Juventus e della Figc). La Caf, proprio alla vigilia di Catania-Inter, decide che la partita dovrà ripetersi, Per l’Inter è una brutta mazzata, ma non è ancora tutto perduto. Invece….

LA VENDETTA - Il Catania, neo promosso in A, è la rivelazione del campionato. Alla penultima di andata è secondo a due punti dall’Inter, che dovrà affrontare a San Siro. Il Catania ne prende cinque, quattro sono autoreti. Helenio Herrera dichiara a fine partita: "Abbiamo battuto una squadra di postelegrafonici". E il Catania se la lega al dito. Ricorda Memo Prenna centrocampista e leader della squadra : "Per come avevamo giocato forse aveva pure ragione, quattro autoreti sono un po’ troppe. Ma ci siamo guardati in faccia promettendoci vendetta". Aggiunge Amilcare Ferretti, mediano che giocò poi nella Fiorentina e nel Torino: "Herrera involontariamente ci diede una carica enorme. Dopo il 5-0 di San Siro abbiamo battuto il Milan per 4-3. Raccontano che Herrera abbia detto all’interista Bicicli; ti mando a giocare con i postelegrafonici>. E Mario Castellazzi, autore del primo gol: "Eravamo un gruppo unito, Prenna era un vero capitano anche fuori dal campo. Ci invitava a casa sua, eravamo decisi a vendicarci".

FATE I BRAVI - Giorgio Michelotti, terzino, rivela un particolare: "Qualche giorno prima della partita  vennero i dirigenti ad offrirci un premio doppio se avessimo lasciato vincere l’Inter. Ci alzammo tutti in piedi: 'No, ci dispiace. Ce la giochiamo'. E giocammo alla morte". "Quella partita – aggiunge il portiere Gaspari – l’abbiamo preparata noi giocatori. Abbiamo mandato tuttiRisultati immagini per clamoroso al cibali fuori, Di Bella, i dirigenti, ci tenevamo troppo". "E comunque quel Catania poteva vincere con chiunque", ricorda il centravanti argentino Salvador Calvanese, che è ritornato nel 1974 nella sua  Buenos Aires e che abbiamo rintracciato in vacanza a Bariloche.

LA PARTITA - "La palla loro l’hanno vista poco – dice Ferretti – Mi hanno detto che in tribuna c’era anche Suarez che l’Inter aveva acquistato per la stagione successiva. Mi sono divertito tanto, il Cibali era un inferno per gli avversari, quell’anno riuscì a vincere solo la Juve". E il fondo campo catanese non era il massimo. Nelle note di quella partita la Gazzetta scrive: "Terreno con qualche vago presentimento d’erba".

Non può dimenticarla nemmeno Alvaro Biagini, centrocampista: "Mi sono sposato tre giorni dopo. Ricordo un torello fatto da me, Calvanese e Ferretti con Facchetti frastornato tra gli olè del pubblico. Conservo una foto di Gaspari portato in trionfo dai tifosi catanesi".Risultati immagini per 1961 clamoroso al cibali

E Prenna: "I nostri tifosi intonarono un ironico Herrera cha cha cha. E quando Calvanese capitava vicino alla panchina dell’Inter, stoppava la palla col sedere sotto gli occhi del mago". Michelotti: "Facchetti era così confuso da sbagliare spogliatoio a fine partita".

Gaspari dopo la partita andò a salutare i giocatori dell’Inter nel loro albergo. "Avevo giocato a Livorno con Picchi e Balleri. Erano amareggiati. Balleri si era fatto pure espellere. Mi dissero: ci avete rovinato". La Juve, pareggiando in casa col Bari, vinse lo scudetto. A quel punto la ripetizione della partita diventava ininfluente. Il 9 giugno l’Inter mandò in campo per protesta una squadra di ragazzini. Finì 9-1 per la Juventus, con sei gol di Sivori, che però non riuscì a vincere la classifica dei marcatori. Il gol per l’Inter venne segnato dal debuttante Sandro Mazzola. Fu anche l’ultima partita di Boniperti

CHE GOL - Il primo fu di Castellazzi: "Me lo ricordo benissimo, respinta della difesa dell’Inter, stop di petto e tiro a volo all’incrocio, Me ne annullarono un altro, presi una traversa. Poteva finire anche 4-0".

"Ricordo che fu un golazo, anche se ho dimenticato come si sviluppò l’azione", afferma Calvanese,  commosso a sentir parlare di Catania, di quella partita. Con un rimpianto. "Dopo aver giocato nel Catania, avevo cominciato ad allenare i ragazzi del vivaio rossazzurro molti erano pronti per diventare titolari. Massimino non voleva saperne. Un giorno (all’inizio della stagione 1971-72 n.d.r.) offre a me la panchina della prima squadra. Io gli dico che preferisco restare con i giovani anche perché non ho il tesserino di allenatore, Lui insiste. La Federcalcio non lo consentì e io rimasi fuori sia dalla prima squadra che da quella ragazzi. Ecco perché ho lasciato Catania".

Ma lui resterà sempre quello di Clamoroso al Cibali. Nato per colpa di Helenio Herrera.

Giuseppe Bagnati

http://www.gazzetta.it/Calcio/Primo_Piano/2008/02_Febbraio/09/cibali.shtml

 

 

 

 

 

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Il "Mago" chiede e ottiene, per la cifra record di 250 milioni, il Pallone d'oro del Barcellona e già Campione d'Europa Luis Suárez. Secondo l'allenatore è il regista adatto ai nuovi meccanismi di gioco, ma un repentino infortunio lo costringe però a rinunciarvi nei primi due mesi del Campionato 1961/62, che l'Inter chiude in seconda posizione.

La Coppa delle Fiere si chiude con l'eliminazione ai Quarti, in Coppa Italia addirittura agli Ottavi. Si mettono però in evidenza i gioielli del vivaio, su tutti Giacinto Facchetti, Gianfranco Bedin e Sandro Mazzola.

 

 

 

 

GIACINTO FACCHETTI.

nato a Treviglio nel luglio del 1942, diventa l'allievo prediletto del "Mago".

Con un fisico da granatiere e una volontà di ferro, "rubato" all'atletica leggera, è l'Inter che si fa morale, rigorosa e puntuale nell'inseguimento dell'obiettivo.

Facchetti è il primo terzino d'attacco della storia del calcio italiano, domina la fascia sinistra, marca e attacca contemporaneamente. Herrera lo proverà anche come attaccante per la facilità realizzativa e nel 1978, quando dirà stop al calcio giocato, Giacinto il "Gigante Buono" avrà realizzato, solo in campionato, un totale di 59 reti.

Un atleta perfetto, un interista controtendenza rispetto al dna "pazzo": Facchetti, grazie al "Mago", è arrivato nell'Olimpo del calcio e vi è rimasto, figura di riferimento all'interno della Società (nel gennaio 2004 è stato nominato Presidente) e delle istituzioni calcistiche, nazionali e internazionali.

C’è anche un altro giocatore, accompagnato da grandi aspettative: il britannico Gerry Hitchens.

Dopo un grande avvio i nerazzurri alla fine del girone d’andata avranno cinque punti di vantaggio sul Milan, ma una brusca flessione primaverile spalanca le porte ai rossoneri che alla fine si aggiudicheranno il tricolore proprio a scapito dei nerazzurri.

Per Angelo Moratti è la goccia che fa traboccare il vaso. Infatti a fine stagione si dimette, salvo poi ritornare sui suoi passi per difendere la squadra dalle accuse di doping lanciate da un giornale romano. Accuse che si riveleranno poi prive di fondamento.

Nonostante questa forte presa di posizione i dubbi che affliggono il presidente sono tanti. Talmente tanti che arriva a pensare persino all’esonero di HH.

Ma ancora una volta rivede le sue decisioni, e quindi Herrera resta allenatore dell’Inter. Anzi, gli rinnova il contratto con un adeguamento dello stipendio e apre ancora una volta il portafogli per compiere altri sfavillanti acquisti. Tarcisio Burgnich dal Palermo, l’argentino Humberto Maschio dall’Atalanta, il brasiliano Jair e Beniamino Di Giacomo nello scambio che porterà l’inglese Hitchens al Torino.

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Sono passati ormai più di quarant'anni dal giorno in cui Helenio Herrera, guardando una prova non soddisfacente di un terzino, disse: "Questo ragazzo sarà una colonna fondamentale della mia Inter".
Lo spilungone bergamasco, nato il 18 luglio 1942, era al suo esordio assoluto in serie A, (21 maggio 1961, Roma-Inter 0-2). Non aveva convinto troppo, ma quella profezia si rivelò abbastanza azzeccata, e una volta inserito nel meccanismo d'orologio che erano i nerazzurri, vide pentirsi i critici.

Alla Trevigliese dei suoi esordi Giacinto Facchetti non era terzino, bensì attaccante, ma una volta arrivato in nerazzurro il Mago lo piazzò in difesa. Il dono della sua antica posizione, lo scatto, era l'arma in più che cercava: un terzino diventato all'improvviso ala, avanzando alla porta rivale.

Inatteso goleador oltre che forte nei recuperi, Facchetti si fece un nome prestissimo nella compagine bausciá ed iscrisse il proprio nome in tutte le prodezze degli anni di oro della Grande Inter.

Senza paura di sbagliarsi, chiunque poteva dire che per il laterale sinistro c'era un Prima e un Dopo Facchetti. Infatti, la sua ascesa fu presa in considerazione presto per il nuovo Commissario Tecnico Edmondo Fabbri, che lo chiama per le qualificazioni della ccccdella Coppa Europea di Nazioni il 27 marzo 1963 contro la Turchia ad Istanbul (vince Italia per 1-0) Per il primo gol deve aspettare 20 mesi, sbloccando il risultato al primo minuto (!) della gara ad eliminazione con la Finlandia, finita 6-1 per gli azzurri.

La annata 1963 é speciale Con 49 punti, 4 di vantaggio sulla Juventus - vendicando la situazione del 1961 - 19 vittorie, 11 pareggi e 4 sconfitte, 56 gol fatti e 20 subiti, l'Inter vince lo scudetto ed arriva l'anno successivo in Coppa Campioni, trovandosi di fronte il Real Madrid e battendolo con due gol di Mazzola ed uno di Milani. Dopo batte anche l'Independiente di Avellaneda in tripla finale (0-1, 2-0, 1-0 a Madrid) ed é il primato interista ad opporsi alla prima Coppa Campioni milanista: campioni del mondo. Il terzino bergamasco riceve lodi in tutte le lingue, ma c'e perplessità rispetto al suo impiego in un ruolo difensivo, dove la velocità viene dosata in ben altra maniera.

La mobilità che Fabbri si auspicava dei suoi terzini in Nazionale, e che Facchetti aveva, non arrivò, principalmente perché i primi due anni in maglia azzurra non significarono per lui la grande svolta che molti si aspettavano, il Club Italia che rinverdirebbe i fasti con una Nazionale interamente italiana. Tanto più che durante il 1965 l'Inter continuava a vincere ancora, rinnovando il titolo nazionale dopo la Pasqua di Sangue con il Bologna dell'anno scorso, continentale contro il Benfica, e mondiale ancora sull'Independiente, stavolta in doppia finale (3-0, 0-0).
Tre lunghezze sul Milan, 54 punti, 22 vittorie, 10 pareggi e due sconfitte, 68 gol fatti 29 subiti, questi i numeri del campionato. Si ripeterà di nuovo nel 1966 con 50 gol, 20 vittorie, 10 pareggi e 4 sconfitte, 70 gol fatti e 28 subiti s'incorona campione di nuovo.

Nel Inter c'era un altro fattore negativo, oltre ai trionfi: la novità della sua posizione lo fa soffrire una strana dualità con Sandro Mazzola, se uno dei due non segna, si comincia a parlare di crisi. Come se non bastasse questo tormentone, i rapporti tra lui e Fabbri si incrinano.
La stagione dei trionfi con l'Inter: la Coppa Campioni del 65Capitano della nazionale in un match contro la BulgariaScoppia tutto dopo un amichevole, giá ottenuti i biglietti per i mondiali inglesi del 1966. Uno 0-0 con la Francia che sollevò le ire dei tifosi proprio come un 0-0 a Varsavia undici mesi prima. Era il momento propizio per far sí che il gruppo interista - emarginato come bloc-co dalla nazionale di Fabbri e sentendosi bacchettato dall'allenatore - passasse proprio allora al contrattacco. Il CT sosteneva di non poter trapiantare un modulo senza il giocatore cardine - Suarez - e i giocatori (Corso e Facchetti in primis) si lagnavano delle scelte del tecnico romagnolo.
“Il vero calcio italiano é quello dell’Inter e non quello della Nazionale italiana”, apre i fuochi alla stampa francese un - a dir poco – insoddisfatto Facchetti, che spiega non aver realizzato reti, sua specialità cardine “perché il signor Fabbri ci proibisce andare avanti. Lui vuole solo pareggiare, e con i soli pareggi non arriveremmo da nessuna parte in Inghilterra”.

Profetiche parole. "Giacinto Magno", come lo chiamò Brera, ebbe dura vita ai mondiali inglesi, specialmente di fronte al russo Cislenko, l'ala che segnó la rete della vittoria dell'Urss, e non meno contro i coreani.
Si macchia cosí della caduta sportiva piú vergognosa del calcio italiano, ma anche questa volta risorge. Dopo la Corea, é fatto capitano a soli 24 anni e riprende con la solita forza la strada.

Mentre l'Inter nel 1967 andava incontro a Mantova e falliva a conquistare una storica tripletta, Facchetti avanzava verso la gloria mondiale. E se qualcuno prima dubitava del suo ruolo, e parlava di crisi e della cosiddetta "alimentazione di guerra", ccccpresto dovette ricredersi. La rivincita giungerà sotto forma della prima e sin qui unica Coppa Europea di Nazioni vinta dall'Italia (1968).
Una Coppa segnata dall' azzardo, una semifinale giocata sul lancio della monetina che Facchetti stesso scelse. Capitano nel bene e nel male, dunque, è tra i giocatori di rilievo ad aver giocato in tutte e tre le Nazionali: Giovanile, B (1 partita ognuna) e naturalmente A.

In Messico, nel 1970, sembrava la volta buona per mettersi in mostra. Smarrito all'inizio come la maggioranza degli azzurri per l'altitudine, la pressione e il caldo, via via il suo gioco andò migliorando, e anche se la finalissima lo vide con il solito "animus pugnandi", finì con un 4-1 sfavorevole agli azzurri, ma con l'orgoglio rifatto. Tra i tanti della Corea che volevano rivincita, Facchetti fu uno che agli occhi di tutti cresce e rinasce.Risultati immagini per facchetti

Anni dopo ricorderà questa altalena: "Mi volevano condannare allo ergastolo quando ci sconfisse la Corea ai Mondiali d'Inghilterra, e quattro anni dopo, quando vincemmo sulla Germania per 4 a 3 in Messico, raggiungendo la finale con i brasiliani, la polizia dovette fare un operazione di sicurezza per evitare che i tifosi prendessero mia moglie ci portassimo in trionfo. Comunque, fra dei tanti difetti, il calcio é una delle poche cose che all'estero fanno parlar bene degli italiani".La Vecchia Guardia inte-rista chiude il ciclo di Herrera: vincerà uno scu-detto con Invernizzi nel 1971 ma non sarà mai lo stesso. Giacinto ammira il Mago oltre ogni limite: la visione e la competenza del suo allenatore lo esaltano. Ne diventa amico, ne canta le imprese, resta affascinato della maniera di affacciarsi al gioco che ha il grande H.H. E Facchetti si avvia alla ripartenza.

I Mondiali di Germania sono il suo canto del cigno, attorno a lui, all'Inter e nella Nazionale i compagni di molte battaglie vanno via oppure si ritirano. E lui resta, consapevole di poter ancora smentire chi lo definisce vecchio e finito.

Nella metà degli anni Settanta, Facchetti chiede a Suarez - diventato allenatore dell'Inter - di provare a fargli fare il libero.
Lo spagnolo resta convinto delle qualità del suo antico compagno: un libero mobile, plastico, un po' troppo "cavalleresco" per i suoi gusti ma infine un grande libero. In questa veste riconquista il posto di diritto e, incredibilmente, ritorna in Nazionale per arrivare al suo quarto mondiale.

Qui arriva la tragedia.
Giocando per l'Inter Facchetti s'infortuna e, stringendo i denti, torna, anche se non in piena forma. Quando Bearzot chiama i 22 per andare in Argentina, in un atto di grande sincerità sportiva, il capitano gli fa sapere di non stare nella forma migliore e chiede al tecnico di scegliere un altro al posto suo.
Andò ugualmente, l'Italia arrivò quarta e per lui fu la prima volta da dirigente accompagnatore.
Il 16 novembre 1977, con 94 partite da capitano azzurro, Giacinto Facchetti lascia la Nazionale con questo record.
Record che fu superato in seguito solo da Zoff, Paolo cccccFacchetti e Uwe Seeler prima della storica Italia Germania 4-3In Nazionale assieme ad un altro mito assoluto, Dino Zoff Maldini e Cannavaro. L'addio per l'Inter comunque arriva il 7 maggio 1978, vincendo 2-1 sul Foggia: nel arco della pulitissima carriera era stato espulso una volta sola.

Dopo esser divenuto rappresentante all'estero per l'Inter, divenne Vicepresidente dell'Atalanta, per poi tornare dai nerazzurri di Milano durante la presidenza di Massimo Moratti col il ruolo di Direttore Generale. Divenne Vicepresidente dopo la morte di Giuseppe Prisco e, infine, Presidente il 19 gennaio 2004, dopo le dimissioni di Massimo Moratti. Malato di tumore al pancreas, Facchetti si è spento a Milano il 4 settembre 2006. Storie di 

http://www.storiedicalcio.altervista.org/facchetti_giacinto.html

 

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L'Inter di Herrera vince il suo primo scudetto, stagione '62-'63, decisivo il successo a Torino sulla Juventus nel cosiddetto Derby d'Italia: 1-0 per i nerazzurri, rete-partita di Sandro Mazzola, classe 1942, figlio d'arte, attaccante con un repertorio di colpi e un'intelligenza ben oltre la media naturale, potente e veloce al tempo stesso, un'altra pagina eterna della lunga e inconfondibile storia nerazzurra (in tutto, in 418 partite con una fedeltà senza macchia, Mazzola realizzerà 117 gol in campionato, 20 nelle coppe europee, 24 in Coppa Italia).

"Il Mago", per regalare a Moratti il primo titolo tricolore, schiera la seguente formazione: Buffon; Burgnich, Facchetti; Zaglio, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Di Giacomo, Suarez, Corso.

La squadra impiega tre anni per vincerlo ma, da allora, continuerà a mietere straordinari successi, inducendo molti a definirla la migliore squadra del mondo del periodo. Herrera, o HH (come viene spesso chiamato), costruisce la sue vittorie con la tattica del catenaccio: in porta c'e Giuliano Sarti, prelevato dalla Fiorentina; la difesa viene guidata dal libero Armando Picchi, capitano di quella squadra e autentico leader; davanti a lui ci sono due marcatori arcigni come Tarcisio Burgnich e Aristide Guarneri.

Sulla fascia sinistra viene attuata la prima rivoluzione tattica di Herrera: Facchetti diventa il primo terzino capace di affondare in avanti e trasformarsi in una vera e propria ala. A centrocampo il regista è Luis Suarez che il mister volle a tutti i costi dopo averlo avuto al Barcellona; con i suoi lanci lunghi Suarez era in grado si servire palloni preziosi, principalmente alla velocissima ala destra Jair. Il centrocampo era rinforzato da Gianfranco Bedin; l'estrosità di Corso dava un tocco di fantasia alla squadra, e in attacco Mazzola fungeva da mezz'ala ed al centro era posizionato Joaquín Peiró.

 

 

 

 

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Anche dopo la conquista del primo scudetto, la prima richiesta che Herrera fa ad Angelo Moratti è quella di una cessione. Il ritornello si ripeterà ogni dodici mesi. Nel mirino del tecnico, Corso, veneto classe 1941, il campione con un piede solo (il sinistro), un artista del pallone. Troppo bravo tecnicamente, troppo geniale nelle giocate, per andare anche e sempre di corsa. Ma il Presidentissimo non cederà mai al ricatto del "Mago", e così vissero insieme felici e contenti. Unione favorita, senza dubbio, anche dai successi che la squadra comincia a raccogliere.

 

 

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Nel 1963 si fece un nuovo salto indietro, ripescando lo stemma tradizionale, quasi del tutto uguale all’originale, salvo l’aggiunta di un cerchio dorato tra quello nero e quello azzurro e un altro cerchio dorato all’esterno di tutto. Questo restò in voga fino al 1979. Nessuno di questi stemmi campeggiava sulla divisa ufficiale, su cui, invece, dalla stagione 1966/67 aveva cominciato a far mostra di sé la stella.

http://www.sportmain.it/2014/07/09/la-storia-del-logo-dellinter-dai-colpi-di-pennello-alle-stelle-rubate/

 

 

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Al terzo anno l'Inter parte con due nuovi acquisti: la riserva del Brasile Jair e Tarcisio Burgnich, che arriva dal Palermo dove la Juventus l'aveva parcheggiato come scarto. Il "Mago" Herrera azzecca gli acquisti che, uniti ai vecchi colpi di mercato, ai giovani ormai affermati e al talento di Mario Corso, dalle celebri punzioni "a foglia morta", trascinano l'Inter verso la gloria. La squadra parte lenta, ma si riprende a metà Campionato e vince quasi tutti gli scontri diretti, come nel brillante 4-0 inflitto al Bologna alla tredicesima di Andata. Dopo la vittoria nel Derby dominato da Mazzola arriva tuttavia la doccia fredda di una sconfitta a Bergamo contro l'Atalanta. Se l'allenatore non dà peso all'accaduto, Moratti raduna furioso la squadra e ordina di far giocare le riserve Bugatti, Bolchi e Maschio al posto di Buffon, Zaglio e Di Giacomo, che il "Presidentissimo" ritiene responsabili della sconfitta. La frustata scuote i ragazzi e l'Inter scavalca il Genoa 6-0. Due mesi dopo la vittoria sulla Juventus, ancora vanto di Mazzola, proietta i nerazzurri verso lo Scudetto 1962/63. La certezza matematica arriva la settimana dopo. Va meno bene la Coppa Italia: l'Inter è fuori ai Quarti.
La vittoria in Serie A qualifica l'Inter in Coppa dei Campioni, e per affrontare la fatica dei due tornei arrivano il portiere Giuliano Sarti, il centravanti Aurelio Milani e il meno celebre Horst Szymaniak. In Europa la cavalcata è trionfale: eliminato l'Everton (0-0/1-0), i nerazzurri infilano Monaco (1-0/3-1), Partizan (2-0/2-1) e Borussia Dortmund (2-2/2-0), raggiungendo la Finale contro il Real Madrid. Si gioca a Vienna il 27 maggio 1964, e in una serata in cui Carlo Tagnin annulla Di Stéfano e Aristide Guarneri ferma Puskás, l'Inter si impone per 3-1 con doppietta di Mazzola e rete di Milani. Il club Campione d'Europa si fa valere altrettanto nella Serie A 1963/64, ma con esiti meno fausti. L'arrancante partenza è compensata da una buona ripresa. La squadra si trova prima in classifica dopo la penalizzazione inflitta al Bologna per l'uso di sostanze dopanti, ma una guerra di carte bollate riporta i tre punti agli emiliani. A fine Campionato Inter e Bologna sono appaiate a 54 punti, e lo Scudetto deve essere deciso sul neutro di Roma: nell'unico spareggio per il primo posto della storia, il Bologna vince 2-0 con autorete di Facchetti e gol di Nielsen lasciando i nerazzurri a bocca asciutta. Va segnalato che, con le regole attuali, l'Inter averebbe vinto il Campionato in virtù del 2-0 totale (0-0/2-0) negli scontri diretti.

È la primavera del 1964. L'Inter di Helenio Herrera domina la scena del campionato italiano; ha già vinto il campionato precedente con quattro punti di distacco sulla Juventus e sembra avviata a fare il bis. La Juventus è staccatissima, il Milan fatica a tenere il passo, ma c'è una squadra che si erge improvvisamente a fare da guastafeste. È il Bologna di Fulvio Bernardini: il "dottor Fuffo" ha compiuto un autentico miracolo, fautore del bel gioco ed innamorato pazzo dello spettacolo, ha insegnato ai suoi ragazzi a giocare in allegria, senza perdersi in troppe alchimie tattiche. Bernardini fa le prove generali nella stagione 1962-63 e si presenta a quella successiva conscio di avere una squadra in grado di puntare al massimo traguardo ed i risultati sono eccezionali, il Bologna incanta, come non succedeva ormai da anni, ed il pubblico va in estasi tanto che Bernardini non riesce a dominarsi. "Cosi si gioca solo in Paradiso !!!" dice al termine di una squillante vittoria.

 

  

Il portiere viene dal Mantova, William Negri e risulta pressoché imbattibile; la difesa è guidata da un grande libero come Janich, supportato da Tumburus, Pavinato e Furlanis; a metà campo ci sono Perani, Bulgarelli, che diventerà il primatista assoluto di presenze rossoblu con 329 partite in serie A, e Fogli, mediano di finissima tecnica; in attacco Ezio Pascutti, un'ala sinistra pazza, come solo i goleador di razza possono essere e poi due stranieri che cordialmente si detestano, ma che in campo si integrano alla perfezione: un mostro di tecnica e di fantasia come il tedesco Helmut Haller, beniamino del presidente che è andato personalmente ad ingaggiarlo in Germania ed il freddo, essenziale danese Harald Nielsen detto "Dondolo", dal gioco scarno ma dal grandissimo fiuto del goal, per il quale stravedono sia Bernardini, sia i tifosi,

Il 1° marzo 1964 è una domenica di festa per i rossoblu, che vincono a San Siro per 2-1 sul Milan, con goals di Nielsen e Pascutti, e prendono decisamente il comando della classifica con due punti di vantaggio sull'Inter e tre sullo stesso Milan. La città è in preda ad una febbre altissima; Haller, Nielsen, Bulgarelli non possono uscire di casa senza essere acclamati dai tifosi eccitati. "Scudetto, scudetto" si urla in ogni strada ed in ogni bar, è un magnifico momento di sport, ma come tutte le cose troppo belle non dura a lungo.

Tre giorni dopo, esattamente mercoledì 4 marzo, un'autentica "bomba" gela l'entusiasmo della città. Viene diffuso dalla Federazione questo comunicato:

"Le analisi effettuate dalla competente commissione sono risultate, all'esame per le sostanze amfetamine-simili, positive per i cinque giocatori del Bologna: Fogli, Pascutti, Pavinato, Perani e Tumburus, sottoposti a controllo dopo la partita Bologna-Torino del 2 febbraio scorso. La presidenza federale ha inoltrato la documentazione alla commissione giudicante della Lega che giudicherà in base all'art.2 del regolamento di giustizia.

Il giudizio avrà luogo nel pomeriggio di giovedì 12 marzo p.v.".In sostanza si dice che il Bologna, che aveva travolto il Torino di Rocco un mese prima, suscitando commenti entusiasti per la modernità e la freschezza del suo gioco, si era "aiutato" con sostanze stimolanti proibite.

Al presidente Dall'Ara, già sofferente di cuore, la notizia è portata con tutte le cautele del caso; il grande dirigente, noto per il suo cinico distacco, scoppia in un pianto dirotto: "Questa non me la dovevano fare". Tutta la città, superato il primo attimo di sbandamento, si organizza in una autentica rivolta contro il potere calcistico. Non c'è chi non veda in questo "colpo basso" al Bologna, una manovra delle grandi squadre del Nord per sottrarre ai rossoblu un primato guadagnato sul campo. La Lega Calcio viene ribattezzata "Lega lombarda" e contro di essa vengono organizzati cortei di protesta, lo stesso sindaco bolognese, Dozza, guida le manifestazioni di piazza. Città tradizionalmente tranquilla, Bologna scopre vocazioni rivoluzionarie e guerrigliere; incolpevoli auto targate Milano, di passaggio per la città, vengono rovesciate e date alle fiamme.

Secondo le norme della giustizia sportiva, è previsto un successivo controllo, in caso di accertata positività, sulle provette di scorta, custodite nei locali della Federazione medici sportivi al Centro Tecnico di Coverciano, sulle colline di Firenze. Ed a questo punto scatta l'operazione a sorpresa di tre avvocati bolognesi (Gabellini, Cagli e Magri) che, sospettando una "congiura" ai danni della società rossoblu, si rivolgono alla Magistratura ordinaria, chiedendo ed ottenendo il sequestro delle provette, prima del secondo esame da parte della giustizia sportiva. In mancanza della contro perizia, la sentenza della Commissione giudicante slitta di una settimana. C'è da dire che, se l'iniziativa dei tre avvocati fosse collegabile al Bologna, la società rischierebbe la radiazione, per aver violato la clausola compromissoria che impone di risolvere le controversie calcistiche nell'ambito della giustizia sportiva e vieta espressamente di rivolgersi alla Magistratura. Ma questi legami non vengono mai provati: ufficialmente, essi hanno agito da "privati cittadini nell'interesse della giustizia".

II 20 marzo, ad ogni modo, la Giudicante esprime il suo verdetto: partita persa al Bologna contro il Torino, un punto di penalizzazione in classifica, 18 mesi di squalifica a Fulvio Bernardini (salvato da più gravi sanzioni, in virtù del suo passato azzurro), assoluzione per i cinque giocatori, perché ignari delle sostanze che erano state loro somministrate. In parole povere, il Bologna perde tre punti, il primato in classifica ed uno sportivo, dal luminoso passato, che viene bollato come "untore".

La squalifica di Bernardini da vita a un curioso caso, chiamato "il giallo della radiolina"; la successiva domenica, quando il Bologna si reca all'Olimpico per giocare contro la Roma; "Fuffo", costretto ad assistere alla partita in tribuna, viene sostituito in panchina dal fido Cervellati, col quale si tiene in contatto grazie ad una piccola radio ricetrasmittente. L'inghippo è colto da un fotografo, il direttore sportivo del Bologna, Bovina, cerca di far sparire il corpo del reato, e viene squalificato per due mesi.

Mentre si attende il giudizio della magistratura ordinaria, la sola che possa effettuare le controperizie sulle seconde provette, il campionato va avanti, ma il Bologna è lacerato da grandi tensioni. In un clima infuocato, lo scontro diretto con l'Inter a Bologna è vinto dai nerazzurri, che paiono così spegnere ogni residuo sogno rossoblu.

Il colpo di scena arriva in maggio: gli esami di controllo, effettuati dalla magistratura ordinaria, rilevano, nelle provette-bis, la completa assenza di amfetamine e di qualsiasi altra sostanza proibita. Quindi è automatico che qualcuno ha dolosamente alterato il contenuto delle prime provette, immettendo in esse tali sostanze per danneggiare il Bologna. Sul piano penale, la scoperta porta all'apertura di un procedimento contro ignoti, sul piano sportivo lo sconcerto è enorme, perché una sentenza degli organi sportivi è clamorosamente sbugiardata dall'autorità dello Stato. Anche i più tenaci assertori dell'autonomia dei tribunali calcistici devono arrendersi. Il massimo ente sportivo italiano, il CONI, chiede alla Procura della Repubblica di Bologna una copia della perizia svolta sulle seconde provette. Tale copia viene passata alla C.A.F. (Commissione di Appello Federale) davanti alla quale pende il ricorso del Bologna contro la sentenza della Giudicante.

Il 16 maggio la C.A.F. assolve il Bologna, Bernardini ed il medico sociale Poggiali, per "non essere stata accertata in forma non dubbia l'infrazione". In sostanza, al Bologna vengono restituiti tre punti, quello di penalizzazione ed i due conquistati sul campo contro il Torino, grazie ai quali ritorna in testa alla classifica, alla pari con l'Inter.La sentenza viene accolta con grandi manifestazioni di giubilo, ma, sul piano dell'accertamento delle responsabilità, neppure il procedimento penale porterà mai a risultati apprezzabili. Il mistero resta ormai definitivamente irrisolto. Il "caso-doping" od il "giallo della pipì", come viene chiamato, è destinato ad alimentare per sempre la leggenda: c'è chi arriva a identificare il "congiurato" in un famoso personaggio che dopo aver vissuto pagine gloriose a Bologna si è trasferito a Milano. Chi, dall'altra sponda, parla di misteriosi e sconosciuti medicinali che il tedesco Haller avrebbe portato dalla Germania, ma resta inspiegabile, in questo caso, l'innocenza delle seconde provette.

Due anni dopo, il Giudice istruttore del Tribunale di Firenze, cui era stato affidato per competenza territoriale il procedimento contro ignoti, archivierà il caso, dopo aver ricostruito puntigliosamente i capitoli del giallo e l'impossibilità di una sua logica soluzione

Così, in un clima avvelenato, il Bologna tiene testa alla grande Inter di Helenio Herrera. Conclude il campionato a 54 punti, alla pari dei nerazzurri; per la prima volta, lo scudetto deve assegnato in una "bella" di novanta minuti, che viene fissato per il 7 giugno allo Stadio Olimpico di Roma.

Quattro giorni prima Renato Dall'Ara, da poco dimesso dalla clinica padovana dove era rimasto ricoverato per gli ormai frequenti attacchi di cuore, sale a Milano per concordare con il suo collega-rivale dell'Inter, il grande Angelo Moratti, i dettagli dello scontro. Pare che ad un certo punto si tocchi il tasto del premio-partita, che Dall'Ara vorrebbe calmierare. I toni si accendono, la discussione divampa, il cuore stanco di Dall'Ara si ferma. La morte lo coglie, dopo trent'anni di governo bolognese, proprio quando sta per riassaporare lo scudetto che andava inseguendo da ventitré anni, da quel 1941 che aveva visto il Bologna laurearsi campione d'Italia per la sesta volta.

La notizia della morte di Dall'Ara raggiunge il Bologna, in ritiro vicino a Roma, come un fulmine a ciel sereno. L'Inter del "mago" Helenio Herrera, intanto, si è appena laureata campione d'Europa a Vienna, sconfiggendo, in una partita memorabile, il leggendario Real Madrid di Puskas e di Di Stefano. Lo spareggio, il primo e sinora unico nella storia del calcio italiano, sembra opporre forze impari, essendo l'Inter nettamente favorita.

Bernardini, però, stupirà tutti con una mossa tattica che sarà decisiva: la mancanza, per infortunio, di Ezio Pascutti e le cattive condizioni del suo sostituto naturale Renna, consigliano a "Fuffo" il ricorso ad un espediente, dovuto anche alla necessità di controllare da vicino Mario Corso, numero undici dell'Inter, ma in realtà ispiratore di gioco a tutto campo. II Bologna, quindi, schiera un terzino, Johnny Capra, all'ala sinistra, con l'incarico di francobollare da vicino Corso. Per mantenere gli equilibri tattici, Haller gioca in posizione più avanzata del solito, funzionando in pratica da spalla offensiva di Nielsen.

Il Bologna si schiera con Negri, Furlanis, Pavinato, Tumburus, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Capra. Risponde l'Inter con Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. L'arbitro è Lo Bello di Siracusa, considerato il fischietto numero uno.

A Roma fa un caldo infernale. Il Bologna, che si è acclimatato trascorrendo la vigilia sul posto, mostra di risentirne meno rispetto all'Inter, che ha scelto di arrivare all'ultimo momento, scendendo dal "fresco" di un paese montano. Alla distanza, i nerazzurri crollano. Il Bologna passa in vantaggio con un tiro di punizione di Fogli, deviato da Facchetti, poi Nielsen raddoppia.

È il trionfo, è il "settimo sigillo" nella storia degli scudetti rossoblu. Bologna accoglie come eroi i reduci dall'Olimpico, ma le imponenti feste decretate non possono fare dimenticare la mancanza del presidente, primo artefice della conquista.

"Quei fatti di allora" disse l'avvocato Giuseppe Prisco, allora vicepresidente dell'Inter "rivelarono la debolezza della Federcalcio e lo strano comportamento della magistratura bolognese di allora. Ma la cosa scandalosa, secondo me, non fu tanto il mistero del doping quanto lo sfacciato aiuto che gli arbitri diedero al Bologna impegnato nella rincorsa all'Inter. Ricordo la partita Bologna-Lazio giocata subito dopo il fatto delle provette: al settimo minuto venne fischiato un rigore inesistente per un "volo" in area del centravanti Nielsen. I giocatori laziali rimasero di stucco e consigliarono l'arbitro di consultare il guardalinee che forse aveva visto meglio e di rimandare l'assegnazione del calcio di rigore ad un'altra occasione più limpida, che certamente sarebbe capitata nel corso della partita, vista l'enorme disparità tecnica tra Bologna e Lazio, che infatti terminò il campionato staccata di ben 24 punti dalla coppia di testa. I rigori decisivi per i rossoblu furono davvero tanti, troppi e così Bologna ed Inter arrivarono allo spareggio di Roma vinto, devo dire meritatamente, dalla squadra di Bernardini".

Giacomo Bulgarelli, uno dei giocatori-chiave del Bologna scudettato. simpaticamente ribattezzato "Drogarelli"' dall'avvocato Prisco, risponde così:

"Di sicuro posso dire che né io né i miei compagni di allora prendemmo anfetamine o qualsiasi altro tipo di sostanze stupefacenti. Tra l'altro le dosi trovate in quelle provette erano sufficienti per uccidere un cavallo e questa fu la prova più valida per confermare che le provette furono manomesse da ignoti. Tutto il resto non conta: lo scudetto lo conquistammo meritatamente sul campo con un recupero formidabile, su un Inter ormai demotivata e paga per la conquista della Coppa dei Campioni".

Ma ancora adesso c'è chi giura che, colpevoli o vittime ignare, quel 2 febbraio 1964, Pavinato, Tumburus, Fogli, Perani e Pascutti avevano corso come leprotti, veloci ed imprendibili.

Bidescu

 

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La formazione della Grande Inter è diventata una di quelle entrate nella storia del calcio italiano, fra quelle che si ricordano a memoria: Sarti, Burgnich, Facchetti... Fra i pali venne schierato, fino al 1963, Lorenzo Buffon, poi scambiato con Giuliano Sarti alla Fiorentina. Sarti divenne uno dei migliori portieri dell'epoca fra i pali dell'Inter.
I quattro difensori arrivarono tutti quanti al successo della maglia azzura, in particolare i due terzini, Tarcisio Burgnich a destra, forte in marcatura, insuperabile di testa, Giacinto Facchetti a sinistra, con le sue incursioni sulla fascia e i numerosi gol che fecero di lui il primo terzino-goleador del calcio italiano. Al centro Aristide Guarneri giocava in marcatura sul centravanti avversario mentre Armando Picchi ricopriva il ruolo di libero. Nemmeno un grande campione
come Saul Malatrasi riuscì a spezzare gli equilibri creati da questi quattro giocatori. Faro del centrocampo della squadra fu senza ombra di dubbio Luisito Suarez, che Herrera aveva fortemente voluto con sé dopo l'esperienza al Barcellona. Alessandro Mazzola invece rimaneva il punto di riferimento per la finalizzazione della manovra, facendo da ponte fra centrocampo e attacco dopo aver cominciato la carriera come attaccante. Mancò invece una figura fissa nel ruolo di mediano, che vide susseguirsi giocatori di calibro come Gianfranco Bedin e Tagnin.
A parte vanno nominate le grandi ali che ebbe l'Inter in quel periodo, su tutti Mariolino Corso sulla fascia sinistra, ma non sono da dimenticare nemmeno Jair e Angelo Domenghini sulla fascia destra. La figura che mancò maggiormente alla Grande Inter fu probabilmente un grande centravanti, ma evidentemente non fu una carenza di peso.

 Inizialmente ricoprirono il ruolo di punte Gerry Hitchens ed Edwing Firmani, ma furono presto soppiantati dall'astro nascente di Mazzola. Inizialmente fu affiancato da un onestissimo Beniamino Di Giacomo o da Aurelio Milani, poi da Joaquín Peiró e da Angelo Domenghini che alternava il ruolo di ala e di centravanti.

Arriva anche la prima Coppa dei Campioni vinta contro il grande Real Madrid. L'Inter vince per 3-1 con i gol di Mazzola (2) e Milani allo Stadio del Prater di Vienna. In quell'anno giunge anche la Coppa Intercontinentale vinta battendo l'Independiente; dopo aver perso la gara di andata in Argentina per 1-0, i nerazzurri vinsero a San Siro per 2-0 con le reti di Mazzola e Corso. Nella terza e decisiva partita giocata allo stadio "Santiago Bernabeu" di Madrid l'Inter vince per 1-0 con gol di Corso nei supplementari.  Solamente lo scudetto viene perso in quell'anno, dopo lo spareggio di Roma giocato contro il Bologna.

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Non una grande finale, in termini di occasioni e qualità delle giocate, ma alla fine l'Inter batte 3-1 un Real Madrid a fine ciclo e succede nell'albo d'oro della Coppa Campioni al Milan. I nerazzurri costruiscono il successo sulla solidità della difesa, sulla ferrea marcatura di Tagnin sul faro madrileno Di Stefano e sulle improvvise e devastanti accelerazioni degli avanti, in particolare del match-winner Sandro Mazzola. Il Real è apparso logoro e declinante, a partire dai suoi uomini chiave, il 38enne Di Stefano, il 37enne Puskas e il 35enne Santamaria.

Inter: Sarti - Picchi - Burgnich, Guarneri, Facchetti - Tagnin - Suarez, Corso - Jair, Milani, Mazzola.

Real Madrid: Vicente - Isidro, Santamaria, Pachin - Muller, Felo, Zoco - Amancio, Di Stefano, Puskas, Gento.

Primo tempo

4' fallo su Mazzola sulla trequarti. Punizione maligna di Corso, Vicente devia in corner con difficoltà. Corner dello stesso Corso, mezza girata di Suarez, Santamaria allontana sulla linea. Inter subito aggressiva.

7' Milani per Guarneri, conclusione violenta dal limite, para Vicente.

11' Mazzola apre per Milani, tiro sul primo palo, Vicente neutralizza.

33' Corso avanza palla al piede, assist per Facchetti, tiro a pelo d'erba, il portiere spagnolo c'è. Gara molto tattica, le due squadre restano guardinghe e affondano poco i colpi.

43' GOL INTER Lampo dei nerazzurri, che passano a condurre. Lancio di Guarneri per Facchetti, che quasi al limite appoggia a Mazzola, rasoiata improvvisa che sorprende Vicente e si infila sul palo lontano.

Secondo tempo

2' finalmente un'azione degna del Real Madrid. Felo avanza e appoggia a Di Stefano, tocco per Gento, diagonale a pelo d'erba, palo pieno. Sulla respinta, Puskas non riesce a ribadire in rete, ben marcato dalla difesa nerazzurra.

8' fallo su Felo al limite dell'area. Punizione tesa e a mezza altezza di Di Stefano, Sarti devia in angolo. Inter troppo attendista adesso, contro un Real Madrid che ci prova, seppur viaggiando al piccolo trotto.

12' conclusione di Felo da fuori, Sarti neutralizza.

15' Muller avanza e lascia ad Arancio, tocco di Di Stefano a sinistra per Gento, conclusione sul primo palo, fuori.

16' GOL INTER Al primo tiro in porta della ripresa, l'Inter raddoppia. Mazzola difende caparbiamente palla su un lungo rilancio e serve Milani, che si accentra e dal limite fa partire un destro potente, Vicente tocca ma non riesce a deviare e la palla si infila nell'angolino.

25' GOL REAL MADRID Corner da destra di Puskas, nessuno interviene, Felo in girata spedisce nell'angolino.

26' Suarez per Mazzola, dribbling secco e tiro da lontano, para centralmente Vicente.

30' spunto di Amancio a destra, tiro-cross insidioso, Sarti smanaccia, ma il pallone rimane in area, tentativo di deviazione di un giocatore del Real Madrid, Picchi salva quasi sulla linea L'Inter sta rischiando adesso.

31' GOL INTER I nerazzurri chiudono i giochi sfruttando un clamoroso errore dei madridista. Rilancio di Milani, Santamaria sbaglia il rinvio in rovesciata, intercetta Mazzola, che si invola verso la porta e batte Vicente con un tocco beffardo sul secondo palo.

 

LE PAGELLE INTER

IL MIGLIORE S. MAZZOLA 8: a 22 anni non ancora compiuti, decide una finale di Coppa Campioni con due meravigliosi gol e un assist. Cosa chiedere di più? Degno di papà Valentino.

Corso 7: Mazzola a parte, il migliore dei nerazzurri, probabilmente il più continuo nell'arco del match. Corsa, tiri pericolosi, aperture e genialità: un centrocampista dal bagagliaio tecnico di prim'ordine.

Tagnin 7: una delle chiavi del trionfo interista. Si incolla a Di Stefano e lo segue ovunque. Per la serie: anche la classe operaia va in Paradiso.

Facchetti 6,5: serve l'assist dell'1-0 a Mazzola, sale spesso per dare manforte ai compagni d'attacco, sbaglia pochissime scelte, mostrando anche intelligenza e ottimo senso tattico.

Suarez 6,5: poco appariscente, ma molto concreto. Una regia nascosta, ma importantissima al servizio del collettivo.

Milani 6,5: fa a sportellate contro la difesa schierata e indovina il gol del 2-0 con un fendente da fuori che sorprende l'incerto Vicente.

IL MIGLIORE FELO 6,5: realizza un gol splendido in stile “kung fu” e non si dà mai per vinto, portando la carretta in mezzo al campo.

Muller 6,5: insieme a Felo è forse il solo del Real Madrid a correre su e giù per il campo, dando l'impressione di non voler mollare.

Di Stefano 5,5: un bel tiro su punizione respinto da Sarti e un paio di tocchi deliziosi per Gento. Come sempre, arretra e organizza il gioco a tutto campo. Ma è oramai in là con l'età (38 anni) e non ha più lo scatto e l'incisività dei giorni migliori. Il canto del cigno di un fuoriclasse senza tempo.

Puskas 5: Di Stefano perlomeno corre e ci prova; lui neppure quello. Spento, poco mobile, mai una giocata di qualità o una conclusione delle sue, di quelle che non lasciano scampo ai portieri. Ha il solo merito di servire Felo per il gol del momentaneo 2-1. Anche lui è al tramonto dopo 20 anni trascorsi da dominatore assoluto delle scene calcistiche internazionali.

Santamaria 4,5: il terzo “vecchietto terribile” del Real, anche lui dimostra di essere arrivato al capolinea. Mazzola, che ha 13 anni in meno di lui, lo salta quando vuole e lo ridicolizza in occasione della terza rete.

Niccolò Mello

http://rovesciatavolante.blogspot.it/2016/07/1964-finale-inter-real-madrid-3-1.html?m=1

 

BRILLANO LE LUCI della grande Ruota nella sera morbida del cielo del Prater.
Nella penombra luminosa dello stadio gli uomini in maglia bianca spiccano nitidi mentre si avviano al centro del campo. E intanto scrutano, con fastidio, le facce anonime degli avversari che l'illusione ottica fa sembrare anche meno numerosi nelle loro maglie scure. Tutti illustri  sconosciuti, per lo più, tranne uno. Quello lo conoscono bene: è, come loro, un "Grande di Spagna". Quasi come loro. I calciatori in maglia bianca sopportano pochi paragoni al mondo. Loro sono, presi in blocco, una leggenda vivente. Anche dall'altra parte, in verità, c'è una leggenda. Ma è solo un'eredità. Una pesante eredità. Il capitano dei bianchi ci pensa un momento, accigliato e scontroso, mentre cerca tra le facce scavate dai fari, poi si avvia, deciso, verso il gruppo avversario. Il ragazzo alto e magro dagli zigomi marcati e gli occhi grandi lo vede e, inconsciamente, rallenta il passo, staccandosi dai compagni. Poi si ferma del tutto, e lo guarda venire. L'uomo è di statura media, un viso abbastanza banale e la fronte stempiata. E un accenno di pancetta nel corpo rotondo. Ma porta come nessuno la camiseta bianca del Real Madrid. Per un attimo si arresta e lo fissa, intenso e severo, nella luce artificiale e fredda, poi chiude veloce lo spazio che ancora li separa e tende la mano: "Sono Alfredo Di Stefano. Conoscevo tuo padre. Sii degno di lui". Sandrino Mazzola prende meccanicamente la mano tesa mentre cerca di scuotersi, e richiama alla mente uno spagnolo scolastico per rispondere qualcosa di sensato. Ne esce soltanto un emozionato, banalissimo, "gracias". Alfredo Di Stefano è sempre stato il suo idolo.
Le 19,30 sono passate da poco a Vienna. E' il 27 maggio 1964.

 

 


 

Dagli altoparlanti dello stadio lo speaker annuncia il programma della serata.
Fra qualche minuto, sull'erba del Prater, l'Internazionale di Milano, campione d'Italia, sfiderà i campioni di Spagna del Real Madrid per contendersi la Coppa nata in un bistrot parigino, quasi una decade fa, dalla fervida mente di Gabriel Hanot. Per gli italiani è la prima partecipazione al torneo più importante del continente europeo. Il Real Madrid, invece, è nato con esso, con la Coppa Europa è uscito dai ristretti confini spagnoli per esportare nel mondo il suo fùtbol-arte. E ora partecipa per la nona volta alla competizione: ha giocato sei finali e ne ha vinte cinque, e stasera cerca, sotto gli occhi di venticinquemila italiani che hanno trasportato San Siro sulle rive del Danubio, una vittoria particolare, la vittoria sul tempo. Seduti accanto agli italiani, cinquecento spagnoli attendono l'evento. Lo speaker intanto scandisce le formazioni delle due squadre.
MAZZOLA le ascolta come in trance, mentre cerca inutil-mente di scuotersi. Ma come si parla a un mito? Eppure quando Puskas lo aveva avvicinato negli spogliatoi non si era sentito così impacciato. "Conoscevo tuo padre, ho giocato contro di lui", gli aveva ricordato, affabile, l'antico capitano della mitica Honved, l'ufficiale dell'armata ungherese in fuga attraverso l'Europa dopo la rivolta del '56. E lui, Sandrino, si era trovato a rispondere con un pizzico di ribalda ironia: "Mio padre l'aveva battuta, Colonnello". Puskas era scoppiato a ridere. La presenza di Di Stefano, invece, lo paralizza.

DALLA PANCHINA dell'Inter due occhi freddi in un volto grinzoso, da zingaro, osservano, scontenti, la scena. Anni prima quella mano era stata negata a lui, platealmente. E Helenio Herrera, detto H.H. oppure "il Mago", non è tipo da dimenticare o perdonare le offese. Al massimo finge di ignorarle, se gli conviene, stipandole nella memoria. E, inoltre, ora lo preoccupa il comportamento di Mazzola. Nonostante un cervellino intelligente e razionale, quel ragazzo nutre una pericolosa visione romantica del calcio e dei suoi eroi, e lui non vorrebbe ritrovarselo imbambolato sul campo. La partita che sta per iniziare è troppo importante: Helenio Herrera questa sera ha molte vendette da compiere. E un sogno da realizzare: distruggere il Real Madrid. Portare a termine il lavoro iniziato sulla panchina del Barcellona, dimostrare al mondo, e agli spagnoli che non lo avevano capito, che lui non è un ciarlatano ma un uomo che ha il coraggio delle sue idee, che è arrivato al successo soffrendo e penando.I Capitani Santamaria e Picchi IL SUCCESSO va a chi se lo merita. E Helenio Herrera lo merita. Con lui il Barcellona aveva vinto un campionato e poi un altro. Una Coppa di Spagna e poi un'altra. Ma a loro non bastava, perché il Real Madrid intanto era il padrone d'Europa. E allora Herrera aveva promesso la Coppa dei Campioni. Ma il suo Barca aveva perso a Madrid, nella semifinale che la sorte gli aveva offerto, e poi anche al Camp Nou. La stampa lo aveva flagellato, e i tifosi lo avevano inseguito, furenti, lungo le ramblas. Così se ne era andato, ma non aveva dimenticato. Il Real è la vostra ossessione, signori, e anche la mia. E troverò il sistema per batterlo, e nutrirmi della sua gloria. Perché la gloria es dinero.
Era emigrato in Italia, alla corte di Moratti, munifico signore rinascimentale del calcio milanese, che da anni aspettava, inutilmente, uno scudetto. Glielo aveva regalato lui, H.H., infine, al terzo tentativo, attraverso un mare di polemiche e una girandola di acquisti provati e scartati. E l'avversione di stanche primedonne che non ne volevano sapere del suo modo maniacale di intendere il calcio, dei suoi allenamenti snervanti, della sua concentrazione feroce. Tutte uguali le primedonne, erano così anche i suoi ungheresi del Barca, contavano solo sul proprio talento. Ma il calcio moderno è ritmo, signori, ritmo più fantasia. E a volte sono più utili gli onesti faticatori di certi campioni sfaticati. All'Inter, sostenuto da Moratti, alla fine l'aveva spuntata, si era liberato di Angelillo e degli "angeli dalla faccia sporca", e ora era qui, nella notte di Vienna, con una squadra che era un mix perfetto di talento e aggressività amalgamati con ferrea disciplina. Era qui per sconfiggere il Real Madrid nella "sua" Coppa dei Campioni.Helenio Herrera, il "Mago" che cambiò il calcio in Italia e portò l'Inter ai successi mondiali PURCHE' TUTTO funzioni alla perfezione, e i ragazzi ricordino la lezione. Sono così digiuni di calcio internazionale! Ma in campo ci sono Suarez e Picchi, si rassicura Herrera. Picchi, il livornese furente, che lui ha scoperto e valorizzato, non lascerà la trincea, e non permetterà agli altri di farlo. E Luisito Suarez, il Grande di Spagna, che Helenio si è portato dal Barcellona, pagherebbe di tasca sua per battere il Real Madrid. Quei due sono gli allenatori in campo. Ma non sono loro la chiave della serata. Vagando per il campo gli occhi di Herrera si fanno dolci per Tagnin. Mentre risuona il fischio d'inizio lui è già appiccicato a Di Stefano, pronto a seguirlo in ogni parte del campo: il più umile dei faticatori interisti sulla strada di Alfredo il Grande. In tanti hanno gridato alla follia, ma Herrera ha fiducia nell'onesto mestiere di Tagnin. Lo aveva ripescato nel purgatorio delle serie minori che scivolava oscuramente verso fine carriera dopo una squalifica di tre anni, lo aveva ricostruito nel fisico e nel morale, e poi proiettato nell'Olimpo del calcio internazionale. Non lo aveva mai tradito, e anche stasera avrebbe fatto la sua parte, in tutta umiltà. Anche Burgnich lo aveva ripescato dalla B, scartato dalla Juventus, e ora era la roccia del suo sistema difensivo. Questa sera si sarebbe preso cura di Gento, la veloce e velenosa ala sinistra del Real che, come Di Stefano, aveva alzato al cielo cinque Coppe dei Campioni, tutte quelle che il Real Madrid aveva vinto nella sua storia. Anche su Burgnich si poteva contare. Sistemandosi comodo in panchina Herrera guarda, senza preoccupazioni, la prima ondata madridista infrangersi contro la sua difesa. Gli va bene così, lui preferisce difendersi.

RIUSCIRE a passare nel primo tempo: l'ossessione spagnola è questa. Al Real Madrid il gioco dell'Inter suscita più timore che ammirazione. E l'undici madrileno, Di Stefano in testa, si prefigge di consacrare in ambito europeo la superiorità del proprio principio, un principio che si fonda sulla formula offensiva, sulla creazione del gioco di manovra a ondate successive, e le incursioni avvolgenti delle due ali. Ma questa è tattica, e la tattica si attua sul campo, e si è sempre in due a darle corpo. Di Stefano sa che non sarà un gioco facile.
 

 

Sulle piste del grande Alfredo, che punta dritto al cuore della difesa interista, Tagnin si sente sorprendentemente calmo. Almeno sul campo non ha più addosso la pressione dei giornalisti. Da giorni son tutti lì a chiedergli se ha mai giocato contro Di Stefano. Siamo matti? Quello è sempre appartenuto, calcisticamente parlando, a un altro pianeta. Lo ha visto, questo sì, tante volte in televisione. Cosa prova? Paura no, emozione neanche. Curiosità, e molta. E la certezza che sarà un maledetto affare tenerlo d'occhio. Per ora, però, li stiamo controllando bene.DOPO LA PRIMA ondata il Real si raccoglie, si fa più guardingo. La cosa preoccupa Herrera che cerca di indovinare il disegno tattico del suo collega spagnolo. Sembra che Munoz non abbia altri progetti, al momento, che le marcature a centrocampo. Ma ammesso che, conoscendolo bene, sappia come marcare Suarez, gli spagnoli non hanno la minima idea di cosa sia Mandrake nelle sue giornate di vena. Già al 5' Corso è lì, che interrompe il forcing madrileno con una stupenda punizione da oltre venticinque metri. Herrera ha un sogghigno dolceamaro. 

Questa sera se lo sorbiranno loro il maledetto mancino pieno di talento e di pigrizia che si fa beffe di lui e gli sbilancia la squadra. Ma è il cocco del presidente, e lui, Herrera, deve tenerselo per forza, e fare miracoli di ingegneria calcistica per raddrizzare un modulo zoppo. Un modulo che raggiunge la perfezione solo perché davanti a una difesa impenetrabile, magistralmente orchestrata da Armando Picchi, opera un Suarez immenso capace di sacrificarsi in copertura e costruire gioco con la potenza di un motore diesel e la classe della sua regia che illumina di lanci lunghissimi e precisi il contropiede della gazzella nera Jair, del dribbling ubriacante di Mazzola e della fatica puntuale di Milani. E del terzino fluidificante Facchetti. Ma in questa notte di maggio, mentre Suarez se ne sta prudentemente raccolto a coprire la difesa, e Mazzola latita, svanito per il campo, il fragile Corso giganteggia nel deserto del centrocampo, e gioca soffici palloni vellutati per parabole impossibili. Ora è ancora in azione, in combinazione con Facchetti e Guarneri che hanno abbandonato la trincea per cercare gloria in avanti. Herrera non ama quello che vede. Le sortite offensive dei due talentuosi della sua difesa rischiano di creare buchi pericolosi. Facchetti deve marcare Amancio, l'ala giovane e velocissima del Madrid, e dovrebbe essere abbastanza per una sera. Guarneri, poi, controlla Puskas, che avrà pure i suoi anni ma anche un tiro micidiale e un intatto fiuto del gol.Alfredo Di Stefano, la stella del Real fu preso sorprendentemente in consegna dall'umile Tagnin: la mossa di H.H. risultò vincenteBRIVIDI di apprensione gelano il Prater nerazzurro alla mezz'ora, quando Amancio semina il terrore nella retroguardia interista. Due minuti dopo è Picchi a intervenire, a portiere battuto, con uno straordinario salvataggio. Ma a poco a poco si spegne l'impeto del Real Madrid. E intanto si è svegliato Mazzola, mentre continua a brillare Corso. E' dal suo piede, "il piede sinistro di Dio", che al 43' parte il lancio che Guarneri vola a raccogliere mentre sulla sinistra scatta Facchetti che riceve e poi passa indietro a Mazzola. Sandrino aggancia al volo e lascia partire un magnifico pallone che si insacca alla destra di Vicente. Per il Real Madrid è come una pugnalata. Le sue stelle di prima grandezza stanno spegnendosi, fisicamente non ce la fanno quasi più. Ma si battono con orgoglio e dignità. L'inizio della ripresa è un festival di gioco merengue: al palo colto da Gento si aggiunge quello colto da Puskas, è un palo come se ne vedono pochi in un campo di calcio, il portiere era battutissimo e il Real avrebbe potuto pareggiare. Invece arriva, al 17', il gol di Milani. Quando una squadra conduce per due a zero va sul velluto, osannano i tifosi. 

Ma quando, sette minuti dopo, Felo segna il gol del 2-1 il Real si scatena. E allora l'Inter comincia a tremare. La squadra bianca scende in massa verso l'area interista e la ragnatela di p ggi che partono dai terzini sembra ogni volta che si concluda a rete. Sugli spalti esplodono l'ammirazione degli austriaci e le speranze degli spagnoli. E' dal 1960 che l'aficiòn madridista continua a vivere un sogno: tornare al Real Madrid dei cinque titoli europei, porre fine ai regni effimeri delle squadre di un giorno che ne hanno usurpato il titolo negli ultimi tre anni. Ma la nostalgia è a  volte tanto cieca come l'amore, pensa Helenio Herrera. A guardare bene si vede che Puskas non riuscirà a piazzare il suo tiro, che Gento non è più Gento, che Di Stefano non ha spazio, e che gli altri,  malgrado i dribbling di Amancio e i raffinati palleggi di Muller, sono troppo pochi per avere ragione di Burgnich, Facchetti, Guarneri e Picchi.

 La difesa dell'Inter si muove all'unisono, elastica e compatta, come Herrera ha insegnato, e in certi momenti par di sentire un'orchestra, tanto perfetto ne è il ritmo. E ALLORA esplode il gioco di centrocampo e di contropiede dell'Inter. Il Real Madrid è subito alle corde. Salta il gioco delle marcature, Jair ubriaca di finte Pachin, Milani e Mazzola con smarcamenti clamorosi nei punti più impensati della metà campo spagnola facilitano i lanci di Suarez e Corso. La terza rete arriva al 31': un errore di Zoco dà via libera a Mazzola. Sandrino scatta e dribbla  a velocità fantastica, mette fuori causa Vicente e lo trafigge con un rasoterra micidiale, stupendo. La notte di reti e di gloria del ragazzo che quindici anni prima era stato vittima di una delle più spaventose tragedie sportive ammaina definitivamente dal pennone più alto del calcio mondiale la bandiera bianca del Real Madrid.

FINIVA quella sera, al Prater di Vienna, la favolosa avventura di una squadra che, grazie alla Coppa dei Campioni, divenne leggenda.

Era cominciata al Parco dei Principi, il 13 giugno 1956, contro il Reims dell'asso Kopa. Si giocava in quel tardo pomeriggio parigino l'ultimo atto del primo capitolo della Coppa dei Campioni. Finì 4-3 per i madrileni, e Kopa fece meraviglie, ma l'undici guidato da un Alfredo Di Stefano presente in tutte le zone del campo provocò lunghi momenti di terror panico negli ammirati spettatori francesi. Negli anni altri grandi giocatori si erano sommati a Gento e Di Stefano: l'uruguayano Santa-maria, Kopa e il profugo Puskas, per esempio, e il Real Madrid era diventato il miglior ambasciatore di Spagna. Il regime franchista era al bando da un'Europa uscita dalla guerra nazifascista, ma ovunque vada il Real le folle si scatenano quando gioca il grande Di Stefano. Ma gli assiMoratti festeggia con i giocatori la conquista della prima Coppa dei Campioni madrileni sono soprattutto gli ambasciatori di un calcio inteso come arte. Un calcio che finisce a Vienna. Al fischio finale dell'arbitro, Moratti corre sul campo in mezzo ai suoi ragazzi: e i giocatori se lo issano sulle spalle, il presidente, mentre i tifosi impazziscono sugli spalti, e Picchi alza in alto, sempre più in alto, l'enorme Coppa d'argento. Dall'altra parte del prato i giocatori del Real Madrid, tutti intorno ad Alfredo Di Stefano, escono a testa bassa dal campo. Per un momento Puskas si volta a guardare, triste, i nuovi padroni d'Europa, poi segue i suoi compagni. Il re è morto. Viva il re.

 

 

INTER-HERRERA: I DUE NOMI MITICI DEGLI ANNI '60
di IGOR PRINCIPE
Gli anni Cinquanta, come abbiamo visto nella precedente puntata, cambiano il volto del sistema calcio. L'avvento della televisione e la nascita di squadre-mito (l'Ungheria di Puskas, il Real Madrid dello stesso magiaro e di Alfredo Di Stefano) sono i due elementi che più di tutti contribuiscono a fare dello sport più popolare al mondo un vero e proprio spettacolo. La trasfigurazione si completa a metà degli anni Sessanta grazie ad una squadra italiana: l'Inter. Dal 1954 ne è presidente un petroliere milanese, Angelo Moratti.
Dopo sei anni opachi quanto a risultati, il massimo dirigente chiama ad allenare i nerazzurri Helenio Herrera, argentino di origini spagnole che alla guida del Barcellona ha riscosso buoni risultati. L'ingaggio - 100mila dollari annui più i premi partita, inclusi quelli delle squadre giovanili dell'Inter - rende la misura del valore dell'uomo, che si autoproclama "mago" e stupisce i calciofili per la scarsa importanza che ripone negli schemi di gioco.

Il giornalista Gian Paolo Ormezzano, in un suo libro, ha scritto che Herrera "preferì intitolare tutto a se stesso, ai propri metodi spinti di allenamento, alla carica che in qualche maniera, dialettica o chimica, riusciva a impartire alla squadra. Ma la vera rivoluzione (…) consistette soprattutto nella costruzione totale della figura del tecnico, il quale divenne autenticamente mago, in possesso di poteri altissimi sul corpo e anche sull'anima dei suoi adepti, cioè dei suoi giocatori". Poteri che esercita con una concezione maniacale del calcio, che arriva a totalizzare la vita di chi lavora ai suoi ordini. Ai difensori, per esempio, pochi giorni prima di ogni partita consegna una fotografia dell'attaccante che devono marcare, intimando loro di portarsela anche in bagno. La sua, ad ogni modo, è un mania dai risvolti positivi, che non coinvolge l'impegno mentale dei giocatori anche nell'aspetto tattico.

In altre parole, Herrera non è un fanatico degli schemi. Anzi: degli undici che vanno in campo, ben quattro giocano soprattutto sulla fantasia: lo spagnolo Suarez, Mazzola, Corso, e il brasiliano Jair. Tra questi, il primo è ricordato per la capacità di lanciare il pallone per oltre quaranta metri con millimetrica precisione; e Corso per aver inventato il tiro "a foglia morta", che prima faceva impennare il pallone e poi, d'improvviso, lo lasciava cadere in rete, alle spalle del portiere. Con loro (e con altri campioni quali Facchetti, Burgnich, Picchi, il portiere Sarti) l'Inter di Herrera passerà alla storia. Non tanto per le vittorie nel campionato italiano (nel 1963, '65 e '66), quanto per quelle in campo internazionale.
Nel 1964, allo stadio del Prater di Vienna, i nerazzurri conquistano la Coppa dei Campioni battendo in finale il fortissimo Real Madrid, bissando il successo italiano ottenuto l'anno prima dal Milan. Nel 1965 raddoppiano, nella finale di Milano vinta 1 a 0 contro il Benefica. Non contenti del primato in Europa, i ragazzi di Herrera si impongono anche a livello mondiale, vincendo due coppe Intercontinentali consecutive ('65 e '66) battendo in entrambe le occasioni gli argentini dell'Independiente. In questo modo, l'Inter non solo scrive pagine memorabili nella storia calcistica mondiale, bensì imprime il suo marchio nel costume del Paese, contribuendo ad alzare il volume di quel "boom" che ne scuote l'economia e il modo di vivere.

 

 

 

 

IL MAGO DICE ADDIO
Di Lorena Lathrop C.
Helenio Herrera (1918 - 1997). Era geniale , unico , inimitabile. HH, come lo chiamavano nella penisola, fece la sua apparizione nel calcio italiano di scatto, e questo non è mai tornato lo stesso. L'undicesimo allenatore che il facoltoso industriale Massimo Moratti aveva portato per il suo club, l'Inter, era già un trionfatore in Spagna con il Barcellona, merito che convinse il presidente ad affidargli il suo gioiello favorito.

Appena arrivato, Herrera cominciò ad imporre la propria legge. Giunto a San Siro per la prima volta, il pubblico non lo accolse con clamore, non perché non fosse di suo gradimento, ma soprattutto perché a quei tempi andare allo stadio non voleva dire urli, riservati solo per gli avvenimenti in campo. Questo comportamento colpì il Mago, che andò dal presidente e a forza di insistenze, ottenne la fondazione del primo Inter Club della storia nerazzurra (si chiamò I Moschettieri ed è tuttora esistente)

Poi, rivolse le sue attenzioni al lato sportivo. Quel che Van Gaal faceva nel Ajax poco tempo fa lo fece prima Herrera: tra i suoi incarichi e alle sue dipendenze si trovavano TUTTE le squadre giovanili e otteneva premi per ogni punto che conquistava ognuna di queste, dai Pulcini alla Primavera. In quest'ultima squadra, guidata ai tempi da Peppino Meazza, vide un gruppo di giovani che seguì con molta cura.

Ed il momento di farli debuttare giunse nel 1961, in maniera abbastanza atipica: il Mago andò su tutte le furie per il rifiuto della Federazione e della Juventus di cambiare una partita di campionato, prese la squadra "Primavera" e la gettò nella mischia. La Juventus di Sivori e Charles vinse 9-1 ed il gol della bandiera fu opera di Sandro Mazzola.

Herrera fece cambiamenti anche a tavola, mettendo restrizioni nel cibo (molto più scarso di prima; la ricerca di pietanze 'sazianti' divenne sempre più meticolosa). I giocatori erano anche costretti a cambiamenti radicali nella propria preparazione fisica: c'era la concentrazione (l'attuale 'ritiro') prima e dopo le partite, per evitare che andassero a cercare svaghi per una vittoria o 'anime consolatrici' per una sconfitta.

Famosa la polemica dopo la Coppa Intercontinentale del '65 nella quale, dopo il rifiuto di Herrera di dare loro un giorno libero, gli interisti scapparono alle loro case. Tornarono il giorno successivo e trovarono un Helenio Herrera "muto": non volle dare la formazione, partecipare all'allenamento, e rimase da parte. Si giurarono di vincere il campionato, e lo fecero... con HH che continuava a rimanere "muto"

Con le stelle della squadra aveva sempre in corso delle polemiche. Emblematico il caso di Sandro Mazzola. Sposato dopo la fine della stagione 63-64 (quella della "Pasqua del Sangue" tra Inter e Bologna a pari punti, c'era aria di campioni in casa Inter), testimone lo stesso Mago. Luna di miele? Macchè luna di miele: per la partita decisiva, Helenio Herrera "bussa alla porta" e senza voler sentire ragioni, lo porta in ritiro per lo spareggio con i rossoblù.

Addirittura, il Mago fece il seguente commento, destinatario Sandrino: "Finchè l'Inter non sarà campione, non c'è matrimonio che valga!". Nemmeno "fresco di nozze" era permesso ad un giocatore abbandonare le proprie responsabilità.

Non era tutto. Tappezzava i muri dello spogliatoio con consegne varie (ad esempio, "Il giocatore che non si è dato interamente sul campo, non ha dato nulla di sè"). Una volta diede una multa ad un giocatore a cui chiese che cosa avrebbe fatto la domenica seguente. Lui disse "vado a giocare a Roma". Per la sua somma sorpresa, ricevette una multa di 5.000 lire. "Doveva dire 'vado a vincere a Roma' ", si esaltò il Mago.

Riuniva i suoi giocatori e li arringava: "Vinceremo perché siamo i migliori! Qualcuno qui ne dubita?". Giunse a chiamare i suoi ragazzi prima delle partite per "pregare il pallone". Poco ortodosso, ma funzionava.

Avrebbe potuto essere C.T. dell'Italia negli strani (per gli azzurri) anni Sessanta; all'ultimo minuto, però, entrò in contrasto con tutti. Andò ad allenare la Spagna e poi ritornò all'Inter.

La formazione con cui sorprese il mondo fu: Giuliano Sarti, Tarcisio Burgnich, Aristide Guarnieri, Giacinto Facchetti, Armando Picchi, Luis Suárez, Mario Corso, Jair da Costa, Sandro Mazzola, Joaquín Peiró e Bedin.

Il suo sistema era semplice, uscito dal modulo creato da Karl Rappan: "verrou", lo chiamava lo svizzero, e "catenaccio" lo chiamò Herrera. La sua forza si basava su una difesa con un libero fisso (Picchi, che fu oggetto di polemica perché non usciva mai dall'area), un altro difensore centrale (Burgnich) e due 'finti' difensori/fluidificanti di fascia (Facchetti e Guarnieri) rapidi e concreti.

Complemento ideale a questo sistema di gioco veniva dall'azione dello splendido Luisito Suárez, che faceva da regista nel centrocampo. Era la fonte da cui bevevano Jair e Mazzola, specialmente quest'ultimo, grande goleador.

Ottenne tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali, dopodiché la squadra e lui stesso andarono in declino. Passò alla Roma, poi volle ritornare, ma un infarto lo costrinse a lasciare tutto come un sogno.

Visse i suoi ultimi e vitali anni a Venezia, si mantenne come consulente di Massimo Moratti, figlio di Angelo. Mesi fa, gli aveva proposto di rifondare la Grande Inter con Facchetti come allenatore e lui stesso come d.t.. Quando morì il 9 di dicembre scorso, il suo legato, il taccuino con le sue idee, fu consegnato al suo discepolo prediletto: appunto, Giacinto Facchetti.

Una preferenza tinta d'aneddoto. Nel suo debutto in A con le giovanili l'anno '61, non giocò bene, ma il Mago assicurò a chi volesse ascoltare che quel ragazzo sarebbe uno dei pilastri della squadra. Ebbe ragione.

Oggi, Helenio Herrera riposa a Venezia, in un luogo alto ed al sole, come era suo desiderio. Ai funerali, Sandro Mazzola ricorda il fascino che aveva su di loro, "merito di una grande personalità."

Gli devono la stella, la gloria, la organizzazione, una raccolta di aneddoti gigante e ricca di ricordi che i suoi ragazzi, oggi, cercano in ognio modo di non far andare perduta. Invano. Solo lui aveva nelle sue mani la magia per fare quello che fece, e riportarla qui, adesso, è già impossibile.

Le sue vittorie e prodezze si sono perse nella nebbia di un passato vicino, e allo stesso tempo irraggiungibile. Tutte le sue note, contenute nei quaderni, hanno sapore di nostalgia adesso che se ne é andato. L'Inter vuole essere campione e dedicargli il titolo.

Solo uno? Non è abbastanza. Sarebbe meglio fare ritornare alla Milano nerazzurra lo splendore, il fasto che mancano da quando lui ha smesso. Quello sarebbe un regalo che renda onore alla sua grandezza . Sarebbe il miglior regalo postumo che il Mago HH avrebbe voluto ricevere.

 

 

 

 

L'anno seguente l'Inter torna a dominare: vince di nuovo lo scudetto e ancora la Coppa dei Campioni, questa volta proprio a San Siro. Sotto un vero e proprio diluvio supera, infatti, il Benfica per 1-0 con gol di Jair. Arriva di nuovo anche la Coppa Intercontinentale, ancora contro l'Independiente. A San Siro l'Inter vince 3-0 con gol di Peiró e doppietta di Mazzola, poi fece 0-0 in Argentina. Nella stagione 1965/66 arriva il terzo scudetto, con l'Inter che domina dall'inizio alla fine del campionato.

La nuova Stagione inizia con un importante trofeo: la Coppa Intercontinentale. Il cattivo inizio con la sconfitta 1-0 in Argentina è appianato da un 2-0 a Milano. La vincente fra i nerazzurri e l'Independiente deve essere determinata il 26 settembre sul neutro di Madrid, dove l'Inter batte gli avversari con un 1-0 siglato da "Mariolino" Corso, laureandosi Club Campione del Mondo per prima in Italia. 

 

 

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GIANFRANCO BEDIN. Bedin, una vita da mediano. "Quando marcavo Pelé e Rivera". Numero 4 della Grande Inter, oggi osservatore per conto di Mourinho.

MILANO, 6 agosto 2009 - Un altro calcio: "Si marcava a uomo: il 2 sull’11, il 5 sul 9, il 3 sul 7. Il 6 faceva il libero». E il 4? «Il 4 andava sul 10. Matematico". Gianfranco Bedin, classe 1945, da San Donà di Piave, in Veneto. Un grande "quattro" - a volte "otto" - dell’Inter, tra Tagnin e Bertini, e prima di Oriali. Se Bedin fosse nato nel ’55, Ligabue l’avrebbe dedicata a lui la canzone sul mediano, che sta sempre lì nel mezzo a recuperar palloni.

"Ho marcato Pelé, in due occasioni contro il Santos. Nei derby prendevo Rivera. Nella finale di Coppa Campioni ’65, contro il Benfica, mi appiccicai a Eusebio, che però era una punta. Pigliai Netzer contro il Borussia a San Siro, non nel 7-1 della lattina in testa a Boninsegna. Contro la Juve tallonavo Haller. Ne ho seguiti di fenomeni". Il migliore? "Pelé. Fuori concorso. Uno che faceva sparire la palla così non l’ho più affrontato. In quelle due partite più di una volta mi chiesi: "Vabbé, mi ha saltato, ma il pallone dov’è?". In Italia il numero uno era Gianni Rivera". Che si lamentava delle carezze di Bedin. "Gianni non sopportava di essere toccato e io gli stavo addosso, gli "tiracchiavo" la maglia. Non gli facevo male: lo pizzicavo, lo innervosivo, e lui perdeva lucidità". Astuzie e anticipi. Voce del verbo anticipare: "Ogni mediano sa che il modo migliore per rubare un pallone è arrivare un attimo prima". Marcando marcando, Bedin vinse tre scudetti, una Coppa Campioni e una Intercontinentale.

Gianfranco Bedin oggi: ha 64 anni.  Non ci sono più i "quattro" di una volta. "E’ cambiato il modo di giocare, oggi si marca a zona. E’ raro che ci si incolli a un avversario". La tattica non spiega tutto, però. "No, c’entra la fame. Noi si veniva dalla miseria e il calcio era l’unica maniera per uscire dai ghetti. A San Donà abitavo in una baraccopoli, "Mauthausen" la chiamavano. Se pioveva, il tetto non bastava, ci voleva l’ombrello. Io da ragazzo andavo a fare il cottimista nella fabbrica delle carrozzine: più ruote montavo e più soldi portavo a casa. Il calcio era l’unica possibilità di fuga. Dalle mie parti sono venuti fuori tanti giocatori. Cereser e Salvori, per dirne due cresciuti con me. Negli oratori si giocava fino all’esaurimento, spesso a piedi scalzi per non rovinare l’unico paio di scarpe che ci serviva per andare in giro. Oggi i ragazzi vanno alle scuole calcio, hanno playstation e cellulare. Diverse motivazioni, altre opzioni. Noi eravamo posseduti da una feroce voglia di arrivare. Io i miei numeri "dieci" li avrei inseguiti ovunque: al bagno, a casa".

assicurazioni — "Smesso di giocare, mi sono buttato sulle polizze, come il mio amico Facchetti. Agente della Ras, assicuravo calciatori. Arrivai ad averne mille e cinquecento in portafogli, Rummenigge il primo. Ho studiato, ho fatto le medie a 45 anni. L’agenzia l’ho chiusa nel 2005 perché il gioco si era fatto pesante. Cifre insostenibili per me".

"Così mi sono ributtato a capofitto nel calcio. Faccio l’osservatore per l’Inter, visiono gli avversari e scrivo relazioni che finiscono nelle mani dei collaboratori di Mourinho. Ogni tanto vedo tornei giovanili. Nei giorni scorsi sono stato all’Europeo Under 19 in Ucraina, ho notato tanti ragazzi interessanti nella Serbia". La sua scoperta più bella? "Pelé". Ancora? "Parlo del Pelé portoghese, lanciato dall’Inter due anni fa. Il centrocampista". Da un Pelé all’altro, la vita si marca a uomo. E’ questa la lezione di Bedin, numero quattro per sempre.

Sebastiano Vernazza (ha collaborato Alberto Francescut)

 

 

 

 

In Campionato l'inizio non è dei migliori, tanto che a fine gennaio il Milan ha sette punti di vantaggio. In una rimonta durata due mesi l'Inter vince 5-2 il derby, portando il distacco a un solo punto, e opera il sorpasso battendo 2-0 la Juventus a Torino mentre i cugini perdono in casa contro la Roma. Alla fine della Serie A 1964/65 si aggiungono altri due punti di distacco: l'Inter è Scudetto.

Nel frattempo prosegue il cammino in Coppa dei Campioni inanellando un eclatante 6-0/1-0 alla Dinamo Bucarest, un più sofferto passaggio contro i Rangers (3-1/0-1, rischiando di andare allo spareggio) e un'incredibile eliminazione del Liverpool, che dopo aver vinto 3-1 in Inghilterra è travolta dai nerazzurri 3-0 a San Siro. La finale per l'Inter si gioca in casa, ma la vittoria non è così scontata: sotto una pioggia scrosciante entra solo il tiro di Jair, ma basta per fare dei nerazzurri i nuovi Campioni d'Europa. Manca un solo trofeo al grande slam: è la Coppa Italia. Il 29 agosto a Roma si gioca Juventus-Inter, ma la supremazia nerazzurra dimostrata in tutti gli altri tornei non si fa vedere. Con una rete di Menichelli, i bianconeri tolgono alla Beneamata l'ultimo trofeo.

 

 

 

E' il 9 settembre 1964, l'Inter va alla conquista del mondo. L'avversario, per la finale della Coppa Intercontinentale, è l'Independiente di Avallaneda, il club campione del sudamerica. Si gioca in uno stadio "bolgia", Herrera ha riscaldato gli animi ("non me ne frega nulla dei tifosi avversari"), i nerazzurri marcano "hombre a hombre", non concedono metri agli argentini allenati da Manuel Giudice, scagliano la palla in tribuna davanti a ogni possibile pericolo. La resistenza umana e atletica dell'Inter campione d'Europa viene annullata dall'errore del portiere Sarti, una papera clamorosa: Independiente 1-Inter 0. Si riparte a San Siro, due settimane dopo, il 23 settembre. Non c'è partita. I nerazzurri dominano, trainati dal pubblico: 2-0, reti di Mazzola e Corso. Per assegnare la Coppa Intercontinentale serve una terza gara, la "bella". Si gioca a Madrid, il 26 settembre, stadio "Santiago Bernabeu", il tempio del Real. Herrera sostituisce Mazzola con Peirò, Burgnich con Malatrasi, Jair con Domenghini. Scelte discutibili. Infatti i nerazzurri soffrono e rischiano, alla fine dei tempi regolamentari il migliore in campo risulta Sarti, che para tutto e di più. Notte drammatica, senza fine. Si racconta di una Milano in religioso silenzio, in attesa di notizie da Madrid. Tempi supplementari, fatica immane per gli atleti, campo pesante, gara spezzettata. Serve un colpo di genio per rompere l'equilibrio. E chi, se non Corso, può inventare? Infatti, come volevasi dimostrare, l'Inter passa in vantaggio con il suo "Mandrake" al minuto numero 6 del secondo tempo supplementare: lancio di Milani, cross di Peirò, controllo di petto e sinistro vincente di Corso. E' il trionfo, l'Independiente s'inchina, il popolo nerazzurro scende in piazza: Inter sul tetto del mondo.  ù

 

 

 

 

 

SANDRO MAZZOLA. Da mascotte del Grande Torino con papà Valentino ai trionfi con l'Inter e la Nazionale: giovedì il compleanno del fuoriclasse. "Rocco mi voleva al Milan. Disse: con te e Rivera facciamo 100 gol. Devo tutto ad Angelo Moratti con Massimo è finita sopo una puntata della Domenica Sportiva"
di GIANNI MURA (La Repubblica, 5.11.2012)

 

VEDANO AL LAMBRO (Monza) - Arrivare ai 70 anni con la lucidità di Sandro Mazzola, firmo subito. Una memoria incredibile. Mai pensato che se oggi avesse vent'anni e pesasse come allora lo rovinerebbero in palestra? "Be', il Mago ci ha provato. Pesavo 63 chili. Dopo tre mesi ero aumentato di tre etti. Fine dell'irrobustimento". E arruolamento, da parte di Brera, tra gli abatini. "Io, Rivera, Bulgarelli, De Sisti e non so chi altro. Ho saputo dopo, perché a quei tempi c'era un gran rispetto dei ruoli e non andavo certo a chiedere il perché a Brera, che c'era di mezzo mio padre. Secondo lui, il miglior centrocampista visto in azione. E ci credo, mio padre era uno che sapeva difendere, ma capace di vincere la classifica cannonieri. Ricordo la sua mano sulla testa, quando si entrava al Filadelfia e io ero la mascotte del Toro, mi sembrava che noi due insieme potessimo spaccare il mondo. Ero già convinto, con la presunzione dei bambini, di essere un buon calciatore perché segnavo su rigore a Bacigalupo, ma segnavo perché lui faceva passare apposta i miei tiri".

Quanto pesava chiamarsi Mazzola? "Per me era un infinito orgoglio, una favola che s'è interrotta troppo presto. Non avevo ancora realizzato che mio padre aveva lasciato mia madre, che abitava a Cassano d'Adda con mio fratello, e io stavo con lui e la nuova compagna a Torino". Né poteva realizzare il disagio di un viavai di carte bollate, avvocati, carabinieri, per stabilire con chi dovessero vivere i figli di Valentino e perfino il luogo dove seppellirlo. Il 20 aprile del '49, a pochi giorni dalla tragedia di Superga, Mazzola aveva sposato a Vienna la diciannovenne Giuseppina Cutrone. Non si poteva divorziare, allora, e come molti italiani Mazzola per l'annullamento del matrimonio precedente s'era rivolto al tribunale di Ilfov, in Romania.

"Per me era un orgoglio, un punto di riferimento. Nelle squadre giovanili giocavo col suo numero di maglia, l'8. E non mi sentivo una punta, è stato Herrera a inventarmi attaccante. Più o meno consciamente, cercavo di essere come mio padre. Una volta in prima squadra, il 10 toccava al regista ed era già sulla schiena di un grandissimo come Luisito Suarez. Avrei accettato qualunque maglia pur di giocare in prima squadra, dopo aver rischiato di andare al Como, perché all'inizio il Mago non mi vedeva granché bene. È stato Moratti padre a impormi, all'inizio seconda punta dietro a Hitchens, poi prima punta. Ma per anni, molti anni, ho sentito un sacco di gente mugugnare: quello lì, quel magrettino lì se si chiamasse Brambilla sarebbe ancora all'oratorio. Quello lì ha solo il nome, di suo padre, il resto è fuffa. Quel fil di ferro non è da Inter. È una musica che m'ha accompagnato da quando Lorenzi mi portò all'Inter, e fino alla certezza di essere titolare. Devo tutto ad Angelo Moratti in primis, e poi a Herrera".

Una pausa, un tiro dal sigaro toscano. "Lorenzi in campo meritava il soprannome di Veleno, ma fuori era una bravissima persona. Molto religioso. Era convinto che, prendendosi lui a cuore la sorte di due orfanelli, io e Ferruccio, Dio lo avrebbe ricompensato. Ma era anche grato a mio padre. Pozzo convocava Lorenzi ma non lo faceva mai giocare in Nazionale. Signor Pozzo, proviamolo almeno una volta, disse mio padre, e Lorenzi esordì. Anni bellissimi, sembra ieri. Due campioni del mondo per istruttori, prima Gioannin Ferrari e poi Meazza, il grande Pepp. Per noi ragazzini il bello era quando veniva la primavera e lui faceva le partitelle insieme a noi. Uno spettacolo. Fine psicologo, anche. La prima volta che tornai a Torino, da giocatore, c'era Meazza in panchina. Nessuno del Toro s'era mosso per me, neanche il presidente Novo, e sì che mio padre aveva chiamato mio fratello Ferruccio, il nome del presidente. C'era però Zoso, il magazziniere. Mi portò nel loro spogliatoio e mi mostrò il mio armadietto, ancora lì, conservato. Mi venne da piangere. Poi giocai la peggior partita della mia vita. Uscendo dal campo Meazza mi mise una mano sulla spalla: "Ho capì tütt, Sandrino, lassa stà"".

Altra pausa, altro sbuffo di fumo. "Meazza sapeva esser duro, all'occorrenza. Ricordo una partita al campo Bramante, giocavo ala destra, piccolo e mingherlino com'ero a 15 anni. Un compagno, Galli, non mi chiudeva mai il triangolo. Gli ho gridato dietro qualcosa di poco carino. Ci sentiamo ancora, con Galli, fa il portantino in un ospedale della zona. A fine partita Meazza mi fa. "Ohei ti, Pastina, mi ho vinciü dü campionà del mond e ho mai vôsà adré a un mé compagn. Se te ciapi un'altra volta a criticà un compagn, ti te giughet pü al balùn". Non era un modo di dire, allora c'era più rispetto, nemmeno a pensarci di mandare a quel paese l'allenatore. Foni esigeva di essere chiamato dottore, non mister. Herrera dava del lei ai giocatori. La metà di quello che si insegna oggi a Coverciano è farina del Mago. Un po' l'ho rivisto in Mourinho, ma intanto è cambiato tutto nel calcio. Anche gli arbitraggi: in un derby Zignoli mi fece 36 falli, nessuno cattivo, ma sempre 36. Nemmeno ammonito. Allora, la preparazione era fatta di giri di campo, corsette, salti alla corda. Herrera, subito il pallone. Anche con le mani, per migliorare i riflessi. Cosa mai vista prima. A me andava benone, a basket ero un discreto play, mi capitò di fare un provino per il Simmenthal di Rubini e Riminucci, ma la passione per il calcio, per quello che volevo dimostrare, era più forte. E comunque al Simmenthal presero Ongaro, mio compagno di banco".
Continua a considerare l'Inter la sua casa. "Ci sono entrato da piccolo, non ho mai avuto un'altra maglia. Ho detto di no due volte ad Agnelli e due a Boniperti, e so che Rocco mi avrebbe voluto al Milan. L'ho incontrato una volta vicino all'Assassino, il suo ristorante, m'ha detto che giravano voci su un cambio tra me e uno dei loro. "Con te e Gianni insieme, e uno che la butta dentro, facciamo cento gol". Se son rose fioriranno, gli dissi, ma al Milan non sarei mai andato. E non perché c'era Rivera. Eravamo diversi, per questo potevamo giocare insieme e Rocco, che sapeva di calcio e passava per catenacciaro anche se giocava con tre punte, l'aveva capito. Con Rivera eravamo amici, c'era stima reciproca e c'è ancora. Insieme a Bulgarelli, De Sisti, Juliano, Castano nel '68 abbiamo fondato il sindacato calciatori, l'idea di Campana presidente fu di Bulgarelli, che ci aveva giocato insieme a Bologna. Fu etichettato subito come sindacato dei miliardari, ma noi, capitani delle grandi squadre, ci mettevamo la faccia per i colleghi più deboli. Allora, col vincolo, se un allenatore o un presidente dicevano che ti facevano smettere di giocare, smettevi davvero. Alle prime riunioni a Vicenza io e Gianni andavamo di nascosto, come carbonari, prendendo il treno".
Sulla rottura con l'Inter c'entra ancora il passato. "Mi aveva chiamato Tosatti alla Ds per parlare di mio padre. Invece l'argomento del giorno era Capello, che aveva raggiunto l'accordo con l'Inter ma poi Moratti ci aveva ripensato. Filippica di Tosatti contro Moratti. A quel punto potevo fare due cose: o andarmene, come aveva fatto Bettega ai tempi di Brera, o far finta di nulla, non buttare altra legna sul fuoco. Il giorno dopo il presidente mi accusò di non averlo difeso e fu l'inizio della fine con l'Inter". Va e torna nel discorso, Valentino. Chi vuole saperne di più può leggere, ammesso che lo trovi, "La prima fetta di torta" (Rizzoli, 1977) scritto da Mazzola con Luciano Falsiroli. Oppure, uscirà fra poco, "Volevo stare davanti alla porta" (ed. Limina) scritto con Marco Civoli. Mazzola ha 70 anni, una moglie, Graziella, sposata nel '64 (conquistata ballando "Il cielo in una stanza"), quattro figli e sette nipoti. Può essere eletto presidente della Figc lombarda. Idee ne ha. Ma non posso andar via senza parlare di staffetta.

"Una cosa così poteva succedere solo in Italia. Nel '70 il Brasile aveva quattro numeri 10, come la Francia di Hidalgo nell'82. La finale col Brasile, inizio alle 12 messicane, nacque male. Hai presente la foto del primo gol, Pelé di testa? Bene, avevi notato che Pelé salta dritto mentre Burgnich è sbilenco? Valcareggi già alla vigilia ci aveva dato le marcature. Bertini su Pelé, Burgnich su Rivelino. Mah. Discutemmo tra noi, era più logico il contrario. Io con Valcareggi non parlavo dal '68, ci mandammo De Sisti. Missione fallita. Il mister decise che saremmo partiti come diceva lui, semmai si sarebbe cambiato a gara in corso. E dopo pochi minuti già gli facevamo segno di cambiare, Pelé stava di punta e Rivelino più indietro. Decise il cambio nel momento sbagliato, su una rimessa laterale dei brasiliani in attacco. Furbi, si accorsero del movimento in difesa, palla a Rivelino, cross a spiovere, nemmeno teso, e inzuccata di Pelé, Burgnich salta sbilenco perché non ha ancora recuperato la posizione. Nell'intervallo mi tolgo le scarpe e le sbatto per terra, mentre Bearzot cerca di calmarmi. "Cosa fa lei? Decido io chi esce" dice Valcareggi. E arriviamo ai famosi sei minuti. Mi chiama fuori. Non esco, sarebbe una vigliaccata. Così chiama fuori Boninsegna, che esce strizzandomi l'occhio. Fino al 2-1 di Gerson abbiamo retto, forse con qualche occasione in più. Poi ci è arrivata addosso la stanchezza della Germania. Dopo il 4-3, in albergo, qualcuno dei nostri ha pisciato sangue. La gente non immagina cosa significhi giocare in altura. In quattro anni eravamo usciti dall'inferno, avevamo vinto gli Europei, eravamo secondi nel mondo dietro a un grandissimo Brasile, sportivamente avevamo fatto qualcosa di importante e tutto in Italia veniva ridotto a quei sei minuti. Se i pomodori dopo la Corea li capivo, quelli del '70 non li ho mai accettati".

 

 

 

 

 

Il 28 marzo 1965, al termine di uno dei derby più fantastici mai visti a San Siro, il Milan è battuto (5-2) e conserva un solo punto di vantaggio. Herrera, che ha lanciato in squadra il mediano Gianfranco Bedin, classe 1945, ci riprova con un altro giovane, il centravanti Sergio Gori detto "Bobo", classe 1946, figlio di uno dei più importanti ristoratori toscani di Milano.

E proprio Gori, dopo il vantaggio firmato Suarez, stende la Juventus a Torino, mentre il Milan perde in casa con la Roma. Si va avanti così, lotta gomito a gomito, sino al 6 giugno, quando i rossoneri perdono a Cagliari e i nerazzurri pareggiano in rimonta 2-2 con il Torino a San Siro. Il gol tricolore, su rigore, è di Mazzola, capocannoniere del torneo con 17 reti.

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28.03.1965 - INTERNAZIONALE vs MILAN 5-2, Campionato di Serie A (26^ giornata)

Il Milan nel corso del campionato ha avuto fino a 7 punti di vantaggio sull'Inter. Altafini, in disaccordo con la società, era stato sostituito da "Ciapina" Ferrario, autore di importanti gol "di rapina". Josè rientra dal Brasile e il vantaggio dei rossoneri si assottiglia. Si arriva al derby con questa situazione di classifica: Milan 41 punti, Inter 38, ovviamente primo e seconda in graduatoria. Il derby lo vince l'Inter che corona il suo lungo inseguimento ai rivali. A fine stagione arriverà a quello che forse è il più entusiasmante scudetto della sua storia. Gualtiero Zanetti sulla "Gazzetta" butta però un'ombra sul risultato nettamente a favore dell'Inter: senza l'espulsione di Benitez al 36' del primo tempo, sull'1-1, il risultato sarebbe stato lo stesso? L'espulsione di Benitez è il momento decisivo della partita. Il peruviano che già si era segnalato per altri falli aggiusta un calcetto a Suarez a gioco fermo, nulla di vistoso, ma il guardalinee lo segnala a Sbardella che manda il rossonero anzitempo negli spogliatoi. L'impressione è che Benitez paghi un po' per tutti, visto che le due squadre si stavano picchiando di santa ragione, anche se nei limiti del regolamento. Per i gol: sciabolata al volo di Jair, di destro, su calcio di punizione di Corso. Pareggio di Amarildo, che riprende una respinta di Sarti su suo precedente colpo di testa. Sull'1-1 in inferiorità numerica, il Milan riesce ad essere anche pericoloso. Solo a metà ripresa un tagliatissimo tiro di Domenghini dà all'Inter il definitivo vantaggio. Il 3-1 è opera di Corso, su tocco dell'esordiente Bedin. Ancora il Milan con Amarildo su passaggio di Mora, per il 2-3. Nel finale due strepitosi gol di Mazzola, uno su azione personale, l'altro con gran girata al volo, danno al risultato una dimensione estrema. Rivera esce per stiramento sul 4-2. Il Milan conclude con 9 uomini, sottoposto all'umiliazione di una storica "melina". Picchi, negli spogliatoi, per nulla sportivo nei confronti di un avversario per la verità sfortunato, commenta: "La melina finale? L'aspettavamo da tre anni".

 

testo e le due ultime foto provenienti da:

http://www.magliarossonera.it/img196465/immuff/6465_26.html

 

 

 

 

 

 

1965: INTER-LIVERPOOL 3-0, LA GRANDE RIMONTA

DA NICOLA PUCCIIN CALCIO

Se parliamo della Grande Inter di Moratti, qualche giovanotto magari tornerà ai tempi del “triplete” di Mourinho. Per carità, niente da obiettare… ma in casa nerazzurra l’etichetta rimanda agli anni Sessanta, ed evoca una data simbolo.

12 maggio 1965. L’Inter ha l’impronta del “mago” Helenio Herrera già da qualche anno, ha vinto in Italia – scudetto nel 1963 – e conosciuto gloria europea – Coppa dei Campioni nel 1964 contro il Real Madrid, 3-1 a Vienna – ma la bacheca è destinata a colmarsi di trofei nel breve termine ed abbisogna di un’impresa che rimanga negli annali del football. E’ in atto la semifinale di Coppa dei Campioni, i nerazzurri puntano al bis ma l’andata in terra britannica, a Liverpool, è stata un calvario. I Reds del santone Shankly mancano ancora di palmares ma cominciano a farsi notare nel continente, vincono 3-1 con i detentori del titolo ed ipotecano l’accesso alla finalissima.

Urge la partita della vita, per i nerazzurri. E lo stadio di San Siro sta per conoscere una serata indimenticabile. Leggiamo lo schieramento dell’Inter. In porta Sarti veste i panni della saracinesca, la cerniera difensiva si compone di mastini del calibro di Guarnieri e Burgnich, Picchi è il libero, Facchetti l’atletico terzino di fascia che spinge; il giovane Bedin fatica per tre, Corso e Suarez mettono fosforo e classe al servizio di Jair, irrefrenabile nelle sue scorribande, Mazzola è il fuoriclasse del gruppo, Peirò agisce di punta.

Non sono ancora i tempi del gol che vale doppio se segnato in trasferta, ergo Herrera sa che per passare il turno bisogna imporsi con tre reti di margine. L’argentino è maestro di tattica, l’Inter gioca con difesa ben compatta, eccellente preparazione fisica e capacità di rilanciare il contrattacco. Si gioca davanti a quasi 77.000 spettatori vocianti, e al minuto 8 la missione, da impossibile che pareva alla vigilia, diventa un po’meno improbabile: Corso pennella col magico piede sinistro la famosa punizione a “foglia morta” e firma il vantaggio. Neppure il tempo di ammortizzare il colpo che il Liverpool, centoventi secondi dopo, subisce ancora. E stavolta il gol ha i contorni del rocambolesco. Sugli sviluppi di una rimessa laterale Mazzola lancia Peirò in profondità, obbligando l’estremo inglese, Lawrence, all’uscita tempestiva. I due si scontrano e Peirò termina alle spalle del portiere che si accinge al rinvio… ma lo spagnolo ha tempismo da vero rapinatore, cattura la palla che Lawrence sta facendo rimbalzare a terra e insacca a porta sguarnita. Minuto 10 e siamo 2-0, il passivo è già recuperato e per i nerazzurri la strada verso la finale non è più così ripida.

 La sfida a questo punto cambia decisamente copione. Il Liverpool sente che l’occasione sta per sfumare e comincia a giocare calcio offensivo appoggiandosi ad attaccanti del calibro di Hunt, St.John e Callaghan, i tre frombolieri del match d’andata. Ma la difesa dell’Inter stavolta non lascia spazio e nel secondo tempo l’Inter può tornare a farsi vedere dalle parti di Lawrence. Fino al minuto 62, quando Facchetti in sortita offensiva si trova con la palla buona tra i piedi e dal limite scaglia il fendente che gonfia la rete. 3-0, sugli spalti è tripudio collettivo e al fischio di chiusura dello spagnolo Ortiz de Mendebille – su cui si sprecheranno in seguito voci di favoritismi – le note di “when the Saints go marching in” suonano a celebrare un’impresa che ancora oggi la Milano che batte bandiera nerazzurra ricorda tra le più memorabili di sempre.

 Post scriptum: qualche settimana dopo l’Inter, proprio a San Siro, vincerà di misura la finale con il Benfica, 1-0 con gol di Jair; se aggiungiamo lo scudetto e la Coppa Intercontinentale di fine anno ecco perché la Grande Inter è quella di papà Moratti, Angelo. Non me ne voglia il figlio, Massimo, e tanto meno quel gran simpaticone che risponde al nome di Josè Mourinho.

https://sport660.wordpress.com/2015/12/31/1965-inter-liverpool-3-0-la-grande-rimonta/

 

È scomparso all'età di 84 anni - li aveva compiuti lo scorso 29 gennaio - Joaquín Peiró, attaccante spagnolo attivo in Italia negli anni '60 con le maglie di Torino, Roma e Inter ed entrato nella storia del club nerazzurro e del calcio mondiale grazie a un gol iconico, quello che permise alla Beneamata di vincere la sua seconda Coppa dei Campioni per prendersi un posto nella storia del gioco più bello del mondo.

Era il 12 maggio 1965, e quella che ancora non era nota come la Grande Inter si trovava ad affrontare una sfida quasi impossibile contro il Liverpool di Bill Shankly: sconfitti 3-1 nell'andata ad Anfield, i nerazzurri cercavano la rimonta in un San Siro esaurito in ogni ordine di posti e che faceva registrare un incasso record, oltre 70mila persone presenti per inseguire un sogno. In vantaggio già dopo 8 minuti grazie a una proverbiale "punizione a foglia morta" di Mariolino Corso, la squadra guidata da Helenio Herrera trovava il gol del 2-0 appena 120 secondi più tardi grazie a una geniale intuizione proprio di Peirò, arrivato a inizio stagione.

Lanciatosi su un pallone servito da Mazzola, l'attaccante spagnolo veniva anticipato in uscita dal portiere inglese Lawrence, che però incautamente si attardava a palleggiare il pallone con le mani prima di rinviarlo senza prestare attenzione all'avversario. Ecco allora il colpo a sorpresa di Peirò, che dopo aver raggiunto alle spalle l'estremo difensore gli soffiava il pallone spedendolo nella porta incustodita tra le proteste inutili dei Reds. 2-0, gara in discesa e poi chiusa nella ripresa da una terrificante conclusione in contropiede di Facchetti, Inter in finale e che si appresta a diventare "la Grande Inter".

Nella storia della Beneamata, dunque, uno spazio importante non può che essere riservato a Joaquín Peiró, che dopo essersi distinto in patria con le maglie di Murcia e Atletico Madrid sbarca in Italia nel 1962 per indossare la maglia del Torino. I granata sono una squadra da metà classifica e lo spagnolo non brilla nella prima stagione, spesa ad adattarsi ai ritmi più serrati della Serie A e agli spazi più ristretti concessi dai difensori italiani. Sta prendendo le misure, e lo dimostra nella seconda stagione quando mette a segno 9 reti e si guadagna la chiamata dell'Inter.

In nerazzurro arriva come "straniero di coppa", consapevole di poter trovare spazio soprattutto in Coppa dei Campioni: in Italia, infatti, all'epoca vige la regola che permette a ogni squadra di schierare contemporaneamente soltanto due stranieri, e quelli dell'Inter sono Jair e Luis Suarez, considerati imprescindibili dal carismatico tecnico argentino Helenio Herrera. Il quale però ha grande stima di Peirò, al punto da schierarlo titolare ogni volta che ne ha occasione. In Coppa dei Campioni, prima dello storico gol al Liverpool, ne rifila due decisivi nei quarti di finale ai danni dei Rangers di Glasgow, scende in campo nella finale vinta contro il Benfica e anche nello spareggio decisivo contro l'Independiente valido per la Coppa Intercontinentale.

Dopo due stagioni, giocate ad alti livelli ma pur sempre da attaccante di scorta, Peirò lascia Milano per prendersi un posto da protagonista nella Roma, dove negli anni ritrova prima Jair come compagno di squadra e poi Herrera come allenatore. Nella Capitale resta 4 anni, gli ultimi due vissuti da capitano, quindi a 34 anni lascia l'Italia per tornare in Spagna dove chiude dopo una stagione con l'Atletico Madrid. 12 presenze e 5 reti in Nazionale, dove ha esordito appena ventenne, con la Spagna partecipa alle spedizioni per i Mondiali del 1962 e del 1966. Il palmares è da grande giocatore: 2 Scudetti, altrettante Intercontinentali e una Coppa dei Campioni in nerazzurro, una Coppa Italia in giallorosso.

Una volta appesi gli scarpini al chiodo Peirò sarà allenatore di buon livello, guidando numerose squadre spagnole e raggiungendo i migliori risultati alla guida del Malaga, che riesce a portare per la prima volta in massima serie nel 1999 e dove ancora oggi viene ricordato con grande affetto e rispetto dalla tifoseria, che a lui ha legato le pagine più belle della storia del club. Attaccante di grande livello, forse persino sottovalutato per il buon numero di gol che abbinava a un gioco costantemente rivolto verso i compagni d'attacco, il suo mito vivrà per sempre grazie a quel gol, furbo e geniale, il "gol di rapina" per eccellenza con cui si può dire che permise la nascita della Grande Inter.

https://www.foxsports.it/2020/03/18/inter-scomparso-joaquin-peiro-indimenticabile-gol-liverpool/

 

 

 

 

 

La decima edizione della Coppa dei Campioni si confermò favorevole all'Italia che schierò per il secondo anno consecutivo due squadre. Ma dopo che il Bologna perse nel turno preliminare alla monetina contro l'Anderlecht, dopo aver concluso a reti bianche lo spareggio, l'Inter rimase  da subito l'unica nostra rappresentante. I nerazzurri cominciarono a suon di reti rifilando un rotondo 6-0 ai romeni della Dinamo Bucarest, imitati dal Benfica che nel turno premilinare regolarono con un doppio 5-1 i lussemburghesi dell'Aris e al primo affondarono, nel ritorno, gli svizzeri dello Chaux de Fonds per 5-0. Nei quarti di finale il vantaggio per 3-1 dell'Inter sui Rangers di Glasgow le permise di passare il turno nonostante la sconfitta di misura in Scozia. Il Benfica invece si limitò a confermare il declino del Real Madrid imponendogli con autorevolezza un 5-1 a Lisbona che rese ininfluente la sconfitta per 2-1 a Madrid.


 

Così i lusitani si qualificarono per la quarta finale in cinque anni passando senza difficoltà in semifinale sugli ungheresi del Vasas Gyor (1-0 fuori casa e 4-0 a Lisbona). L'Inter invece se la vide brutta con il Liverpool, all'esordio in una manifestazione che poi avrebbe vinto per quattro volte, perdendo per 3-1 in Inghilterra la gara d'andata con la solita rete di Mazzola. Con un po' di fortuna l'Inter riuscì a ribaltare il risultato vincendo per 3-0 la gara di ritorno grazie al gol determinante di Facchetti, terzino con spiccata propensione al gol.
La finale fu giocata a Milano e per la seconda volta una squadra di casa poteva sfruttare questo enorme vantaggio (nel 1957 il Real superò la Fiorentina nella finale di Madrid). Sotto una fitta pioggia ma davanti a 85 mila spettatori, fu decisivo un gol di Jair a due minuti dal riposo. Il Benfica, con nove undicesimi della squadra sconfitta dal Milan nella finale di Vienna di due anni prima, fu decimato dagli infortuni a tal punto che il difensore Germano prese il posto di Costa Pereira in porta per gran parte del secondo tempo. Con Eusebio Pallone d'Oro in carica il Benfica si arrese ad una squadra magistralmente diretta in campo da Luis Suarez e in panchina da Helenio Herrera, senza dimentica l'eleganza atletica di un giovane terzino di nome Facchetti. Al portoghese Torres del Benfica andò la palma di capocannoniere con 9 centri.

https://www.mimmorapisarda.it/2023/282.JPGIn una serata di pioggia al 42' Jair azzecca un diagonale che s'infila sotto le gambe di Costa Pereira. "L'Inter si tiene la Coppa e fa il vuoto in Europa" titola la Gazzetta del 28 maggio 1965. Si gioca a Milano, il terreno di gioco è coperto dall'acqua e il Benfica di Eusebio, dopo Dinamo Bucarest, Rangers e Liverpool, è l'ultima squadra a cadere sotto i colpi degli imbattibili nerazzurri.

Il 1965 è l'anno più glorioso della storia dell'Inter. Dopo aver vinto la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale, i nerazzurri hanno lasciato il titolo al Bologna in un avvelenato finale di campionato. Per la prima volta nel calcio compare il termine doping e, per la prima volta, il titolo viene assegnato attraverso una gara di spareggio, che i nerazzurri perdono a Roma il 7 giugno 1964. Angelo Moratti è furibondo, la Figc ancora una volta ha remato contro l'Inter. Bisogna essere veramente più forti di tutti e di tutto, come sostiene Herrera,  per far trionfare la giustizia sportiva. E così, nel 1965, l'Inter s'inventa un triplice capolavoro. Primo: vince lo scudetto, in rimonta sul Milan di Gino Viani. Il 31 gennaio 1965 i rossoneri battono il Mantova e in classifica hanno 7 punti di vantaggio sui nerazzurri, sconfitti a Foggia. Il 28 marzo 1965, al termine di uno dei derby più fantastici mai visti a San Siro, il Milan è battuto (5-2) e conserva un solo punto di vantaggio. Herrera, che ha lanciato in squadra il mediano Gianfranco Bedin, classe 1945, ci riprova con un altro giovane, il centravanti Sergio Gori detto "Bobo", classe 1946, figlio di uno dei più importanti ristoratori toscani di Milano. E proprio Gori, dopo il vantaggio firmato Suarez, stende la Juventus a Torino, mentre il Milan perde in casa con la Roma. Si va avanti così, lotta gomito a gomito, sino al 6 giugno, quando i rossoneri perdono a Cagliari e i nerazzurri pareggiano in rimonta 2-2 con il Torino a San Siro. Il gol tricolore, su rigore, è di Mazzola, capocannoniere del torneo con 17 reti. La formazione: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Domina la condizione atletica dell'Inter che, mentre prepara la vittoria del nono scudetto, rivince la Coppa Campioni.

 


E' questa la seconda impresa del 1965. In Europa la squadra di Herrera vola senza problemi sino alla semifinale con il Liverpool. Cade nella gara d'andata in Inghilterra (3-1) e non sembra in grado di recuperare la qualificazione. Invece, ancora una volta
, la leggenda si materializza sul campo bagnato di San Siro, il 12 maggio, davanti a 80mila spettatori per un incasso di 161 milioni di lire. Punizione vincente di Corso, rete fotografia di Joaquim Peirò che ruba la palla al portiere inglese Lawrence (stava palleggiando con le mani), 3-0 di Facchetti. La finale della Coppa dei Campioni si disputa a Milano, il 27 maggio. Tempesta di pioggia sulla città nel pomeriggio, temperatura autunnale, stadio esaurito, gara equilibrata contro i portoghesi del Benfica guidati dal grande Eusebio, Inter in maglia bianca con striscia nerazzurra sul petto. Decide, al minuto numero 42 del primo tempo, una rete di Jair: la palla passa tra le gambe del portiere Costa Pereira. Il settimanale "Milaninter" titola: "Inter figlia di Dio". Diventerà uno slogan.

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Burgnichfacchetti.

L'altra metà del terzino

«La forza di Giacinto? Sempre all'attacco»

 

Burgnichfacchetti. «L'ho saputo cinque minuti fa». Ha la voce rotta, sottile, quasi leggera, lui, il rude di Ruda (Udine), lui che a Napoli chiamavano «'a roccia», lui che resterà sempre unito a Giacinto Facchetti perché insieme costituiscono l'idea stessa del terzino, quello che difende e quello che attacca. Due di due. Burgnichfacchetti. Tarcisio Burgnich è del 1939, Facchetti del '42. Si incrociarono per la prima volta 44 anni fa, un anno dopo che «il Cipe» venne chiamato così dal Mago. Sarebbe stato bello se fosse stato lo stesso giorno. Oggi sarebbe bello soprattutto che Giacinto fosse ancora qui.

«Vorrei raccontare di più del nostro primo incontro, ma la memoria non è limpida. Ci siamo conosciuti nel 1962, stavamo davanti a Helenio Herrera che assegnava i posti nel ritiro dell'Inter, io e lui fummo sistemati nella stessa camera e insieme siamo stati fino al '74, quando io me ne sono andato». Quanti ritiri, quante partite. «Tanti, tante, ma sempre andando d'accordo». Burgnichfacchetti è un'idea non banale. «E non un'idea astratta, ma un'idea che nasceva dal campo, da quello che facevamo».

L'ultima volta si sono incontrati a luglio. «Sono stato a casa sua, a Cassano d'Adda, con Boninsegna, Guarneri e Moro. Era tranquillo, sereno, non sembrava grave. Si pensava che potesse venirne fuori». Giacinto Facchetti visto dall'altra linea del campo, lui a sinistra, Burgnich a destra.

Burgnichfacchetti. «Avevamo pure due nomi inconfondibili, io Tarcisio, lui Giacinto, però non sono stati i nomi a renderci inconfondibili». La statura, fisica certo, morale senza dubbio. «Un ragazzo eccezionale. Molto serio, professionale, anche come figura pubblica, non era facile dirigere una società di calcio come ha fatto lui, mai fuori posto, mai polemico, sempre civile». Burgnichfacchetti non sono mai stati Burgnich e Facchetti, non si sono mai guardati con la faccia cattiva. «Litigato? Era impossibile arrabbiarsi con lui, del resto era impossibile arrabbiarsi in generale, in quell'Inter. Abbiamo fatto cinque anni vincendo tutto. Era un gruppo eccezionale, in quell'Inter nessuno alzava mai la voce, non ce n'era bisogno».

Il momento più bello insieme arrivò il 27 maggio 1964. A Vienna. «La nostra più grande impresa, il nostro più bel ricordo, che ci appartiene è quella vittoria in Coppa dei Campioni sul Real Madrid. Per il successo e perché quella era la squadra di cui si parlava quando noi eravamo ragazzi; la squadra del mito».

Burgnichfacchetti. «Sa qual è la verità, è che noi questa cosa in comune, questo nome che significa "difesa", noi l'abbiamo conquistato. Sul campo, con la nostra bravura, ma anche fuori, con la nostra fedeltà. Oggi ci si dimentica spesso dei valori, della continuità perché si cambia spesso casacca».

Giacinto Facchetti, fedeltà assoluta. All'Inter, all'amicizia. «Sapeva che me ne stavo qui, in Toscana, da pensionato e mi ha chiamato proponendomi di buttare un occhio sulle partite che si giocavano in regione». Giacinto Facchetti l'uomo. «Il suo modo di proporsi alla gente, ai compagni, sempre in modo aperto, in modo onesto». Giacinto Facchetti il giocatore: «La sua forza è stata l'applicazione. L'ha imposto Herrera, ma lui ha sempre cercato di migliorarsi, di imparare. E questa dote l'ha portata anche nella sua attività extracalcistica. E anche lì ha avuto successo». Perché andava avanti, non restava ad aspettare in retroguardia. «Eh no, a lui gli avversari non lo facevano soffrire, lui li attaccava, prendeva l'iniziativa e gli altri erano costretti ad andargli dietro. Quanti gol ha segnato, e faceva il terzino». Giacinto Facchetti, l'eredità. «Un esempio di correttezza per i giovani e non solo». Burngnichfacchetti. No, neanche ora riusciranno a separarli.

Roberto Perrone

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Sport/2006/09_Settembre/05/perrone.html

 

 

 

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L'avversario è ancora l'Independiente. A differenza del precedente confronto, stavolta la gara d'andata si disputa a San Siro. E' mercoledì 8 settembre. Gli argentini non hanno neppure il tempo di respirare. Herrera ha chiesto ai nerazzurri di prendere l'avversario per il collo. Peirò, dopo 8 minuti, è già in gol; Mazzola, con una doppietta, mette il timbro al limpido 3-0. Una settimana dopo si gioca in casa dell'Independiente, che prova a buttarla in rissa: Suarez e Sarti vengono colpiti da alcuni oggetti lanciati dalle tribune, Jair è martoriato di falli. Una traversa e delle buone parate di Sarti certificano il pareggio e dunque la vittoria della seconda Coppa Intercontinentale. Titolo della "Gazzetta dello Sport": "Pari coraggioso dell'Inter: è campione". Ricorderà l'avvocato Prisco di aver seguito la gara in tribuna d'onore, protetto dagli alpini della sessione di Buenos Aires.

 

 

Il 1965/66 si apre di nuovo sotto il segno di un'importante vittoria. In Coppa Intercontinentale i Campioni d'Europa affrontano ancora una volta l'Independiente, senza però dover ricorrere allo spareggio, poiché al 3-0 siglato a Milano si aggiungere un pareggio a reti inviolate a Buenos Aires. In Campionato gli avversari sono tanti, ma nessuno si fa abbastanza valere: il Napoli degli acquisti record Sivori e Altafini perde competitività alla tredicesima Giornata, il Milan, secondo di un punto a metà Campionato, crolla nel ritorno e il Bologna, risorto dopo un'iniziale crisi, si gioca tutte le speranze pareggiando la penultima contro la Juventus, mentre l'Inter affonda la Lazio e guadagna in anticipo la certezza matematica della Stella sul petto, simbolo di dieci Scudetti. Un'inaspettata nota negativa arriva dalla Coppa dei Campioni: dopo aver eliminato la Dinamo Bucarest (1-2/2-0) e il Ferencvaros (4-0/1-1), un Real Madrid dal dente avvelenato si prende la rivincita di due anni prima, elimina i nerazzurri (0-1/1-1) e si invola verso il suo trionfo. Negativa anche la Coppa Italia, con l'Inter fuori in semifinale.

La Grande Inter vince il terzo scudetto, il secondo consecutivo, al termine del campionato '65-'66. Forse il successo meno complicato per la squadra di Angelo Moratti e il "Mago" Herrera. Qualche timida opposizione da parte di Milan e Bologna, ma nulla più. I rossoneri si arrendono nel derby, che i nerazzurri vincono 2-1, con una grande rete di Bedin (che annulla Rivera) e un gol di Domenghini. L'Inter è campione con 50 punti, 4 di vantaggio sul Bologna. La formazione tipo: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso.

Il poeta mancino Mario Corso è il "Sinistro di Dio" per le sue punizioni "a foglia morta", il livornese Armando Picchi comanda da leader la rocciosa difesa e lo spogliatoio. Che Inter quell'Inter che stava diventando grande e che aveva superato anche lo scandalo beffa (a suo danno, ovvio) della Federcalcio sul rifacimento di una partita esterna con la Juventus (come atto di rivolta alla Figc, Moratti manda in campo a Torino la squadra dei giovani che perde 9-1; la rete nerazzurra è firmata Sandro Mazzola, il primo gol di una lunga cavalcata).
"Presidente, vinceremos todos y contra todos". Herrera deve stregare Moratti, in qualche modo. Il tecnico ha già rischiato in più occasioni l'esonero, il suo rapporto con il manager Italo Allodi è tormentato. La prima penna del giornalismo sportivo italiano, Giovanni Brera, critica spesso e volentieri l'allenatore nato a Buenos Aires, cresciuto a Casablanca, affermatosi in Spagna. Insomma, le difficoltà non mancano. Però è proprio in questa terra di nessuno, in questa palestra di sudore e addestramenti (sta per essere costruito anche il centro sportivo dell'Inter ad Appiano Gentile, in provincia di Como), che nasce la leggenda, attraverso una fusione passionale e molecolare tra Moratti, la squadra, Herrera, i tifosi, la città di Milano. Raccontano i testimoni: "Non è possibile descrivere quanto era bella la città grazie alla forza, alle idee e al calcio della società nerazzurra". C'è da crederci, senza dubbi. Nascono in questo periodo gli Inter Club, l'istituzione del tifoso organizzato. Nasce, appunto, la leggenda.

 

 

 

 

 

Nel 1967 l'Inter arriva alla fine della stagione in testa alla classifica ed in finale di Coppa Campioni ma in tre giorni perde tutto: il trofeo continentale va al Celtic Glasgow, che vince per 2-1, lo scudetto alla Juventus, dopo aver perso incredibilmente l'ultima di campionato contro il Mantova per 1-0 grazie a una clamorosa papera di Sarti.

Non c'è notte senza alba, non c'è sogno senza risveglio. Il ciclo della Grande Inter si conclude un anno dopo, il 1° giugno 1967 nella fatal Mantova. I nerazzurri, che hanno già perso sfortunatamente la Coppa dei Campioni a Lisbona contro il Celtic, recuperano Suarez dall'infortunio e si presentano con Cappellini centravanti. Traversa di Mazzola, l'Inter è stanca, ma vuole mantenere il punto di distacco sulla Juventus (48 a 47) e comanda la partita.

 

Un giovane Dino Zoff, portiere rivelazione del campionato, salva in più occasioni il Mantova. Al minuto numero 4 della ripresa il pasticcio: un tiro di Di Giacomo, l'ex di turno, inganna Sarti. La palla scivola tra le mani del portiere nerazzurro e va in rete. Una beffa: Sarti, due anni dopo, firmerà per la Juventus alla quale, in pratica, regala lo scudetto.

E' infatti inutile l'assalto finale dell'Inter, l'arbitro padovano Francescon nega un rigore a Mazzola e caccia dal campo un furente Corso. Negli spogliatoi volano cazzotti e parole grosse, ma il titolo è della Juventus. Angelo Moratti, seppur deluso, trova la classe delle parole per scrivere la parola fine a una grande storia di calcio e passione: "Siamo stati grandi quando si vinceva, cerchiamo di essere grandi anche ora che abbiamo perduto. Forse siamo rimasti troppo tempo sulla cresta dell'onda. E tutti a spingere per buttarci giù. Ora saranno tutti soddisfatti". E' solo la verità.

 

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1° turno: Inter - Torpedo Moscow

1-0 - 0-0

2° turno: Inter - Vasas SC

2-1 - 2-0

 

Quarti di finale: Inter - Real Madrid

1-0 - 2-0

 Semifinale: Inter - CSKA Sofia

1-1  -  1-1

 

 


 

La conclusione del ciclo Herrera

Correva l'anno 1967. Un'anno terribile per dirla alla John Fante, uno degli scrittori Italo-americani che si è occupato volentieri di sport. Un' anno terribile per l'Internazionale, come mi piace ricordarla, col suo nome di fondazione per esteso. La squadra di Herrera che aveva già vinto tutto, tre scudetti, due Coppe dei Campioni e altrettante Coppe Intercontinentali, era pronta per una nuova annata trionfale: la terza accoppiata  campionato - Coppa dei Campioni. I nerazzurri erano riusciti a realizzare una storica impresa al Bernabeu contro il Real Madrid, battendo i "merengues" che quell'anno schieravano Pirri, Zoco, Amancio e Gento, nomi giganteschi. Solo la Juventus era riuscita a fare altrettanto al Bernabeu, prima che la Roma di Capello ci riuscisse ancora dopo ben trentacinque anni!
Ebbene, quell'anno terribile, l'Inter perse lo scudetto all'ultima giornata: battuta a Mantova per un cross beffardo di Beniamino Di Giacomo che non aveva assolutamente intenzione di tirare a rete. La colpa fu di Giuliano Sarti, portiere della Fiorentina e dell'Inter, nonchè della Nazionale che si esibì in una della più incredibili papere della storia del calcio. Contemporaneamente, la Juventus, sotto di un punto prima dell'ultima giornata (47 per lei, 48 per i nerazzurri), riuscì a battere la Lazio al Comunale conquistando il tredicesimo scudetto! 
Ma la vera partita di quell'anno terribile, l'Inter di Herrera la disputò a Lisbona. Finale di Coppa dei Campioni: di fronte a Sarti - Burnich - Facchetti - Bedin - Guarneri - Picchi - Domenghini - Cappellini - Mazzola - Suarez - Corso, il Celtic Glasgow, fino allora una compagine sconosciuta e senz'altro poco temibile per il grande calcio europeo. Ma le imprendibili magliette orizzontali bianche e verdi dettero una severa lezione alla squadra di Helenio Herrera, già battuta in campionato dall'altro Herrera: Heriberto.
 

 

Dopo essere andati subito in vantaggio con Mazzola all'ottavo minuto del primo tempo, su calcio di rigore, i milanesi subirono una feroce reazione degli scozzesi che per tutti i restanti ottanta minuti assediarono la porta di Sarti trafiggendolo due volte.
Quella partita a Lisbona fu una vera disfatta per l'Inter, che da quel momento chiuse il grande ciclo di Helenio Herrera, per rivincere lo scudetto nel 1971, pensate un po', guidata da l'altro Herrera, Heriberto, sostituito alla sesta giornata da Giovanni Invernizzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

La fine di un ciclo
Herrera resta un altro anno, ottenendo un anonimo quinto posto, e poi va alla Roma, mentre Moratti decide che era ora di passare la mano e lascia la presidenza a Ivanoe Fraizzoli nel 1968.
Sull'epopea della "Grande Inter" Ferruccio Mazzola ha gettato fosche nubi, accusando in particolare l'allenatore Herrera di sistemi di allenamento e punizione disumani e di impiegare costantemente sostanze dopanti. Tali accuse non hanno però mai trovato un concreto riscontro.

 

 

L'anno seguente l'Inter ottiene un deludente quinto posto, risultato che provoca il licenziamento di Helenio Herrera e pone le fondamenta per una decisione drastica da parte di Angelo Moratti.  Infatti, nel 1968 il "Presidentissimo" passa la mano e diventa presidente Ivanoe Fraizzoli.

 

 

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