Il triste distacco

 

Nel 1040, dopo due secoli di dominazione araba, i Bizantini comandati dal generale Gior­gio Maniace tentarono di riconquistare la Si­cilia. La loro vittoria fu soltanto temporanea, anche perché Stefano, il responsabile della flotta bizantina, commise il grave errore di farsi sfuggire il più importante prigioniero di guerra, il capo militare arabo Abd Allah. Per questa ragione il generale Maniace inflisse a Stefano una severa punizione, ignaro che l'am­miraglio fosse un membro della casa imperia­le di Costantinopoli. Per sanare l'incidente di­plomatico e recuperare la stima dei sovrani che gli avevano già ordinato il rientro in patria, Giorgio Maniace decise di donare alla casa re­gnante le preziose reliquie della catanese sant'A­gata e della siracusana santa Lucia, già cono­sciute e venerate in tutto il Mediterraneo.

La tradizione racconta che un fortunale im­pedì la partenza della nave per tre giorni, qua­si che sant'Agata non volesse staccarsi dalla città nella quale era nata e aveva subito il mar­tirio. Alla fine i catanesi, àddolorati e inermi di fronte alla decisione del conquistatore, videro allontanarsi a bordo di una nave bizantina le preziose reliquie della loro patrona. Una fon­tanella con un'effigie di sant'Agata che guarda a oriente, posta di fronte alla marina, ricorda il punto dal quale i catanesi in lacrime assistettero impotenti a questo furto.

Il ritonio in patria

Dovettero passare 86 anni prima che le re­liquie di sant'Agata tornassero in patria. Si di­ce che fosse stata la stessa santa a volerlo, ri­chiedendolo espressamente a due militari a lei devoti, il provenzale Gisliberto e il pugliese Goselmo. Più volte la santa apparve loro in sogno, finché una notte i due decisero di sot­trarre le sacre spoglie dalla chiesa di Costan­tinopoli dove erano venerate.

Per sfuggire più facilmente ai controlli do­vettero sezionare il corpo della santa in cinque parti, per poi nasconderle dentro le faretre in cui normalmente si riponevano le frecce. Si narra che poi le avessero ricoperte con petali di rosa profumati.

I due militari presero una nave e si diressero in Sicilia, ma prima si fermarono in Pu­ glia, regione in cui era nato Goselmo, e per suo desiderio vi lasciarono una preziosa reliquia, una mammella, ancora oggi venerata nella chiesa di Santa Caterina d'Alessandria d'Egit­to, a Galatina (Lecce).

Quando giunsero a Messina, i due soldati av­vertirono il vescovo di Catania, Maurizio, che le reliquie di sant'Agata erano finalmente giun­te vicino alla città. Il vescovo, che in quei gior­ni si trovava nella residenza estiva ad Acica­stello, fu enormemente felice, ma per pruden­za, prima di diffondere la notizia in città, vol­le accertarsi che i due dicessero la verità e che quelle che avevano trasportato fossero real­mente le spoglie della santa. Inviò a Messina due monaci fidatissimi, Oldmanno e Luca, per il riconoscimento: le reliquie furono confron­tate con i referti che erano stati redatti duran­te le ultime ricognizioni. Soltanto dopo la con­ferma dei monaci, il vescovo Maurizio diede la notizia ai catanesi. Era il 17 agosto 1126.

Il popolo, svegliato durante la notte da uno scampanio a festa, non perse tempo a cam­biarsi d'abito e si riversò in strada così come si trovava, anche a piedi nudi e in camicia da notte, per accogliere prima possibile le reli­quie finalmente recuperate. Lo storico incon­tro dei catanesi con le spoglie di sant'Agata avvenne nel quartiere di Ognina, dove in se­guito fu eretta una chiesa che nel 1381 la lava circondò senza distruggere, ma che più recen­temente fu abbandonata e infine lasciata an­dare in rovina.

A conferma dell'eccezionalità di quell'even­to del 1126, i documenti storici registrano un miracolo, compiuto quella stessa notte. Una donna, cieca e paralitica dalla nascita, riac­quistò vista e uso delle gambe nell'atto di pro­strarsi davanti al sacro tesoro.

I catanesi furono così riconoscenti ai due sol­dati che li elessero cittadini onorari e li volle­ro eterni custodi delle reliquie della santa: le lo­ro spoglie riposano in cattedrale, in una pare­te della cappella della Madonna, accanto a quella di sant'Agata, anche se il punto esatto non è indicato.

 

 

 

 

 

Il Busto

 

Dal 1376 la testa e il torace di sant'Agata so­no custoditi in un prezioso reliquiario d'ar­gento lavorato finemente a sbalzo e decorato con ceselli e smalto. Ha l'aspetto di una statua a mezzo busto, con l'incarnato del volto in fi­ne smalto e il biondo dei capelli in oro. In realtà, però, è un raffinato forziere, cavo al­l'interno, in cui sono custodite le reliquie del­la testa, del costato e di alcuni organi interni. L'allora vescovo di Catania, un benedettino francese oriundo di Limoges, l'aveva commis­sionato in Francia, nel 1373, all'orafo senese Giovanni Di Bartolo.

 

 

La devozione dei fedeli arricchisce conti­nuamente di gioielli, ori e pietre preziose la fi­nissima rete che ricopre il Busto. Tra gli oltre 250 pezzi che a più strati ricoprono il reli­quiario, alcuni sono doni di particolare valo­re. La corona, un gioiello di 1370 grammi tempestato di pietre preziose, fu, secondo una tradizione non confermata, un dono di Ric­cardo I d'Inghilterra detto «Cuor di Leone», che giunse in Sicilia nel 1190, durante una crociata. La regina Margherita di Savoia, nel 1881, offrì un prezioso anello, mentre il vicerè Ferdinando Acugna una massiccia collana quattrocentesca.

Vincenzo Bellini donò alla patrona della sua città un riconoscimento che era stato dato a lui: la croce di cavaliere della Legion d'Onore. Anche papi, vescovi e cardinali negli anni hanno arricchito il tesoro di sant'Agata di collane e croci pettorali, oggetti preziosi che si aggiungono ai tantissimi ex voto che il popolo catanese continua a offrire alla «santuzza».

Nella stessa data in cui fu realizzato il Busto, gli orafi di Limoges eseguirono anche i reli­quiari per le membra: uno per ciascun femore, uno per ciascun braccio, uno per ciascuna gamba.

I reliquiari per la mammella e per il velo furono eseguiti più tardi, nel 1628. Attraverso il vetro delle teche, che protegge ma non na­sconde, durante la festa di sant'Agata si può ve­dere il miracoloso velo, una striscia di seta rosso cupo, lunga 4 metri e alta 50 centimetri, che le ricognizioni garantiscono ancora morbida, come se fosse stata tessuta di recente. At­traverso il reliquiario della mano destra e del piede destro si possono scorgere i tessuti del corpo della santa ancora miracolosamente in­tatti.

Dal momento che il corpo della loro celeste Patrona tornò così tagliuzzato presso di loro, i Catanesi ripresero a venerare con più fervore che mai quelle membra recise, e nel secolo XIV provvidero a serbarle in degne custodie. Il busto fu chiuso in un busto d'argento dorato, con la faccia e le mani di smalto, sorretto da un basamento ottagonale e fiancheggiato da due angioletti: la destra regge la croce accompagnata da gigli, nella sinistra è l'Epigrafe angelica.

La base, che poggia sopra otto foglie rovesciate, di tipo gotico, è ricca di scorniciature e riquadri e tutta adorna di smalti, tra i quali due stemmi d'Aragona, quello di Catania ed altri di dubbia attribuzione, nonchè scene del martirio, figure di S. Agata e di S. Caterina d'Alessandria, e quelle dei due vescovi catanesi, Marziale e il suo successore Elia, entrambi francesi, anzi limosini, come è detto nell'iscrizione che gira attorno alla base:

 Virginis istud opus Agathae sub nomine coeptum

martialis fuerat quo tempore praesul in urbe

Cataniae, cui pastor successit Helias;

Ambos Lemovicum clare produxerat ardor.

 Fin qui i lettori dell'iscrizione sono concordi; la discordia incomincia per i quattro versi seguenti:

 Artificis manus hoc (haec, hanc) fabricavit marte (arte) Joannes

Bartolus et genitor, celebris cui patria ceve (leve)

mille ter et centum post partum virginis almae

et decies septem sextoq. fluentibus annis.

 

 

 La data, sulla quale non cade dubbio, dice chiaramente che l'opera fu fatta durante il soggiorno della Corte papale ad Avignone, dove il vescovo catanese Marziale si era recato presso Gregorio XI ad annunziargli l'assunzione di Federico III al trono di Sicilia, e dove morì, affidando la diocesi ed il compimento del reliquario al suo connazionale e successore Elia.

Ma chi furono gli artefici della statua? Eugenio Müntz, poichè i lettori dell'iscrizione non sono d'accordo, leggendo alcuni cui patria Ceve, altri cui patria leve, addottò una terza interpretazione: cui patria Senam, identificando l'autore del busto catanese con Giovanni di Bartolo, senese, orafo per l'appunto alla Corte pontificia in Avignone, ed autore dell'altro celebre reliquario racchiudente le teste dei santi Pietro e Paolo. Se non che, c'è una difficoltà. L'iscrizione non riesce bene decifrabile perchè il busto è tutto ricoperto di ex-voto offerti dalla pietà dei fedeli — tra i quali la corona regale che si dice esser dono di Riccardo Cuor di Leone al suo passaggio da Catania durante la crociata del 1191, la collana d'oro del vicerè de Acuña, varie insegne del Toson d'oro e dell'Ordine d'Alcantara, parecchie mammelle d'oro e d'argento, due delle quali portano incise le armi dei re di Spagna, e molti anelli pastorali e croci vescovili, tra le quali quella di Leone XIII, e un gran numero di minutaglie d'oro, d'argento, di corallo, d'ambra, e finanche orologi da tasca; — ma lo Sciuto Patti, dopo avere esaminato da vicino il reliquario, escluse assolutamente che si possa leggere cui patria Senam: l'iscrizione dice chiarissimamente cui patria Ceve: non regge quindi l'interpretazione del Müntz, il quale aveva eccitato molto entusiasmo, lasciando credere che fra i tesori artistici italiani si trovasse un'altr'opera uscita dalle miracolose mani del Bartoli.

E lo Sciuto Patti lo nega per altre ragioni che sarebbe troppo lungo riferire; se non che, escluso il Giovanni di Bartolo, resta ancora da vedere chi furono gli artefici nominati nell'iscrizione: Johannes Bartolus et genitor. Ed è strano come il nostro critico abbia avuto sotto gli occhi l'identificazione e non l'abbia compita. Glielo impedì l'aver voluto, contrariamente alle concordi affermazioni dei cronisti, distinguere gli autori del Busto da coloro che eseguirono lo Scrigno dove si custodiscono, in sette teche d'argento dorato e cesellalo di ottimo lavoro, le altre sparse membra della martire. Questo Scrigno è una cassa a base rettangolare, con gli angoli tagliati e il coperchio a spigolo, rivestita internamente di velluto trinato d'oro ed all'esterno di lamine doppie d'argento vermicolato con figurine di santi a rilievo ed a cesello negli scomparti architettonici di stile gotico fiammeggiante: una fervida fantasia vi ha profuso i motivi ornamentali.

Ora lo Sciuto Patti, leggendo negli Emailleurs limousins di Maurizio Ardant, che Giovanni e Bartolomeo Vitale «andarono a Catania in Sicilia per ornare di smalti il reliquario di S. Rosalia», e che il padre di Bartolomeo, Bernardo, «vi sarebbe stato anteriormente a cominciare il lavoro», riconosce che questi Vitali, chiamati nell'isola, eseguirono lo Scrigno: opinione non contrastata dal facile errore nel quale cadde e — trattandosi di uno scrittore francese che si occupa di cose italiane — doveva cadere l'Ardant; dallo scambio, cioè, di S. Rosalia, patrona di Palermo, con la protettrice celeste della minore Catania. Ma, riconosciuti così in Giovanni, Bartolomeo e Bernardo Vitale gli autori dello Scrigno, e negato che i nominati Johannes Bartolus et genitor del Busto fossero Giovanni di Bartolo da Siena e il padre suo, era ed è molto semplice e quasi necessario identificarli con Giovanni, Bartolomeo — o Bartolo che è tutt'uno — e Bernardo, padre, «genitor», per l'appunto, di Bartolomeo: tutti della famiglia Vitale, venuti da Limoges a Catania per attendere a questi lavori sacri. Intento a dimostrare, contrariamente alle concordi affermazioni di tutti i cronisti, che Busto e Scrigno non sono della stessa mano nè dello stesso tempo, lo Sciuto Patti non fece questa identificazione tanto naturale; alla quale non si oppongono gli argomenti da lui addotti per distinguer gli autori dello Scrigno da quelli del Busto.

 

Se è vero, infatti, che esisteva in Catania un Opus Scrinei, una istituzione destinata a raccogliere fondi per la costruzione dello Scrigno, forse che bisogna perciò escludere come ordinatore del lavoro il vescovo Marziale e il suo successore Elia? Che cosa impedisce di ammettere che questi prelati, come ordinarono il Busto, così — coi denari dell'opera dello Scrigno — ordinassero quest'ultimo? Non è anzi naturale che commettessero insieme i due lavori — ed agli stessi artisti? Se dall'esame dello stile risultasse che le due manifatture appartengono a tempi molto distanti, certo la supposizione cadrebbe; ma lo stesso Sciuto Patti afferma che lo Scrigno mostra di essere «di alquanti anni posteriore» al Busto; anni tanto pochi, da far ammettere una «quasi contemporaneità», con la quale, appunto, egli spiega l'origine dell'opinione che vuole lo Scrigno eseguito, come il Busto, per commissione ed al tempo dei vescovi Marziale ed Elia.

Di Bartolomeo Vitale è provata l'esistenza fino al 1401: se, dunque, la cassa «mostra chiaro di appartenere, al più tardi, agli ultimi anni del secolo XIV, ma più probabilmente ancora ai primi del XV», le date concordano. Il fatto che in questa cassa non c'è iscrizione o segno che accenni minimamente alla data del lavoro nè a coloro che lo ordinarono e l'eseguirono, conferma precisamente che esso nacque ad un tempo con la statua: inscritte nella base di questa tutte le indicazioni desiderabili in quei bruttissimi distici, gli artefici dovettero giudicare superfluo ripeterle in quella: se, invece, lo Scrigno fosse uscito da altre mani in altro tempo, il nuovo orafo avrebbe rivelato l'esser suo. E se, finalmente, mancando qualunque iscrizione nello Scrigno, lo Sciuto Patti vi ha trovato lo stemma di Catania e quello di casa Paternò, ciò vorrà dire che questa famiglia concorse all'opera, e che il lavoro fu eseguito in Catania: tutte cose che non escludono l'identificazione dei Johannes Bartolus et genitor sottoscritti nel Busto coi Giovanni, Bartolomeo e Bernardo Vitale esecutori dello Scrigno. Una sola parte del quale — per esaurire l'argomento — è senza dubbio, come dimostra lo Sciuto Patti, di altra mano: il coperchio, dove si legge la data del 1579; lavoro molto probabilmente di quel Paolo Guarna, catanese, a cui si debbono il bel reliquario del braccio di S. Giorgio serbato nel tesoro del Duomo e la stupenda porta del Tabernacolo nell'altar maggiore di S. Francesco.

tratto da "Catania" di Federico De Roberto - ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE 1907

 

 

Lo scrigno

 

Le reliquie del corpo, che per secoli furono conservate in una cassa di legno (oggi custodita nella chiesa di Sant'Agata la Vetere), dal 1576 si trovano in uno scrigno rettangolare d'ar­gento alto 85 centimetri, lungo un metro e 48, largo 56. Il coperchio è suddiviso in 14 riqua­dri che raffigurano altrettante sante che ono­rano Agata, la prima vergine martire della chie­sa. All'interno si conservano anche due docu­menti storici: la bolla pontificia di Urbano Il che conferma solennemente che sant'Agata nacque a Catania e non a Palermo, come voleva un'altra tradizione, e una pergamena del 1666 che proclama sant'Agata protettrice perpetua di Messina.

 

 

Le sette reliquie dello scrigno. Due contengono i femori della Santa, due le braccia con le mani, due le gambe

con i piedi,una la mammella. Il sacro Velo è da considerare l'ottavo reliquiario.

 

 

Compiuto lo Scrigno, e continuando le oblazioni all'Opera appositamente istituita, si pensò, nella seconda metà del Cinquecento, di costruire una sontuosa macchina per trarvi, nella solenne processione annuale, le reliquie della Santa. Questa Bara, come è volgarmente chiamata, o Ferculo, ha la forma d'un tempietto, con un basamento dal quale s'innalzano sei colonne sorreggenti la vôlta Immagine correlatao cupola: l'ossatura di legno ha un rivestimento di lamine d'argento in parte dorate; quelle della vôlta sono congegnate a scaglie o squame. Attorno allo zoccolo, in altrettante riquadrature, sono scolpiti a mezzo rilievo, da mano egregia, le scene del martirio e della traslazione; dagli orli inferiori della cornice pendono encarpi o festoni e lampade d'argento; sull'orlo superiore stavano infisse dodici statuette d'argento massiccio rappresentanti i dodici apostoli, ma una combriccola di ladri le portarono via, spogliando anche di molta parte dell'antico prezioso rivestimento la tre volte centenaria macchina, che la pietà dei fedeli volle poi restaurata. All'opera, compita in diverse età, contribuirono parecchi artefici, e primo di tutti, fra il 1540 e il 1550, essendo vescovo un Caracciolo, Antonio Arcifer o Archifel, figlio di Vincenzo, entrambi rinomati orafi catanesi; del quale Antonio sarebbero anche, secondo lo Sciuto Patti, i rocchi o terzi inferiori delle colonne, le specchiature a cesello che stanno fra i riquadri del martirio, e le graziose cariatidi di rame dorato che ornano lo stilobate. Mezzo secolo dopo, nel 1592, furono aggiunte le statuette a spese del vescovo Corionero, per opera d'un artefice di cui s'ignora il nome; più tardi ancora, intorno al 1638, la decorazione fu compiuta da Paolo Aversa, o meglio d'Aversa — cioè aversano, e non già catanese, secondo la correzione proposta dal di Marzo, il quale però attribuisce tutto il ferculo a questo artefice, facendolo lavorare al tempo del Caracciolo, quando invece gli sarebbe posteriore di più che un secolo.

 

 

 

 E da secoli, ogni anno, ricorrendo la festa della Santa, il ferculo è tratto in processione. Questa festa è uno degli spettacoli catanesi più singolari: chi ha letto La coda del diavolo di Giovanni Verga rammenterà ciò che ne dice il maestro novelliere: «A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma c'è in compenso la festa di S. Agata, gran veglione di cui tutta la città è il teatro». Il giorno 3 febbraio tutto il clero regolare e secolare, tutte le confraternite e congreghe pie — un tempo anche tutte le autorità municipali e governative — muovono dalla chiesa della Calcarella, dove i fedeli venerano la fornace dalla quale la martire uscì illesa, fino alla cattedrale, recando processionalmente l'offerta dei ceri. In coda al corteo, vistoso per le variopinte tonache e cotte dei seminaristi, dei preti, dei frati, dei canonici, dei vescovi, dei caudatarii, vengono le candelore, forse così chiamate dalla festa della Candelora celebratasi il giorno prima: pesanti macchine scolpite e dorate, colossali candelabri infiorati ed imbandierati, dove sono confitti gli enormi ceri offerti dalle varie corporazioni operaie. La sera di quello stesso giorno, schiere di devoti accompagnate da altrettante musiche scendono dai varii quartieri della città in piazza del Duomo; dove, dopo un'orgia di fuochi artificiali, cantano le laudi della Santa, e donde muovono poi a ripetere i cantici dinanzi alle case dei più ragguardevoli cittadini. Il domani all'alba, si schiude la cappella della Santa, disposta nell'abside minore di destra, che è uno dei cantucci della chiesa dove l'amante di cose d'arte trova da fermarsi più a lungo.

tratto da "Catania" di Federico De Roberto - ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE 1907

 

 

Dal momento che il corpo della loro celeste Patrona tornò così tagliuzzato presso di loro, i Catanesi ripresero a venerare con più fervore che mai quelle membra recise, e nel secolo XIV provvidero a serbarle in degne custodie. Il busto fu chiuso in un busto d'argento dorato, con la faccia e le mani di smalto, sorretto da un basamento ottagonale e fiancheggiato da due angioletti: la destra regge la croce accompagnata da gigli, nella sinistra è l'Epigrafe angelica. La base, che poggia sopra otto foglie rovesciate, di tipo gotico, è ricca di scorniciature e riquadri e tutta adorna di smalti, tra i quali due stemmi d'Aragona, quello di Catania ed altri di dubbia attribuzione, nonchè scene del martirio, figure di S. Agata e di S. Caterina d'Alessandria, e quelle dei due vescovi catanesi, Marziale e il suo successore Elia, entrambi francesi, anzi limosini, come è detto nell'iscrizione che gira attorno alla base:

Virginis istud opus Agathae sub nomine coeptum

martialis fuerat quo tempore praesul in urbe

Cataniae, cui pastor successit Helias;

Ambos Lemovicum clare produxerat ardor.

Fin qui i lettori dell'iscrizione sono concordi; la discordia incomincia per i quattro versi seguenti:

Artificis manus hoc (haec, hanc) fabricavit marte (arte) Joannes

Bartolus et genitor, celebris cui patria ceve (leve)

mille ter et centum post partum virginis almae

et decies septem sextoq. fluentibus annis.

La data, sulla quale non cade dubbio, dice chiaramente che l'opera fu fatta durante il soggiorno della Corte papale ad Avignone, dove il vescovo catanese Marziale si era recato presso Gregorio XI ad annunziargli l'assunzione di Federico III al trono di Sicilia, e dove morì, affidando la diocesi ed il compimento del reliquario al suo connazionale e successore Elia. Ma chi furono gli artefici della statua? Eugenio Müntz, poichè i lettori dell'iscrizione non sono d'accordo, leggendo alcuni cui patria Ceve, altri cui patria leve, addottò una terza interpretazione: cui patria Senam, identificando l'autore del busto catanese con Giovanni di Bartolo, senese, orafo per l'appunto alla Corte pontificia in Avignone, ed autore dell'altro celebre reliquario racchiudente le teste dei santi Pietro e Paolo.

 

 

Se non che, c'è una difficoltà. L'iscrizione non riesce bene decifrabile perchè il busto è tutto ricoperto di ex-voto offerti dalla pietà dei fedeli — tra i quali la corona regale che si dice esser dono di Riccardo Cuor di Leone al suo passaggio da Catania durante la crociata del 1191, la collana d'oro del vicerè de Acuña, varie insegne del Toson d'oro e dell'Ordine d'Alcantara, parecchie mammelle d'oro e d'argento, due delle quali portano incise le armi dei re di Spagna, e molti anelli pastorali e croci vescovili, tra le quali quella di Leone XIII, e un gran numero di minutaglie d'oro, d'argento, di corallo, d'ambra, e finanche orologi da tasca; — ma lo Sciuto Patti, dopo avere esaminato da vicino il reliquario, escluse assolutamente che si possa leggere cui patria Senam: l'iscrizione dice chiarissimamente cui patria Ceve: non regge quindi l'interpretazione del Müntz, il quale aveva eccitato molto entusiasmo, lasciando credere che fra i tesori artistici italiani si trovasse un'altr'opera uscita dalle miracolose mani del Bartoli.

E lo Sciuto Patti lo nega per altre ragioni che sarebbe troppo lungo riferire; se non che, escluso il Giovanni di Bartolo, resta ancora da vedere chi furono gli artefici nominati nell'iscrizione: Johannes Bartolus et genitor. Ed è strano come il nostro critico abbia avuto sotto gli occhi l'identificazione e non l'abbia compita. Glielo impedì l'aver voluto, contrariamente alle concordi affermazioni dei cronisti, distinguere gli autori del Busto da coloro che eseguirono lo Scrigno dove si custodiscono, in sette teche d'argento dorato e cesellalo di ottimo lavoro, le altre sparse membra della martire.

Questo Scrigno è una cassa a base rettangolare, con gli angoli tagliati e il coperchio a spigolo, rivestita internamente di velluto trinato d'oro ed all'esterno di lamine doppie d'argento vermicolato con figurine di santi a rilievo ed a cesello negli scomparti architettonici di stile gotico fiammeggiante: una fervida fantasia vi ha profuso i motivi ornamentali. Ora lo Sciuto Patti, leggendo negli Emailleurs limousins di Maurizio Ardant, che Giovanni e Bartolomeo Vitale «andarono a Catania in Sicilia per ornare di smalti il reliquario di S. Rosalia», e che il padre di Bartolomeo, Bernardo, «vi sarebbe stato anteriormente a cominciare il lavoro», riconosce che questi Vitali, chiamati nell'isola, eseguirono lo Scrigno: opinione non contrastata dal facile errore nel quale cadde e — trattandosi di uno scrittore francese che si occupa di cose italiane — doveva cadere l'Ardant; dallo scambio, cioè, di S. Rosalia, patrona di Palermo, con la protettrice celeste della minore Catania. Ma, riconosciuti così in Giovanni, Bartolomeo e Bernardo Vitale gli autori dello Scrigno, e negato che i nominati Johannes Bartolus et genitor del Busto fossero Giovanni di Bartolo da Siena e il padre suo, era ed è molto semplice e quasi necessario identificarli con Giovanni, Bartolomeo — o Bartolo che è tutt'uno — e Bernardo, padre, «genitor», per l'appunto, di Bartolomeo: tutti della famiglia Vitale, venuti da Limoges a Catania per attendere a questi lavori sacri. Intento a dimostrare, contrariamente alle concordi affermazioni di tutti i cronisti, che Busto e Scrigno non sono della stessa mano nè dello stesso tempo, lo Sciuto Patti non fece questa identificazione tanto naturale; alla quale non si oppongono gli argomenti da lui addotti per distinguer gli autori dello Scrigno da quelli del Busto. Se è vero, infatti, che esisteva in Catania un Opus Scrinei, una istituzione destinata a raccogliere fondi per la costruzione dello Scrigno, forse che bisogna perciò escludere come ordinatore del lavoro il vescovo Marziale e il suo successore Elia? Che cosa impedisce di ammettere che questi prelati, come ordinarono il Busto, così — coi denari dell'opera dello Scrigno — ordinassero quest'ultimo? Non è anzi naturale che commettessero insieme i due lavori — ed agli stessi artisti?

Se dall'esame dello stile risultasse che le due manifatture appartengono a tempi molto distanti, certo la supposizione cadrebbe; ma lo stesso Sciuto Patti afferma che lo Scrigno mostra di essere «di alquanti anni posteriore» al Busto; anni tanto pochi, da far ammettere una «quasi contemporaneità», con la quale, appunto, egli spiega l'origine dell'opinione che vuole lo Scrigno eseguito, come il Busto, per commissione ed al tempo dei vescovi Marziale ed Elia. Di Bartolomeo Vitale è provata l'esistenza fino al 1401: se, dunque, la cassa «mostra chiaro di appartenere, al più tardi, agli ultimi anni del secolo XIV, ma più probabilmente ancora ai primi del XV», le date concordano. Il fatto che in questa cassa non c'è iscrizione o segno che accenni minimamente alla data del lavoro nè a coloro che lo ordinarono e l'eseguirono, conferma precisamente che esso nacque ad un tempo con la statua: inscritte nella base di questa tutte le indicazioni desiderabili in quei bruttissimi distici, gli artefici dovettero giudicare superfluo ripeterle in quella: se, invece, lo Scrigno fosse uscito da altre mani in altro tempo, il nuovo orafo avrebbe rivelato l'esser suo.

E se, finalmente, mancando qualunque iscrizione nello Scrigno, lo Sciuto Patti vi ha trovato lo stemma di Catania e quello di casa Paternò, ciò vorrà dire che questa famiglia concorse all'opera, e che il lavoro fu eseguito in Catania: tutte cose che non escludono l'identificazione dei Johannes Bartolus et genitor sottoscritti nel Busto coi Giovanni, Bartolomeo e Bernardo Vitale esecutori dello Scrigno. Una sola parte del quale — per esaurire l'argomento — è senza dubbio, come dimostra lo Sciuto Patti, di altra mano: il coperchio, dove si legge la data del 1579; lavoro molto probabilmente di quel Paolo Guarna, catanese, a cui si debbono il bel reliquario del braccio di S. Giorgio serbato nel tesoro del Duomo e la stupenda porta del Tabernacolo nell'altar maggiore di S. Francesco.

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

La reliquia del seno

Fra tutte le città italiane di cui sant'Agata è compatrona, Gallipoli e Galatina, in Puglia, sono coinvolte in una singolare contesa che vede come protagonista una reliquia di sant'A­gata, la mammella.

Una leggenda diffusa in Puglia spiegherebbe con un miracolo la presenza della reliquia a Gallipoli. Si dice che l’8 agosto del 1126 sant'A­gata apparve in sogno a una donna e la avverti che il suo bambino stringeva qualcosa tra le laibbra. La donna si svegliò e ne ebbe conferma, ma non riuscì a convincerlo ad aprire la bocca.

Tentò a lungo: poi, in preda alla disperazione, si rivolse al vescovo. Il prelato recitò una lita­nia invocando tutti i santi, e soltanto quando pronunciò il nome di Agata il bimbo aprì la boc­ca. Da essa venne fuori una mammella, evi­dentemente quella di sant'Agata.

La reliquia rimase a Gallipoli, nella basilica dedicata alla santa, dal 1126 al 1389, quando il principe Del Balzo Orsini la trasferì a Galatina, dove fece costruire la chiesa di Santa Caterina d'Alessandria d'Egitto, nella quale è ancora oggi custodita la reliquia, presso un convento di frati cappuccini.

La donazione della reliquia agatina

ma solo ora il dott. Giuseppe Ragusa, chirurgo catanese, già primario in Veneto, e ora in pensione, l'ha resa nota. Un modo per celebrare sant'Agata come immancabilmente fa da sempre, anche vestendo il sacco, per ricordare la storia della sua famiglia e anche per esprimere un velato rammarico nei confronti della Chiesa catanese che poco si è prodigata nel ringraziamento per un atto che non era affatto scontato.

La storia della reliquia ora donata alla Cattedrale, e regolarmente esposta, in un reliquiario sull'altare della cappella di Sant'Agata, è affascinante ed è un pezzo di storia di Catania.

La reliquia, un frammento osseo della tibia racchiuso in una piccola teca in vetro e metallo dorato, venne affidata nel 1919 dall'Arcivescovo di Catania cardinale Giuseppe Francica-Nava de Bondifè, al monsignore don Salvatore Ragusa, Canonico maggiore della Cattedrale e Rettore della Chiesa di S. Maria delle Salette. La reliquia fu accompagnata da Autentica a firma del Cardinale datata 18 gennaio 1919, in cui si attestava essere «ex authenticis locis extractas».

Durante la seconda guerra mondiale, però, a seguito dei bombardamenti anglo-americani su Catania dell'aprile 1943, la Chiesa di S. Maria della Salette venne bombardata e distrutta; la reliquia che si credeva dispersa venne però recuperata miracolosamente indenne tra le macerie della Chiesa, e rimase sempre in custodia del Canonico Salvatore Ragusa, successivamente nominato Rettore della Parrocchia di S. Cristoforo Minore in Piazza Spirito Santo, sino alla sua morte avvenuta nell'Ottobre 1959. La reliquia rimase a quel punto in custodia del fratello del canonico, Giuseppe Ragusa.

«Alla sua morte avvenuta nel 1961 - spiega il dott. Ragusa - la reliquia fu custodita per oltre 50 anni, con immutata fede e devozione, da mio padre Salvatore fino alla morte, avvenuta il 12 gennaio di tre anni fa. Sarebbe dovuto toccare ora a me custodirla, ma le mie sorelle Maria Caterina, Elena e io moralmente non ci sentivamo di tenere per noi una cosa che, riteniamo appartiene alla città. Anzi ad Agata e quindi al Dna dei catanesi. Per questo abbiamo deciso, di comune accordo, di donare la sacra reliquia alla Cattedrale affinché potesse essere custodita e venerata nel luogo di provenienza originaria. Sono stato io stesso in compagnia di mia moglie Alba Compagnone a consegnarla in Cattedrale, il 19 dicembre 2012 nelle mani di mons. Barbaro Scionti. Di quel giorno abbiamo solo una ricevuta e una stretta di mano. Ecco, la donazione è quello che volevamo fare - puntualizza - ma ci aspettavamo che la Chiesa accogliesse meglio il nostro gesto: avremmo desiderato che fosse celebrata una funzione religiosa, alla presenza della nostra famiglia, in cui fossero ricordati lo zio canonico e mio padre che della preziosa reliquia sono stati gelosi custodi permettendo che tornasse alla città».

Rossella Jannello La Sicilia, 5.2.2015

 Velo di Sant'Agata

Il velo di Sant'Agata è una reliquia conservata nella Cattedrale di Catania in uno scrigno d'argento insieme ad altre reliquie della giovane. Secondo una leggenda è un velo usato da una donna per coprire la Santa durante il martirio con i carboni ardenti. Nei fatti il cosiddetto "velo" di colore rosso faceva parte del vestimento con cui Agata si presentò al g tunica bianca, l'abito delle diaconesse consacrate a Dio. Secondo un'altra leggenda il velo era bianco e diventò rosso al contatto col fuoco della brace.

Nel corso dei secoli, venne più volte portato in processione come estremo rimedio per fermare la lava dell'Etna

 

 

Le altre reliquie

A Palermo, nella Cappella regia, sono cu­stodite le reliquie dell'ulna e del radio di un braccio. A Messina, nel monastero del SS. Sal­vatore, un osso del braccio. Ad Ali, in provin­cia di Messina, parte di un osso del braccio. A Roma, in diverse chiese si conservano fram­menti del velo. A Sant'Agata dei Goti, in pro­vincia di Benevento, si conserva un dito. Altre piccole reliquie si trovano a Sant'Agata di Bian­co, a Capua, a Capri, a Siponto, a Foggia, a Fi­renze, a Pistoia, a Radicofani, a Udine, a Ve­nalzio, a Ferrara.

Anche all'estero si custodiscono piccole re­liquie di sant'Agata. In Spagna: a Palencia, a Oviedo e a Barcellona. In Francia: a Cambrai, Hanan, Breau Preau e Douai. In Belgio: a Bruxelles, a Thienen, a Laar, ad Anversa. E ancora, in Lussemburgo, nella Repubblica Ce­ca (Praga) e in Germania (Colonia).

 

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RICOGNIZIONE 8 aprile 1915Immagine correlata

Stato di conservazione delle reliquie, risultante dalla ricognizione fatta dall'arcivescovo Card. Nava nel 1915. Andando indietro nel tempo, altra ricognizione è stata effettuata l'8 aprile 1915 ber disposizione dell'allora arcivescovo di Catania Card. Giuseppe Francica Nava. Il relativo verbale fu pubblicato nel locale Bollettino Ecclesiastico. Ecco la parte che ci interessa: «Addì 8 aprile 1915, ore 16, in questa cattedrale, nella cappella di s. Agata, l'E.mo Card. Giuseppe Francica Nava arc. di Catania, l'Ecc.mo mons. Luigi Bignami arc. di Siracusa... l'Ill.mo ing. Salvatore Sciuto Patti R. Ispettore onorario dei monumenti... trovarono il mezzo busto d'argento di s. Agata ... ; al cenno dello stesso mons. arcivescovo fu tolta dagli orefici la cerniera che chiude la calotta. Lo stesso mons. arcivescovo trasse il venerabile capo della nostra martire ... : era scheletrico; conservava aderente al cranio la cotenna dì colore scuro, senza traccìa veruna dì capelli: e parte di pelle si è osservata dagli zigomi facciali in giù, ed anche parte di essa nella mandibola, la quale era staccata e trattenuta al teschio con due nastri di seta: l'uno antichissimo color rosa secca; l'altro rosso di epoca più recente. Rimanevano attaccati al teschio solamente alcuni denti molari di colore oscuro... Dalla testa vuota d'argento della statua di s. Agata, ove era collocata la s. reliquia, al riflesso di luce elettrica si è potuto osservare attentamente vari involti di colore bianco in cui indubbiamente devono essere conservati, come è memoria e tradizione, torace e viscere secchi, fatti in parte, ed ivi collocati quando fu fatto il simulacro. Essendo impossibile una ricognizione senza il guasto del mezzo busto d'argento, l'E. mo Arcivescovo ordinò che non lo si toccasse. Infine il venerabile corpo fu deposto nella cripta del tesoro... Can. Salvatore Puglisi Grassi, Cancelliere arcivescovile». A ciò il sac. Giuseppe Consoli aggiunge: «A ltre persone allora presenti ed ancora viventi, come il rev. mons. Maugeri, oggi priore della cattedrale ed il can. Giovanni di Giovanni attestano che un intenso soave profumo esalava dalle venerate viscere. Così il sac. Giuseppe Consoli-Zappalà allora viceministro del seminario arcivescovile e direttore della "Schola cantorum”. che era presente, attesta di essersi trovato fortuitamente vicinissimo al sacro Capo e di aver osservato in esso la presenza di capelli ondulati e aderenti alla regione destra» .

Bollettino Ecclesiastico dell'arcidiocesi di Catania.

 

 

 

PARTICOLARI DEL TESORO

 

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LA CORONA DI SANT' AGATA

È uno dei gioielli più importanti e preziosi della Santa databile tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV . È un cerchio d'oro composto da 13 placche rettangolari, unite tra loro da cerniere e sovrastate da mergoli, al centro una perla bianca scaramazza a forma di fenice e lateralmente pregiate pietre preziose.

Secondo la tradizione la corona fu donata da Riccardo Cuor di Leone ,ma non ci sono documenti che lo attestano.

(Milena Palermo)

 

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LA TAVOLETTA MARMOREA COLLOCATA DALL'ANGELO DENTRO IL SEPOLCRO E ACCANTO ALLA TESTA DI SANT'AGATA, NELL'ATTO STESSO DELLA SUA SEPOLTURA, FONTE DELLA ININTERROTTA ECO DELL'ELOGIO ANGELICO

"MSSHDEPL"

Dal libro "Il martirio di Sant 'Agata nel quadro storico del suo tempo "di Monsignor Santo D'Arrigo

 

-L'ultima testimonianza, lontana da noi nel tempo, ma prima d'ogni altra resa al corpo di Sant'Agata nel momento stesso, in cui esso veniva collocato dentro la tomba, è la tavoletta marmorea, depostavi da un giovane dall'abito di seta ivi apparso tra la folla, assieme a un centinaio di bei bambini vestiti di graziosi indumenti.

In quella tavoletta di marmo erano scolpite le sigle MSSHDEPL, che il redattore del martirio di S.Agata dice che furono subito interpretate ed espresse con le seguenti parole latine "mentem sanctam spontaneam,honorem Deo et patriae liberationem ".

Di tale fatto occorre vagliare anzitutto il valore storico originario e in secondo luogo la ininterrotta catena di documentazioni attestative,che si susseguono fino ad oggi.

Il valore storico di tale fatto avvenuto nel momento della sepoltura del corpo di Sant'Agata è affermato dall'autore stesso, che ha stilato la narrazione del martirio di Sant' Agata, a noi pervenuta nella sua redazione in lingua latina :questo redattore si dichiara testimonio oculare dell'intervento di tale giovane; aggiunge che,essendo sul posto, egli volle spiare attentamente la presenza, il comportamento e i movimenti del giovane; fa rilevare di aver svolto particolari indagini per sapere se il giovane, una volta scomparso, eventualmente fosse stato ancora incontrato in città o anche nella regione circostante; e conclude dicendo che,a seguito delle indagini esperite, egli ed altri assieme a lui addivennero nella supposizione che quel giovane fosse l'Angelo custode della martire.

Tale fatto è avvalorato anche dalla testimonianza dell'autore d'un prefazio scritto in onore di Sant' Agata, che si attribuisce a Sant'Ambrogio.Tale prefazio se non è di S.Ambrogio, per lo meno è della stessa epoca; ed in esso si afferma che "al momento in cui le membra di S.Agata venivano seppellite, rifulsero del particolare onore ,reso loro da un coro di angeli,che con tale omaggio elogiavano la santità dell'anima di Agata e ne preannunciavano la missione liberatrice a favore della sua patria".

Il Dufourcq ha rilevato che anche nella narrazione del martirio di S.Cecilia si allude a un angelo, che depose un'iscrizione sulla tomba della Santa martire romana:però lo stesso critico riconosce che,per quanto riguarda il caso di S.Agata, la testimonianza resa dal prefazio di S.Ambrogio essendo del V secolo è anteriore d'un secolo nei confronti della redazione del martirio di S.Cecilia, che è della fine del VI secolo; ed inoltre il Dufourcq ritiene che l'autore del prefazio di S.Agata abbia potuto attingere la notizia da una più antica tradizione orale, la quale a sua volta sarebbe derivata da un testo scritto a noi sconosciuto ma ancora piu antico e perciò originario.

Peraltro bisogna aggiungere e rilevare che della lapide di S.Cecilia non si è saputo mai niente e non è rimasta alcuna traccia, mentre che della lapide di S.Agata c'è la catena di documentazioni, che si susseguono da allora fino ad oggi e ne garantiscono non solo l'originario valore storico, ma anche l'attuale sua sopravvivenza o che dir si voglia esistenza.

E così passiamo alla seconda parte di considerazioni ,relative alla ininterrotta catena di documentazioni attestative dell'autenticità della lapide e alla verifica della sua attuale esistenza.

Anzitutto un grande scrittore, storico, canonista e liturgista del Medio Evo,Guglielmo Durando morto nel 1296 ci informa che ai suoi tempi era ancora viva l'eco delle vicende del martirio di S.Agata e si rilevava che la martire,dopo aver subito tante torture, era morta in carcere e che al momento in cui essa veniva seppellita, apparve un Angelo, il quale provvide a deporre accanto alla testa della Santa una tavoletta in cui c'era scritto :MENTE SANTA SPONTANEA, ONORE PER DIO E LIBERAZIONE DELLA PATRIA;dopo di che invalse la consuetudine di celebrare ogni anno una processione con quella tavola unita all'immagine della Santa. Guglielmo Durando non parla dei luoghi in cui era invalsa quella consuetudine :ma è chiaro che, inizialmente e prevalentemente, quel rito,divenuto così notorio e tradizionale, non poteva non celebrarsi pure a Catania, ove soltanto quella tavoletta, anche se unita all'immagine di Sant' Agata, trovava il suo proprio significato e il più saliente motivo di evocazione festosa.

Tale consuetudine che si sarebbe svolta presumibilmente a Catania dovette durare fino all'anno 568,anno in cui in occasione della invasione dei Longobardi, approfittando del trambusto generale, un prete trafugo' la tavoletta da Catania e la portò a Cremona, ove,presso la porta "Pertusia",promosse la erezione di un tempio in onore di Sant' Agata.

Fino a quel tempo la tavoletta fu vista che era di marmo bianchissimo :e la notizia fu tramandata oralmente fino a quando poté essere raccolta da un tale p.Giulio Mazzarino, il quale la riferì a Giovanni Bollando,che la registrò negli "Acta Sanctorum".https://www.mimmorapisarda.it/altro/agata553.jpg

Il prete che portò la tavoletta a Cremona, testimonio' del culto con cui i catanesi la circondavano, sarà stato lui a far si che anche a Cremona la tavoletta fosse portata apertamente in giro per la città al chiarore di tanti lumi accesi e col concorso della folla dei fedeli,specialmente donne, che per l'occasione incominciarono a nutrire particolare devozione verso la Santa martire.

Quel tempio durò fino al X secolo. Il 24 aprile 1077,mentre era papa Gregorio VII,uomini e donne di Cremona, devoti di Sant' Agata, promossero la costruzione d'un'ampia basilica da dedicare al Salvatore e a S.Pietro,e in quello stesso luogo stipularono l'atto di fondazione d'un attiguo monastero da dedicare a Dio E a Sant'Agata.Ultimati i lavori di costruzione della basilica, vi collocarono in apposita grande cappella la s.Tavoletta di S.Agata :di tale basilica fecero dono allo stesso sommo pontefice, che l'accettò e ne diede atto con un Breve Apostolico, citato da Giovanni Bollando.La testimonianza di tale avvenimento è confermata anche da un Privilegio,concesso in quel tempo da Enrico IV,in cui si dice che tale imperatore volle gratificare i cremonesi perché nel costruire quella basilica avevano dichiarato di averlo fatto per l'onore di Dio e per la incolumità del Sacro Romano Impero;è confermata anche dal papa Urbano Il nel 1090 in occasione dell'incarico, che egli diede ai Canonici Lateranensi di amministrare a nome della Sede Apostolica quella Basilica.

Altra conferma proviene dal fatto che il vescovo di Cremona, lo storico Sicarno,morto nel 1215 aveva attestato di avere appreso da precedente relazione che quella tavoletta era stata portata a Cremona circa l'anno 568 ed era stata collocata in una piccola chiesa, costruita in onore di S.Agata nel suburbio di Cremona presso la porta "Pertusia"anzidetta, dalla quale chiesa la "tavoletta"fu trasferita successivamente nella più grande summenzionata basilica:lo stesso è affermato dei Campi,autore d'una storia di Cremona.

Altra testimonianza proviene dal fatto che nel 1575,allorquando S.Carlo Borromeo, sottopose quella basilica a visita pastorale disponendo nel contempo la ricognizione delle reliquie ivi custodite,nel riscontrare la cassetta, ove era chiusa la tavoletta di

S.Agata ancora intatta senza alcun segno di manomissione, non osò disigillarla ma,prostratosi in ginocchio, si limitò solo a pregare e a venerarla.

Lo stesso fece poi dopo qualche anno il locale vescovo di Cremona Nicola Sfondato,divenuto poi in seguito nel 1580 papa Gregorio XIV.

Nel 1760 il Capitolo della Cattedrale e il civico Senato di Catania scrissero all'allora vescovo di Cremona Mons.Franceschi,per indurlo a voler effettuare finalmente una ricognizione della preziosa tavoletta dell'elogio di Sant' Agata, custodita nell'omonima basilica di quella città, allo scopo di averne una confortevole relazione :ma non si ebbe altra risposta, se non la brusca affermazione che il popolo cremonese non era assolutamente disposto acche' la cassetta contenente la lapide di Sant' Agata venisse manomessa, per evitare che i catanesi avanzassero eventuale pretesa tendente alla restituzione del presumibile furto di quella tavoletta.

Altro tentativo fece Mons Salvatore Romeo scrivendo nel 1922 all'allora Abate della basilica di Sant' Agata in Cremona Mons. Agostino Desirelli,per avere un ragguaglio della tradizione storica e della situazione attuale, riguardanti la tavoletta elogiativa di Sant' Agata, ivi custodita, ma non ottenne alcuna risposta che un sommario accenno dell'iter storico, da me ora riferito e una sobria descrizione della tavoletta, con l'esplicita aggiunta che non si poteva prevedere altro:"perché il sacro deposito essendo stato trasportato da Catania a Cremona incassato,come di presente si trova e inchiodato in tavola dipinta, non essendo stato mai disserrato, nessuna memoria certa c'è della sua forma, né delle sue qualità ".

L'ultimo tentativo fu fatto nel 1951 dal sac.Giuseppe Consoli, cui da Cremona fu inviata una risposta sorprendentemente quasi identica a quella inviata nel 1922 a Mons.Salvatore Romeo.

A conclusione di quanto sopra ho riferito, ritengo dover affermare che urge la necessità di persuadere i cremonesi a decidersi di aprire la cassetta contenente la preziosa lapide elogiativa di Sant' Agata, con tutte le possibili precauzioni, cautele e garanzie che essi potrebbero esigere :la verità e il coraggio non nuocera' ad alcuno.Soltanto così si può contribuire a dare un ulteriore più valido contributo alla gloria e al culto, con cui i cremonesi hanno tanto onorato Sant'Agata attraverso 14 secoli di possesso di quella lapide.

Noi catanesi attendiamo un tale gesto di sensibilità e di maturità umana e cristiana da parte dei cremonesi e speriamo di non rimanere delusi.

Nel giorno in cui,io mi auspico, ciò avvenga,Sant'Agata certamente si compiacera' dal cielo.

Peraltro da quella tavoletta, dal suo indubbio valore archeologico, dal significativo messaggio paleografico ed epigrafico, che da essa scaturirà, ne proverra' certamente un incalcolabile vantaggio alla riscoperta del valore storico del martirio di Sant' Agata.

In caso contrario, nel caso cioè che i cremonesi si rifiutassero di far venire alla luce del sole non fosse altro che il contenuto letterale di quell'epigrafe MSSHDEPL, ove all'esaltazione dell'onore di Dio è collegato il fremito dell'amor patrio, tutti ne avremmo un'amara e profonda mortificazione,giacché quell'epigrafe sin dall'VIII secolo è già nota a tutto il mondo cristiano, essendo stata essa sin d'allora incisa sulle piu celebri nostre campane:epici bronzi destinati a fondere in un unico suono gli animi e le voci delle nostre genti e a farli scattare ogni qual volta ci si sente trepidare "pro aris et focis".-

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grazie a Milena Palermo, titolare dle profilo facebook OBIETTIVO CATANIA

 

 

S.AGATA LA VETERE

 

 

Compiuto lo Scrigno, e continuando le oblazioni all'Opera appositamente istituita, si pensò, nella seconda metà del Cinquecento, di costruire una sontuosa macchina per trarvi, nella solenne processione annuale, le reliquie della Santa. Questa Bara, come è volgarmente chiamata, o Ferculo, ha la forma d'un tempietto, con un basamento dal quale s'innalzano sei colonne sorreggenti la vôlta o cupola: l'ossatura di legno ha un rivestimento di lamine d'argento in parte dorate; quelle della vôlta sono congegnate a scaglie o squame. Attorno allo zoccolo, in altrettante riquadrature, sono scolpiti a mezzo rilievo, da mano egregia, le scene del martirio e della traslazione; dagli orli inferiori della cornice pendono encarpi o festoni e lampade d'argento; sull'orlo superiore stavano infisse dodici statuette d'argento massiccio rappresentanti i dodici apostoli, ma una combriccola di ladri le portarono via, spogliando anche di molta parte dell'antico prezioso rivestimento la tre volte centenaria macchina, che la pietà dei fedeli volle poi restaurata. All'opera, compita in diverse età, contribuirono parecchi artefici, e primo di tutti, fra il 1540 e il 1550, essendo vescovo un Caracciolo, Antonio Arcifer o Archifel, figlio di Vincenzo, entrambi rinomati orafi catanesi; del quale Antonio sarebbero anche, secondo lo Sciuto Patti, i rocchi o terzi inferiori delle colonne, le specchiature a cesello che stanno fra i riquadri del martirio, e le graziose cariatidi di rame dorato che ornano lo stilobate. Mezzo secolo dopo, nel 1592, furono aggiunte le statuette a spese del vescovo Corionero, per opera d'un artefice di cui s'ignora il nome; più tardi ancora, intorno al 1638, la decorazione fu compiuta da Paolo Aversa, o meglio d'Aversa — cioè aversano, e non già catanese, secondo la correzione proposta dal di Marzo, il quale però attribuisce tutto il ferculo a questo artefice, facendolo lavorare al tempo del Caracciolo, quando invece gli sarebbe posteriore di più che un secolo.

E da secoli, ogni anno, ricorrendo la festa della Santa, il ferculo è tratto in processione. Questa festa è uno degli spettacoli catanesi più singolari: chi ha letto La coda del diavolo di Giovanni Verga rammenterà ciò che ne dice il maestro novelliere: «A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma c'è in compenso la festa di S. Agata, gran veglione di cui tutta la città è il teatro». Il giorno 3 febbraio tutto il clero regolare e secolare, tutte le confraternite e congreghe pie — un tempo anche tutte le autorità municipali e governative — muovono dalla chiesa della Calcarella, dove i fedeli venerano la fornace dalla quale la martire uscì illesa, fino alla cattedrale, recando processionalmente l'offerta dei ceri. In coda al corteo, vistoso per le variopinte tonache e cotte dei seminaristi, dei preti, dei frati, dei canonici, dei vescovi, dei caudatarii, vengono le candelore, forse così chiamate dalla festa della Candelora celebratasi il giorno prima: pesanti macchine scolpite e dorate, colossali candelabri infiorati ed imbandierati, dove sono confitti gli enormi ceri offerti dalle varie corporazioni operaie.

La sera di quello stesso giorno, schiere di devoti accompagnate da altrettante musiche scendono dai varii quartieri della città in piazza del Duomo; dove, dopo un'orgia di fuochi artificiali, cantano le laudi della Santa, e donde muovono poi a ripetere i cantici dinanzi alle case dei più ragguardevoli cittadini. Il domani all'alba, si schiude la cappella della Santa, disposta nell'abside minore di destra, che è uno dei cantucci della chiesa dove l'amante di cose d'arte trova da fermarsi più a lungo.

La macchina centrale eretta sull'altare, rappresentante la vergine catanese incoronata dai Ss. Pietro e Paolo; la porta del sacello scavato nel muro di sinistra, adorna di colonnine sostenute da arpie ed a loro volta sostenenti una decorazione nel mezzo della quale è ripetuta la figura della Santa ritta sull'elefante; e nel lato destro il monumento sepolcrale di don Ferrante de Acuña, vicerè di Sicilia, sono le sole sculture della fine del Quattrocento che restino in Catania: opere di squisita fattura, segnatamente le teorie d'angeli che si svolgono nel fregio della macchina centrale. Dalla porta del sacello, chiusa da una doppia cancellata, i dignitari ecclesiastici penetrano nel ricettacolo, dove sono dipinte a fresco le figure di Giliberto e Goselino, e nella cui più recondita nicchia si custodiscono il Busto e lo Scrigno: questi sono tratti fuori, e dopo una breve esposizione sull'altare maggiore, sono disposti nel ferculo che aspetta alla porta della chiesa: allora al grave suono del campanone, fuso e rifuso cinque volte dal 1388 al 1614, e pesante più di mille chilogrammi, una folla di devoti insaccati in grandi tuniche bianche e col capo coperto da un berretto di velluto nero, trascina la Bara preceduta dalle candelore per la cerchia delle antiche mura, troppo poca parte delle quali è ancora visibile qua e là, alla Marina, al Santo Carcere e in via del Plebiscito. Il giorno dopo, 5 febbraio, che è il giorno propriamente consacrato dal calendario romano a S. Agata, la stessa processione è ripetuta per le vie interne; in questa occasione le signore catanesi di tempi non troppo remoti — poichè ne serbano memoria anche i non troppo vecchi — esercitavano quel diritto di 'ntuppatedda, o imbacuccata, sul quale il Verga impostò la già citata sua novella: tutte chiuse in grandi manti neri, con la testa anch'essa coperta, col viso nascosto, e lasciando vedere, per vederci, un occhio solo, esse andavano attorno e fermavano i loro parenti od amici, o i semplici conoscenti ai quali volevano giocare qualche tiro; perchè i cavalieri che le imbacuccate onoravano della loro scelta avevano il dovere di accompagnarle dovunque e finchè ad esse piacesse, e di soddisfare i loro capricci nei negozii, nelle botteghe dei confettieri e dei gioiellieri, senza poter sollevare un lembo del manto, senza poterle seguire quando si vedevano lasciati in asso, senz'altro mezzo di riconoscerle fuorchè quello di rivolger loro domande più o meno suggestive, alle quali esse rispondevano, come al veglione, con voce alterata, o non rispondevano affatto: singolare usanza, che dovette dar luogo a chi sa quante commedie e forse anche drammi, e degna di ispirare, prima che tramontasse, la bellissima novella di uno dei suoi ultimi testimoni.

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

Il fercolo ( a vara)

 

Il fercolo di sant'Agata o vara (in catanese), prima del 1379 era in legno dorato molto pregiato, è un tempietto di argento che ricopre una struttura in legno, riccamente lavorato, che trasporta il busto-reliquiario della santa catanese e lo scrigno, in argento, entro cui sono custodite tutte le reliquie di sant'Agata. Costruito nel 1518, in puro stile rinascimentale, è finemente cesellato e ornato, sul tetto di copertura, da dodici statue raffiguranti gli apostoli. Ha forma rettangolare ed è coperto da una cupola, anch'essa rettangolare, poggiata su sei colonne in stile corinzio.

 

 

 

Fu costruito dall'artista orafo Vincenzo Archifel operante a Catania dal 1486 al 1533. Il fercolo, in gran parte ristrutturato dopo i bombardamenti della guerra, è d'argento massiccio. Si muove su quattro ruote (rulli cilindrici in acciaio con battistrada in gomma piena) e viene trainato tramite due cordoni, al cui capo sono collegate quattro maniglie, lunghi ciascuno circa 130 metri, dai cittadini nel caratteristico saccu.

Ogni cordone presenta in testa un sistema di quattro corde con maniglia che permette di tenere costantemente e regolarmente in tensione il cordone stesso. Venne, in gran parte, ricostruito nel 1946 dopo i danni subiti da un bombardamento nel corso della seconda guerra mondiale.
Dall'addobbo floreale della vara si può riconoscere se si è alla processione del giorno 4 o a quella del giorno 5 febbraio. Infatti, i fiori che addobbano il fercolo, sempre garofani, sono di colore rosa[8] nella processione del giorno 4 febbraio e di colore bianco[9] nel giro interno del giorno del martirio che si festeggia il 5 febbraio.

 

 

 

 

Ascensori, passaggi e tesori - Le leggende del Duomo

04 Febbraio 2014 - di Fernando Massimo Adonia

 http://catania.livesicilia.it/2014/02/04/ascensori-passaggi-e-tesori-le-leggende-del-duomo_279436/

 

CATANIA - Non c'è culto senza mistero e viceversa. E neanche misteri, ma rigorosamente al plurale. Sono inevitabili, infatti, le leggende metropolitane connesse ai palazzi storici della città. Storie e storielle dal vago sapore d'ignoto. Non sfugge a questo destino neanche la basilica cattedrale di Catania. Il cuore pulsante del culto agatino. Ed proprio su Agata, e i luoghi che accolgono i suoi resti mortali, che la fantasia di tutti si fa più fervida. LiveSicilia ha passato in rassegna le storie più colorate, e quindi meno fondate, che riguardano la sede della cattedra vescovile, avvalendosi della consulenza del viceparroco don Giuseppe Maieli: “Molti luoghi non sono facilmente accessibili – esordisce - e siccome la gente è curiosa ci s'immagina chissà che cosa”.

 

 

Le leggende più persistenti riguardano, ovviamente, il sacello, il luogo dov'è conservato il busto reliquiario e lo scrigno: “Molti pensano – spiega il viceparroco - che nella cameretta di sant'Agata ci siano sette porte. No, sono semplicemente due. Quella esterna, aperta il 4 febbraio dal capovara assieme agli esponenti del Comune, e poi una seconda porta di ferro. Immediatamente, poi, si arriva alla Santa. In realtà è una stanzetta piccolissima. Se si vuole capirne la grandezza, bisogna andare dall'altro lato della cattedrale. I due lati sono a specchio. A sinistra del santissimo sacramento c'è uno spazio uguale, dove teniamo gli strumenti per l'amplificazione. Sant'Agata, comunque è posta lateralmente nella stanzetta. Non è messa chissà da quale parte. E non c'è neanche alcun fiume sotterraneo che scorre”.

All'interno del sacello non c'è neanche alcun ascensore: “Non si scende e non si sale”, insiste Maieli. “Non c'è dove andare. Entrando, sulla sinistra, c'è una specie di armadio. Ci sono due ante d'argento molto preziose. Sopra c'è il busto reliquiario e sotto lo scrigno. Per estrarli, si entra nella stanzetta con un piccolo carrellino che può essere sollevato fino al busto. Insomma, è un'operazione semplicissima”.

 

i 12 responsabili del fercolo

CATANIA - Il nuovo maestro del Fercolo ha nominato i dodici responsabili che lo affiancheranno nella conduzione delle operazioni della processione delle sacre reliquie di Sant'Agata che il 4 e 5 febbraio, come da tradizione, saranno esposte in giro per la città di Catania.

Il capovara Claudio Consoli, nominato per la prima volta congiuntamente da Comune e curia ha indicato i seguenti nomi: Gaetano Luigi Sciolti sarà responsabile Casa del Fercolo.

Salvatore Diolosà sarà responsabile delle Maniglie; Giuseppe Testa e Gaetano Pierini saranno responsabili dello smaltimento della cera. Luigi Alberti è stato indicato come responsabile dello Scrigno.

Luciano Mirabella, Matteo Minacapelli, Benedetto Principato, Michele Bonanno e Ugo Tomaselli saranno i responsabili del Fercolo. Al Baiardo anteriore ci sarà Giuseppe Laudani, mentre Antonio Spina sarà responsabile del Baiardo posteriore.

 

 

 

 

 

LE STAZIONI DEL MARTIRIO DI AGATA

 

 

Non ci sono neanche passaggi segreti”, Maieli sfata un altro bisbiglio leggendario. “Ci sono ovviamente, però, dei percorsi che portano dalla cattedrale al campanile. È pur sempre una basilica normanna. Allora, non si pensava a delle vie ordinate con scale e corridoi a norma come oggi. Certo, percorrerli dà un po' l'idea del castello, ma non c'è nulla di tetro in tutto ciò. Ce n'è poi un altro, all'interno della cappella della Madonna che ci conduce alla casa del Vescovo. Era ovvio che fosse escogitato un simile sistema. Non si può pensare che il Vescovo, per entrare nella sua chiesa, debba passare dall'esterno. Quindi, un percorso esiste. Ma, anche in questo caso, non c'è nulla di fantasioso. Ci sono semplicemente delle porte che si chiudono e si aprono come in qualsiasi casa. Dovesse piovere, scusando la battuta, il Vescovo arriverebbe asciutto”.

 

 

 

 

Sono sei gli uomini sotto il fercolo: quattro cricchisti (da crick, per sollevare il fercolo all'occorrenza) e due frenatori (uno avanti e uno dietro). Manovrano attraverso luci che cambiano colore secondo quello che ordina da sopra il Capovara.

 

Sotto il pavimento della Cattedrale, come in ogni chiesa immaginata prima delle vicende napoleoniche, vi è una cripta per seppellire i defunti. Secondo alcune leggende metropolitane, vi sarebbero custoditi dei tesori. Nulla di tutto ciò anche in questo caso: “Ci sono soltanto i corpi di alcuni dei nostri vescovi del passato. Ma è tutto chiuso. Sono zone inaccessibili”.

Nelle speranze di Maieli c'è invece che sia resa fruibile al pubblico la parte sottostante il presbiterio: “C'è una tomba o, forse, una cappella. Per accedervi c'è un ingresso, ma normalmente è chiuso. Lo abbiamo dovuto aprire, ultimamente, per verificare la stabilità della base dell'altare in previsione del ponteggio che è stato costruito. Allora ho visto per la prima volta questo monumento. È caratteristico ed in più ci dimostra come ci fosse, in epoca precedente alla costruzione della cattedrale, un luogo per il culto dei defunti. Quest'area, quindi, è stata considerata importante sin dalle origini della presenza cristiana a Catania. Sarebbe bello renderlo visitabile. Ma ci vuole tempo, soldi, e, perché no, qualche finanziamento”.