Negli anni in cui visse Agata, a metà del III secolo, l'impero romano aveva già raggiunto la massima estensione territoriale. I suoi confini andavano dalla Penisola iberica alla Mesopotamia, dalla Britannia all'Egitto, abbracciando popoli, lingue, religioni e costumi molto di­versi tra loro.

Il governo centrale si era preoccupato di dare uniformità alle terre conquistate imponendo a tutti la lingua latina, le leggi di Roma e la propria religione, ma non era in grado di amministrarle e di controllarle direttamente. Per questo aveva affidato ogni provincia a un proconsole o a un governatore, funzionari che godevano sia dei poteri civili che di quelli militari: imponevano e riscuotevano le imposte, amministravano la giustizia, comandavano l'esercito.

Ai tempi dell'imperatore Decio, Catania era una città ricca e fiorente, che per di più godeva di un'ottima posizione geografica. Il suo grande porto, nel cuore del Mediterraneo, rappresentava uno dei più vivaci punti di scambio commerciale e culturale dell'epoca. Le fonti storiche narrano che era amministrata dal pro­console Quinziano, uomo rude, prepotente e superbo.

Con moglie e famiglia, una corte numerosa, le guardie imperiali e una schiera di servi, alloggiava nel ricco palazzo pretorio, un enorme complesso di edifici con annesse aule giudi­ziarie e carceri, in cui si svolgevano tutte le attività pubbliche della città.

 

 

 

 

LE PERSECUZIONI

Sin dal 264 a.C., anno in cui con la prima guerra punica Roma sottrasse l'isola ai Carta­ginesi, in Sicilia era stata imposta la religione pagana dei Romani, col suo carico di divinità popolane e goderecce, esempi di corruzione e di dissolutezza nei costumi.

Quando la comunità cristiana iniziò a essere abbastanza ampia, intorno al 40 d.C., si abbatterono su di essa le prime persecuzioni. Inizialmente con Nerone, a metà del primo secolo, ebbero carattere soltanto occasionale. Poi, nel corso del Il secolo, fu data loro una ba­se giuridica mediante una legge che vietava il culto cristiano.

Di questi primi secoli la Chiesa ricorda numerosi martiri che, con il loro coraggio e la determinazione nell'accettare la morte per Cristo, contribuirono ad accelerare la diffusione del cristianesimo.

All'inizio del III secolo, l'imperatore Settimio Severo emanò un editto di persecuzione. Egli stabilì che i cristiani dovessero essere prima de­nunciati alle autorità e poi invitati a rinnegare pubblicamente la loro fede. Se accettavano di tornare alla religione pagana avevano dirit­to al libellum, una sorta di certificato di confor­mità religiosa, ma se si rifiutavano di sacrificare agli dèi, venivano prima torturati e poi uccisi. Con questo sistema, freddo e calcolatore, l'imperatore cercava di fare apostati, cioè persone che abbandonavano la fede cristiana, e non martiri, che erano considerati più pericolosi dei cristiani vivi.

Poi, di fronte al diffondersi del cristianesimo e temendo che l'aumento dei fedeli potesse minacciare la stabilità dell'impero, nel 249 l'imperatore Decio ordinò una repressione an­cora più radicale: tutti i cristiani, denunciati o no, erano ricercati d'ufficio, rintracciati, tor­turati e infine uccisi.

 

AGATA «LA BUONA»

In quegli anni, a metà del III secolo, a Catania nasceva Agata. La data non è mai stata storicamente accertata con esattezza, ma fu calcolata a ritroso partendo da un'altra che invece è certa, cioè il martirio avvenuto nel 251. La tradizione popolare e gli antichi atti vo­gliono che Agata, al momentò del martirio, fosse poco più che adolescente. Per questo mo­tivo si fa risalire la sua nascita intorno all'anno 235. Una voce aggiunge anche il giorno:

l’8 settembre, facendolo coincidere con una delle date più importanti del culto mariano, quella della nascita della Madonna.

La sua era una famiglia nobile e ricca. Pos­sedeva case e terreni coltivati, in città e in pro­vincia. Il padre Rao e la madre Apolla decise­ro di chiamarla Agata, che in greco significa «la buona». In questo nome c'era già racchiuso il suo destino: bontà e purezza furono, infatti, le doti che distinsero Agata sin dalla prima infanzia.

La tradizione popolare identifica nei ruderi di una villa romana, al centro della città, la ca­sa natale di Agata. In questo luogo in seguito è stato posto un piccolo altare che, in ogni pe­riodo dell'anno, è tanto ricco di fiori da sem­brare un giardino a primavera.

Dei suoi primi anni di vita non ci sono giunte testimonianze documentate, ma si può sup­porre che sin dalla più tenera eta Agata abbia ricevuto dai genitori una buona educazione e che dal loro esempio abbia appreso il valore delle virtù cristiane: la preghiera, la rinuncia al­le ricchezze terrene, il coraggio nello scegliere Cristo.

Agata trascorreva le giornate della sua ado­lescenza in un sereno ambiente familiare. Era obbediente ai genitori, che amava profonda­mente, ma più di ogni cosa amava Dio. Fuggi­va il lusso e la vita mondana, che invece erano al centro degli interessi delle coetanee di pari grado sociale.

 

 

 

Cresceva in santità: metteva tutto il suo im­pegno nelle semplici cose di ogni giorno per imitare e testimoniare Gesù. E fu questo alle­namento quotidiano alla rinuncia e al sacrificio che le permise di prepararsi ad affrontare la grande prova del martirio. Ma Agata cresceva anche in bellezza: il suo corpo era slanciato, i lineamenti delicati, le labbra rosee, i capelli biondi. La voce del popolo l'ha descritta per se­coli così, e in questo modo l'arte sacra l'ha sempre raffigurata. Qualcuno ha pensato di trovare una conferma, sia dell'altezza che del colore dei capelli, nelle ricognizioni fatte periodicamente sulle reliquie della santa.

Come un bocciolo di rosa, la sua bellezza era nella grazia delle forme e nel pudore che le ri­vestiva. Bellezza, candore e purezza verginale facevano di Agata una creatura davvero ange­lica.

LA CONSACRAZIONE A DIO

Molto presto, già negli anni dell'infanzia, Agata ebbe chiaro nel cuore il desiderio di do­narsi totalmente a Cristo. Per lo Sposo celeste provava un sentimento semplice e spontaneo, ma anche così forte che era impaziente di pro­nunciare il voto di verginità.

Nel segreto dell'animo si era già promessa a Dio e, quando non aveva ancora compiuto 15 anni, sentì che era giunto il momento di con­sacrarsi solennemente. il vescovo di Catania ac­colse la sua richiesta e, durante una cerimonia ufficiale chiamata velatio, le impose il flam­meum, il velo color rosso fiamma che porta­vano le vergini consacrate.

Agata da quel giorno divenne sposa di Cristo. Aveva atteso con ansia e trepidazione quel momento e aveva pregato tanto Dio di poter offrire a lui il suo cuore puro. Così, dopo tanta attesa, la consacrazione la rese profondamente felice, consentendole di vivere in preghiera e medi­tazione.

 

 

 

LA FUGA E L'ARRESTO

Un giorno, il proconsole Quinziano fu infor­mato che in città, tra le vergini consacrate, vi­veva una nobile e bella fanciulla. Decise allora che doveva conoscerla. Ordinò ai suoi uomini che la catturassero e la conducessero al pa­lazzo pretorio: si trattava proprio di Agata.

L'accusa formale, in forza dell'editto di per­secuzione dell'imperatore Decio, era quella di vilipendio della religione di Stato, un'accusa ri­servata a tutti i cristiani che non volevano abiurare. In realtà l'ordine del proconsole na­sceva anche dal desiderio di soddisfare un ca­priccio e un interesse personale: piegare a sé una giovane bella e illibata e confiscarle i be­ni di famiglia.

Per sottrarsi all'ordine del proconsole, Agata per qualche tempo rimase nascosta lontano da Catania. Su questo punto storia e leggenda so­no fortemente intrecciate: più città si conten­dono il merito di aver dato asilo alla veigine esu­le. Tra le ipotesi più accreditate, la più probabile è quella secondo cui Agata si rifugiò a Galermo, una contrada poco distante da Catania, dove i genitori possedevano case e terreni.

Secondo un'altra tradizione, che nasce con buona probabilità da un errore di trascrizione degli antichi atti del martirio, Agata si sarebbe rifugiata, invece che a Galermo, a Palermo. Un'ultima e poco attendibile ipotesi, questa di tradizione non italiana, sostiene che Agata si sa­rebbe nascosta in una grotta nell'isola di Malta.

Nei secoli, il popolo ha arricchito di avven­ture leggendarie la fuga e l'arresto di Agata. Una di queste narra che ella, inseguita dagli uomi­ni di Quinziano e giunta ormai nei pressi del palazzo pretorio, si fosse fermata a riposare un istante. Nello stesso momento in cui si fermò, si dice per allacciarsi un calzare, un ulivo com­parve dal nulla e la giovinetta poté ripararsi e anche cibarsi dei suoi frutti. Ancora oggi, per rinnovare il ricordo di quell'evento prodigioso, è consuetudine coltivare un albero di ulivo in un'aiuola vicino ai luoghi del martirio.

Un'altra tradizione popolare legata a questa leggenda vuole che, il giorno della festa di sant'Agata, vengano consumati dolcetti di pa­sta reale, di colore verde e ricoperti di zuc­chero, che nella forma ricordano le olive, chia­mati appunto «olivette di sant'Agata».

Tornando alla storia, Agata rimase in esilio soltanto per poco tempo. Gli apparitores, gli sgherri al servizio del proconsole, la raggiun­sero con quella facilità che è propria dei poten­ti e la condussero in tribunale al cospetto di Quinziano.

 

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IN CASA DI AFRODISIA

Quinziano, non appena la vide, fu rapito dalla sua bellezza. Un ardore passionale lo in­vase, ma i suoi tentativi di seduzione furono tutti vani, perché Agata lo respinse sempre con grande fermezza.

Il proconsole pensò allora che un program­ma di rieducazione avrebbe potuto trasfor­mare la giovane e l'avrebbe convinta a rinun­ciare ai voti e a cedere alle sue lusinghe. La af­fidò così per un mese a una cortigiana, una ma­trona dissoluta, maestra di vizi e di corruzio­ne, che era conosciuta col nome di Afrodisia. La donna viveva in casa con le sue figlie, nove secondo la tradizione, diaboliche e licenziose almeno quanto lei.

Fu il mese più duro e terribile per la giova­ne Agata. La sua purezzà era costretta a subi­re continui insulti, cattivi esempi e inviti im­morali. Per farle dimenticare Gesù, Afrodisia la tentò con ogni mezzo: banchetti, festini, di­vertimenti di ogni genere, le promise gioielli, ricchezze e schiavi. Ma Agata disprezzava ognu­no di questi doni.

Quando lo strumento della persuasione si ri­velò incapace a piegare la sua ferrea volontà, Afrodisia e le figlie tentarono di raggiungere lo stesso vile scopo attraverso le minacce. «Quin­ziano ti farà uccidere», le intimavano. Ma la vergine incorruttibile respingeva ogni proposta, si mostrava insensibile a ogni minaccia, op­poneva rifiuti secchi usando parole di fuoco:

«Vane sono le vostre promesse, stolte le vostre parole, impotenti le minacce. Sappiate che il mio cuore è fermo come una pietra in Cristo e non cederà mai». La giovane Agata fu sempre fedele al suo unico Sposo; a lui offriva le sofferenze che pativa per la fede e giorno do­po giorno la sua anima ne risultava sempre più temprata.

Allo scadere del mese e di fronte alla fer­mezza di Agata, Afrodisia non poté far altro che arrendersi. Sconfitta e umiliata, riconsegnò la giovane a Quinziano: «Ha la testa più dura della lava dell'Etna, non fa altro che piangere e pregare il suo invisibile Sposo. Sperare da lei un minimo segno d'affetto è soltanto tempo perso».

 

IL PROCESSO

Quinziano prese atto che lusinghe, promes­se e minacce non sortivano alcun effetto su quella giovane tanto bella quanto innamorata di Gesù. Decise allora di dare immediato avvio a un processo, contando così di piegarla con la forza.

Convocata al palazzo pretorio, Agata entrò fiera e umile. Procedeva a passi sicuri verso il suo persecutore e, quando i suoi occhi limpi­di incontrarono quelli di Quinziano, li trova­rono accesi di rabbia e di desiderio di rivalsa.

Agata non era spaventata, sapeva che lo Spi­rito Santo l'avrebbe assistita e le avrebbe sug­gerito le parole da dire al tiranno. Ne era cer­ta, perché Gesù stesso lo aveva promesso ai suoi discepoli.

Si presentò al proconsole vestita come una schiava, come usavano le vergini consacrate a Dio, e Quinziano volle giocare su questo equi­voco per provocarla. «Non sono una schiava, ma una serva del Re del cielo», chiari subito Agata. «Sono nata libera da una famiglia no­bile, ma la mia maggiore nobiltà deriva dal­l'essere ancella di Gesù Cristo». Le affermazioni di Agata erano taglienti e fiere, degne della semplicità di una vergine e della fermezza di una martire.

«Tu che ti credi nobile», disse Agata a Quin­ziano, «sei in realtà schiavo delle tue passioni». Questa fu una grave provocazione per lui, l'a­drone di quella terra e garante della religione pagana in Sicilia. «Dunque, noi che disprez­ziamo il nome e la servitù di Cristo», domandò irritato il proconsole, «siamo ignobili?».

Per Agata, che parlava con la forza della fe­de e illuminata dallo Spirito Santo, era arrivato il momento di accettare la sfida e rilanciò:

«Ignobiltà grande è la vostra: voi siete schiavi delle voluttà, adorate pietre e legni, idoli co­struiti da miseri artigiani, strumenti del de­monio». Quinziano a quelle parole si sentì co­me un toro ferito. Era incapace di controbat­tere, non possedeva né le risorse culturali di un oratore, né la saggezza e la semplicità delle ri­sposte ispirate dalla fede che aveva Agata.

Gli unici strumenti che conosceva bene e che sapeva usare erano la violenza e le minac­ce. In questo campo era sicuro di essere il più forte e questi mezzi utilizzò: «O sacrifichi agli dèi o subirai il martirio», minacciò spazienti­to. Ma, di fronte alla minaccia delle torture, Agata non si lasciò intimorire: «Vuoi farmi soffrire?», lo irrise. «Da tempo lo aspetto, lo bramo, è la mia più grande gioia». Poi, con vo­ce sicura, aggiunse: «Non adorerò mai le tue di­vinità. Come potrei adorare una Venere im­pudica, un Giove adultero o un Mercurio ladro? Ma se tu credi che queste siano vere divinità, ti auguro che tua moglie abbia gli stessi costumi di Venere».

Queste parole, pesanti come macigni e affi­late come lame, per Quinziano furono dure sferzate al suo orgoglio. Seppe reagire soltan­to con la violenza e ricambiò con uno schiaffo l'umiliazione appena subita. Per niente avvili­ta per la percossa, Agata gli rispose: «Ti ritieni offeso perché ti auguro di assomigliare ai tuoi dèi? Vedi allora che nemmeno tu li stimi? Per­ché pretendi che siano onorati e punisci chi non vuole adorarli?». Erano parole inconfuta­bili, ma Quinziano non volle arrendersi e or­dinò che la giovane fosse rinchiusa in carcere.

 

 

IL CARCERE E LE TORTURE

Per un giorno e una notte Agata rimase chiu­sa in una cella del carcere, all'interno del pa­lazzo pretorio: diventata in seguito un luogo di culto, era una cameretta interrata, buia e umi­da. Il soffitto era alto e soltanto una finestrel­la irraggiungibile lasciava filtrare un raggio di luce attraverso una spessa grata di ferro. Non le fu dato né cibo, né acqua e una pesante ca­tena le stringeva le caviglie. Ma la giovane Aga­ta non disperò mai e continuò a pregare ancora più intensamente lo Sposo celeste.

La mattina successiva fu condotta per la se­conda volta davanti al proconsole. «Che pensi di fare per la tua salvezza?», le domandò Quin­ziano. «La mia salvezza è Cristo», rispose de­cisa Agata. Soltanto a quel punto Quinziano si rese conto che qualunque tentativo di persua­sione era destinato al fallimento e, con uno scatto d'ira, ordinò di sottoporla a orrende tor­ture.

Ad Agata furono stirate le membra, fu per­cossa con le verghe, lacerata col pettine di fer­ro, le furono squarciati i fianchi con lamine ar­roventate. Ogni tormento, invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuovo vigore. Al­lora Quinziano si accanì ulteriormente con­tro la giovinetta e ordinò agli aguzzini che le amputassero le mammelle. «Non ti vergogni», gli disse Agata, «di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre?».

L'ordine di Quinziano era un gesto di rabbia e di vendetta: ciò che non aveva potuto ottene­re, ora voleva distruggere. Voleva vederla soffrire per il dolore del martirio e per il pudore viola­to. Voleva umiliarla nella sua dignità di donna, ma nessun segno di turbamento segnò il volto né le parole di Agata: «Tu strazi il mio corpo», disse, «ma la mia anima rimane intatta».

 

 

IL MIRACOLO DI SAN PIETRO

Agata fu riportata in cella, ferita e sangui­nante. Le piaghe aperte bruciavano, il dolore era lancinante. Ma sapeva che pativa per Gesù e questo l'appagava. Così, mentre pregava in silenzio, con lo sguardo rivolto al cielo al di là della grata, lo Sposo celeste volle alleviarle il dolore e le mandò l'apostolo Pietro.

La notte successiva alle torture, nel buio della cella, la fanciulla vide avvicinarsi una lu­ce bianca. Era un fanciullo vestito di seta con una lucerna in mano. Lo seguiva un uomo an­ziano. Inizialmente Agata non volle che l'an­ziano le porgesse i medicamenti che aveva por­tato con sé per guarire le sue ferite. «La mia medicina è Cristo», disse, rifiutando delicata­mente l'aiuto «se egli vuole, con una sola pa­rola, può risanarmi».

Agata desiderava ardentemente soffrire per Cristo, morire per lui, diventare una martire per amore. Sapeva che il chicco di grano può da­re frutto soltanto se muore e così anche il suo sangue, versato per gli ideali del vangelo, pote­va essere il seme di un'umanità rinnovata in Cristo. «Le pene che io soffro», spiegò all'an­ziano visitatore, «completano il mio lungo de­siderio, coltivato sin dall'infanzia».

Ma quando l'uomo la rassicurò e le disse di essere l'apostolo di Cristo, Agata chinò il capo e accettò che su di lei si compisse la volontà di Dio. Aveva aspettato tanto, ma, obbediente al­la volontà del suo Sposo, abbandonò un desi­derio che era suo per accettare quello del Padre.

Il prodigio non tardò: quando l'uomo scom­parve nel buio, Agata si accorse che le ferite era­no guarite, il suo seno era rifiorito e il suo spi­rito si era rinvigorito.

 

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LA CONDANNA A MORTE

Dopo quattro giorni di cella, all'alba del quinto fu condotta in tribunale per la terza volta. Quinziano fu sbalordito e incredulo nel vedere rimarginate le ferite sul corpo di Agata e volle sapere cosa fosse accaduto. Agata gli ri­spose fiera: «Mi ha fatta guarire Cristo».

Quella giovane fanciulla, così bella e fragile ma anche così determinata, doveva apparire al proconsole come la più pesante delle sconfitte personali. La sua stessa presenza era ormai imbarazzante e Quinziano volle liberarsi di quell'incubo con l'ordine definitivo: «Uccidetela», gridò. Per Agata fu decisa la morte più atroce: un letto di tizzoni ardenti con lamine ar­roventate e punte infuocate.

L’ordine fu eseguito immediatamente: Aga­ta fu gettata sulle braci, coperta soltanto dal suo velo da sposa di Cristo. Mentre il suo corpo ve­niva rivoltato sui carboni ardenti e trafitto da punte di ferro e lamine taglienti, la sua anima, che si era conservata pura, ardeva più forte per il Signore.

A questo punto, secondo la tradizione si sa­rebbe verificato un altro miracolo, a testimo­niare la chiara santità di Agata: il fuoco, che straziava il suo corpo, non bruciò invece il velo. Per questa ragione il «velo di sant'Agata» di­ventò da subito una delle reliquie più preziose. Più volte portato in processione di fronte al fuo­co delle colate laviche dell'Etna, ha avuto il potere di far arrestare il magma.

Le fonti storiche dicono che, quando Agata fu spinta nella fornace, un violento terremoto scosse l'intera città di Catania. Tutti pensarono che fosse il grido di dolore della sua terra per l'orrendo delitto. Silvano e Falconio, i due per­fidi consiglieri di Quinziano che avevano con­trofirmato la condanna a morte, finirono tra­volti dal crollo del palazzo pretorio.

Si narra anche che Quinziano fosse riuscito a fuggire, ma poco tempo dopo morì annega­to mentre tentava di attraversare in barca il fiu­me Simeto, vicino a Catania. Il suo corpo non fu mai ritrovato e per questa ragione una leg­genda popolare vuole che di tanto in tanto il fantasma del proconsole vaghi inquieto in quel­le zone; mentre c'è chi sostiene di vedere le acque del fiume, in certi periodi dell'anno, ri­bollire ancora per lo sdegno.

La folla dei catanesi che aveva assistito al supplizio di Agata l'accompagnò alle porte del carcere, dove venne condotta agonizzante, e ve­gliò su di lei negli ultimi istanti prima della morte.

Tutti poterono assistere al suo ultimo ge­sto. Con le poche forze che le erano rimaste, Agata unì le mani in preghiera e, di fronte al­la folla commossa, recitò con un filo di voce uesta orazione spontanea: «Signore, che mi

creato e custodito fin dalla mia prima infan zia e che nella giovinezza mi hai fatto agi­re con determinazione, che togliesti da me l'a­more terreno, che preservasti il mio corpo dal­le contaminazioni degli uomini, ti prego di ac­cogliere ora il mio spirito». Era il 5 febbraio 251.

 

   

 

LA «TAVOLA DELL'ANGELO»

I cristiani che avevano assistito al martirio e alla morte di Agata raccolsero con devozione il suo corpo e lo cosparsero di aromi e di oli pro­fumati, come era in uso a quell'epoca. Poi con grande venerazione lo deposero in un sarcofa­go di pietra, che da allora fino ai nostri giorni è stato sempre oggetto di culto a Catania.

Le fonti narrano che, quando il sepolcro or­mai stava per essere chiuso, si avvicinò un fan­ciullo, vestito di seta bianca e seguito da altri cento giovanetti. Presso il capo della vergine de­pose una tavoletta di marmo, che oggi è una preziosa reliquia custodita nella chiesa di Sant'Agata a Cremona, con l'iscrizione latina «M.S.S.H.D.E.P.L. », che in italiano significa «Mente santa e spontanea, onore a Dio e libe­razione della patria». Questa iscrizione, detta anche «elogio dell'angelo», è la sintesi delle caratteristiche della santa catanese ed è an­che una solenne promessa di protezione alla città.

 

 

 

SAN BIAGIO, DETTA ANCHE CHIESA DI SANT'AGATA ALLA FORNACE (CARCAREDDA)

La chiesa costruita nel XVIII secolo dopo il tremendo terremoto del 1693, sorge sul luogo ove, secondo la tradizione, era ubicata la fornace in cui Sant'Agata subì il martirio. Infatti, dopo essere stata rinchiusa in carcere per non aver voluto abiurare alla sua fede, venne prima sottoposta alle torture con il fuoco e quindi le furono asportate le mammelle.

La fornace dove S. Agata subì il Martirio non era per quei tempi una fornace comune, ma una fornacella appositamente costruita per il martirio umano. Essa consisteva in una semplice buca poco profonda scavata nel terreno, capace a contenere carboni accesi e vasi infranti resi incandescenti dal fuoco.

Ciò che oggi è rimasto dell'antica fornace è assai poco. Si osservano alcuni avanzi proprio sotto la mensa dell'altare.

Dopo la morte di S. Agata vi sorse una piccola edicola per ricordare il luogo del Martirio. Verso il XVI sec. venne edificata la vera e propria chiesa consacrata a S. Biagio, in sostituzione di un'altra chiesetta allo stesso Santo intitolata.Abbattuta dal terremoto del 1693, venne ricostruita con le attuali dimensioni dal Vescovo Riggio agli inizi del 1700.

  

 

Su un imponente frammento delle mura di Carlo V, sorge la Chiesa che è stata costruita davanti al carcere dove la santa patrona della città, S. Agata fu rinchiusa durante il processo, portata dopo il martirio, guarita dall'apostolo Pietro e dove esalò l'ultimo respiro il 5 febbraio 251 d.C.

Il portale è normanno ed apparteneva alla facciata dell'antico duomo , salvato dalle macerie del 1693; fu rimosso da Gian Battista Vaccarini, che soprintendeva ai lavori per il prospetto del nuovo tempio da lui disegnato, e collocato fino al 1750 nel Palazzo Senatorio.

Secondo la tradizione in questo luogo venne tenuta prigioniera Sant'Agata prima di subire il martirio. Gli archeologi hanno confermato che i due ambienti carcerari all'interno della chiesa, in effetti, corrispondono al tempo della vita di Agata. A destra dell'altare si apre un angusto passaggio (due porte) che conduce in un locale di epoca romana, considerato il carcere di Sant'Agata da cui discende la denominazione della chiesa. Vicino all'altare del Crocefisso si trovano due lastre di pietra lavica che secondo la tradizione apparterrebbero a Sant'Agata che qui venne imprigionata, nel gennaio del 251, prima di subire il martirio; in una di queste sono impresse le orme di due piedi che, secondo la tradizione, avrebbe lasciato la santa catanese.

Il Santo Carcere fu ampliato con la navata d'ingresso fino ad incastrare le mura cinquecentesche in cui fu aperta la finestrella che la tradizione indica quale luogo in cui Sant'Agata fu guarita da San Pietro. In verità si tratta dei resti del Bastione del Santo carcere, costruito da Carlo V nel 1530 che difendeva la porta nord (chiamata Porta del Re) della città di Catania.

Di fronte la finestra, nel piazzale, un albero di ulivo fu piantato davanti, per ricordare l'evento miracoloso. Quinziano. La leggenda narra che la vergine Agata  sulla strada che la portava al processo e quindi all’atroce tortura del taglio dei seni, si chinò per allacciarsi una scarpa, in quel luogo,  come per renderle omaggio spuntò un albero di olivo.

I catanesi presero l’abitudine di raccogliere le olive prodotte dall’albero per conservarle o donarle come frutti miracolosi. Ho provato a trovarne una. Niente! Non ho mai visto, a Catania, un'aiuola così pulita!

 

 

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Venne eretta tra le rovine del palazzo del proconsole romano e consacrata nel 262 d.C., quando Costantino permise ai cristiani l'esercizio pubblico del sacro culto. Eretta nel 313 d.C. , fu cattedrale della città di Catania fino 1091 quando il conte Ruggero dispose la costruzione dell’attuale cattedrale consacrata nel 1094.

La chiesa è ubicata in via S Maddalena. Sotto l'altare maggiore vi è posto un sarcofago in pietra di epoca romana, senza coperchio originale, dove fu conservato la salma della Santa prima che venisse portata a Costantinopoli.

In questo sepolcro andò Santa Lucia per implorare alla santa la guarigione della madre. In memoria di questa visita il 13 Dicembre si festeggia la martire siracusana.

A sottrarre le reliquie della santa fu il generale bizantino Giorgio Maniace, incaricato di riconquistare la Sicilia che dal 975 era sotto la dominazione araba. Furono portate a Costantinopoli nel 1040 e deposte nella chiesa di Santa Sofia nel 1126 per ben 86 anni.

Nelle adiacenze dell'ingresso, protetta da una teca, è collocata la cassa in legno che per oltre 500 anni custodì le spoglie di sant'Agata, riportate a Catania dall'ufficiale francese Giliberto aiutato da Goselmo che le rapirono a Costantinopoli e le riconsegnarono a Catania al Vescovo Maurizio il 7 Agosto 1126.

Nella chiesa vi è anche un sotterraneo all'interno del quale si trova un altare, con un dipinto di S. Agata. Nelle pareti vi sono fenditure contenenti reliquie. Il sotterraneo, dove Agata subì il processo e le vennero strappate le mammelle, è composto da tutta una serie di sottopassaggi che anticamente si collegavano a Sant'Agata al carcere e a San Biagio. Cunicoli che a tutt'oggi sono rimasti chiusi.

 

 

CATANIA AL TEMPO DI AGATA

 

Il sepolcro di epoca romana nel convento del Carmine Forse la tomba di Sant'Agata

Nei giorni della festa "rivive" un'importante testimonianza. Una piccola parte del monumento è visibile nel cortile della caserma Santangelo Fulci, mentre la restante parte, dei padri carmelitani, è adibita a deposito per gli ambulanti della fiera. Impegno per il restauro

Se ne vede appena uno spigolo, in uno dei cortili interni dell'ex convento del Carmine, eppure questa tomba di epoca romana, costruita in blocchi squadrati di pietra lavica, potrebbe essere la prima sepoltura di Sant'Agata.

Un monumento dimenticato e finora inaccessibile, chiuso com'è all'interno del «Centro documentale dell'esercito», meglio conosciuto come ex distretto militare di Catania di piazza Carlo Alberto. Eppure è ad un colonnello di questa caserma, il dottor Corrado Rubino, ora in pensione, che si deve lo studio e il rilievo della tomba e i successivi lavori di restauro condotti sotto la supervisione della Sovrintendenza. Lavori cui ha dato un contributo fondamentale l'Accademia di Belle Arti che ha stanziato i fondi necessari, ha aperto, per la prima volta, un cantiere di studio e di lavoro per i propri allievi, e realizzato, grazie ad un suo docente, l'arch. Enrico La Rosa, una ricostruzione virtuale in 3D del monumento.

Si tratta di una tomba «a casa», cioè di una costruzione a pianta quadrata, ampia 100 mq, e alta 6 metri dalla risega di fondazione che oggi si trova 90 centimetri sotto la quota del cortile della caserma. Una costruzione rifinita con una modanatura a forma di timpano spezzato di origine traianea. «Si tratta - spiega il colonnello Corrado Rubino, che è anche anche archeologo - di una tomba di epoca romano imperiale, databile tra la fine del II e l'inizio del III secolo dopo Cristo, in piena epoca Severiana, cioè tra Marco Aurelio e la dinastia dei Severi. Di questo tipo di tomba esistono molti altri esempi all'isola sacra di Ostia, ma sono di dimensioni molto più piccole e realizzate in mattoni. La lava, del resto, è un materiale tipico della nostra terra. Caso unico, la costruzione era perfettamente rivestita anche nella parte posteriore, indizio del fatto che doveva essere un edificio isolato».

Un monumento del quale si era persa la memoria tanto che il vincolo della sovrintendenza risale al 2007. Eppure, già nel 1923, ne aveva parlato Guido Libertini in una nota del «Der Alte Catane» indicandolo, erroneamente, come la possibile tomba di Stesicoro. Nel 1926, però, corregge l'errore, ma lo fa con un articolo pubblicato in una rivista specializza di scarsa diffusione. Nel 1990 l'archeologo Wilson lo definisce il «monumento inaccessibile» e, negli stessi anni, il prof. Torelli, in una guida della Sicilia, ne parla come di una tomba romana. «Del resto - spiega il dottor Rubino - l'area dove sorgeva questa tomba, in epoca romana, era una grande necropoli monumentale, che, non a caso, fiancheggiava la via Pompeia, la strada consolare che univa Messina a Siracusa. Strada che - in questo tratto - era ad un livello inferiore di 4 metri rispetto alla colata lavica preistorica su cui era stata edificata questa tomba che, dal basso, doveva apparire enorme, imponente, spettacolare. Non solo. Nella facciata sud si aprono quattro finestrelle disposte a raggiera in modo che i raggi del sole, entrandovi, convergevano in un unico punto, su un sepolcro che ne veniva illuminato conferendogli un'aurea sacra».

La tomba di una persona speciale, dunque. «La possibile sepoltura di Sant'Agata», sostiene il colonnello Rubino rifacendosi a fonti secentesche, agli storici Caetani, De Grossis e Vito Amico. E non sarebbe un caso se, fino a qualche anno fa, la chiesa del Carmine, insieme a quella di Sant'Agata la Vetere, erano le sole dove il fercolo di Sant'Agata entrava. Perché, se non per un'antica memoria? E del resto anche il convento del Carmine, dopo il terremoto del 1693 che lo rase quasi al suolo, fu ricostruito prevedendo un ampio corridoio che, dall'ingresso della chiesa, sviluppandosi lungo la facciata, porta direttamente alla tomba romana. Un non senso dal punto di vista architettonico, spiegabile soltanto con l'importanza del sito. Va ricordato, inoltre, che, sotto le macerie del terremoto, perirono quasi tutti i frati carmelitani e il convento fu ripopolato da confratelli che arrivavano da Trapani, figli di un'altra storia, di un'altra tradizione. Forse anche questo spiega la progressiva perdita della memoria del luogo.

Infine, il monumento fu sottratto alla devozione popolare quando quella parte del convento divenne, dopo i moti del 1848, caserma borbonica. Eppure - racconta il colonnello Rubino - della memoria di Agata, il suo probabile sepolcro non più accessibile, i frati carmelitani lasciarono traccia dedicandole una teca, nel secondo altare di sinistra della chiesa, con la scritta «Hic fuit Agatae virginis et martiris». Teca che accoglie una giovane donna con il volto di cera, in realtà costruita per la baronessa Rosanna Petroso Grimaldi, trucidata a 22 anni, nel 1783, dal marito, il marchese Orazio di Sangiuliano.

Oggi la tomba romana non è di immediata lettura perché ne è stato restaurato soltanto un angolo esterno, nella piccola parte, un quarto, che appartiene alla caserma Santangelo Fulci. La restante parte è dei padri carmelitani che la danno in affitto come deposito agli ambulanti del mercato di piazza Carlo Alberto. Non solo. Neppure la parte di proprietà dei militari è stata riportata alla condizione originaria tant'è che, irriverente ironia della storia, mostra ancora le vasche dove venivano immersi, in acqua e zolfo, i giovani militari affetti da malattie veneree. Questa, infatti, era la «sala celtica» del reggimento dedicata ai malati di sifilide. Nel 1991 i lavori del Genio Civile hanno portato alla luce, lungo la parete di una scala, parte del muro esterno della tomba. E altri lavori di recente sono stati fatti dall'Accademia di Belle Arti che, con la generosa autorizzazione del comandante Fontana, ha demolito parte del magazzino dei viveri della caserma che impediva la vista e la fruizione del monumento.

Un monumento che adesso va recuperato e restituito alla città, con l'impegno di tutti, a partire dall'ammistrazione comunale e dalla sovrintendenza.

Pinella Leocata La Sicilia, 4.2.2015

 

 

 

La processione lungo le mura com'era

prima del terremoto

Pinella Leocata La Sicilia, 42.2013

 

Il «giro esterno» della processione di Sant'Agata prende il nome dal tragitto seguito anticamente dal fercolo quando la Santa «benediva» tutta la città percorrendone il confine disegnato dalle mura di Carlo V, allora integre, prima delle devastazioni della colata lavica del 1669 e poi del terribile terremoto del 1693 quando metà della popolazione morì sotto le macerie e le mura furono in parte demolite. Nella mostra dedicata a Sant'Agata, allestita dalla direttrice Rita Carbonaro alla Biblioteca Ursino Recupero, sono in esposizione alcune suggestive tele di Renzo Di Salvatore che, sulla base di fonti storiche, ricostruisce le mura e le porte di città com'erano a quel tempo. E' così possibile «vedere» i luoghi dove, prima del grande terremoto, si svolgeva la processione il cui percorso è rimasto invariato fino ad oggi, in un contesto urbano profondamente diverso.

 

 

La ricostruzione delle fortificazioni è stata elaborata a partire da più fonti: la pianta di Tiburzio Spannocchi del 1578 e quella di Francesco Negro del 1637, la relazione che, nel 1621, Raffaele Lucatello elaborò su ordine del luogotenente del Re, don Francisco Lanes conte di Castro, e la topografia di Sebastiano Ittar del 1830. In mostra anche antichi e rari corali dedicati a Sant'Agata, una pergamena con il più antico sigillo con l'effigie della Patrona risalente a 1115, cioè al nucleo originario della biblioteca dei Benedettini, e poi testi rari, elementi in bronzo similoro provenienti dal primo fercolo di Sant'Agata, una collezione di immaginette dedicate alla martire catanese provenienti da tutto il mondo, una galleria di foto della festa a firma di Salvo Sallemi e Francesco Barbera, l'interpretazione postmoderna della processione ad opera di Laura D'Andrea Petrantoni. La mostra è aperta fino al 6 febbraio, dalle 9 alle 13.

 

 

 

 

LA FESTA DI SANT'AGATA

(di Jean Houel)

-Al calar della sera (del quarto giorno),i nobili vennero a riprendere il Senato e lo condussero alla piazza della Cattedrale;essi fecero il giro della piazza e i senatori, scesi dalla grande carrozza, andarono di nuovo a sedersi su un lungo banco con gli ufficiali di giustizia, in mezzo alle bandiere.....

Il carro,sontuosamente illuminato, veniva al seguito di queste piramidi (di lumini);dietro procedeva il corpo di giustizia e l'enorme cereo reale. Allora tutta la città si abbandonava a una gioia tumultuosa e delirante. Da ogni parte si sente gridare:Viva Sant'Agata!Per tutta la notte la città resta sveglia. La grande campana della Cattedrale suona ogni mezz'ora;ogni ora si sente una salva di cannone e già molto tempo prima che spunti l'alba la popolazione affolla il sagrato della chiesa.

Ed eccoci al quinto giorno allo spuntare del sole le porte della Cattedrale si aprono all'improvviso e l'interno della chiesa appare splendente di luci. La folla lancia grida di gioia;prende il busto di Sant'Agata e lo porta sotto un arco di trionfo, chiamato la Bara. Il busto, in argento e a grandezza naturale, occupa la parte anteriore dell'arco,dietro si pongono le reliquie della santa, il suo velo,la sua mano, il suo piede, una delle sue mammelle, un braccio;non si è potuto infatti ritrovare tutto il suo corpo......È sul lungomare che si svolge la processione e che si può ammirarla per intero,ed è qui che bisogna prendere posto per godersela bene. Essa è aperta da tutte le torce ,grandi e piccole,trasportate da tanti uomini quanti ne richiede il loro peso.....tutte queste torce occupano un grande spazio, perché gli artigiani appartenenti alle diverse corporazioni si raggruppano attorno alla loro torcia, come intorno a una bandiera, e inoltre molta gente viene a mettervisi in mezzo ballando in tondo, saltando, facendo mille contorsioni, e gridando continuamente:Viva Sant'Agata! Vengono poi gli sbirri o guardie degli ufficiali di giustizia, poi le guardie di giorno e di notte. I nobili ,i senatori e il Vescovo li seguono, tutti a cavallo....Molta gente che impugna una bandiera cammina confusamente davanti a una moltitudine di barette che reggono grossi ceri. Seguono poi dei saltatori e una quantità di uomini che trascinano, servendosi di una robusta corda, la bara, o l'urna, di Sant'Agata, benché questa sia portata da cento uomini, cinquanta per ogni lato.

Due uomini seguono la bara, l'uno dietro l'altro e con un campanello danno il segnale di fermarsi o riprendere la marcia tutti insieme. Dopo il pranzo la processione ricomincia, la Santa viene portata in giro per il resto della città, e poi riportata nella Cattedrale facendola entrare per la stessa porta dalla quale era uscita, sempre facendosi largo in mezzo alla folla, e sempre benedetta, applaudita e invocata.

Quando la Bara è entrata nella chiesa, si mette il busto della Santa sotto un baldacchino e le reliquie sotto un altro, e si portano entrambi sull'altare, poi nelle nicchie dove stanno abitualmente. Le grida del popolo e la benedizione dei preti mettono fine alla cerimonia.

Non devo dimenticare di dire che vi sono in questa processione molti penitenti bianchi, cioè uomini avvolti in un sacco bianco che li rende irriconoscibili, e che molti peccatori si conciano allo stesso modo. Invece molte donne, di ogni condizione sociale, si coprono, col pretesto della penitenza e della modestia, con la mantella nera,cioè un grande velo che le nasconde totalmente dalla testa ai piedi,tranne un occhio soltanto che serve loro da guida;in tal modo nel loro velo nero le donne sono altrettanto irriconoscibili di quanto non lo siano gli uomini nel loro sacco bianco. Così mascherate,esse seguono la processione e corrono attraverso tutta la città, fermando ogni uomo che conoscono o che fanno mostra di conoscere; concittadini o stranieri, preti,monaci, gente di ogni specie, senza eccezione alcuna:a questi chiedono e si fanno dare la fiera,che consiste per lo più in dolciumi o qualche altra sciocchezza. Gli attacchi delle donne, la difesa che oppongono gli uomini, i loro tentativi di indovinare chi esse siano, tutto ciò dà luogo talvolta a delle schermaglie verbali assai piccanti.....tali scherzi,sotto il velo della religione, ne portano di ancora più scabrosi.....ma in mezzo al gaudio pubblico ed universale, qualsiasi testimonianza di gioia appare legittima e non sembra altro che una innocua espressione di piacere o di amicizia:io sono stato testimone di molte scene di questo tipo. Ma qual è il paese in cui le feste, i pellegrinaggi, le cerimonie religiose non hanno prodotto degli abusi?-

(da "Viaggio pittoresco delle isole di Sicilia, Malta e Lipari",1782/1789)

 

(grazie a Milena Palermo di OBIETTIVO CATANIA Facebook)

 

 

 

 

 

La prima uscita dopo la guerra

 

Nelle prime settimane del 1944 i catanesi, liberati dall'incubo e dal terrore dei bombardamenti, ebbero la sensazione di essere entrati nel tanto desiderato dopoguerra. Il pensiero correva veloce a Sant'Agata, alla sua fastosa festa patronale invernale che ha sempre unito tutti i catanesi attorno alla vara, portata in trionfo per la città. Le ferite inflitte dalla guerra nel tessuto urbano e nei cuori dei cittadini, però, erano state tante e profonde e i danni provocati dai bombardamenti erano stati ingenti e ancora non riparati.

In questo contesto di comprensibili difficoltà, i sacerdoti capitolari della basilica Cattedrale, detti i canonici di Sant'Agata, avevano deciso, dietro richiesta del sindaco Carlo Ardizzone all'arcivescovo Carmelo Patanè, di riportare le venerate reliquie dell'amata protomartire concittadina tra il suo popolo, di farle uscire dal Duomo rimasto miracolosamente intatto durante le incursioni aree.

La notificazione ai cittadini da parte della Chiesa catanese fu accolta con grande e rinnovato entusiasmo: «Per venire incontro al desiderio vivissimo dei cittadini si è deciso che la processione di tutte le insigni reliquie di Sant'Agata, il giorno 5 febbraio, si svolga alle ore 16 fuori del Duomo, per via Etnea fino a piazza Stesicoro e ritorno, per la stessa via, in Cattedrale. Interverranno i Capitoli della Cattedrale e della Real Collegiata, il Clero e il Seminario Arcivescovile. I devoti di Sant'Agata sono invitati a seguire la processione indossando il tradizionale sacco».

Nel pomeriggio di sabato 5 febbraio il cattivo tempo non permise lo svolgimento della processione. Il breve e ridotto «giro» interno fu effettuato nel giorno dell'ottava. Parteciparono al devoto giro il sindaco, il prefetto Antonino Fazio e i rappresentanti dell'esercito alleato. Con grande soddisfazione dei catanesi alla processione fu permesso di proseguire fino all'ingresso della Villa Bellini. La cronaca registrò così quello straordinario evento: «La celebrazione non ha avuto le manifestazioni esteriori le quali per tanti riflessi possono anche turbare il raccoglimento di cui le grandi e potenti emozioni hanno bisogno perché possano esprimere tutta la loro significazione. E' stato un accostamento quale è consentito dal tempo in cui viviamo e quale lo desiderava lo stato della coscienza pubblica».

La Sicilia, 2 febbraio 2014 - Antonino Blandini

 

 

Nel volume "Tradizione, tecnologia e territorio", il saggio ricostruisce le ipotesi sull'epigrafe di Iulia Florentina e il santuario della martire catanese  -  Sergio Sciacca

Lo abbiamo ripetuto più volte su queste colonne: chi vuole andar in cerca di tesori nascosti non ha che da indagare tra le strade di Catania: tra via Etnea, la Posta centrale, S. Maria di Gesù, l'Antico Corso. Ovviamente trattandosi di tesori nascosti da parecchi secoli, non è detto che saltino fuori alla prima indagine. Ma certamente ci sono. Da un secolo all'altro ne sono venuti alla luce, quasi sempre casualmente, alcuni campioni. Ora c'è pure la mappa. Una informazione che mira a divulgare anche tra i non specialisti le attuali acquisizioni della ricerca archeologica che a Catania, ha uno dei suoi centri di maggiore rilievo nel Mediterraneo.

E' appena uscito (presso Bonanno Editore) il secondo volume di "Tradizione, Tecnologia e Territorio", raccolta di saggi, generalmente archeologici, firmati da alcuni degli studiosi più attenti della locale Università. Uno dei più interessanti è quello realizzato da Antonio Tempio (autore di diversi importanti studi sulla storia etnea dall'antichità al Barocco), dedicato alla epigrafe di Iulia Florentina, nome assai caro ai dottori di antichistica e oggetto di cruccio per diversi di essi.

Stiamo infatti parlando di una bella lastra di marmo incisa in latino attribuita al IV-V sec. d. C. rinvenuta l'8 luglio del 1730, dalle parti di San Domenico, che mise in moto gli eruditi europei, dal Muratori al Mommsen (nei rispettivi secoli) e che adesso è attentamente custodita... al Louvre di Parigi. Varrebbe la pena di scoprire l'autore del trasferimento, ma lasciamo l'Erostrato moderno al suo anonimato.

L'epigrafe (in latino, ma a quei tempi a Catania molti si servivano del greco) racconta della sepoltura di una ragazzina (forse di Paternò) alla quale i genitori costernati vollero procurare un monumento funerario vicino al santuario agatino, passando dalla iniziale condizione di "pagana" (=paesana) a quella di benedetta dalla santa patrona. Insomma questa epigrafe nostra, ma per pubblicare le cui foto bisogna chiedere il permesso a Parigi, è uno degli attestati più chiari della diffusione del culto cristiano, attraverso il culto dei santi. Sui dettagli il lettore troverà amplissime informazioni nel volume. Ma dove, esattamente, fu trovata la lapide? E dunque, dove si trovava il santuario agatino?

Lo scopritore del 1730 era sua eccellenza Giovanni Rizzari, dei duchi di Tremestieri che presso il convento dei Domenicani (più o meno dove adesso c'è il giardino Bellini) aveva un terreno, e, siccome era attento affarista, volle creare un bacino d'acqua per irrigare i propri gelsi (che chiaramente servivano per l'industria della seta che prosperava a Catania e faceva guadagnare tanti denari ai proprietari e agli operai, senza nessun inquinamento). Mentre si scavava per il suddetto bacino (che probabilmente era una gebbia, ma i dotti del tempo scrivevano in latino e la indicano con vari nomi) saltò fuori il prezioso marmo, che sua eccellenza annesse al proprio museo archeologico e che in secondo tempo passò in quello del di lui fratello. Ma le indicazioni sono vaghe e ognuno degli storici successivi localizza a modo suo il rinvenimento.

Perché? Forse perché il fortunato scopritore non aveva intenzione di entrare nei dettagli. Vicino ai suoi terreni anche il Principe di Biscari aveva i propri interessi (ed era ancora più eccellenza dei Rizzari, ed aveva un museo personale assai più vasto del loro): ma sta di fatto che da quella zona (fino al convento di S. Maria di Gesù) saltarono fuori altre iscrizioni, in latino e in greco, confermando l'idea che il luogo del martirio agatino doveva essere a poca distanza.

Dove? Facile pensare alla chiesa di S. Agata la Vetere, ma nel Cinquecento si avevano altre idee e in una mappa con raffigurazione dei monumenti più importanti, viene indicato un torracchione vicino all'anfiteatro della attuale piazza Stesicoro. Forse il supplizio della Santa Martire avvenne nell'Arena (come a Roma nel Colosseo) e la cappella votiva fu eretta nei suoi paraggi? Forse il torracchione è stato inglobato in qualcuno dei palazzi che costeggiano i ruderi antichi, e magari oggi ospita qualcuno dei negozi di via Manzoni?

Fatto è che la devozione agatina non si è manifestata solo nelle processioni, ma anche in una assiduità assai vasta e condivisa, nei confronti della sua memoria. La consapevolezza della quale è quel tesoro che val la pena di cercare tra le pagine del volume appena edito, per poi proseguire tra gli stalli blu di sostare e il bailamme della perenne movida.

 29/07/2014