Il Football Club Internazionale Milano nasce al ristorante "L'Orologio" la sera del 9 marzo 1908 da una costola di 43 dissidenti del preesistente Milan Football and Cricket Club il quale, in seguito al divieto di far giocare calciatori stranieri, aveva deciso di non partecipare a nessun torneo nazionale. Il nome scelto per la nuova squadra vuole simboleggiare la volontà cardine della società: dare la possibilità a giocatori non italiani di vestire questa maglia. Tutt'ora l'Inter è la squadra italiana con il maggior numero di tesserati stranieri.

 

 Al primo Presidente Giovanni Paramithiotti succedono nel 1909 Ettore Strauss e nel 1910 Carlo De Medici il quale, dopo sole due Stagioni dalla fondazione, porta l'Inter di mister Fossati ad aggiudicarsi il primo Titolo nazionale battendo in Finale per 10-3 la quarta squadra di undicenni della Pro Vercelli, mandata in campo per protesta in seguito al rifiuto da parte della F.I.F. (Federazione Italiana del Football) di spostare la data del match nonostante gli impegni in tornei militari di alcuni vercellesi. Allo Scudetto seguono quattro Stagioni fiacche, durante le quali nel la Presidenza cambia diverse volte: entrano in carica Emilio Hirzel (1912), Luigi Ansbacher (1914) e nello stesso anno Giuseppe Visconti Di Modrone, che rimane al vertice della società fino al (1919), quando la carica sarà rilevata da Giorgio Hulss.

 

 

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LA NASCITA DELLO STEMMA – Il primo stemma ufficiale dell’Inter, nacque, ovviamente, assieme alla nascita della società, nel 1908, ad opera del pittore Giorgio Muggiani, uno degli storici dissidenti del Milan, diventati fondatori dell’Inter. Estremamente simile a quello attuale: un logo rotondeggiante, con le lettere F C I M, in bianco, intrecciate tra loro, su uno sfondo dorato, il tutto circondato da due cerchi concentrici, uno nero e uno azzurro, i colori scelti dai fondatori per segnare il distacco netto dai colori del Milan, da cui, polemicamente, prendevano le distanze. Questo fu il logo ufficiale della società dalla fondazione fino al 1928.

http://www.sportmain.it/2014/07/09/la-storia-del-logo-dellinter-dai-colpi-di-pennello-alle-stelle-rubate/

 

 

 

 

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GUARDA LE ORIGINI DELL'INTER

 

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Virgilio Fossati, il primo eroe dell’Inter

Dai campi di calcio a quelli di battaglia. Un cambiamento che toccò a moltissimi giovani durante la prima guerra mondiale, quando l’Europa si insanguinò e vide sparire nel sibilo delle pallottole e nelle esplosioni di granate e mortai oltre 20 milioni di vite.

Tra queste furono numerosi i calciatori, eroi di uno sport ancora nella sua fase più embrionale ma già capaci di scatenare discussioni nelle città e sui giornali. Il Football Club Internazionale di Milano, formato nel 1908 da un gruppo di soci del Milan in aperto contrasto con la politica autoctona intrapresa dalla società rossonera, pianse alla fine del conflitto la scomparsa di 26 tesserati, il più famoso dei quali era il capitano Virgilio Fossati, prima bandiera nerazzurra di sempre e caduto da eroe così come da eroe aveva sempre calciato i campi da gioco conquistando il cuore dei tifosi.

Aveva iniziato a giocare al foot-ball, quel nuovo gioco giunto dall’Inghilterra, da bambino. Nei corsi e nelle piazze di Milano, vicino Porta Ticinese dove era cresciuto il giovane Virgilio inseguiva un pallone insieme agli amici, con cui aveva fondato una squadretta, il Minerva, prima di entrare nelle giovanili del Milan con cui disputò alcune amichevoli.

Fu proprio vedendolo all’opera in una di queste partite che il lungimirante primo presidente dell’Inter, Giovanni Paramithiotti, lo volle con se per la nascita del sodalizio nerazzurro, ispirato ad un mondo aperto e pacifico, dove ogni nazionalità e cultura era benvenuta.

Valori importanti, valori che i soci fondatori affidarono in toto a Virgilio Fossati, ai tempi un difensore di nemmeno diciott’anni: dopo una stagione di apprendistato prese il posto del difensore svizzero Hernst Marktl, da cui ereditò anche la fascia di capitano, e nello stesso tempo fu nominato anche primo allenatore di sempre dell’Inter.

 

foto: www.inter.it

Lo straordinario talento e l’ottima visione di gioco lo avevano nel frattempo trasformato da difensore a centromediano, ai tempi il giocatore più importante in rosa e il perno della manovra sia in fase offensiva che in fase difensiva.

Alto, magro, le gambe lunghe e il petto esile, Fossati sfoggiava spesso dei baffi che con i neri capelli tagliati a spazzola non riuscivano comunque a nascondere la giovane età che i suoi lineamenti gentili esprimevano.

In campo era un lottatore ma prima di tutto un fine dicitore, elegante e portato per il gioco di squadra, uno dei migliori giocatori d’Italia: fattore, quest’ultimo, che fu confermato dal fatto di essere il primo giocatore dell’Inter chiamato a giocare per l’Italia, che il 15 maggio del 1910 fece il suo esordio assoluto sconfiggendo la Francia per 6 a 2 e schierando proprio Fossati come centromediano.

Un titolo meritato e contestato, oggi come allora, solo da chi volutamente ignora la storia: giunti primi a pari merito con la Pro Vercelli, e in un periodo in cui il calcio e la sua organizzazione erano ancora in una fase più che embrionale, agli interisti fu comunicato dalla federazione che ci sarebbe stato uno spareggio contro le bianche casacche piemontesi.

Ansiosi di misurarsi con quelli che erano considerati i migliori calciatori d’Italia (e contro cui durante il torneo erano caduti in casa vendicandosi però con una sorprendente vittoria in trasferta) i calciatori dell’Inter accettarono prima lo spostamento della sede designata da Milano a Vercelli e quindi un rinvio chiesto dagli avversari, ufficialmente privati di alcuni giocatori-chiave da impegni con la Nazionale Militare ma invece speranzosi di recuperare alcuni infortunati altrettanto importanti.

Quando la Pro Vercelli chiese però un ulteriore rinvio l’Internazionale rifiutò, affidandosi alla FIGC che fu irremovibile: si sarebbe giocato nella data indicata in seconda battuta, non ci sarebbero stati altri rinvii. Indispettita, la Pro Vercelli schierò nello spareggio decisivo una squadra composta da ragazzini, che non lesinarono colpi e provocazioni ai più maturi rivali sulla spinta di un pubblico inferocito dove spiccava anche la presenza di diversi calciatori della prima squadra.

Furono proprio la signorilità e il sangue freddo di Virgilio Fossati, che diede l’esempio e calmò i compagni, ad evitare che la situazione degenerasse oltremodo: la gara si concluse 10 a 3, un episodio vergognoso per cui la Pro Vercelli fu condannata sia dalla federazione che dalla stampa nazionale e che consegnò quindi all’Inter uno Scudetto tutt’altro che “rubato”.

Ma mentre i calciatori inseguivano il pallone, qualcosa cambiava nelle stanze dei bottoni. La prima guerra mondiale arrivò improvvisa, sospendendo in un attimo le gare che stavano per avere luogo il 23 maggio del 1915: il conflitto già imperversa da un anno, e l’Italia è stata convinta dagli interventisti a scendere sui campi di battaglia. Tutti i giovani uomini abili e arruolabili finiscono al fronte, indipendentemente dalla propria volontà e dal proprio mestiere: accade anche a Virgilio Fossati, inizialmente esentato per motivi di studio.

Finisce sul fronte nord-orientale, a tu per tu con l’invasore austriaco, arriva da sottotenente ma ben presto il suo carisma e i suoi atti coraggiosi gli fanno guadagnare il grado di capitano della Brigata Cuneo. Cade a Monfalcone, crivellato dai colpi nemici mentre tenta di mettere in salvo i propri commilitoni: ha appena 25 anni, e la notizia della sua morte sconvolge i tifosi della Beneamata e del foot-ball in generale. A lui l’Internazionale dedicherà il campo di Via Goldoni.

Nel cuore dei tifosi gli succederanno Leopoldo Conti prima e Giuseppe Meazza poi, ragazzi cresciuti nei campionati ULIC giocati durante la guerra, mentre i “grandi” combattevano e perivano al fronte.

Ragazzi che si erano avvicinati al calcio, molto probabilmente, proprio grazie a campioni come Fossati, primo vero eroe del Football Club Internazionale.

 Fonti: “I campioni che hanno fatto grande l’Inter”, V. Galasso, pag. 147-148 (Newton)

 

 

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Durante la presidenza Modrone divampa la Prima guerra mondiale: essa porta all'interruzione del Campionato 1914/15 e alla sospensione di tutti i successivi. Arruolamenti e relative perdite non intralciano però il cammino nerazzuro, che nel 1919/20 vince il primo Scudetto del dopoguerra vincendo 3-2 la Finale contro il Livorno sul neutro di Bologna. Presidente è Francesco Mauro, allenatore Nino Resegotti.

 

 

PRIMA GUERRA GUERRA MONDIALE

Gli anni della guerra non videro la cessazione completa delle attività sportive nella penisola. Interrotto il massimo campionato di calcio, esso fu sostituito dalle coppe regionali, mentre si svolsero regolarmente i tornei minori. A Torino, nel 1915, nacque il primo periodico italiano di club: «Hurrà!», come baldanzoso grido di guerra dei supporters della Juventus. Significativo che il 28 ottobre 1917, quando erano passati appena quattro giorni dalla rotta di Caporetto e il paese attraversava i momenti più tragici del conflitto, si giocasse a Milano tra il Milan e l’Unione Sportiva Milanese una partita valida per la Coppa Mauro e nello stesso giorno si disputassero nella penisola altri dodici incontri dei campionati minori.

Si trattava, come si è detto, delle coppe regionali, a cui si aggiungevano i campionati di terza categoria. Da Torino a Messina a Foggia, negli anni della guerra, 55 piccoli sodalizi si unirono ai maggiori nello svolgimento di intense stagioni calcistiche. Una manifestazione come la Coppa Albini, promossa nel 1917 tra le società milanesi noRisultati immagini per calcio prima guerra mondialen federate, raccolse l’adesione di dieci club, che schierarono in campo duecento giocatori, così come furono numerosi gli incontri che a Torino diedero vita nel novembre 1917 al torneo Don Bosco. Si trattava di squadre di calciatori che non avevano più di 16-17 anni: l’ultima classe chiamata alle armi nel 1917 fu quella dei nati nel 1900.

Questo lievitare di giovanissime promesse fu forse il maggiore beneficio che il calcio italiano trasse dalla sventura della guerra. Beninteso, non tutto il calcio di guerra fu storia di ragazzi. Furono numerose le partite tra le formazioni dei diversi corpi militari, né mancarono gli incontri tra squadre dei paesi alleati.

Nel marzo 1918 una rappresentativa di giocatori azzurri in servizio presso il XX autoparco di Modena incontrò una squadra di militari belgi guidati dal capitano Louis Van Haege, ex giocatore del Milan, che un referendum del 1911 aveva giudicato il miglior giocatore in Italia.

Fu uno dei pochi pionieri internazionali del calcio rivisti sui nostri campi; gli altri erano tornati nelle loro patrie agli inizi delle ostilità e molti di essi perirono in guerra. James R. Spensley, il fondatore del calcio genovese, ferito a La Bessée, era morto il 10 novembre 1915 nell’ospedale di Magonza.

 ’incontro tra giovani di diverse culture e sensibilità, costretti a condividere un’esperienza di morte, aveva intanto favorito un più rapido diffondersi di abitudini e di linguaggi fino ad allora rimasti esclusivi di alcune aree geografiche o sociali. Si pensi che la maggioranza dei combattenti italiani era composta da contadini, dai giovani dell’Italia rurale che era rimasta del tutto estranea al mondo del calcio. La trincea tenne a balia i primi vagiti della cultura di massa, da cui il calcio trasse un incalcolabile beneficio.

 

Fonte: A. PAPA, G. PANICO – Storia sociale del calcio in Italia

- nell'immagine  a colori la cosiddetta “ tregua di Natale ”, quando le truppe di Germania ed Inghilterra si affrontarono in una partita di calcio nella Prima Guerra Mondiale.

 

 

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ZIZI' CEVENINI

 

Capitava spesso di vederlo seduto su di un pallone di cuoio passando per il campo di via Goldoni, casa dell’Inter dal 1913 al 1930. Capitava spesso di vederlo snocciolare insulti di ogni tipo verso i compagni, rei di non essere alla sua altezza, di non essere buoni a mettere insieme due passaggi di fila. Zizì non stava zitto un attimo, non ci riusciva proprio. La sua lingua era alla continua ricerca di uno sfogo, di un nuovo detto da ripetere all’infinito, di un nuovo zig-zag oratorio con cui infastidire l’avversariRisultati immagini per cevenini intero. Zizì era abituato a farsi valere con le parole. Del resto, in una famiglia di cinque fratelli in cui sei il mezzano, devi saperti difendere a parole, perché a botte i più grandi ti avrebbero suonato come una zampogna. Così Zizì aveva imparato a parlare e, soprattutto, a giocare a calcio. Divinamente. I suoi fratelli erano bravi a quel gioco da barlafùs, di ragazzotti poco affidabili con tempo da perdere, ma lui… eh, lui era di un’altra categoria. Muoveva il pallone tra i suoi piedi con la stessa velocità e fantasia con cui faceva andare la lingua nella sua bocca larga. Piccoletto, rapido, veloce: una vera zanzara, fastidioso come un mosquito. Per questo Luigi Cevenini III divenne, semplicemente, Zizì, la zanzara del pallone.

Erano tempi lontani, ma a Milano, la sua Milano, già il calcio faceva battere i cuori. I calciatori non erano star, ma erano i giocolieri che incantavano le piazze e per questo più eri funambolo, più eri amato. Zizì faceva letteralmente crollare i campi dove andava. La gente rimaneva estasiata davanti ai suoi dribbling, fulminei a rapidi. E quando, dopo un rigore segnato, dileggiava il portiere avversario con un «Ciapél!» ed un gesto ben poco elegante, allora il contorno diventava una bolgia tra ululati di divertimento puro e quelli, invece, di rabbia avversaria. Ma Zizì era fatto così. Voleva divertirsi, oltre che vincere, e pretendeva che tutti fossero alla sua altezza. Siccome questo accadeva raramente, in più di un’occasione si sedeva comodamente sul pallone invitando l’arbitro a concludere la partita, perché «se po minga giungà inscè», con gente che al pallone dava del voi, altro che del tu, ed altri ancora che avrebbero semplicemente dovuto, a suo insindacabile parere, dare l’addio a quel gioco.

 

 

Zizì iniziò nel Milan, come tutti i suoi fratelli. Lì giocava “il figlio di Dio” Renzo de Vecchi. Ma poi, come tutti i suoi fratelli, finì rapidamente all’Inter, la squadra di eleganti bauscia. I rossoneri amavano troppo De Vecchi per amare qualcun altro. Così era facile che, incontrando per strada Cevenini III, qualche tifoso rossonero urlasse «tanto noi c’abbiamo il figlio di Dio!». Zizì, col suo solito sorriso beffardo e la sigaretta accesa all’angolo della bocca, urlava di rimando: «Lo so, son suo padre!». Zizì, con un pallone trai piedi, si sentiva veramente Dio e fu proprio all’Inter che convinse molti del fatto che era realmente una divinità del calcio: 190 partite di campionato tra il 1912 ed il 1927, condite da ben 158 gol ed una miriade di assist. Di mezzo una parentesi di appena una stagione alla Novese, dove vinse il tricolore delle squadre “piccole”, come voleva il regolamento di quell’anno.

Zizì alla Novese? Il funambolo milanese? Esatto. Il “Sire” Ferretti, Presidente della Novese, aveva deciso che voleva quello showman ante litteram nella sua piccola squadra di provincia. Lo contattò: «Lei verrà da noi» disse con certezza assoluta. «Sì, ma chì me dan 600 ghell al mes». 600 lire erano una buona cifra allora, niente di paragonabile alle retribuzioni odierne, ma di certo mica male, soprattutto in anni in cui il calcio era ancora dilettantismo. Fu uno dei primi a percepire uno stipendio, con sua immensa gioia. La risposta di Ferretti fu semplice: «Seicento? Mille». ZizìRisultati immagini per cevenini inter fece armi e bagagli e si trasferì senza tante storie. A lui interessavano eccome i soldi, peccato che non fosse proprio un buon ragioniere. Più che amministrarli amava sperperarli e così, nella piccola Novi, non si ambientò proprio. Dove poteva buttare i suoi mille al mese in quel buco di posto? E le donne? Dov’erano finite le donne eleganti, sofisticate e disinibite della sua Milano, quelle che amavano uscire a cena e entrare nel suo letto? Così l’Inter lo riaccolse a braccia aperte.

Tornò a Milano, con le tasche più piene e il sorriso da rompi palle che lo aveva sempre contraddistinto. In Italia però era giunta una voce: su su, oltre la Francia dei mangia baguette ed oltre un braccio di Oceano Atlantico, in un’isola dove dicevano (e dicono) di aver inventato il gioco del calcio, questo sport era una roba che contava davvero. Pagavano bene ed erano tutti bravissimi. Zizì iniziò a pensarci. Davvero lassù lo avrebbero pagato alla grande e non avrebbe più dovuto chiedere all’arbitro di interrompere la partita per manifesta incapacità di compagni ed avversari? Alla fine partì. Il problema fu che non lo disse a nessuno. Ma proprio a nessuno, neanche ai suoi fratelli. Semplicemente sparì. I compagni erano disperati, si pensò ad un rapimento ordito dalle squadre avversarie, magari proprio da quei casavìt rossoneri che mal sopportavano quel grandissimo e fantasioso calciatore con un passato nelle loro fila. Passò una quindicina giorni, poi Zizì si ripresentò nello spogliatoio, prima di una partita, con la sua sigaretta in bocca. Salutò tutti, si vestì ed era pronto a giocare. Il Plymouth aveva fatto un provino a quell’italiano chiacchierone e, visto il talento, aveva deciso di ingaggiarlo. Ma Zizì non resistette a lungo in un ambiente dove non poteva neppure entrare in campo con una sigaretta in tasca. Ma che modo di fare era quello? E così, senza pensarci tanto, tornò a Milano, orgoglioso di aver dimostrato di essere all’altezza anche di coloro che si credevano gli inventori del calcio.

Giocò ancora, stupì ancora, ma alle sue spalle stava nascendo la prima vera stella del calcio italiano: Peppino Meazza. Elegante, dallo sguardo suadente, affascinante, misterioso, bello, educato, silenzioso. Insomma, l’opposto di Zizì, tranne che per una cosa: era anch’egli bravissimo a calcio. Zizì soffriva la presenza di quel sedicenne di cui si parlava un gran bene e l’Inter, nel ’27, decise di salutare l’ex idolo per accogliere il nuovo idolo, quello che diventerà leggenda. Cevenini III optò per la Juventus, dove giocò tre buone stagioni, senza i picchi raggiunti all’Inter ma facendo comunque innamorare i tifosi bianconeri e tante torinesi. Era l’icona del calcio italiano di allora, vissuto in un limbo tra professionismo e dilettantismo puro. Vladimiro Caminiti scrisse che Zizì era «il simbolo di come l’italiano medio considera il calciatore di classe: un dribblomane, un solista senza padroni, un cane sciolto a caccia di emozioni speciali, che sgrida alla voce i compagni, che si sente il più bravo da dieci a zero e lo vomita in faccia a tutti».

Nel ’30 lasciò la Juve, lasciò la Nazionale e iniziò a peregrinare per l’Italia come allenatore-giocatore. Guidò il Messina in Serie B, poi passò alla Comense, riuscendo ancora ad incantare. Nella stagione ’38-’39, a 44 anni suonati, allenò l’Arezzo e giocò anche qualche partita a causa dell’infortunio di uno dei giocatori. Poi sparì, di nuovo, come quando andò in Inghilterra, ma stavolta senza tornare. Fu Vittorio Varale, giornalista, a ritrovarlo, oramai sessantenne, nei dintorni di Como. Lo ha raccontato Gianni Mura: il collega voleva rivedere quel funambolico artista del pallone che lo feceva sognare da bambino. Dopo una lunga ricerca si trovò faccia a faccia con un uomo povero, agricoltore e allevatore di galline. Si definiva un disoccupato. La sua lingua però era ancora quella del caro vecchio Zizì. Si sbracciava, divagava, lasciava il pallino del discorso per poi ritrovarlo qualche minuto dopo, proprio come faceva col pallone nei suoi anni migliori, in cui lo nascondeva agli avversari per poi farlo rivedere oramai in fondo alla rete. Si lamentava di tutto. Si lamentava di non aver mai ricevuto «gnanca un ghell» nella sua carriera da calciatore, quando in realtà, semplicemente, li aveva buttati dalla finestra. Una finestra larga quanto la sua bocca.

http://contropiede.ilgiornale.it/zizi-cevenini-il-primo-fuoriclasse-dalla-bocca-larga/

 

 

 Allo Scudetto segue un lungo periodo anonimo, segnato solo da una retrocessione evitata per un soffio e, dopo molti piazzamenti di media classifica nei Gironi interregionali, da un quinto posto nel 1926/27. Due i cambi al timone: nel 1923 a Mauro succede Enrico Olivetti, e nel 1926 è la volta di Senatore Borletti. La panchina vede invece alternarsi Bob Spotishwood, Paolo Schiedler, Arpad Veisz e Josef Viola.

Con l'arrivo del "Ventennio", l'Inter si vede costretta a cambiare ragione sociale: il Partito Fascista non apprezza infatti il nome "Internazionale", che non rispetta la tradizionale italianità promossa dalla linea di governo e richiama troppo esplicitamente l'Internazionale per antonomasia, vale a dire la Terza Internazionale comunista.

 

 

 

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1926-27

 

 

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 Nell'estate del 1928, sotto la guida del presidente Senatore Borletti (entrato in carica nel 1926), l'F.C. Internazionale si fonde con l'Unione Sportiva Milanese, muta nome e casacca e diviene "Società Sportiva Ambrosiana", con tenuta bianca rossocrociata (colori di Milano) e segnata dal fascio littorio.

La nuova divisa dura soltanto pochi mesi, e di nuovo in nerazzurro (ma con il colletto a scacchi bianconeri, colori sociali dell'U.S. Milanese), la squadra di nuovo allenata da Arpad Veisz e guidata dai presidenti Ernesto Torrusio (1929) e Oreste Simonotti (1930) conquista il terzo Scudetto in occasione del primo Campionato a girone unico senza suddivisioni geografiche, la Serie A del 1929/30, raggiungendo anche la semifinale di Mitropa Cup, coppa riservata ai club più forti di Austria, Italia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia. In questo Campionato inoltre riceve la consacrazione definitiva Giuseppe Meazza, detto "Balilla", bomber nerazzurro brillante sostituto degli "ex" Antonio Powolny, Fulvio Bernardini e Luigi Cevenini III.

 

1927-28

Per imposizione del regime fascista, l'Internazionale si trovò costretta a mutare il proprio nome per ragioni politiche; troppo poco italiano e soprattutto simile al nome della Terza Internazionale Comunista. Così nel 1928 l'Inter si fuse con l'Unione Sportiva Milanese gareggiando con la maglia bianca con croce rossa ( L'anno dopo ritornò la gloriosa maglia neroazzurra)  e assunse la denominazione di

 

Società Sportiva Ambrosiana poi mutata in Ambrosiana-Inter fino al 1945.

 

 

 Durante il primo anno con il nuovo nome l'Ambrosiana vinse con due giornate d'anticipo il primo Campionato di Serie A disputato a girone unico, successo questo impreziosito dalle 31 reti segnate da Meazza (capocannoniere stagionale).

 Dopo un dominio incontrastato della Juventus, i nerazzurri conquistarono il loro quarto tricolore nel 1938. Meazza per la terza volta nella sua carriera si confermò miglior realizzatore della competizione (precedentemente anche nell'annata 1935-1936).

Dopo un solo anno di digiuno, i milanesi tornarono a conquistare lo scudetto, nonostante l'improvviso stop di Meazza, bloccato da problemi ad un piede: per l'Inter fu il quinto titolo della sua storia.

 

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Anche il logo subì delle modificazioni radicali. Il primo ad apparire, in completo ossequio del regime imperante, ancora di forma tondeggiante, riportava, in campo blu, al centro il fascio littorio, con, a sinistra, uno scudo recante l’immagine del biscione e a destra uno con i colori di Milano. Questo stemma resistette solo una stagione, sostituito, tra il 1929 e il 1931.

 

 

 

 

 

GIUSEPPE MEAZZA

Scartato dai rossoneri e acquistato dai cugini nerazzurri portò il primo scudetto sull’altra spnda del Naviglio compreso il titolo di capocanoniere

Giuseppe Meazza: non solo l’Inter, grandi soddisfazioni in Nazionale con il doppio Mondiale consecutivi 1934 e 1938. Lo stadio di San Siro è dedicato a luiRisultati immagini per GIUSEPPE MEAZZA

Giuseppe Meazza pochi hanno potuto ammirarlo sul campo ma tutti conoscono il suo nome. Lo stadio di San Siro dal 1979 (anno della sua morte) è intitolato a lui. Vinse due campionati del Mondo con l’Italia e (rammaricandosene) indossò anche la maglia del Milan.

Tutti noi appassionati di calcio abbiamo udito il suo nome almeno una volta ma quasi nessuno ha potuto ammirarne le gesta sul campo. Giuseppe Meazza, minuta e talentuosa “macchietta”, nato (nel 1910) e cresciuto nella Milano di Porta Vittoria, ai tempi del pallone fatto di stracci arrotolati e calciato a piedi scalzi, inizia nella prima infanzia a praticare questo sport. Reso orfano di padre dalla Prima Guerra Mondiale, temprato dagli avvenimenti e”scartato” dalle selezioni del Milan perchè gracilino, viene tesserato dall’Internazionale quando è nel pieno dell’adolescenza, dopo avere conquistato Fulvio Bernardini e l’allenatore della prima squadra Weisz. Soprannominato Balilla (come l’omonimo organo di stampo fascista per l’istruzione e l’indottrinamento dei fanciulli) da Leopoldo Conti in occasione della sua partita di esordio, per via della sua giovinezza, mette tutti i dubbi a tacere segnando una tripletta e sbalordendo l’Italia intera con la sua personalità. Il gran passo è fatto.

L’Internazionale può mettere in mostra un gioiello considerato tuttora da parecchi esperti il più forte calciatore italiano di tutti i tempi. Purtroppo i contributi filmati dell’epoca sono davvero pochi ma alla stella “Pepin” Meazza, rendono omaggio le immortali parole di giornalisti esteti come Gianni Brera o di “mister” Pozzo (il selezionatore azzurro dell’epoca). Nel 1930, arriva una doppia soddisfazione per Meazza grazie alla conquista del titolo individuale di capocannoniere della nuovissima serie A italiana con 31 reti, ognuna delle quali contribuisce alla vittoria dello scudetto da parte della squadra nerazzurra. Chi è presente in quegli anni non potrà mai dimenticare i suoi dribbling e le sue punizioni ad effetto a scavalcare la barriera. La sua personalissima tecnica nei calci di rigore (con una finta particolare durante la rincorsa) diventa leggendaria.

Negli anni trenta, con il fascismo che impone l’utilizzo di nomi italiani per le squadre di calcio, l’Internazionale diventa l’Ambrosiana dopo una fusione con l’US Milanese. Nel frattempo arrivano per lui enormi soddisfazioni con la maglia della nazionale. L’Italia trionfa nel Campionato del Mondo 1934 (disputato in patria) e in quello successivo, giocato in Francia quattro anni dopo.

 

Durante quest’ultima competizione, passa alla storia un suo penalty a causa di un episodio piuttosto singolare. Nel corso della semifinale contro il Brasile, infatti, prima di calciare un rigore, a Meazza si rompe l’elastico dei calzoncini e il tiro dagli undici metri viene da lui effettuato e trasformato reggendoseli con una mano. Nel frattempo era già arrivato un altro tricolore (l’ultimo della carriera) con la maglia interista oltre a due titoli di capocannoniere (1936 e 1938). Purtroppo, a seguire, arrivano alcuni infortuni che ne compromettono il rendimento. Meazza, dopo uno stop forzato di quasi un anno a causa di un problema di circolazione al piede, passa al Milan e poi alla Juventus ma è il periodo della guerra, di Mussolini e per il calcio non c’è troppo spazio.

Viene organizzato un Campionato della Guerra che Meazza gioca con la maglia del Varese per passare poi all’Atalanta e concludere la sua storia calcistica (come è ovvio) con un ritorno all’Inter per un finale di carriera più romantico che tecnico. Dopo avere appeso le scarpe al chiodo, Pepin diviene giornalista ed in seguito allenatore (tra le altre, siede sulla panchina del Besiktas nel 1949 diventando il primo tecnico italiano ad allenare un club straniero) pur senza grossi risultati. Decide infine di dedicarsi al calcio giovanile dell’Inter. Un ancora acerbo Sandro Mazzola, ricorda il suo primo incontro con la leggenda Meazza soprattutto per la frase: “In passato ho fatto una cosa di cui mi vergogno… ho giocato anche nel Milan”. Dal giorno della sua morte (21 Agosto 1979), lo stadio di San Siro ha preso il suo nome. Del calcio giocato da Meazza non resta nulla se non qualche frase estrappolata da ricordi ed interviste o qualche filmina sui mondiali, ma il suo nome, incatenato alla gloria dello stadio di Milan ed Inter, onora la memoria di un grande campione, di un grande avversario, di un “nemico” storico come “Pepin”.

 

Enrico Bonifazi

http://www.dnamilan.net/dmwp/blog/2017/06/19/giuseppe-meazza/

 

 

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Immagine correlata

 

Il logo ancora tondeggiante, in campo nero, riportava al centro un rombo a strisce nerazzurre ai cui lati, in campo bianco, comparivano le lettere A ed S e, in basso, a tutta larghezza una banda nera con il nome Ambrosiana scritto in oro. Quindi, potendo tornare ad aggiungere la parola “Inter” al proprio nome, un ulteriore cambio con lo stemma che resterà fino alla fine della guerra: un rombo a strisce nerazzurre, con al centro un pallone dell’epoca e tutt’intorno una cornice blu recante, una parola per lato, Associaz. Sportiva Ambrosiana Inter.

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Risultati immagini per milano arena civica calcio

L'arena Civica di Milano ospitò l'Inter dal 1930 al 1947

 

Il primo scudetto della storia interista (1909/10) è legato a doppio filo all'Arena Civica, e non solo: contro la Juventus il 28 novembre 1909 viene consegnata alla storia la prima vittoria in assoluto in campionato dell'Inter. Il campo ufficiale era in Ripa di porta Ticinese, ma spesso era in condizioni pietose e al limite della praticabilità e così il Comune di Milano aveva concesso ai nerazzurri di disputare all'Arena Civica (che in quel periodo veniva utilizzata per altre manifestazioni, sportive e non, tra cui il tiro al piccione e le battaglie navali) le gare interne durante tutto il periodo invernale.

Nel 1913 venne costruito il campo di via Goldoni, nuova casa dell'Inter, ma per le partite più importanti ci si continuava a trasferire all'Arena grazie alla sua maggiore capienza: è così che gli scudetti del 1919/1920 e del 1929/1930 vennero conquistati su entrambi i campi, addirittura quello del 1930 sotto la guida di Arpad Wiesz su tre campi poiché quando quello di via Goldoni divenne inagibile a causa del crollo della tribuna, la Beneamata disputò la partita decisiva per lo Scudetto contro la Juventus a San Siro, esordendo di fatto in quella che solo nel 1947 sarebbe diventata anche la sua casa.

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Dopo un quinto posto nel 1930/31 c'è aria di cambiamento: il nuovo timoniere Ferdinando Pozzani, soprannominato "Generale Po" per i modoi autarchici, lascia andare molte bandiere, cambia allenatore (Istvan Toth) e ottiene dalla FIGC il permesso per assumere la denominazione di Ambrosiana-Inter. Lo stravolgimento societario non porta però risultati, che si limitano a un deludente sesto posto. Il nuovo ritorno di Veisz, l'arrivo del prestigioso portiere Carlo Ceresoli e de nuovi attaccanti di spessore Levratto e Frione II sembra spingere l'Ambrosiana verso lo Scudetto, che però è mancato: nel 1932/33 la squadra arriva seconda otto punti sotto la Juventus. Il 1933 è anche l'anno dell'unica Finale in Mitropa Cup. Dopo aver liquidato First Vienna e Sparta Praga, ai nerazzurri resta da battere il fortissimo Austria Vienna: la vittoria per 2-1 a Milano sembra arridere a Meazza e compagni, che però Vienna vengono sconfitti 3-1 dai i padroni di casa, che vincono il trofeo.

 

 

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Si sente di nuovo odore di Scudetto nel 1933/34. A due giornate dalla fine l'Ambrosiana batte la Juventus 3-2 all'Arena Civica, in un match storico che registra l'incasso record di 400 mila lire. Tuttavia le sconfitte con Fiorentina e Torino condannano i nerazzurri a un altro secondo posto, stavolta con lo scarto ridotto a quattro punti. L'anno successivo, negativamente segnato dalla scomparsa di "Tito" Frione, ha dell'incredibile: all'ultima giornata Inter e Juve sono a pari punti. I bianconeri vincono a Firenze, mentre i nerazzurri perdono contro la Lazio, con rete dell'ex nerazzurro Levratto, e il 1934/35 diviene per i ragazzi allenati da Gyula Feldmann l'anno del terzo secondo posto consecutivo.

Passano due anni spenti, dove in panchina si avvicendano Albino Carraro (sostituto di Feldmann, esonerato) e Armando Castellazzi, ottenendo solo un quarto e un settimo posto in Serie A e una Semifinale di Mitropa Cup.

 

 

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L'Ambrosiana-Inter torna in auge nel 1937/38, spuntandola nella corsa allo Scudetto su Juventus e Milan solo all'ultima giornata, seppur in Mitropa Cup arrivi un'eliminazione già ai quarti. Ancora protagonista del trionfo nerazzurro il centravanti Giuseppe Meazza, che si laurea Campione del Mondo per la seconda volta. La società compensa il ritiro di mister Castellazzi con Tony Cargnelli, abile teorico del "Sistema" (modulo che sostituisce il classico schema danubiano), e fronteggia l'improvviso declino di Meazza con il ritorno di Attilio Demaria dal Sudamerica.

 

 

La squadra così rinnovata arriva terza in Serie A e vince la sua prima Coppa Italia nel 1938/39. Otto giorni prima dell'entrata in guerra dell'Italia arriva l'ultimo Tricolore sotto la denominazione di Ambrosiana-Inter. Nonostante l'idolo della folla Meazza sia bloccato per l'intera stagione da una grave vasocostrizione al piede, i nerazzurri dirigono autorevolmente il Campionato 1939/40, vincendo all'ultima di Campionato lo scontro diretto con il Bologna e festeggiando lo Scudetto sul neutro di San Siro, campo del Milan scelto perché il numero di spettatori era superiore alla capienza massima dell'Arena Civica (l'incasso sarà di 471 mila lire).

 

 

 

 

 

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Otto giorni dopo la celebrazione del quinto titolo tricolore, l'Italia entrò in guerra.

 

 

 

SECONDA GUERRA MONDIALE

 

Nelle stagioni 1942-43 e 1945-46 il campionato fu vinto dal Torino; non fu invece disputato nelle due stagioni intermedie. Tuttavia nella stagione 1943-44, nonostante l'Italia fosse divisa in due, vi furono diversi tentativi di creare campionati di calcio: al sud vennero organizzati tornei regionali, mentre nell'Italia occupata dai nazisti fu organizzato il Campionato Alta Italia, che era strutturato in tre fasi:

1- fase eliminatoria a gironi, con raggruppamenti in base a suddivisioni geografiche;

2- semifinali interregionali, anch'esse a gironi;

3- fase a eliminazione diretta.

Ad avere la meglio furono alla fine i Vigili del Fuoco di La Spezia; alla ripresa del campionato nel '45, però, tale titolo non fu riconosciuto all' A.C. Spezia, nonostante la fusione tra questa squadra e quella dei Vigili del fuoco di La Spezia. Fu così che lo Spezia, che aveva chiesto la promozione in serie A per la vittoria del campionato di cui sopra, dovette rimanere in serie B (dove era rimasto nel '43); addirittura, gli spezzini per protesta si iscrissero alla serie C, che poi vinsero per poi essere promossi in serie B; il titolo è stato riconosciuto nel 2002, e da allora lo Spezia può fregiarsi di un simbolo permanente sulle proprie maglie, in ricordo di quella vittoria.

In Toscana, Lazio e nell'Italia Libera (quella non soggetta all'occupazione tedesca) furono organizzati nel '44 dei tornei vinti rispettivamente da Montecatini, Lazio e Conversano (Bari).

Infine nel '45 ci fu un campionato siciliano, vinto dal Palermo.

 

 

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La coppia di allenatori Peruchetti-Zamberletti decide per la cessione di Meazza al Milan, considerato ormai finito. Dopo tredici anni passati in nerazzurro si fa tuttavia ancora rimpiangere segnando la rete del definitivo 2-2 nel derby cittadino. in Campionato un'Andata birllante si contrappone a un discutibile Ritorno, e nel 1940/41 l'Ambrosiana-Inter arriva seconda. Nei due anni successivi Ivo Fiorentini non va oltre una clamorosa dodicesima posizione e Giovanni Ferrari, sotto la nuova presidenza di Carlo Masseroni porta i suoi ragazzi a un modesto quarto posto. Nel 1943 la FIGC decide per la sospensione delle attività sportive nazionali: nel Campionato Alta Italia 1944, organizzato dai Comitati Regionali, l'Ambrosiana arriva prima nelle Eliminatorie Lombarde, ma è soltanto sesta nel Girone di Semifinale.

 

 

 

 

Annibale Frossi, occhiali d’oro

Ci sono sempre stati nella storia del calcio dei protagonisti capaci di distinguersi per una o più caratteristiche particolari. Non si trattava magari di fuoriclasse, ma di buoni giocatori in grado comunque di lasciare un segno indelebile. Annibale Frossi rientra benissimo in questa categoria.Risultati immagini per frossi inter

Annibale Frossi nasce a Muzzana del Turgnano (Udine) il 6 agosto 1911. Inizia a giocare a calcio seriamente nonostante una miopia lo costringa a non separarsi mai dai suoi occhiali: questa è la prima caratteristica che contribuisce alla sua popolarità. Frossi è un’ala destra veloce ed opportunista, non un colosso dal punto di vista fisico e logicamente penalizzato nel gioco aereo dagli occhiali, che durante le partite tiene ben legati al capo grazie ad un elastico. La sua prima maglia è quella dell’Udinese, con cui conquista la Serie B nel 1930. Nonostante non risulti molto prolifico, si fa valere in attacco e cattura comunque l’occhio di tanti addetti ai lavori. Lo acquista il Padova, sempre in cadetteria. Con la casacca dei biancoscudati Frossi gioca due stagioni, restando poi sempre in B prima al Bari (12 reti, durante il servizio di leva) e poi ancora al Padova (14 reti). Il crescendo realizzativo gioca indubbiamente a suo favore ma, paradossalmente, è in una piazza meno conosciuta che Frossi fa partire il capitolo più bello ed inaspettato.

Nel campionato di Serie B 1935-36 Annibale Frossi sta per partire per la Guerra d’Etiopia, in quanto caporal maggiore di fanteria. Mentre si trova a bordo della nave “Saturnia” a Napoli viene fatto sbarcare a L’Aquila dal gerarca fascista Serena (aquilano ed ex presidente della squadra di calcio cittadina): vuole far giocare Frossi nell’Aquila, con l’intento di provare la scalata alla Serie A. In questo modo l’attaccante udinese arriva in Abruzzo, ma non riesce a trascinare il club alla promozione pur segnando 9 reti. Da giocatore aquilano viene scovato da Vittorio Pozzo, C.T. della Nazionale italiana, che sta reclutando giocatori digiuni di calcio internazionale ed universitari per le Olimpiadi di Berlino 1936. Frossi era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza. L’avventura a cinque cerchi si rivela decisiva per farlo entrare nella storia: a Berlino segna in tutte e 4 le partite, per un totale di 7 reti, tra cui una tripletta al Giappone e la doppietta in finale contro l’Austria che porta l’oro olimpico all’Italia. L’attaccante friulano diventa molto popolare e si guadagna la chiamata dell’Inter, che ai tempi del fascismo era diventata Ambrosiana. Il trasferimento a Milano ed il buon periodo di forma però non gli spalancano le porte della Nazionale “vera”: Pozzo lo convoca solo un anno dopo il successo olimpico per il suo ultimo gettone azzurro, in cui peraltro segna ancora. Il selezionatore decide di puntare su Pasinati della Triestina, destinato a diventare iridato nel 1938. Per Frossi le 8 reti in 5 partite, in cui va sempre a segno, rappresentano un notevole exploit realizzativo nella storia della Nazionale.

Conclude la sua esperienza nella Milano nerazzurra alla fine del torneo 1941-42, con in bacheca due campionati vinti (1938 e 1940) inframmezzati dalla conquista della Coppa Italia 1939. Ritorna in Serie B alla Pro Patria, prima di chiudere con l’agonismo a Como: nel Torneo Benefico Lombardo 1944-45, organizzato durante la Seconda Guerra Mondiale tra le più importanti squadre regionali (più i piemontesi del Novara), Frossi contribuisce con 5 presenze e 2 reti alla vittoria finale e poi si ritira. Si laurea con la tesi “Liceità giuridico-penale delle lesioni negli incontri di calcio”.

Già l’anno dopo la fine dell’attività, in seguito ad un breve periodo come impiegato all’Alfa Romeo, Frossi inizia ad allenare nel Luino in Serie C. Transita poi al Mortara ed al Monza, con cui vince il campionato di C 1950-51. Tra il 1954 ed il 1956 guida il Torino in massima serie, con un 10° ed un 11° posto. Ritorna quindi all’Inter, dapprima come Direttore Tecnico affiancando Ferrero, poi sostituendolo. Si trasferisce poi al Genoa, per due tornei intervallati da una parentesi al Napoli. Viene considerato tra i principali promotori del Catenaccio in Italia, nonostante i suoi trascorsi da attaccante, facendo del 5-4-1 il suo credo tattico. Nel massimo campionato 1962-63 conduce il Modena alla salvezza. Le ultime esperienze nel mondo del calcio sono alla Triestina nelle stagioni 1964-65 e 1965-66, prima da allenatore e poi come Direttore Tecnico.

http://www.mondosportivo.it/2015/12/03/mp-istantanee-presenta-annibale-frossi-occhiali-doro/

 

 

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