  
			
			
			  
  
						
						
			  
						
			  
						
						IVANOE FRAIZZOLI 
						
						Ebbe il coraggio di 
						succedere a Moratti. Presidente dal maggio ’68 ricostruì 
						la squadra che aveva vinto in Europa e nel mondo. Da 
						pres idente ha vinto due scudetti (’71 e ’80), due Coppe 
						Italia (’78 e ’82), 
						un Mundialito (’81). Nel ’72, l’Inter arrivò alla finale 
						di Coppa dei campioni. 
						
						Fraizzoli e Milano, 
						un ambrosiano doc col cuore nerazzurro. Fisicamente, nei 
						toni della voce, nel faccione, nella bonomia, e’ stato 
						l’ultimo presidente dell’Inter davvero ambrosiano: piu’ 
						tipicamente milanese di Angelo Moratti e dello stesso 
						Claudio Rinaldo Masseroni, massiccio e sempre armato di 
						sigaro, il presidente di Skoglund, di Nyers e di Wilkes. 
						Non aveva quarti di nobilta’ industriale, nè l’aureola 
						del self – made man che dal nulla crea un straripante 
						portafoglio, che dalla valigetta di rappresentante, come 
						Moratti, arriva a un impero del petrolio. Anche in 
						questo, assomigliava allo sterminato popolo della 
						fabbrichetta, della bottega che è la ricchezza della 
						città. Faceva e vendeva giacche e livree per i camerieri 
						delle grandi famiglie. 
						
						Ci voleva un grande 
						coraggio per subentrare, e a Ivanoe Fraizzoli questo 
						coraggio non mancò. Per un uomo come lui, devotamente 
						attaccato alla famiglia e al lavoro, si trattò anche di 
						un atto d’amore verso la squadra per la quale aveva 
						sempre tifato. Ivanoe amava esibire un tesserino 
						comprovante la sua passata militanza nel settore 
						giovanile nerazzurro: “… dopo qualche partita mi dissero 
						di cambiare mestiere” confessò una volta, forse per 
						nascondere la sua giustificata soddisfazione. 
						
						Quell’Inter era una 
						signora squadra, che l’anno seguente arrivò alla finale 
						di Coppa dei Campioni. Si giocò a Rotterdam contro 
						l’Ajax, e l’Inter dovette inchinarsi a due prodezze di 
						Cruijff, marcato da un giovanissimo Oriali, dopo che 
						sullo 0-0 Boninsegna colpì un palo con un violento tiro 
						da lontano. Una squadra che avrebbe anche potuto 
						riaprire un ciclo, ma gli anni seguenti furono solo di 
						lungo e costante declino, che videro prima il 
						provvisorio ritorno di Helenio Herrera, poi un anno con 
						Suarez e due con Chiappella, con risultati non andavano 
						al di là del piazzamento Uefa. 
						
						da
						
						http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ivanoe_fraizzoli.html 
						  
						
						  
						
						
			  
						
						
						  
						
						
						  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
						
			  
						
						Ormai chiuso il ciclo della Grande 
						Inter, la prima stagione di Fraizzoli al timone della 
						Beneamata fu caratterizzata da un mercato con pochi 
						acquisti ed ambizioni: oltre al mediano Bertini, 
						prelevato dalla Fiorentina, arrivarono Poli, Spadetto e 
						Vastola. La marcia in campionato fu tranquilla, ma senza 
						acuti, il piazzamento finale fu un discreto quarto 
						posto. Fu proprio in questa stagione che si creò una 
						prima forma di tifo organizzato, i Boys di San Siro, la 
						cui origine si fa risalire al gennaio del 1969. 
						  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			  
			
			  
						
			
			  
						
			
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
						Per la panchina fu preso Heriberto 
						Herrera, soprannominato Hh2 dai tifosi e della stampa: 
						vennero poi acquistati Boninsegna, il quale con le sue 
						reti trascinò l'Inter al secondo posto in campionato 
						dietro il Cagliari di Riva, e Lido Vieri per sopperire 
						alla mancanza di un numero uno degno della tradizione 
						nerazzurra. Per quanto riguarda invece la Coppa delle 
						Fiere, il cammino terminò in semifinale contro 
						l'Anderlecht. 
						
			  
						
			  
			
			
			  
			
			  
						
			  
						  
						
						
							
								| 
			 
			LIDO 
			VIERI 
			
			Sul grande terrazzo, al settimo 
			piano, tra fiori, piantine di basilico, rampicanti, c'è un tubo di 
			gomma collegato con il rubinetto dell'acquaio, e mi arriva addosso 
			un flash, una foto di Lido Vieri di quando giocava nell'Inter. E si 
			faceva una doccia con un tubo di gomma, solo che intorno c'era la 
			neve. Vieri guarda me che guardo il tubo e ride. 
			
			"Sì, anche adess o che vado per i 
			75. E sa perché ? Perché  quand'ero piccolo in casa non avevamo 
			l'acqua calda e io mi sono abituato a quella fredda, diciamo che me 
			la sono fatta piacere per necessità, poi mi sono abituato e avanti 
			così". 
			
			Vieri nasce a Piombino, ma i 
			genitori erano elbani, di Portoferraio. "Mio padre faceva il 
			pescatore. Poi è saltato fuori un posto alle ferrovie e la famiglia 
			ha traslocato sulla terraferma. Io sono diventato portiere per caso, 
			il mio sogno era andare per mare. Quand'è arrivata l'offerta del 
			Torino avevo già tutte le carte in regola per imbarcarmi come mozzo 
			su un mercantile che da Genova andava in Brasile. Il pallone era un 
			divertimento, un gioco. Non pensavo di poterci campare. Spesso 
			giocavo il primo tempo da attaccante, per fare gol, e il secondo da portiere, per difendere il vantaggio. La prima squadra è stata a 
			Venturina, 13 km a piedi all'andata e 13 al ritorno. Lì c'era e c'è 
			ancora un ristorante famoso, da Otello. Sull'Aurelia, si fermavano i 
			tir come le macchine di lusso. Specialità cinghiale alla maremmana, 
			ma anche pesce. Là un bel giorno si fermò a mangiare il dottor Lievore, che curava il settore giovanile del Toro. E là per caso 
			c'era a mangiare anche il dottor Biagi, un farmacista, il mio 
			presidente, e mi segnalò". 
			
			Convocato per un provino, viene 
			preso. 
			
			"Partii diviso dentro: cominciava 
			un'avventura ma lontana dal mare, quello l'avevo perso. Erano 
			passati pochi anni da Superga, il Toro stava cercando di 
			ricostruirsi. La società pensava al mangiare e al dormire, per i 
			primi due anni ho preso mille lire a settimana. La metà la mandavo a 
			casa, per il resto m'arrangiavo. Un biglietto del cinema costava 80 
			lire. La domenica andavo allo stadio gratis. Il nostro portiere era 
			Lovati, quello della Juve di Viola. Due buoni portieri. Anch'io ero 
			un giovane 
			
			 portiere allo stato brado, tutto istinto. Allasio mi fece 
			esordire in A, poi mi prestarono al Vigevano in B perché facessi 
			esperienza. Ci andai con Sergio Castelletti, il terzino biondo che 
			poi finì alla Fiorentina. Povero Sergio, era di Casale, è morto 
			anche lui per colpa dell'amianto". 
			
			Una volta i portieri si 
			dividevano in due categorie: freddi e caldi. Freddi erano Jascin, 
			Giuliano Sarti, Cudicini, Zoff. Caldi Moro, Ghezzi e Albertosi. 
			Caldissimo Vieri. 
			
			"Come temperamento sì , ero 
			fumino, e mi sono preso le mie belle squalifiche. Ma il bello del 
			ruolo, il lato romantico se vogliamo, era nella sua diversità. A me 
			piaceva uscire di porta e arpionare il pallone con una mano sola, 
			fin sul dischetto del rigore uscivo per respingere di pugno. E 
			allora era regola che ogni pallone nell'area piccola fosse del 
			portiere. Adesso vedo che molti hanno la catena corta ma, 
			soprattutto, che pochissimi cercano di bloccare il pallone. Quando 
			finalmente ho avuto un preparatore, la sua domanda più  requente 
			era: perché  non l'hai bloccata? E, in caso di respinta, sempre di 
			lato, mai frontale. Oggi sembra che queste cose siano finite in 
			soffitta. Sono cambiati i palloni, sono cambiate le regole non 
			sempre in meglio. Io cancellerei quella che porta rigore ed 
			espulsione sull'uscita del portiere: una volta gli attaccanti ti 
			saltavano, per non farti e non farsi male, adesso ti vengono a 
			cercare, fanno di tutto, per sbatterti addosso, e ci credo: hanno 
			tutto da guadagnare, al massimo rischiano un giallo per 
			simulazione". 
			
			Lei aveva il mito di Ghezzi, ho 
			letto. 
			
			"Sì, il kamikaze. Ma mi piaceva 
			molto anche Bepi Moro e uno che non è diventato famosissimo: Doriano 
			Carlotti, un elbano, giocava nel Piombino ed è stato il primo dei 
			miei idoli. Stavo dietro la sua porta. Era secco secco, non alto, un 
			coraggio da leone nelle uscite. Quando qualche squadra di A bussava 
			per Carlotti, il Piombino sparava cifre pazzesche e così non s'è mai 
			mosso. Quando ha smesso ha aperto una macelleria". 
			
			
			 Non si stupisce di vedere tanti 
			portieri stranieri in serie A? 
			
			" E' vero che da noi c'era una 
			grande scuola, ma nulla dura in eterno, tutto cambia. Pensi al 
			Brasile: per decenni solo un grande portiere, Gilmar, poi ci è 
			toccato veder vincere un mondiale a Taffarel, uno che si tuffava di 
			pancia e non di fianco, poi è arrivato Julio Cesar. A me piace anche 
			Neto, della Fiorentina. In assoluto, degli stranieri, Handanovic. 
			Quanto a noi, Buffon era e resta di un'altra categoria. Promette 
			bene quel Perin, un po' pazzo e per questo mi piace. Ma il ruolo è 
			cambiato da quando i portieri hanno dovuto imparare a usare i piedi, 
			diventando meno diversi, più uguali agli altri. Ho l'orgoglio di 
			aver allenato, incoraggiato e sempre difeso un grande portiere: Luca 
			Marchegiani. Certo se vedo le foto di quando giocavo io e di adesso 
			sembra passato un secolo. I guanti, per esempio. Non li ho usati per 
			anni o al massimo quelli di lana se pioveva.A mani nude sentivo di 
			più il pallone, anche col freddo. Poi sono arrivati quelli 
			zigrinati, come le coperture delle racchette da ping pong, e adesso 
			ci sono certi guanti che sembrano usciti dai laboratori della Nasa, 
			ma non è il guanto che fa il portiere, e nemmeno la maglia rossa o 
			gialla. Ai miei tempi, solo nera, o grigia. Colpiva di più la 
			fantasia: se l'immagina se poteva esserci un ragno arancione, così 
			come c'era il ragno nero. Jascin? Un grandissimo, ma non so perché 
			gli preferivo Beara, lo jugoslavo (morto il 10 agosto 2014 a 85 
			anni)" . 
			
			Tre squadre in tutta la carriera: 
			Torino, Inter e Pistoiese: cosa le resta? 
			
			"Il Toro è stata la squadra della 
			mia vita, ci sono arrivato ragazzino e ne sono uscito uomo. Dividevo 
			la camera con Ferrini, eravamo due tipi di poche parole. Lui parlava 
			con l'esempio, coi fatti. Mi sarebbe piaciuto avere una sola maglia 
			nella vita. Quando Pianelli mi cedette all'Inter, era convinto di 
			avermi fatto un regalo. Invece mi misi a piangere e spaccai a pugni 
			la porta dello spogliatoio. Ai tifosi granata devo il soprannome: 
			Pinza. Lo stesso di Bodoira, il portiere che aveva preceduto 
			Bacigalupo. Un onore. All'Inter con Invernizzi vincemmo uno scudetto 
			in rimonta ma mi sentivo in esilio, anche se l'ambiente era 
			simpatico. Alla Pisto iese andai perché mi avvicinavo a casa e perché 
			la Pistoiese mi garantiva lo stesso ingaggio dell'Inter. Presidente 
			era Melani, detto il Faraone. Anche lui aveva fatto soldi col 
			petrolio. Volevamo un brasiliano, avevo chiesto Junior e arrivò Luis 
			Silvio. Gran velocità, ma tirava in porta solo di piatto, anche da 
			fuori area". 
			
			In Nazionale, solo 4 presenze. 
			
			"Posso dire la verità? Non 
			m'importava nulla di giocare in Nazionale, e lo dicevo anche. Ho 
			fatto tre partite e mezza, tre senza prendere gol: 1-0 in Turchia, 
			1-0 in Austria, 3-0 al Brasile. A Sofia subentro ad Albertosi 
			sull'1-2 e becco il terzo. Sono campione d'Europa e vicecampione del 
			mondo senza aver mai visto non dico il campo ma la panchina. Per me 
			convocazioni, ritiri, trasferte di un mese mezzo, come in Messico, 
			equivaleva a togliermi il mare. Avevo la barca già pronta per andare 
			a pesca dei palamiti verso Montecristo e Pianosa. Bearzot 
			insistette, era stato mio capitano, la mia chioccia direi. Avete già 
			Albertosi e Zoff, che ci vengo a fare? Portate Pizzaballa, è uno 
			tranquillo, magari gli fa anche piacere. A me no, anche perché non 
			ho mai voluto saperne di giocare a carte, quindi mi portavo una 
			valigia di libri e Settimana enigmistica". 
			
			Anche con lei si poteva partire 
			da una foto nel ritiro messicano. C'è Valcareggi tra due sorridenti 
			Mazzola e Rivera e dietro si vede Vieri, su una sdraio, che sta 
			leggendo "La noia" di Moravia. 
			
			"Ne avevo anche altri, uno di 
			Ambrogio Fogar sul suo giro del mondo in barca, altri d'argomento 
			marinaro. Leggevo molto, avevo imparato a memoria anche qualche 
			poesia di Garcia Lorca. Poi Fogar l'ho conosciuto di persona, e 
			anche Jacques Mayol che s'era sistemato all'Elba, a Capoliveri. 
			Prima di ogni immersione sgranocchiava due teste d'aglio, diceva che 
			era il suo segreto. Ma il suo segreto vero è perché si sia appeso a 
			una trave senza lasciare una riga". 
			
			S'annoiò molto, in Messico? 
			
			
			 "No, poteva andar peggio. Mi 
			allenavo seriamente, semmai era Riva che saltava gli allenamenti con 
			la scusa del dormire. Con Valcareggi avevo una certa confidenza, lo 
			chiamavo zio Uccio e non mister perché era stato giocatore del 
			Piombino quando io ero raccattapalle. Zoff mordeva il freno e veniva 
			a sfogarsi da me. Stai calmo Dino, gli dicevo, perché Uccio farà 
			giocare Albertosi anche se ha la febbre a 40. Così andò, anche se 
			Albertosi fece qualche errore coi tedeschi e se fosse dipeso da me 
			col Brasile avrebbe giocato Zoff. Ma non dipendeva da me, che da 
			Valcareggi avevo già ottenuto una sorta di libera uscita. Già 
			all'arrivo c'erano file di ragazze tifose fuori dal nostro albergo. 
			Lido, ci tolgono tranquillità, fai come vuoi ma pensaci tu. Ci 
			pensai eccome. Finchè  non vidi una ragazza favolosa, bruna, che 
			girava su una Mustang rossa. Occhiate reciproche, colpo di fulmine, 
			m'invita a casa sua. Casa è dire poco, una specie di castello in 
			mezzo a un immenso giardino, militari all'ingresso". 
			 
			
			E chi era? 
			
			"La figlia del vicepresidente. 
			Del Messico, non della federcalcio. Una famiglia molto alla mano, 
			dopo qualche giorno entravo e uscivo a tutte le ore. Graciela mi 
			disse che era troppo giovane per avere la patente, guidava senza. Un 
			pomeriggio, dopo aver visto che c'era una bella sala cinematografica 
			con comode poltroncine, invitai tutta la squadra a vedere un film 
			italiano, non ricordo il titolo. Credevo che certe cose potessero 
			succedere solo in Svezia, almeno così si vociferava, quanto a 
			libertà di comportamento. Fu bello tutto, e non dolorosa la 
			partenza, sapevamo tutti e due perché era cominciata e quando 
			sarebbe finita". 
			
			Il 4-3 come lo visse? 
			
			"Dalla tribuna presidenziale, con 
			tanto di cucina. A un certo punto tutti scommettevano, nei 
			supplementari. C'erano sul tavolo mucchi di soldi alti così"..jpg)  
			
			E adesso cosa fa? 
			
			"Il pensionato, ultimo incarico 
			allenatore dei portieri nel 2005 alla Fiorentina. Allo stadio non 
			vado più da anni: se il Toro perde mi viene il magone, soffro". 
			
			Se il Toro perde, perde anche in 
			tv. 
			
			"Sì, ma almeno non vedo le facce 
			della gente, magari tifosi che ho conosciuto. Di stadi ne ho girati 
			anche troppi. L'unica novità, se vogliamo, è che ho voltato le 
			spalle al mio mare, che credevo essere unico. Da quando ho sposato 
			una calabrese, ho scoperto un altro mare stupendo. Abbiamo una 
			casetta a Bagnara, da giugno a ottobre mi trova là, sul mare". 
			
			Il minimo, per uno che si chiama 
			Lido. 
			
			"Questa è un'altra storia. Mio 
			padre voleva chiamarmi Nilo, ma il parroco disse di no. Ripiegò 
			 
			
			su Lido". 
			
			Anagrammando Lido Vieri, 
			appassionato di enigmistica, basta spostare una "i" dal cognome e si 
			ottiene idoli veri. De profession bel zoven, avrebbe chiosato paron 
			Rocco. Nelle foto in bianco e nero, Vieri ha una faccia tra Raf 
			Vallone (che pure giocò nel Torino) e Luigi Tenco. Erano anni in cui 
			i calciatori matti erano l'1 e l'11. Poi si è  perso il conto. 
			
			  
			
			Pubblicato su Repubblica il 
			24/3/2014 
			  
            					 | 
							 
						 
						 
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
			
			  
			
			
			
			  
			
			Ivano Bordon, Lido 
			Vieri, Mauro Bellugi, Tarcisio Burgnich, Giancarlo Cella, Bernardino 
			Fabbian, Giacinto Facchetti, Mario Giubertoni, Spartaco Landini, 
			Oscar Righetti, Marco Achilli, Gianfranco Bedin, Mario Bertini, 
			Mario Corso, Mario Frustalupi, Sandro Mazzola, Gabriele Oriali, 
			Roberto Boninsegna, Jair da Costa, Sergio Pellizzaro, Alberto Reif 
			
			  
						
						
						  
						
						
						  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
						  
						
						  
			
			  
        
		LA
        SINTESI DEL CAMPIONATO 1970-71 
        L'Inter sembra toccare il fondo, per poi risalire fino al tricolore, di
        nuovo in esaltante rimonta sui "cugini" del Milan. Il mercato
        è monopolizzato dalla Juventus, che fa man bassa dei migliori giovani
        in circolazione: i fatti col tempo le daranno ragione. In partenza è il
        Napoli a fare l'andatura, seguito dal Cagliari, che però perde Riva,
        fratturato in Nazionale, e cede il passo al Milan. I 
			
			 rossoneri prendono
        la testa alla decima giornata e il 24 gennaio 1971 sono campioni
        d'inverno. L'Inter, in crisi, ha licenziato Heriberto Herrera e si è
        affidata a Invernizzi, tecnico delle giovanili e di una
        "tabella" che diventa famosa. Alla prima di ritorno,
        nerazzurri già secondi a tre punti, che diventano quattro la settimana
        dopo e si riducono a uno alla ventesima. L'aggancio avviene alla 22a, il
        sorpasso alla 23a. L'Inter in rimonta irresistibile è campione con due
        turni di anticipo. In coda, spacciato il Catania, la Fiorentina scampa
        sul filo per differenza reti, condannando, con Lazio e Sampdoria, anche
        la rivelazione iniziale Foggia. 
			
						 
			  
			
			INTER: IL VECCHIO CHE 
			AVANZA 
			C'è molto di vecchio, ma altrettanto di nuovo, nell'Inter che torna 
			al titolo. In estate se ne vanno altri due reduci della Grande 
			Inter: Guarneri (ceduto dal nuovo direttore sportivo Franco Manni al 
			Palermo) e Suarez (alla Sampdoria). In compenso, arrivano gregari di 
			peso: lo stopper Giubertoni e l'ala Pellizzaro dal Palermo, il 
			regista Frustalupi dalla Sampdoria. Alla guida tecnica viene 
			confermato Heriberto Herrera, che schiera Vieri in porta, Cella 
			libero, Giubertoni stopper, Burgnich e Facchetti terzini; a 
			centrocampo, il faticatore Fabbian, Frustalupi in regia, Mazzola 
			interno di punta, Corso rifinitore, l'ala Pellizzaro e il 
			centravanti Boninsegna in attacco. Risultato? Quattro punti nelle 
			prime quattro partite. 
			
			Quando l'Inter perde per 
			0-3 la quinta, il derby, è netto il sentore di una stagione grigia. 
			I nerazzurri sono decimi in graduatoria; il presidente Fraizzoli, 
			amareggiato, mette a disposizione il proprio incarico, se un gruppo 
			economico volesse acquistare la società. Lo specifica nel comunicato 
			ufficiale del 9 novembre (all'indomani della sconfitta coi 
			"cugini"), in cui viene esonerato Heriberto Herrera e si affida 
			«temporaneamente» la guida tecnica a Giovanni Invernizzi, allenatore 
			delle minori nerazzurre. Le reazioni dei giocatori sono immediate: 
			Corso: Il licenziamento si  imponeva»), 
			Mazzola («In fondo non è proprio che lo abbiamo cacciato noi...»). 
			Jair («Sono più che contento, ci voleva!») fanno capire che la 
			"vecchia guardia" ha ottenuto ciò che chiedeva. E prende in mano la 
			situazione. 
			
			Assieme a Invernizzi, i 
			"senatori" stilano una ambiziosa tabella che punta allo scudetto, 
			contro ogni pronostico. La squadra viene ritoccata, con 
			l'arretramento di Burgnich a libero, il giovane Bellugi terzino 
			destro, il ritorno di Jair all'ala e il poderoso Bertini al posto di 
			Frustalupi. E il gioco è fatto, per una nuova, esaltante rimonta 
			proprio sui "cugini" rossoneri. 
						
			  
						
			  
			
			IL DRAMMA DI PICCHI 
			La grande rivoluzione juventina di Giampiero Boniperti, fresco 
			amministratore delegato, è stata affidata a un giovane tecnico, 
			Armando Picchi, ex libero della Grande Inter. Ha dovuto abbandonare 
			il calcio dopo un terribile incidente conia Nazionale (6 aprile 
			1968, frattura del tubercolo sinistro del bacino contro la Bulgaria 
			a Sofia), è diventato allenatore e nella sua Livorno, in B, ha fatto 
			capire di saperci fare. Così a Torino, dopo un avvio incerto, 
			comincia a prendere in mano la situazione. Ma la tragedia è in 
			agguato. Guarita la giovane moglie da una lunga malattia, Picchi 
			avverte insistiti dolori alla schiena, forse risalenti all'antico 
			incidente di gioco. A febbraio è costretto alasciare 
			la squadra per un periodo di cure che si spera breve. La prima 
			diagnosi parla di una «mialgia sottoscapolare», poi, dopo un nuovo 
			consulto, nel perdurare di atroci dolori, emerge la verità: il 
			tecnico soffre di un male incurabile. Operato inutilmente a Torino, 
			trasferito in Liguria, a San Romolo, muore il 26 maggio 1971, 
			lasciando la moglie e due figli in tenera età. 
			
			
			  
			
			  
						  
						
						 E' 
						morto Invernizzi Guidò l' Inter allo scudetto nel 1971 
						
						Aveva le pupille 
						azzurre come «nontiscordardime». Occhi che hanno visto 
						il grande Meazza da ragazzo e l' Ajax di Cruijff. Occhi 
						di cacciatore 
						che hanno inseguito il Milan di Rivera e Prati come una 
						preda. Quegli occhi si sono chiusi ieri. Gianni 
						Invernizzi, l' allenatore dell' undicesimo scudetto 
						dell' Inter, l' uomo della grande rimonta, che aveva 
						annullato un distacco di 7 punti dal Milan, è morto al 
						Policlinico di Milano per una grave malattia a 73 anni. 
						E' MORTO A 73 ANNI Addio a Invernizzi, mister sorpasso 
						Nel ' 71 guidò l' Inter a una storica 
						rimonta-scudetto sul Milan Aveva detto: «Sono nato 
						interista e morirò interista». E' stato di parola Nel ' 
						72 perse la finale di coppa dei Campioni contro l' Ajax 
						di Cruijff, che segnò due reti segue dalla prima «Sono 
						nato interista e morirò interista», disse un giorno. Ha 
						mantenuto la parola. Oggi la grande tribù nerazzurra, 
						che si nutre di ricordi, lo piange con affetto. 
						Invernizzi è stato protagonista di una favola. Quella 
						rimonta memorabile è un diamante che brilla. Veniva 
						dalla famiglia Invernizzi, quella dei formaggi. Papà 
						acquistava il latte. Abitava ad Abbiategrasso, la zona 
						del gorgonzola. Era biondo. Arrivò all' Inter a 14 anni, 
						nel giugno 1945.  
						
						Lo aveva scoperto 
						Carlo Carcano, l' uomo dei cinque scudetti della 
						Juventus. Cominciò da centravanti, poi divenne mezzala, 
						infine retrocesse a mediano. Giocò nell' Inter di 
						Lorenzi, Nyers, Skoglund, Angelillo. Ma l' unico 
						scudetto lo ha vinto da allenatore. Era la stagione 
						1970-71. Guidava l' Inter Heriberto Herrera, l' asceta 
						paraguaiano del «movimiento». Il primo derby gli fu 
						fatale. L' 8 novembre 1970, quinta giornata, l' Inter fu 
						inchiodata dal Milan con un 3-0 crudele. Il presidente 
						Fraizzoli esonerò Heriberto. Mise su quella panca 
						rovente Invernizzi, che allenava la Primavera. Sembrava 
						un atto temerario. C' erano ancora gli assi della Grande 
						Inter: Facchetti, Burgnich, Mazzola, Corso, Suarez... 
						Come mettere un uomo tranquillo nella gabbia dei leoni. 
						Ma Invernizzi conosceva l' ambiente. Aveva buonsenso e 
						garbo. Riportò nella rosa Bedin e Jair, che Heriberto 
						aveva bandito. Mise Burgnich libero al posto di Cella. 
						Collocò Bedin e Bertini sulla destra. Allestì un' Inter 
						nuova, dinamica, combattiva. L' Inter batté il Torino, 
						poi fu sconfitta a Napoli. A quel punto decollò: cinque 
						vittorie di fila. Non fu 
						
						 più battuta per 23 partite.
						 
						
						La rincorsa al Milan 
						si trasformò in caccia. Lunga, bella appassionante. L' 
						inseguimento fu coronato il 21 marzo, quando l' Inter 
						sconfisse il Napoli di Zoff e Altafini. Il sorpasso fu 
						compiuto sette giorni dopo, quando il Varese di Liedholm 
						piegò il Milan. Una cavalcata seducente. «La sera stessa 
						della sconfitta di Napoli, sull' aereo che ci riportava 
						a Milano, 
						Mazzola e io facemmo la tabella-scudetto. Ricordo il 
						sorriso scettico di molti che ironizzarono», racconta il 
						presidente dell' Inter Facchetti. «Invernizzi riuscì a 
						gestire bene uno spogliatoio di forti personalità. Si 
						mostrò un grande allenatore. E l' anno dopo ci portò in 
						finale di Coppa dei Campioni: perdemmo contro l' Ajax 
						nel momento di maggior splendore». 
						
						L'Inter liquidò Aek 
						Atene, il Borussia Monchengladbach della lattina, lo 
						Standard Liegi, il Celtic Glasgow. Finché, il 31 maggio 
						1972, non fu battuta per 2-0 a Rotterdam dall' Ajax di 
						Kovacs con doppietta di Cruijff. «Gianni era 
						un grande allenatore italiano. Rimise insieme i cocci 
						che un tecnico straniero aveva fatto. Entrò in punta di 
						piedi nello spogliatoio con la sua saggezza, la forza 
						dei suoi ragionamenti 
						concreti. Invertì la rotta. Compì un capolavoro», 
						ricorda Boninsegna, capocannoniere con 24 reti di quello 
						scudetto. Invernizzi presto rientrò nei ranghi. Sempre 
						fedele ai colori nerazzurri. Aveva vestito la maglia 
						nerazzurra negli anni Cinquanta: 3 presenze nella 
						stagione 1951-52, 8 nel ' 54-55, 18 nel ' 55-56, 21 nel 
						' 56-57, 28 nel ' 57-58, 26 nel ' 58-59, 26 nel ' 59-60. 
						Helenio 
						Herrera non lo volle più. Giocò anche con Genoa, 
						Triestina, Udinese, Torino, Venezia. Allenò anche il 
						Taranto. Era un mediano interditore. Gli toccava marcare 
						Schiaffino, Rivera, Julinho.  
						
						Non era illuminato 
						dalla gloria. Ma la sua avventura sportiva è stata 
						bella. E, oggi, nel dolore del commiato, l' avventura 
						dello scudetto splende come un filo d' oro. Claudio 
						Gregori Giocatore, allenatore, osservatore una vita 
						trascorsa in nerazzurro È morto ieri al Policlinico di 
						Milano dopo una lunga degenza, all' età di 73 anni, 
						Giovanni Invernizzi. Era nato ad Albairate (Mi) il 26 
						agosto 1931. Nelle giovanili dell' Inter dal 1945, 
						esordì in A il 30 aprile 1950 in Torino-Inter 1-0. Con 
						la maglia nerazzurra disputò 149 partite segnando 6 
						reti. Ceduto al Torino con l' arrivo di Helenio Herrera, 
						tornò all' Inter quando gli fu affidato il settore 
						giovanile. Da allenatore della Primavera fu promosso 
						alla prima squadra nell' autunno del ' 70, quando l' 
						allora presidente Fraizzoli licenziò Heriberto Herrera, 
						così guidò l' Inter allo scudetto dopo una gran rimonta 
						sul Milan. Prima di tornare a fare l' osservatore per l' 
						Inter, allenò Taranto e Brindisi. 
						
						Gregori Claudio 
						
						
						
						http://archiviostorico.gazzetta.it/2005/marzo/01/morto_Invernizzi_Guido_Inter_allo_ga_10_05030111187.shtml?refresh_ce-cp 
						
			  
						
			LA RESURREZIONE DI CORSO 
			Da anni ormai e sulla cresta dell'onda. Mario Corso, fantasista 
			mancino che don Helenio vol eva cedere e Moratti regolarmente 
			dichiarava incedib ile per le sue magie di inarrivabile fattucchiere 
			del gol. Celebri le punizioni a foglia morta, ma anche le lunghe 
			pause, la discontinuità tipica degli artisti. Ultimamente si era 
			appesantito e impigrito, a 28 anni sembrava avviato a un precoce 
			declino, richiamato anche dalla stempiatura. 
			Poi, eccolo diverso. Certo gli hanno giovato il matrimonio, che ne 
			na reso più professionale la vita extra calcio, così come la 
			maturità atletica e magari un certo senso di rivalsa nei confronti 
			di tutti gli Herrera del mondo. Oppure, come dicono i maligni, è 
			stata decisiva la partenza di quel Suarez che un po' gli ha sempre 
			fatto ombra. Fatto sta che il mancino d'oro nel 1970-71, abbandonate 
			le velleità azzurre, ha giocato la sua miglior stagione, da vero 
			trascinatore. Il suo gioco fantasioso si è fatto tutto sostanza, i 
			suoi assist sono stati manna per le punte, in special modo 
			Boninsegna. E perfino il reuccio Mazzola, leader della squadra, è 
			stato messo in ombra dalla fantastica stagione di questo 
			fuoriclasse. 
			
			  
			
			  
			
			  
						
			Lunga è la strada che dall'Inter riporta a casa. Roberto Boninsegna
        nell'Inter è cresciuto: da mezzala trasformata in punta per superare un
        provino e scoprirsi grande attaccante da area di rigore. Bocciato da Helenio Herrera è ripartito da Prato e Potenza (B) raggiungendo la A
        con il Varese prima di approdare a Cagliari, a formare con Riva una
        coppia tempestosa di prime donne, entrambe mancine, entrambe con la
        vocazione da centravanti. Lo scioglimento del sodalizio ha portato
        fortuna.  
						
			Boninsegna fu richiamato d'urgenza dalle ferie per sostituire
        l'infortunato Anastasi (tradito da uno scherzo di spogliatoio) al
        Mondiale 1970, di cui poi fu uno dei massimi protagonisti. E sull'onda
        di quel successo è esploso da grande bombardiere, con 24 reti in 28
        partite. Una media da scudetto.Tutti i risultati e le classifiche a
        Pagina | 2 |imponeva»), Mazzola («In fondo non è proprio che lo
        abbiamo cacciato noi...»). Jair («Sono più che contento, ci
        voleva!») fanno capire che la "vecchia guardia" ha ottenuto
        ciò che chiedeva. E prende in mano la situazione. 
        Assieme
        a Invernizzi, i "senatori" stilano una ambiziosa tabella che
        punta allo scudetto, contro ogni pronostico. La squadra viene ritoccata,
        con l'arretramento di Burgnich a libero, il giovane Bellugi terzino
        destro, il ritorno di Jair all'ala e il poderoso Bertini al posto di
        Frustalupi. E il gioco è fatto, per una nuova, esaltante rimonta
        proprio sui "cugini" rossoneri. 
						
			  
						
			  
						  
						
			
			  
						
			  
						  
						
						
						MAZZOLA. "Prete, 
						tabella e una mia follia. così firmammo la Grande 
						Rimonta" 
						
						A 40 anni 
						dall'undicesimo scudetto interista Sandro Mazzola rivive 
						il campionato del 1971 conteso, proprio come adesso, a 
						Milan e Napoli. E svela: "Quando entrai n ello 
						spogliatoio dell'arbitro a fine primo tempo e gli urlai: 
						lei ci sta penalizzando..."  
						
						di GIOVANNI MARINO 
						
						
						Napoli, sull'aereo 
						che rulla sulla pista di Capodichino tre leggende del 
						calcio Mondiale discutono animatamente. Burgnich, il 
						granitico Tarcisio dell'Inter euromondiale degli anni 
						Sessanta è il più accanito. "Possiamo vincerlo ancora, 
						oggi abbiamo giocato proprio bene, dipende solo da noi", 
						incita il difensore nerazzurro. Vicino, siede Sandrino 
						Mazzola, figlio del mitico Valentino granata, bandiera e 
						capitano del Biscione. Proprio davanti c'è Facchetti, 
						l'altro terzino delle Coppecampioni e Intercontinentali, 
						il primo difensore capace di segnare come un bomber. 
						Tutti reduci da una sconfitta, bruciante, al San Paolo 
						con il Napoli di Juliano, Zoff e Altafini. E da un 
						tremebondo inizio di torneo che è già costato la 
						panchina al difficile Heriberto Herrera. 
						
						 CALCOLI MATEMATICI - 
						E' il tardo pomeriggio del 22 novembre 1970 quando 
						l'aeroplano decolla, direzione Milano. La discussione si 
						infervora. "A un certo punto io mi convinco - racconta a 
						"Repubblica" Mazzola, custode di tutti i segreti della 
						Grande Rimonta nel campionato '70-'71 di cui ricorre 
						adesso il quarantesimo anniversario - e scuoto il sedile 
						di Giacinto per coinvolgerlo. Passano pochi minuti e ci 
						ritroviamo a far calcoli: io tiro fuori un opuscoletto 
						con tutte le giornate ancora da disputare e cominciamo a 
						fare la famosa tabella". Che poi sarebbe? "Assegnare, 
						partita per partita, i punti possibili a Napoli e Milan, 
						che ci precedono e... a noi stessi. Beh, viene fuori che 
						alla fine vinciamo noi se rispettiamo la tabella". 
						
						 I DUBBI DI FRAIZZOLI 
						- Così, letteralmente per aria, nasce la ferrea volontà 
						di cucirsi addosso l'undicesimo scudetto. "Tutti e tre, 
						i vecchi della Grande Inter ci alziamo e andiamo dal 
						presidente Ivanhoe Fraizzoli. Lui, abbatuttissimo, 
						seduto da solo nella parte finale dell'aereo, ci rinvia 
						al mittente parlando milanese stretto: "Scudetto? 
						Figlioli miei andate, andate su, che fantasia figlioli 
						miei, ma di che parliamo? Siamo a 7 punti dal Napoli e a 
						6 dal Milan, ma va là, dai". Comprensibile, ma noi ci 
						crediamo e in questo sport se ci credi davvero sei a 
						metà dell'opera".  
						
						 IL DISTACCO DA MILAN 
						E NAPOLI -  Alessandro Mazzola ha voglia di raccontare. 
						 
						
						  
						
						  
						
						  
						
						I suoi ricordi, 40 anni dopo, sono ancora vividi. "Fu 
						un'impresa, l'ultima della Grande Inter, e ne sono 
						tuttora fiero". Nessuna presunzione. Ha ragione: 
						nell'epoca del campionato a 16 squadre e dei (soli) 2 
						punti per una vittoria, l'Inter seppe rimontare a 
						partire dalla ottava giornata tutto il vantaggio 
						accumulato dalle due squadre che la precedevano per 
						andare a vincere, addirittura, con un distacco di 4 
						punti. "Già, da quel giorno non perdiamo più, le 
						vinciamo quasi tutte, se non sbaglio concediamo solo tre 
						pareggi, di cui due alla fine, a cose fatte, il 
						tricolore è nostro, ma ci sono altri retroscena". 
						
						 DA HERIBERTO A 
						INVERNIZZI - Sandrino non si fa pregare. "Dunque, al 
						timone non c'è più Heriberto Herrera ma Gianni 
						Invernizzi e l'atmosfera nello spogliatoio si è 
						rasserenata. Povero Heriberto, era un ottimo allenatore, 
						profeta di un calcio moderno, così moderno, il 
						movimiento (come diceva lui) senza palla, che noi non lo 
						capivamo. E poi il carattere era difficile, chiuso, 
						introverso. Con Gianni, invece, tutta un' altra 
						musica. Per prima cosa rimette in squadra tre giocatori 
						che Heriberto aveva fatto fuori, tutti fortissimi, 
						Gianfranco Bedin, Jair da Costa e Mario Bertini, se non 
						ricordo male. Nasce la tabella e a questa aggiungiamo 
						una scaramanzia: un prete". 
						
						 LE PREGHIERE DI DON 
						BOMBA - "Il mio prete - prosegue divertito Mazzola -  
						perché era stato professore alla scuola Armando Diaz 
						dove ero andato e in seguito avrebbe anche celebrato le 
						mie nozze. Si chiamava monsignor Spada, da ragazzini lo 
						avevamo soprannominato Don Bomba: era alto e grosso, con 
						un bel vocione e abitava vicino al Duomo. Una sera, 
						visto che Invernizzi aveva l'abitudine di riunirci il 
						venerdì per cena in un ristorante della zona, proposi di 
						andare a trovarlo. Lui ci accolse e ci ordinò di 
						confessarci: "Siete biricchini voi giovani calciatori e 
						se volete vincere dovete dire tutto al Signore". 
						Insomma, la domenica seguente si vinse e per tutto il 
						campionato Don Bomba fu, assieme, il nostro confessore e 
						il nostro talismano".  
						
						 IL SINISTRO DI 
						MARIOLINO - E arrviamo alle sfide di ritorno con le 
						grandi rivali. Il Milan e il Napoli. "Il derby è 
						cruciale. Siamo molto tesi. Niente affatto sicuri di 
						vincere. Risultato obbligato, per noi. E la gara resta 
						così, quasi sospesa, finché il geniale sinistro di 
						Mariolino Corso su punizione, la sua specialità, non ci 
						porta in vantaggio. Poi chiudo io la gara su azione di 
						Jair da Costa, contropiede veloce, delizioso cross per 
						Roberto Boninsegna che colpisce di testa e prende il 
						palo oppure ci arriva Fabio Cudicini, comunque sia io 
						ribatto in rete. Due a zero, ma sappiamo che non è 
						finita lì".   
						
						  
						
						   
						
						  
						
						  
						
						IO NELLO SPOGLIATOIO 
						DELL'ARBITRO - Altro match fondamentale per completare 
						il sorpasso e lasciarsi definitivamente dietro rossoneri 
						e azzurri è la gara con il Napoli. Si gioca a San Siro, 
						il 21 marzo 1971. E lì ne accadono di tutti i colori. 
						Mazzola, 40 anni dopo, con il sorriso sotto i celebri 
						baffi, svela un suo clamoroso blitz: "Feci una cosa che 
						non si può fare, proibita dal regolamento. Una cosa 
						sbagliata. Irruppi nello spogliatoio dell'arbitro e 
						gliene dissi quattro. Ma non volevo ottenere favori. 
						Piuttosto intendevo rieq uilibrare una conduzione di gara 
						a noi assolutamente sfavorevole". E' il suo punto di 
						vista. Che contiene comunque un'ammissione.  
						
						 DALL'ESPULSIONE AL 
						BLITZ - Il suo racconto: "Il Napoli è avversario tosto, 
						forte e quadrato. Con giocatori di classe cristallina 
						come Dino Zoff in porta, Totonno Juliano a centrocampo, 
						Josè Altafini in attacco. Sta disputando un grandissimo 
						torneo. E' in corsa. E se la gioca. Va in vantaggio con 
						Altafini che riprende una respinta di Lido Vieri. Subito 
						dopo l'arbitro, l'internazionale Sergio Gonella, ci 
						butta fuori Burgnich per un fallo su Umile. Decisione 
						che secondo noi non ci sta. Protestiamo, in quei primi 
						45 minuti ci sentiamo presi di mira dal direttore di 
						gara e non ci va giù". Sotto di un gol e in dieci contro 
						undici, l'Inter vede svanire la Grande Rimonta. Ma 
						attenti al colpo di teatro. "Finito il primo tempo, 
						mentre i compagni sono nello spogliatoio, io mi dirigo 
						in quello dell'arbitro Gonella. Entro come una furia e 
						lo aggredisco verbalmente. Rammento di avergli detto che 
						non poteva arbitrare in quel mondo, che ci stava 
						penalizzando gravemente e di aver usato qualche 
						espressione colorita il cui senso era: o si dà una 
						regolata o da San Siro usciamo tutti fritti, finisce 
						male: noi, perché perdiamo partita e scudetto e lei, 
						perché con il suo arbitraggio sarà stato il principale 
						responsabile della sconfitta. Gonella è esterrefatto, mi 
						dice qualcosa del tipo: "Mazzola, esca immediatamente da 
						qui, ma cosa fa, come diavolo si permette?". Mi guarda 
						assolutamente sconcertato e ha ragione...". 
						
						 IL RIGORE DI BONIMBA 
						- Secondo tempo. Cambia tutto. L'Inter attacca a testa 
						bassa e dopo neppure dieci minuti ottiene un rigore. 
						Contestatissimo a dir poco, anche 40 anni dopo: un 
						(ipotetico) fallo di ostruzione in area di Panzanato che 
						protegge l'uscita di Zoff proprio dall'arrivo di 
						Mazzola. Per giunta, Boninsegna lo realizza fermandosi 
						platealmente nella rincorsa. Altafini mima la scena con 
						Gone lla chiedendogli almeno di far ripetere il penalty. 
						Nulla da fare. A quel punto il Napoli perde la testa e 
						la partita. Zoff, innervosito, compie una delle sue 
						rarissime papere non trattenendo un colpo di testa in 
						acrobazia sempre di Boninsegna che quasi si spacca una 
						tempia mentre il difensore Panzanato cerca un plastico 
						rinvio. Inter 2, Napoli 1. Lo scudetto prende una sola 
						strada e non porta a Sud. 
						 
						
						 SQUADRA DI CAMPIONI 
						- Mazzola ammette, ma non ammaina la bandiera 
						dell'orgoglio interista: "Col senno di poi, 
						probabilmente, misi addosso un tale senso di colpa a 
						Gonella che finii per condizionare il suo arbitraggio. 
						Sinceramente penso che alla fine avremmo vinto lo 
						stesso: in quella squadra c'erano sei o sette giocatori 
						dell'Inter che aveva dominato il mondo. E poi ragazzi 
						del calibro di Mauro Bellugi, Mario Giubertoni, Vieri, 
						Bertini, un regista dai piedi buoni come Mario 
						Frustalupi e quel gran goleador acrobata che era Bonimba 
						Boninsegna. Per non parlare di due "bambini" che 
						avrebbero fatto tanta strada: Ivano Bordon e Gabriele 
						Oriali. Tanta roba, insomma. Giocatori tecnici e dal 
						carattere indomito, altrimenti non avremmo firmato 
						quella strepitosa rimonta. Era una corsa a tre, noi, il 
						Napoli e il Milan. Curioso, proprio come adesso...". 
						
						g. marino@repubblica. 
						it   
						
						(31 marzo 2011) 
						
						
						
						http://www.repubblica.it/rubriche/la-storia/2011/03/31/news/un_prete_la_tabella_e_una_mia_follia_cos_firmammo_la_grande_rimonta-14343931/ 
						
						  
			
            
			  
						
			
			  
						  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
						
						
						Mauro Bellugi. Non era mica tanto un 
						posto da figurine, Buonconvento. 
						
						
						
						Soprattutto in quei tempi lì, che giocare in serie A era 
						proprio una roba da astronavi, e i calciatori avevano 
						quasi tutti cognomi veneti o lombardi. Più qualche 
						friulano, come Capello e Zoff. Il “Paron” Rocco, il 
						“Vecio” Bearzot e il telecronista (ex calciatore) Bruno 
						Pizzul. 
						
						
						
						Ma che, un giorno, nell’album Panini potessimo leggerci 
						Buonconvento, beh… Quello superava nettamente ogni 
						nostra fantasia. 
						
						
						
						Eppure, successe davvero… Mauro Bellugi, nato il 7 
						febbraio 1950 a Buonconvento (SI) 
						 eccetera eccetera. 
						Altezza 183, peso 74 che in quell’Italia non ancora ipervitaminizzata è quasi un fisico da marcantonio. 
						
						
						
						Una carriera fulminea per il figliolo dell’orefice che 
						ha la bottega in via Soccini, sotto lo splendido palazzo 
						comunale. Già titolare fisso a sedici anni nello 
						squadrone bianconero, e così bravo e autorevole nel suo 
						ruolo (stopper, si diceva allora) da meritarsi i 
						complimenti di Mauro Bettarini, che all’epoca è lo 
						Jascin del calcio dilettanti. 
						
						
						
						E poi la “leggenda nera” del fantomatico, memorabile 
						provino a Sinalunga, dove al grande Lidio Scarpelli 
						bastano dieci minuti d’orologio per rimandarlo al 
						mittente, senza tanti complimenti: “Non c’era bisogna di 
						scomodarsi fino a Buonconvento… Che un pezzo di legno 
						del genere si trova anche alla falegnameria Parri, qui 
						dietro l’angolo”, sentenzia quel leggendario allenatore. 
						
						
						
						Sono anni di grandi sogni, quelli. Di sogni, ma anche di 
						millantati crediti: dove ogni camposportivo di provincia 
						può vantare un suo piccolo Pelè che da ragazzo ha 
						suscitato l’interessamento della Juve (o della 
						Fiorentina), ma poi è successo qualcosa di 
						imponderabile, tipo un diploma di geometra da 
						conseguire, una mamma che si è messa di traverso o un 
						ginocchio che è saltato sul più bello. 
						
						
						
						“Il figliolo dell’orefice” di Buonconvento, invece, 
						compie percorso inverso: così, sfuma il Sinalunga e 
						dietro l’angolo arriva… l’Inter. 
						
						
						
						L’Inter vera, dico. 
						
						
						
						Non l’A.C Interportuale Pisana o l’ U.S. Interscambio 
						pallets di Sesto Fiorentino. Proprio la gloriosa FC 
						Internazionale di Milano, Corso, Facchetti, Jair, 
						Mazzola e tutta quella roba lì… Campione d’Italia 
						1970-71 con Invernizzi allenatore, Boninsegna 
						capocannoniere e Bellugi stopper: a prendersi i 
						rimproveri non più di Giancarlo Fogliani, nella 
						trasferta a Casciano di Murlo, ma di Tarcisio Burgnich. 
						Che nemmeno un anno prima marcava Pelè, all’Azteca di 
						Città del Messico. 
						
						
						
						inventata di sana pianta in quelle emittenti dove si 
						parla di pallone a getto continuo, e che hanno quasi 
						tutte sede a Milano. E dove la sua competenza, unita 
						alla dialettica sapida e guizzante del Toscanaccio di 
						Buonconvento sono il valore aggiunto alle trasmissioni… 
						Anche se del Toscanaccio di Buonconvento, nel “figliolo 
						dell’orefice”, c’è rimasto pochino. E al suo posto c’è 
						piuttosto “el sciur Bellugi”, che talvolta indulge 
						persino ad un improbabile accento meneghino. 
						
						
						
						Ecco. 
						
						
						
						Dall’altro ieri il nostro splendido campione non ha più 
						le gambe. 
						
						
						
						Detta così è una roba raggelante, una di quelle notizie 
						da telegiornale che fanno rabbrividire: e per evitare 
						l’infezione dilagante del Covid hanno dovuto amputarle 
						entrambe. 
						
						
						
						Così, è toccato sentire anche questo strazio, alla fine 
						del disgraziatissimo 2020. Una notizia che riempie di 
						tristezza e di scoramento, anche se il personaggio è un 
						tipo tosto, e pare abbia reagito da par suo: con grinta 
						ma anche con una certa ironia spavalda, spalleggiato da 
						un’ammirevole forza d’animo, e dalla sua famiglia che 
						non lo ha mollato un attimo. 
						
						
						
						Ed è proprio a Mauro Bellugi, “il figliolo dell’orefice” 
						di Buonconvento, che va il nostro pensiero. 
						
						
						
						(dal web) 
						  
						
						
						riposa in 
						pace, grande Mauro 
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
            
			 Il
            rag. dott. Ivanhoe Fraizzoli 
						
						mi riceve nella stanza dei bottoni
            della Luigi Prada S.p.A. La manifattura è a pianterreno. Al piano
            nobile riposa Lady Renata nella pinacoteca di famiglia. Un miliardo
            di quadri (e anche più), da Giotto a Tintoretto. Si dovrebbe
            parlare dell'Inter, ma si finisce per parlare di tutto, anche di
            pittura. 
            "Quindici anni fa - confida il presidente - mi è sfuggito un
            polittico di Paolo Uccello che era una meraviglia e non sono più
            riuscito a rintracciarlo. Non l'avevo preso subito perché lì per
            lì non sapevo dove metterlo, dato che era lungo e stretto. Me ne
            sono pentito perché era bellissimo. Rappresentava il ritorno del
            guerriero, in cinque scene. C'erano le armature rinascimentali,
            raccontava in maniera emblematica la storia di quell'epoca. E io
            sono appassionato di storia". 
            - Se ha comprato tutti questi quadri, sarà anche appassionato di
            pittura. 
            "La passione me l'ha trasmessa mio suocero. Io forse ho una
            cultura superiore, anche se non mi intendo di arte perché ho fatto
            gli studi tecnici. Lui però aveva una grande sensibilità per il
            colore. Grazie a questa sensibilità ha messo insieme anche una
            notevole fortuna". 
            - Comprare quadri dicono che è anche una forma di investimento. 
            "A me non passa nemmeno per la testa. Non riesco a capire chi
            compra i quadri e poi li deposita in banca. Per investimento si
            devono comprare i gioielli, non i quadri. I quadri servono a
            trasmettere serenità". 
            - Chissà come le sono servite le opere di Caravaggio quando l'Inter
            andava male. 
            "In quei momenti l'Inter l'avrei mollata tante volte se non
            fosse stato per mia moglie. Le darei un dispiacere troppo grosso
            se le togliessi l'Inter". 
            - Ma è vero che comanda Lady Renata? 
            "Quando lo leggo sui giornali mi metto a ridere perché si
            tratta di una barzelletta. Renata comanda in casa, perché è
            giusto che sia così, la casa è il regno della donna. Io ho già
            tante preoccupazioni con l'Inter e il lavoro e queste gliele
            lascio volentieri, ma in ufficio comando io". 
            - E all'Inter chi comanda?  
            "All'Inter comandano gli allenatori. E se la squadra va bene,
            il merito è loro. Se invece le cose vanno male la colpa è del
            presidente che è un pirla. Di me si ricordano solo le coglionate". 
            - A cosa allude? 
            "A Massa. Tutti a darmi addosso perché nel Napoli sta
            giocando bene. Io l'avevo preso perché lo voleva già Heriberto
            e Invernizzi aveva insistito tanto. Per cedere Massa la Lazio volle
            assolutamente Frustalupi e Dio solo sa quanto mi dispiacque
            privarmi di Frustalupi". 
            - Dicevamo di Massa... 
            "All'Inter ha avuto prima Invernizzi, poi Masiero, dopo
            Herrera e ancora Masiero. Tutti lo hanno bocciato. E' arrivato
            Suarez e non si opposto alla sua cessione. Voglio dire che Massa
            è stato valutato da cinque allenatori, ma adesso che fa scintille
            nel Napoli la colpa è del presidente che l'ha dato via". 
			
			- E' vero che gli ultimi acquisti dell'Inter sono stati suggeriti
            da Suarez? 
            "E' vero ma non è che ci volesse un cervellone per scoprire
            quello che serviva all'Inter. Lo sapevano tutti che occorreva un
            centrocampista da affiancare a Mazzola che resta il nostro uomo
            squadra, poi serviva una punta e un'ala tornante e non è che il
            mercato offrisse molto". 
            - Avete insistito invano con la Fiorentina per Merlo. 
						
			"Ho pure supplicato Ferlaino di darmi Esposito ma non c'è
            stato verso. Senza contare che ogni anno chiedo a Pianelli di
            cedermi Pulici. Io Pulici lo chiedo da quando esiste. Il primo
            anno segnò un gol all'Inter lasciando di sasso Burgnich e io
            capii che sarebbe diventato un grande centravanti. Ogni volta che
            incontro Pianelli gli dico: me lo dai Pulici? E lui risponde
            invariabilmente: te lo do quando me ne vado". 
            -Ma è vero che certi acquisti li impone Lady Renata? 
            "Mia moglie ragiona da tifosa. Pretenderebbe di non cedere
            nessun giocatore dell'Inter e insiste per comprare i più bravi
            delle altre squadre. Se la lasciassi fare, farebbe come i bambini.
            Fa pure il tifo per le squadre che hanno qualche ex giocatore
            dell'Inter. Non le dico come tifa per il Genoa da quando il Genoa
            ha Corso". 
            - Ma perché, se sapeva di dare un grosso dispiacere a sua moglie,
            lo mandò via? 
            "Perché si devono rispettare i programmi degli allenatori. Io
            avevo già fatto molto a salvare Corso quando Invernizzi, dopo la
            sconfitta di Torino, venne a dirmi che non l'avrebbe più fatto
            giocare e che a fine campionato l'avrebbe ceduto. Non potevo
            accettare il programma di Invernizzi che voleva far piazza pulita
            tutto d'un colpo. Le vecchie glorie bisogna diminuirle con
            cautela una all'anno". 
            - Come andarono esattamente le cose con il "mago di
            Abbiategrasso?" 
            "Invernizzi voleva copiare il programma della Juventus quando
            arrivò Picchi. Ma Picchi chi eliminò? I Sacco e i Leoncini che non
            avevano vinto nulla. Invernizzi invece voleva mettere al bando gli
            idoli dei nostri tifosi a cominciare da Corso. Mi disse che tanto
            non saremo andati in serie B. Ma io gli spiegai che dovevo
            continuare ad andare allo stadio e non potevo rischiare la pelle
            per colpa sua". 
            - Invernizzi risponde che poi l'Inter ha varato  il programma che era
            stato bocciato quando l'aveva presentato lui. 
            "Tanto per cominciare l'Inter negli ultimi anni ha dovuto
            cambiare diversi programmi. Avevano varato un programma con
            Herrera, poi il Mago è stato colpito da infarto ed è saltato
            tutto. E' arrivato Suarez e abbiamo dovuto cambiare, fare un
            programma diverso. Perché è logico che la squadra vada
            rinnovata. Ragionando col sentimento punteremmo ancora su...
            Meazza. Suarez voleva effettivamente puntare sui giovani". 
            
            - Perché Suarez è fallito come il suo piano? 
            "Ho sbagliato anch'io ad accettare quel piano e ho pure
            sbagliato a scegliere Suarez. Non dovevo affidare l'Inter ad un
            allenatore alla sua prima esperienza. Suarez doveva tornare all'Inter
            qualche anno dopo. Sì è trovato di fronte ad un ostacolo troppo
            grosso. Perché doveva realizzare l'"operazione
            primavera" e al tempo stesso accontentare i tifosi che
            pretendono risultati e spettacolo". 
            - Secondo lei è più difficile fare il presidente dell'Inter o il
            sindaco di Milano? 
            "So che è difficile fare il presidente dell'Inter, non so
            che ostacoli debba superare il sindaco di Milano perché sono
            stato solo consigliere comunale". 
            - A proposito; perché non ha continuato la carriera politica? 
            "Perché l'Inter mi porta via tutto il mio tempo libero e
            perché dagli uomini politici ho avuto troppe delusioni. Prima
            delle ultime elezioni amministrative diversi partiti volevano
            mettermi in lista ma io ho rifiutato. Ho spiegato che come
            presidente dell'Inter non potevo presentarmi con un bottino di
            vittorie. Mi sarei presentato se avessi potuto varare il centro
            sportivo che vorrei costruire da anni per legare il mio nome a
            un'opera importante e per lasciare qualcosa alla comunità di
            Milano. E' dal 1972 che la pratica giace in qualche cassetto di
            Palazzo Marino. L'insensibilità dei politici è veramente
            grande". 
						  
						
						  
						
						
            			 
            - Ma lei è sempre iscritto alla Democrazia Cristiana? 
            "Sì". 
            - A che corrente appartiene? 
            "Io ho sempre cercato di pensare con la mia testa. Mi sentivo
            vicino a uomini come Scalfaro, Arnaud e Forlani, soprattutto a
            quest'ultimo che è uno sportivo e aveva cercato di appoggiare in
            tutti i modi i miei progetti per la costruzione del centro dell'Inter". 
            - Pensa che Fanfani sia uscito definitivamente dalla scena dopo la
            trombatura e il matrimonio o crede che tornerà a galla? 
            "Le confesso che non ho seguito molto le ultime vicende del
            mio parti to. Preferisco pensare all'Inter". 
            - L'anno scorso per l'Inter è stato un anno disastroso. 
            "Hanno parlato di deserto di San Siro per il misero incasso 
			di
            una partita che non aveva importanza, registrato quando a Milano
            pioveva da quattro giorni. Ma sa a chi appartiene il record
            dell'incasso in campionato? A Inter-Juventus e l'abbiamo
            realizzato l'anno scorso, in precedenza, poi, c'erano almeno tre
            partite con incassi inferiori al nostro". 
            - Però la squadra non ha funzionato, questo è innegabile. 
            "Ma in trasferta abbiamo finito a meno due e con questo
            quoziente di media inglese la Juventus ha vinto lo scudetto. Noi
            abbiamo perso 13 punti in casa, sia per il dramma di Suarez, sia
            perché il pubblico non ha voluto capire che il nostro programma era
            proiettato nel tempo". 
            - Che cosa rimprovera a Suarez? 
            "Tanto per cominciare, di avermi abbandonato. Io passo per un
            mangiallenatori. Ma Invernizzi volle andarsene, Herrera è stato
            colpito da infarto e Suarez ha dato le dimissioni". 
            - Con Invernizzi adesso siete ai ferri corti. Perché non lo fa
            riammettere al Circolo dell'Inter? 
            "E' tutta colpa della sua intervista. Ho ancora quel
            "Guerino", qui nella mia scrivania. Ma io non sono capace
            di odiare nessuno. Mia moglie ogni tanto mi dice: Ricordati cosa ti
            ha fatto questo e cosa ti ha fatto quest'altro. Ma io non sono
            capace, è il mio temperamento. Se Invernizzi fosse venuto da me e
            mi avesse detto lealmente: Presidente ho sbagliato, l'avrei
            perdonato. In quell'intervista rilasciata a Taranto, non si
            limitava a criticarmi, arrivava a offendermi. Bella riconoscenza.
            Perché è in fondo una mia creatura". 
            - Aveva litigato con Foni per promuoverlo allenatore in seconda.  
            "E prima ancora l'avevo promosso responsabile del settore
            giovanile, quando detti il benservito al dottor Giulio Cappelli.
            Quando fu licenziato Heriberto i giornali scrissero che i
            giocatori volevano Masiero ma io preferii puntare su Invernizzi
            proprio perché credevo in lui". 
            - Ma è vero che in seguito avrebbe voluto riportarlo all'Inter? 
            
			
             
            "Dissi a Ferlaino che se avessi potuto, l'avrei ripreso
            volentieri, ma gli consigliai di portarlo al Napoli e Ferlaino era
            venuto qui da me a chiedere referenze, e io gli dissi che poteva
            prenderlo ad occhi chiusi. Poi Lauro gli impose Vinicio". 
            - E con Vinicio il Napoli è arrivato a un passo dallo scudetto. 
            "Ma proprio Ferlaino mi ha detto che il boom del Napoli di
            Vinicio è arrivato con una squadra che era stata costruita da
            Chiappella. A Napoli tutto è facile, sono arrivati secondi e
            hanno toccato il cielo con un dito. Sembravano tutti impazziti
            dalla gioia. Quando siamo arrivati secondi noi, è come se non
            avessimo combinato nulla. 
            Il pubblico di San Siro è fatto così, ha il palato fino". 
            - Polemiche a parte, quale è il suo giudizio su Invernizzi? 
            "Errori me ne ha fatti commettere anche lui, perché quando
            gli telefonai per dirgli che la Fiorentina era disposta a darci
            Chiarugi e ad aggiungere Ferrante se avessimo ceduto Burgnich (Ugolini
            e Ignesti erano seduti s u quel divano lì) lui rifiutò poi per Chiarugi mi presi tutte le colpe io. 
            Le confido una cosa che non ho mai confidato a nessuno: Invernizzi
            non volle nemmeno Savoldi" 
            - Sul serio? 
             
            "Può chiedere conferma a Montanari. Il Bologna offriva
            Savoldi o Fedele più cinquanta milioni per Magistrelli e
            Invernizzi non volle saperne. In compenso mi segnalò Bettega quando
            nessuno parlava ancora di lui. Ma nel Varese era solo in prestito
            e non ci fu verso di farselo dare dalla Juventus". 
            - A Suarez cosa rimprovera? 
            "Ad esempio di non aver collaudato Catellani. Molti tecnici
            ritenevano Catellani superiore a Bellugi e anche per questo
            avevamo dato Bellugi al Bologna. 
            Ma Suarez come stopper ha poi impiegato Facchetti così quando è
            venuto Chiappella mi ha detto che lui Catellani non lo conosceva. 
            E siccome voleva uno stopper-marcatore, abbiamo dovuto prendere
            Gasparini dal Verona". 
            - Dica la verità: è vero che nell'Inter ci sono i clan? 
            "Clan è un termine che fa comodo ai giornali, ma nell'Inter
            ci sono i clan come ci sono in tutte le squadre, perché è umano
            che vengano formati g ruppetti tra i giocatori. 
            
			
            Solo che nell'Inter ci sono giocatori di grossa personalità e
            allora vengono definiti "padrini" come se si trattasse
            davvero di mafia". 
            - E' vero che farà di Mazzola il Boniperti della situazione? 
            "Non diciamolo più, perché porta jella: l'avevo già detto di
            Invernizzi. Io però vorrei fare quello che aveva fatto Masseroni ai
            suoi tempi. Cioè vorrei portare nel consiglio dell'Inter i più
            bravi degli ex giocatori: (ho già cominciato con Rovati, che fa
            parte dei probiviri), perché in un consiglio non ci vogliono solo
            gli amministratori, sono necessari anche i tecnici, così si evitano
            certi errori". 
            - Adesso il suo pupillo è Mazzola? 
            "Noi, cioè io Renata, vogliamo bene a tutti i grandi giocatori
            dell'Inter, e in particolare a Mazzola che è stato molto
            sfortunato. Prima l'hanno messo contro tutti i centravanti del
            momento, poi hanno creato un dualismo con Corso, infine in
            Nazionale l'hanno posto in antitesi a Rivera. Se nonostante tutto
            questo, Mazzola ha resistito è perché è veramente un ragazzo
            superiore. E siccome ha anche una certa preparazione culturale,
            dico che dovrà restare nel calcio con cariche importanti". 
            - Che cosa pensa della troika azzurra Bernardini-Bearzot-Vicini? 
            "Non ho seguito molto la cosa, aspettiamo di vederli
            all'opera". 
            
			
             - Lei pensa che la Nazionale debba restare alla Federcalcio o
            vorrebbe che la pigliasse la Lega? 
            "Quando se ne parlò in Lega il problema fu male impostato.
            Perché dissero che si trattava di una patata bollente che la
            Federazione voleva togliersi di mano. E' vero che essendo la FIGC
            al vertice dell'organigramma, la Nazionale deve appartenere alla
            Federazione, ma la FIGC raggruppa anche i se mi-professionisti e i
            dilettanti che vanno senz'altro aiutati ma hanno fini diversi. E io
            allora dico che siccome la Nazionale è formata da giocatori della
            Lega professionisti, dovrebbe essere la Lega a gestirla". 
            -Lei è anche per la riapertura delle frontiere, non è vero? 
            "Certamente, perché solo così si potrebbe offrire nuovamente
            lo spettacolo e si calmierebbero certi prezzi delle
            "speranze" che ora dobbiamo comprare a peso d'oro perché
            il mercato non offre molto. L'ho detto anche a Onesti, che ho
            costretto tra l'altro a rimangiarsi la definizione di "ricchi
            scemi" che ci aveva affibbiato. Tutto lo sport italiano vive
            con i proventi della schedina, cioè del calcio. Ebbene, tutte
            le federazioni mantenute dal calcio possono importare gli
            stranieri, persino la pallavolo, solo al calcio è proibito. Tutto
            questo è assurdo". 
            - Ma la maggioranza delle società sono contrarie. 
            "Questa è una decisione che va presa al vertice, perché è
            logico che l'Avellino l'Ascoli Piceno preferiscano il regime
            attuale, ma è la Federcalcio che deve imporre l'importazione
            degli stranieri, anche nell'interesse del calcio italiano. 
            Pigliamo le due più forti squadre europee, Germania e Olanda:
            hanno le frontiere aperte, possono importare tutti i giocatori che
            vogliono". 
            - Come vede il futuro del calcio italiano? 
            "Bisogna fare qualcosa per superare questo impasse. Oggi ci
            sono almeno otto squadre che hanno ambizioni di scudetto. Queste
            squadre non cedono i loro uomini-chiave e quindi è un giro
            vizioso. 
            Ai tempi di Moratti era molto più facile costruire lo
            squadrone". 
            - L'Inter  ha sbagliato spesso la campagna acquisti... 
            
			
              
            "Ma errori ne hanno commessi tutti, compreso Allodi. I primi
            mesi rimase al mio fianco. Ricordo che mi sconsigliò di
            prendere Albertosi e fu lui, inoltre, ad acquistare Salvemini,
            visto che Foni voleva un attaccante in più". 
            - Ma a volere Salvemini fu Foni o Allodi? 
            "Veramente noi volevamo Riva e Scopigno era disposto a
            darcelo a patto che gli procurassimo Vastola che allora giocava
            nel Varese, poi invece di Riva il Cagliari ci dette l'opzione che ho
            ancora in cassaforte. Per darci Vastola, il Varese voleva
            assolutamente Achilli e Foni mi chiese un attaccante di rincalzo.
            Facemmo la cernita delle punte disponibili, avremmo preferito
            Barison ma naturalmente non era certo possibile smuoverlo da
            Napoli. 
            Così ripiegammo su Salvemini, che tra l'altro ricordo con piacere,
            perché era un bravo ragazzo". 
            - L'Inter attuale cosa farà? 
            "Io ho fatto tutto quanto mi è stato possibile per
            accontentare l'allenatore, ora tocca a Chiappella". 
            - Lei crede alla decadenza di Milano? 
            "La decadenza di Milano è cominciata trenta-quarant'anni fa,
            quando poco a poco tutti gli uffici burocratici sono stati
            trasportati a Roma, ma in campo industriale Milano è sempre all'
            avanguardia". 
            - Alfa Romeo e Innocenti sono in cassa integrazione. 
            "Ma perché producono automobili e il mercato automobilistico
            è in crisi dappertutto". 
            - I tifosi che hanno una busta paga ridotta dovranno rinunciare
            allo stadio. 
            "Anche per questo noi e il Milan per i popolari abbiamo
            lasciato i prezzi dell'anno scorso. Ma Milano può contare su un
            hinterland ricco, non ci sarà crisi, naturalmente se le squadre
            gireranno a dovere". 
            - Cosa pensa dei casi di Rivera e di Chinaglia? 
            "Ho già tante rogne con l'Inter, non voglio preoccuparmi
            anche di quelle degli altri". 
            - E' vero che ha il complesso del "Corriere della Sera"? 
            "Questa è un altra storia che è stata messa in giro sul mio
            conto. Io sono milanese e i milanesi da sempre hanno tre cose:
            il duomo, il panettone e il Corriere". 
            - Ma il "Corriere", secondo lei, è cambiato? 
						
			  
						
			  
            
			
			  
            
			
			  
              
						  
            
            "E' cambiato eccome, ma lasciamo perdere queste cose,
            parliamo di calcio. Io non amministro l'Inter come privato
            cittadino, l'amministro per conto della città, e devo quindi
            tener presente anche quello che pensa la opinione pubblica. 
            E siccome la opinione pubblica è orientata dal "Corriere"
            devo preoccuparmi di quello che scrive il "Corriere". Come
            di quello che scrivono gli altri giornali milanesi, a cominciare
            dal "Giornale Nuovo" che è scritto da persone che hanno
            dato lustro anche al "Corriere". Siccome poi si tratta di
            sport, devo dare credito anche alla "Gazzetta dello
            Sport", perché ai miei tempi la "rosea" era un po'
            l'organo ufficiale del calcio italiano.  
						
						
            Però non mi lascio influenzare da nessuno, faccio sempre di testa
            mia". 
            - Non segue nemmeno i consigli di Lady Fraizzoli? 
            "Se avessi dato retta a mia moglie non avrei certo dato via
            Corso". 
            - Cosa pensa di questa Italia dove i rapimenti sono all'ordine del
            giorno? 
            "Viene un senso di tristezza e ho passato brutti momenti,
            quando sono stato minacciato anch'io, ho perso la mia privacy,
            perché bisogna circolare con le guardie del corpo ed evitare di
            uscire di sera". 
            - Il suo parere sul rapimento di Sannella? 
            "Io mi auguro che non l'abbiano rapito". 
            - Ma è vero che era inguaiato? 
            "A me non deve nemmeno una lira quindi io non posso che dirne
            bene. Però non dovete continuare a scrivere che ha scoperto
            Jair. Sannella ha portato Cinesinho ma non Jair. Ero in Brasile,
            ho seguito tutta la vicenda. 
            A segnalare Jair fu un certo Ricci, amico di un agente della
            Mondadori. Jair venne segnalato a Mondadori che allora era
            presidente del Verona, allora Sannella curava una pubblicazione
            che si stampava a Verona. Mondadori girò la soffiata a Moratti e
            Sannella andò in Brasile per conto dell'Inter a prelevare quel
            Jair che però non aveva mai visto e che era stato segnalato dal
            Ricci". 
            - Ha più rivisto Herrera? 
            "L'ho visto qualche mese fa quando abbiamo giocato
            l'amichevole a Treviso". 
            - Crede nel suo recupero? 
            "Se avessi creduto nel suo recupero, Herrera sarebbe ancora
            all'Inter. 
			  
            dal
            Guerin Sportivo del gennaio 1976ANTEFATTO 
            GENNAIO
            1976: L'Inter di Fraizzoli conduce l'ennesima stagione mediocre
            nonstante i tanti proclami dell'estate, la mitica Lady Renata
            rilascia una gustosissima intervista veramente d'altri tempi... 
              
            
			  
			
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
			
			  
			
			
			
			  
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			
			  
			
			  
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
							
							  
							
								
									| 
												 
												
												
												1° turno: Inter - AEK Atene 
												
												
												
												4-1  2-3 
												
												
												
												Ottavi: Inter - Borussia 
												Monchengladbach 
												
												
												
												4-2  0-0 
												   | 
									
												
									
												  | 
									
												 
												
												
												Quarti di finale: Inter - 
												Standard Liegi  
												
												
												
												1-0  1-2 
												
												
												
												Semifinale: Inter – Celtic 
												
												
												
												0-0  5-4 
												   | 
								 
							 
							
								
									| 
									 
									
									
									GIUBERTONI RACCONTA.
									"Vi racconto l'ultima finale dell'Inter. La 
									Coppa valeva 10 milioni di lire" 
									
									
									Era il 1972 e  Giubertoni costituiva con 
									Burgnich, Bellugi e Facchetti la Maginot 
									dell'ultima Grande Inter capace di arrivare 
									in finale di Coppa Campioni. L'ex stopper 
									svela come quella squadra giunse a un passo 
									dal trofeo 
									  
									
									Mario 
									Giubertoni "Le confesso un segreto: davvero 
									questa non l'ho mai raccontata. Ha presente 
									quella battaglia di Glasgow contro il Celitc 
									in semifinale? Mamma mia, noi in trincea e 
									loro che arrivavano da tutte le parti. Con 
									Tarcisio, Giacinto, Mauro 
									
									 e Lele, lo posso 
									dire, alzammo un muro là dietro in difesa. 
									Zero a zero come all'andata. In ballo c'era 
									la finale. Finì ai rigori e il sesto 
									rigorista dell'Inter ero io. Così aveva 
									deciso Gianni Invernizzi. Ma vincemmo 5 a 4: 
									fortuna che gli scozzesi sbagliarono e Jair 
									no, perché nella mia vita non ho mai 
									calciato un rigore e non so proprio come 
									avrei fatto. Mise tutto a posto il nostro 
									brasiliano, che giocatore". Retroscena e 
									ricordi dall'ultima grande campagna 
									interista in Coppacampioni: stagione 
									1971-72, quando i nerazzurri raggiunsero la 
									finale." 
									
									Quel torneo è il massimo per uno che 
									di mestiere fa il calciatore, credetemi", 
									spiega con fresco entusiasmo Mario Giubertoni che di quella squadra (Mazzola, 
									Boninsegna, Corso, Burgnich, Facchetti, 
									Oriali per fare qualche nome) era un 
									gregario, sì, ma davvero prezioso. "I piedi 
									non erano dolci, ma di correre correvo, 
									marcavo a uomo, avevo scatto e gran fisico e 
									soprattutto lasciavo ogni energia sul campo: 
									sarà per questo che ho sempre giocato", si 
									descrive così il "Giube", 1 scudetto, 1 
									finale di Coppa dei Campioni, 154 gare e 1 
									rete nei 7 campionati nerazzurri, 21 
									presenze nelle rassegne europee, 39 e 1 rete 
									in Coppa Italia. Quasi non fossero trascorsi 
									38 anni da allora, Mario rivive 
									quell'esperienza rammentando dettagli e 
									svelando aneddoti di una squadra e di un 
									calcio ancora carichi di suggestioni. "Io le 
									giocai tutte tranne una, ecco come arrivammo 
									fin là. Che so? Magari porta bene agli 
									interisti di oggi", sorride dalla sua casa 
									nel modenese, tradendo ancora un forte 
									attaccamento per quei colori, e per quelli 
									rosanero del Palermo, le due formazioni in 
									cui si è affermato come un difensore arcigno 
									e difficilmente superabile nei suoi anni 
									migliori.
									  
									
									 MAZZOLA, 
									BONIMBA E LA REGIA DI INVERNIZZI 
									- "Dunque la prima fu 
									con l'Aek Atene, esordio a San Siro. Io 
									stavo addosso a un peperino, un piccoletto 
									micidiale, nome da scioglilingua. Passammo 
									in svantaggio, poi Mazzola, Facchetti, Jair 
									e Bonimba misero una ipoteca sul passaggio 
									del turno. Ma Atene, al ritorno, chi se la 
									dimentica? Il pubblico si faceva sentire, 
									l'arbitro ne era condizionato e i nostri 
									avversari sembravano come sospinti dai 
									tifosi. Perdemmo 3 a 2 e passammo il turno. 
									Negli spogliatoi guardai in faccia i 
									compagni: capii che saremmo andati lontano". 
									Ma come era quello spogliatoio, quegli 
									ultimi sprazzi da Grande Inter, chi 
									comandava e cosa faceva l'allenatore per 
									farsi sentire? "Allora, per capirci, quando 
									hai in squadra gente tipo Corso, Facchetti, 
									Mazzola, Jair, Boninsegna, Burgnich, Bedin, 
									Bertini, Frustalupi, l'allenatore serve solo 
									a mantenere il giusto equilibrio e l'armonia 
									più fuori che dentro al prato verde. Perché 
									lì, questa gente, ne sa più di qualsiasi 
									allenatore e va in automatico. Tu ai 
									Mazzola, ai Facchetti,  ai  Boninsegna e ai 
									Corso cosa potevi mai insegnare? Ecco, 
									Invernizzi era bravo a gestire gli equilibri 
									e ottenne in due anni fantastici risultati: 
									lo scudetto della rimonta sul Milan (eravamo 
									a meno sette) e la finale di Coppacampioni 
									l'anno successivo. Quanto mi manca 
									Gianni".    
									
									CHE 
									BOTTE CON HEYNCKES 
									- Arriva lo scontro, passato alla storia del 
									pallone, contro il Borussia di Netzer. Ci 
									vogliono tre partite per capire chi passa. 
									"Ma la prima non conta - ci tiene a 
									precisare il "Giube"- quel sette a uno è 
									falso come Giuda. Bonimba prese una lattina 
									in testa quando eravamo sul 2 a 1 per loro e 
									per noi era finita lì. Eravamo certi del 2 a 
									0 a tavolino e giocammo come fosse un 
									allenamento, senza impegno. Quel 7 a 1 è una 
									favola tanto è vero che poi a Milano gliene 
									rifilammo 4 (a 2) con Mauro Bellugi che fece 
									un gol da cineteca che non avrebbe mai più 
									fatto e poi ancora Bonimba, Jair e Ghio. 
									Certo, il ritorno a Berlino fu un assedio: 
									ma Ivano Bordon fu letteralmente miracoloso, 
									parò pure un rigore a Sieloff e io, in 
									quell'assalto durato novanta minuti, la 
									palla l'avrò presa s ì 
									e no due volte". Due volte e basta? "Sì, 
									perché marcavo il grande Jupp Heynckes ed 
									entrambi trascorremmo quella serata a fare a 
									botte: spintoni, calcioni, gomitate, 
									sgambettii. Un corpo a corpo. Alla fine 
									uscii dal terreno come un pugile, ammaccato 
									e tumefatto, ma vincente". E non 
									espulso..."Ma io ero fisico, mai violento. 
									Nella mia carriera mi hanno buttato fuori 
									solo una volta. Giocavo nel Palermo e 
									marcavo quel dribblomane talentuoso di 
									Claudio Sala. Un tipo che mi piaceva perché 
									le prendeva e le restituiva, ma non stava lì 
									a piangere. L'arbitro ci richiamò e noi 
									niente, continuammo a pestarci. Alla fine ci 
									cacciò entrambi e con ragione". 
									
									 SOFFERENZA 
									LIEGI - "Nei 
									quarti, dopo aver superato il Borussia, ci 
									sentivamo sicuri di poter fare fuori 
									facilmente lo Standard Liegi. Che errore: a 
									San Siro faticammo da matti per vincere uno 
									a zero con gol di Jair. Loro avevano un 
									portierone: Piot, che era anche quello della 
									nazionale. E a Liegi rischiammo 
									l'eliminazione. Andammo sotto e quando si 
									faceva nera una splendida azione di 
									Pellizzaro a dieci minuti dalla fine mandò 
									Mazzola in gol. Era fatta. Il 2 a 1 finale 
									non contava nulla. Ci aspettava il Celtic 
									Glasgow". 
									
									  
									
									
									FINALE DI RIGORE 
									- "Non giocai l'andata per infortunio. Nel 
									ritorno marcai il loro centravanti: un gran 
									giocatore. Loro davanti avevano calciatori 
									come Dalghish, Macari e Johnstone, abili e 
									potenti. Un giovanissimo Lele Oriali fece un 
									partitone proprio contro Johnstone. Fu 
									durissima. E, come ho detto, prevalemmo ai 
									rigori: Mazzola, Facchetti, Frustalupi, 
									Pellizzaro e Jair furono implacabli. Per 
									loro sbagliò Deans e tanto bastò. Mi sentii 
									uno dei più forti d'Europa perché ero in 
									finale nella Coppa dei Campioni". 
									
									   
									
									
									CRUIJFF, IL MIGLIORE 
									- "Che sfortuna: la finale si giocava a 
									Rotterdam, praticamente in casa dell'Ajax. 
									Ci credevamo lo stesso: Invernizzi mi disse 
									di marcare Muhren, il loro centravanti 
									arretrato e siccome indietreggiava mi 
									consigliò di spingermi anche in avanti. Lo 
									feci, ma al dodicesimo del primo tempo 
									durante un mio spunto offensivo Blankenburg 
									mi sfasciò la caviglia con una 
									entrata-killer. Fui costretto a uscire, 
									sostituito da Bertini. Guardai il resto del 
									match dalla panchina e vidi uno spettacolo, 
									per allora, assolutamente inedito: il calcio 
									totale all'olandese. Cruijff per me era e 
									forse resta il migliore calciatore del 
									mondo: aveva tutto, era un leader, col suo 
									scatto lasciava chiunque dieci metri dietro, 
									tirava, passava, colpiva di testa, scartava, 
									lanciava. E poi Haan, Suurbier, Neeskens, 
									Krol, Keizer. Cedemmo nella ripresa: due 
									volte Cruijff. La prima per una 
									incomprensione tra Oriali e Bordon, 
									giovanissimi ma già bravissimi. Può 
									succedere. Il mio sogno finì lì". 
									
									  
									
									UN 
									PREMIO DA 10 MILIONI DI LIRE 
									- Davvero altri tempi il calcio anni 
									Settanta: "Avessimo vinto il premio sarebbe 
									stato di dieci milioni di vecchie lire se 
									non ricordo male", sorride Giubertoni che 
									dopo il calcio ha fatto "prima l'artigiano 
									in una azienda di maglieria e poi il 
									coltivatore di pere in una campagna di mia 
									proprietà": Adesso, a 65 anni, è in pensione 
									e si gode la tranquillità: "Sono in pace con 
									me stesso, avrei anche il patentino da 
									allenatore ma non fa per me. Si vive, e 
									bene, anche senza calcio. Ma chi la 
									dimentica quella Coppacampioni: ho ancora le 
									maglie di Aek, Borussia, Standard, Liegi, 
									Celtic e Ajax che ci scambiavamo a fine 
									match. E poi, scusi, quando sono uscito, a 
									Rotterdam, eravamo ancora imbattuti e come 
									mi diceva il presidente Fraizzoli, "Caro 
									Giube, ci fossi stato tu in campo non 
									avremmo mai perso". Mentiva, una affettuosa 
									e simpatica bugia che però mi inorgoglisce 
									ancora oggi e mi riporta a quella splendida 
									avventura sportiva".     
									
									  http://www.repubblica.it/rubriche/la-storia/2010/03/31/news/ultima_finale_inter-3040869/ 
									
									  
									
									  
									
						
						  
									
									  
									
									
									  
									
									  
									
									Da 
									Moenchengladbach, quella volta tomai col 
									soprabito macchiato di Coca Cola. La lattina 
									più famosa 
									
									 del 
									calcio europeo, infatti volò verso la nuca 
									di Bobo Boninsegna passando esattamente 
									sulla mia testa, e su quelle di Oddone 
									Nordio, del "Carlino", ambedue inviati al 
									seguito dell'Inter in Coppa Campioni. Gli 
									spruzzi di un liquido scuro (dapprima si 
									pensò fosse birra nera) mi sembra di vederli 
									ancora luccicare nella luce dei fari. E 
									ricordo, come fosse ieri, l'impatto, 
									durissimo, con la testa di Boninsegna. Che 
									crollò a terra, tramortito. E vidi, 
									altrettanto distintamente, Sandro Mazzola 
									chinarsi, raccogliere qualcosa, consegnarlo 
									all'arbitro, il disorientato olandese 
									Porpman. Mi voltai di scatto: un giovane, 
									biondo e atticciato, cercava di sgattaiolare 
									dal suo posto di tribuna, ma fu subito 
									afferrato da un paio di poliziotti che lo 
									trascinarono via senza complimenti. Avevo un 
									impermeabile chiaro: le macchie di Coca Cola 
									lasciarono un tenue alone anche dopo le 
									fatiche del "Lavasecco", al ritorno in 
									Italia. 
									
									
									L'episodio, clamoroso, fece epoca. La 
									partita fra il Borussia e l'Inter valeva per 
									gli ottavi di finale della grande Coppa. I 
									nerazzurri avevano vinto lo scudetto alla 
									guida di Gianni Invernizzi, subentrato a Heriberto Herrera alla sesta giornata del 
									torneo, dopo un derby malamente perduto per 
									3-0 con gli eterni rivali del Milan. 
									
									  
									
									  
									
									  
									
									BERLINO, 
									20.10.1971 
									
									Dunque, l'Inter in 
									Coppa. Elimina al primo turno i greci dell'AEK 
									di Atene con una certa facilità, viene 
									sorteggiata con il Borussia di 
									Moenchengladbach per il secondo. E, pur con 
									tutto il rispetto che si deve al calcio 
									tedesco, nessuno se ne preoccupa troppo. 
									
									Il Borussia era poco conosciuto in Italia. La 
									Germania avrebbe vinto il suo secondo 
									mondiale tre anni più tardi; i nomi di Berti Vogts; di Gunther Netzer; di Wimmer, del 
									belga Le Fèvre dicevano poco, eccezion fatta 
									per alcuni "specialisti" del calcio 
									germanico. 
									  
									
									
									  
									
									Boninsegna a Berlino 
									ad inizio partita, prima di essre colpito 
									dalla famosa lattina 
									
									  
									
									 Così, la trasferta a Moenchengladbach fu affrontata con allegria. 
									La comitiva si stabilì a Colonia, in un 
									grande abergo a poche centinaia di metri 
									dalla famosa Cattedrale, il gioiello 
									dell'arte gotica, a Moenchengladbach 
									facevamo una scappata, con i giocatori, il 
									giorno di vigilia. Una quarantina di 
									chilometri in direzione della frontiera con 
									l'Olanda, ed eccoci in una cittadina di 
									circa 60 mila abitanti, con un Campetto 
									dall'aria provinciale, tribune in legno a 
									ridosso del terreno di gioco, scarsa 
									capienza, roba da sagra di paese (infatti il Borussia, gli incontri di cassetta, li 
									giocava, e li gioca a Colonia oppure a 
									Dusseldorf). I nerazzurri tornarono in 
									albergo ancora più euforici: saranno 
									campioni di Germania, dicevano, ma hanno 
									tutta l'aria di essere una Pro Vercelli o un 
									Novara dei tempi eroici. A noi, non possono 
									incutere timore. 
									
									INIZIO 
									TERRIBILE 
									
									Invece... 
									Si gioca alle 20,30 del 20 ottobre 1971. 
									Serata fredda, ma non r igida, piove: campo 
									stipato, molti i tifosi italiani al seguito 
									dell'Inter più i soliti, entusiasti, 
									emigranti per ragioni di lavoro. Al via, i 
									tedeschi si scatenano. Impongono al gioco un 
									ritmo pazzesco, i nerazzurri sono subito 
									travolti. Al 7', il Borussia è già in gol 
									con Heynckes, centravanti di enormi 
									possibilità, che Giubertoni, lo stopper 
									nerazzurro, non riesce a controllare. 
									Vigorosa reazione dell'Inter, gol di 
									Boninsegna (un arcigno guerriero, che nelle 
									aspre battaglie di Coppa ci sguazzava come 
									una foca nel mare gelato) al 18', replica 
									bruciante di Le Fèvre al 19'. La partita è 
									sempre più veloce, sempre più combattuta, 
									sempre più dura per i nerazzurri che, 
									tuttavia, lottano come leoni. Poco prima 
									della mezz'ora, il fattaccio. Vola la famosa 
									lattina, Boninsegna stramazza al suolo, lo 
									portano via a braccia, fra i clamori del 
									pubblico inferocito contro, i soliti 
									italiani maestri nel "fare la scena". 
									L'arbitro, che penso non si fosse mai 
									trovato in simili frangenti, non sa che 
									pesci pigliare. 
									
									I 
									nerazzurri lo attorniano, chiedono la 
									sospensione di gioco, a stento trattenuti da 
									Invernizzi, volato sui campo per cercare di 
									calmare gli animi. Lo stadio è una bolgia, 
									pochi sì accorgono del fermo del teppista 
									che ha lanciato la lattina (ripeto: lì per 
									lì si pensò ad una lattina di birra scura, 
									sapemmo soltanto più tardi, in albergo, che 
									si trattava invece di Coca Cola), finalmente 
									il gioco riprende. 
									Ma l'Inter, sicura di 
									avere già partita vinta per 3-0 secondo i 
									regolamenti italiani vista la riscontrata 
									impossibilità da parte di Boninsegna di 
									riprendere il gioco, manda in campo Ghio 
									e... lascia via libera al Borussia. Che 
									colpisce ancora ben cinque volte, subito con 
									Le Fèvre, poi con Netzer alla chiusura del 
									primo tempo, ancora con Heynckes e Netzer 
									alla ripresa, per toccare quota 7 a 1 con un 
									rigore fasullo, decretato comicamente 
									dall'arbitro all'ultimo minuto e realizzato 
									da Sieloff. A Corso saltano i nervi e prende 
									a calci l'arbitro. 
									
									Si tentò, 
									goffamente, di incolpare Ghio (che non 
									accettò il sacrificio...). Corso, 
									squalificato, non giocò più contro il 
									Borussia 
									
									Si torna 
									a Colonia dopo un assedio, senza 
									conseguenze, allo spogliatoio dell'Inter. 
									Boninsegna non si fa vedere, ma si apprende 
									dal medico sociale, quel gran galantuomo del 
									dottor Angelo Quarenghi, che il giocatore è 
									in stato di choc; che presenta una vasta 
									ecchimosi; che è stato visitato anche dal 
									medico del Borussia, dopo di che è stato 
									fatto un esposto alla Polizia locale. 
									Insomma: sembra pacifico che l'Inter abbia 
									vinto a tavolino quando il DS nerazzurro, 
									Franco Manni, scende dalla sua camera 
									agitatissimo. E dice, quasi gridando, a 
									Prisco, vice-presidente dell'Inter e 
									luminare del Foro milanese: "Avvocato, 
									guardi qui: nel Regolamento dell'UEFA non è 
									previsto un caso come questo... Ho sfogliato 
									dieci volte il volumetto, nella versione in 
									francese; niente!". Costernazione e stupore. 
									Possibile che l'UEFA non abbia previsto le 
									sanzioni a carico di una Società colpevole, 
									per il principio della responsabilità 
									oggettiva, dell'atto teppistico di uno dei 
									suoi sostenitori? Incredibile, ma vero: non 
									c'è traccia di niente. Le ore trascorrono in 
									consultazioni febbrili, Prisco sviscera 
									tutti i cavilli di ogni capoverso del 
									Regolamento (poche, scarne paginette): 
									niente da fare. L'Inter, che dopo l'uscita 
									dal campo di Boninsegna aveva giocherellato, 
									tranquilla, convinta di aver già in tasca il 
									3-0 a tavolino, quindi in pratica il 
									passaggio ai quarti di finale, rischiava di 
									essere sbattuta fuori con un 7-1 che avrebbe 
									fatto clamore per anni. Nessuno toccò il 
									letto, quella notte a Colonia nell'albergo 
									dei nerazzurri. E il viaggio di ritorno in 
									Italia fu tutt'altro che, allegro. 
									
									  
									
									  
									
									  
									
									  
									
									
									La lattina 
									di Boninsegna 
									
									
									di Bidescu 
									
									Roberto Boninsegna, ex 
									centravanti dell'Inter, del Cagliari, della 
									Juventus ed eroe dello squadrone azzurro 
									secondo in Messico nel 1970, tanti anni fa 
									andò a giocare in  Germania, a Colonia, una 
									partitella di "vecchie glorie", insieme a 
									Facchetti, Bellugi, Rosato, Altafini, Sala 
									"il poeta" contro tedeschi gloriosi come 
									Haller, Netzer, Vogts, Schutz. Una festa, 
									una di  quelle belle e sane rimpatriate che 
									riconciliano con il calcio inteso finalmente 
									solo come spettacolo e non "guerra" per i 
									tre punti. Ma, se Facchetti, Rosato, Bellugi, 
									Haller e Netzer furono accolti in campo da 
									applausi e simpatia, lui, "Bonimba" venne 
									invece subissato di fischi dal pubblico di 
									Colonia da quando mise piede sul terreno di 
									gioco, fino alla fine della partita. 
									
									Boninsegna sarà pure 
									stato un grande cannoniere di Inter, 
									Cagliari, Juve ed eroe azzurro, ma per i 
									tedeschi è e resterà sempre "quello della 
									lattina". Ecco come andò la storia. 
									
									Era il 20 ottobre del 
									1971. L'Inter, dopo aver vinto lo "scudetto 
									del sorpasso", quello che, sotto la guida di 
									Invernizzi, aveva rimontato sette punti al 
									Milan di Liedholm, era impegnata nel secondo 
									turno della Coppa dei Campioni. Il sorteggio 
									le aveva affidato una squadra tedesca, il 
									Borussia di Moenchengladbach che non aveva 
									una grande caratura internazionale, anche se 
									nelle sue file allineava campioni come 
									Netzer, Vogts, Wimmer, Bonhof ed Heynckes. I 
									nerazzurri, invece, potevano contare sui 
									vari Mazzola, Burgnich, Facchetti, Corso, 
									Boninsegna, Jair, giocatori che avevano 
									vinto su tutti i campi del mondo . Convinti 
									di passare agevolmente il turno, i giocatori 
									dell'Inter entrarono nel piccolo stadio di Moenchengladbach, davanti a ventimila 
									spettatori, con una certa sufficienza. 
									
									Invece si sbagliavano 
									di grosso, perché stavano andando incontro 
									ad una delle più sonanti sconfitte della 
									loro storia, un 7-1 umiliante e clamoroso 
									che ancora adesso è tra le disfatte più 
									vistose della società. Quel 7-1 però è stato 
									cancellato dal tabellone della Coppa dei 
									Campioni ed all'atto pratico è come se non 
									fosse mai successo niente. 
									
									Era il 29' del primo 
									tempo. Il Borussia conduceva per 2-1. Aveva 
									segnato prima Heynckes, Boninsegna aveva 
									pareggiato, ma l'ala sinistra danese Le 
									Fevre, aveva riportato in vantaggio i 
									tedeschi. Il pallone era uscito in fallo 
									laterale; Boninsegna era andato a 
									raccoglierlo, per effettuare la rimessa, e 
									stava per lanciarlo verso Jair, quando con 
									un grido, era piombato a terra. Una lattina 
									di Coca-Cola l'aveva colpito alla nuca 
									facendogli perdere i sensi.  Successe il 
									finimondo: Invernizzi scattò dalla panchina, 
									giunsero medico e massaggiatore e tutti i 
									giocatori, compagni e avversari, fecero 
									cerchio attorno al centravanti svenuto.Una 
									confusione enorme, un caos indescrivibile 
									durante il quale soltanto due giocatori non 
									persero la testa. Uno fu Netzer. il biondo 
									centrocampista del Borussia che poi sarebbe 
									diventato un pilastro della nazionale, 
									l'altro Sandro Mazzola. Il primo pensò a far 
									sparire la lattina lanciandola 
									immediatamente fuori dal campo, il secondo 
									corse a recuperarla conscio dell'importanza 
									di poter esibire il corpo del reato 
									nell'eventuale processo. Ma torniamo a "Bonimba"..jpg)  
									
									 Il centravanti restò 
									intontito per qualche minuto. Poi l'arbitro 
									olandese Dorpmans fu costretto ad ordinare 
									la ripresa del gioco e l'Inter provvide alla 
									sostituzione di Boninsegna. Entrò al suo 
									posto Ghio. II Borussia riprese ad 
									attaccare, i nerazzurri apparvero sempre più 
									frastornati dal ritmo degli avversari e 
									dall'urlo della folla e fu un disastro: 4-1 
									alla fine del primo tempo e 7-1 il risultato 
									finale. 
									
									Ma il giorno dopo si 
									scatenò la battaglia legale ed entrò in 
									campo l'avvocato Giuseppe Prisco, 
									vicepresidente nerazzurro. Fece ricorso alla 
									commissione disciplinare dell'Uefa, 
									sostenendo che la partita non poteva essere 
									giudicata regolare, in quanto l'Inter non 
									aveva avuto la possibilità, per cause 
									esterne, di tenere in campo fino alla fine 
									il suo centravanti. Si chiedeva quindi, 
									visto che il regolamento delle coppe non 
									prevedeva la sconfitta a tavolino per 
									responsabilità oggettiva, almeno la 
									ripetizione della gara. Dalla Germania 
									piovvero insulti contro di noi. Boninsegna 
									venne accusato di aver fatto una 
									sceneggiata, il presidente Fraizzoli, 
									l'allenatore Invernizzi e tutti gli altri di 
									non saper perdere. 
									
									Furono otto giorni di 
									fuoco, durante i quali l'Inter scoprì 
									l'identità del lanciatore della lattina, 
									l'operaio ventinovenne Manfred Kristein. 
									Netzer disse che avrebbe venduto la sua 
									"Ferrari Dino", perché non voleva avere 
									niente a che fare con l'Italia, i nostri 
									connazionali che lavoravano in Germania 
									subirono angherie e soprusi dai compagni di 
									lavoro tedeschi, ma alla fine la giustizia 
									trionfò. 
									
									Il 28 ottobre 1971 la 
									partita venne annullata dalla commissione 
									disciplinare: il doppio confronto fra Inter 
									ed il Borussia era da rifare. Non solo: il 
									campo di Moenchengladbach fu squalificato 
									per un turno, per cui l'Inter avrebbe 
									usufruito del vantaggio di giocare la 
									partita di ritorno in campo neutro. La prima 
									scelta fu Berna, ma poi, per motivi di 
									incasso, si scelse Berlino. 
									
									Tutta l'Inter esultò. 
									Gli stessi giocatori furono felici di 
									potersi confrontare di nuovo con i tedeschi. 
									Soltanto uno non partecipò alle feste 
									nerazzurre: Mariolino Corso, il mancino 
									d'oro del centrocampo. Lui, infatti, fu 
									l'unico interista a pagare: la commissione 
									lo squalificò per un anno e due mesi 
									ritenendolo colpevole di aver dato un calcio 
									all'arbitro durante una mischia verificatasi 
									a fine partita. Era tutto falso, perché il 
									calcio l'aveva sferrato Ghio, ma non ci fu 
									niente da fare. Corso fu sacrificato 
									all'altare della giustizia sportiva ed 
									obbligato ad assistere dalla tribuna alla 
									ripetizione della sfida infuocata tra Inter 
									e Borussia. 
									
									La partita di andata 
									si giocò a San Siro il 3 novembre 1971. Lo 
									stadio era pieno fino all'inverosimile, 
									l'ambiente era surriscaldato come non mai. 
									Forse soltanto ai tem pi di Herrera, con la 
									sfida Inter-Liverpool (il clamoroso 3-0 con 
									goal-rapina di Peirò) si era arrivati a 
									tanta agitazione. E l'Inter seppe regalare 
									ai suoi tifosi una grande vittoria. Il 
									risultato fu di 4-2, al termine di un 
									incontro fantastico. Segnò per primo Mauro 
									Bellugi, poi proprio Boninsegna, poi Le 
									Fevre, Jair, Wittkamp e subito dopo, ormai 
									allo scadere, Ghio. 
									
									Ma c'era ancora da 
									giocare la partita di ritorno e non si 
									sarebbe trattato certo di andare a fare una 
									passeggiata dalle parti di Berlino. Ma 
									stavolta l'Inter aveva un grande vantaggio: 
									sapeva perfettamente cosa avrebbe 
									incontrato, non avrebbe di certo 
									sottovalutato la partita; per quasi un mese 
									Invernizzi tenne in tensione i suoi ragazzi, 
									e poi, all'ultimo momento, estrasse dal 
									cilindro il colpo vincente. Mandò in porta 
									un ragazzino di vent'anni, Ivano Bordon al 
									posto di Lido Vieri. E Bordon, davanti ad 
									ottanta mila spettatori e circa venti 
									milioni di telespettatori italiani che 
									videro la partita in diretta, disputò quello 
									che può essere ritenuta il più bella partita 
									della sua vita. Riuscì a parare tutto, tiri 
									alti e tiri bassi, da lontano e da vicino, 
									in mischia e su azione lineare. Parò anche 
									un rigore, al cannoniere Hevcknes e fu 
									eletto autentico eroe della serata. 
									
									Finì 0-0, furono 
									grandi feste, e l'Inter poté così continuare 
									la sua strada fino alla finale della Coppa 
									dei Campioni. Non riuscì a vincere la coppa, 
									perché si trovò di fronte l'imbattibile Ajax 
									di allora, che vinse la partita con due 
									goals del grandissimo Johann Crujiff, che si 
									fece beffa della difesa interista. 
									
									Ma ora dobbiamo 
									tornare alla partita di Moenchengladbach. 
									Eravamo rimasti a quando Mazzola s'era 
									diretto ai bordi del campo per recuperare 
									"il corpo del reato". La lattina "vera", 
									quella che colpì Boninsegna, non venne mai 
									trovata. Netzer l'aveva lanciata verso un 
									poliziotto che era stato sveltissimo ad 
									infilarsela sotto il cappotto. Mazzola vide 
									tutta la scena, provò a scuotere l'agente, 
									ma dopo aver visto l'inutilità del suo 
									tentativo non si perse d'animo. Si guardò 
									intorno ed incrociò lo sguardo di due tifosi 
									italiani attaccati alla rete di recinzione. 
									Mazzola ed i tifosi si capirono al volo, non 
									ci fu neppure bisogno di parole. Uno di 
									questi stava sorseggiando una "Coca-Cola" da 
									una lattina uguale a quella appena sparita. 
									Se la staccò dalle labbra e la lanciò a 
									Sandro che corse a portarla all'arbitro 
									davanti allo sguardo sorpreso di Netzer. Non 
									si è mai saputo come se la cavarono i due 
									tifosi italiani in mezzo alla folla di 
									Moenchengladbach; ma, senza quel gesto e 
									senza la presenza di spirito di capitan 
									Mazzola, l'Inter non avrebbe mai potuto 
									vincere la sua battaglia legale. 
									
									Ed i tedeschi 
									continuano a fischiare Boninsegna ... 
									
									  
									
									IL  
									CAPOLAVORO DI PRISCO 
									
									
									Ovviamente, le polemiche incendiarono gli 
									ambienti calcistici italiani e tedeschi, ma 
									le fiamme lambirono anche i Paesi neutrali. 
									L'Inter avanzò reclamo, dopo la riserva 
									scritta consegnata all'arbitro la sera della 
									gara, chiese la vittoria a tavolino. I 
									tedeschi tentarono di dimostrare che il 
									"lanciatore" era un italiano al seguito 
									dell'Inter, ma la Polizia fu costretta (è la 
									parola esatta) a rendere noto che si 
									trattava di un olandese, da tempo però 
									naturalizzato tedesco, ovviamente tifoso del Borussia. Forte di questa dichiarazione 
									ufficiale, l'Inter pretese che il caso fosse 
									discusso dalla Commissione Disciplinare 
									dell'UEFA che, dopo molti tentennamenti, si 
									riunì a Ginevra. E a Ginevra andò Peppino 
									Prisco, ferratissimo in ogni branca dello 
									scibile legale, quello calcistico incluso. E 
									Prisco dovette combattere una autentica 
									battaglia con i delegati tedeschi. Verso la 
									mezzanotte di una giornata estenuante, il 
									suo trionfo: la partita veniva annullata, si 
									sarebbe rigiocata, in campo neutro (sia pure 
									in Germania, ma distante più di cento 
									chilometri da Moenchengladbach) dopo 
									l'incontro di ritorno, fissato per il 3 
									novembre a Milano. Prisco può ben dire, a 
									distanza di anni, che l'Inter, agli ottavi 
									di finale di quella indimenticabile Coppa 
									dei Campioni, almeno all'ottanta per cento 
									fu lui a qualificarla 
									
									
									  
									
									Gennaio
            1983: nell'ultima stagione di Fraizzoli presidente, Peppino Prisco
            ci offre un bel quadro dei suoi primi 50 anni di Inter, con tutti i
            suoi soliti ingredienti di humor anti-milanista... Cinquanta e più
            anni di Inter attraverso i ricordi di uno dei più noti avvocati
            milanesi, fedelissimo e "viscerale" tifoso e dirigente
            nerazzurro. Giocatori, personaggi, partite, processi tratti da un
            suo ideale block-notes 
            MILANO. Ormai è rimasto l'ultimo, il più ruspante,
            "Pierino" fra tutti i dirigenti calcistici italiani. In un
            mondo, quello degli asettici
            dopopartita "anni '80", fatto di "nella misura in cui
            la palla è rotonda" e di "tanto di cappello alla bravura
            degli antagonisti", le sue roncolate verbali riescono ancora a
            riempire taccuini sempre più anemici. La sua romantica faziosità
            è quasi una gratifica per avversari abituati ai minuetti
            grammaticali dei manager da batteria. Ai vertici dei suoi sogni di
            giovane sessantenne, c'è sempre un derby che si conclude 1-0 a
            favore dell'Inter, al 92', su rigore dubbio o - possibilmente - su
            autogol. I suoi amori sono, nell'ordine: 1) la Penna Nera degli
            Alpini; 2) l'Inter; 3) l'avversario domenicale del Milan; 4)
            l'avversario domenicale della Juventus. Una volta, vedendo giocare
            il negro Germano e dovendo commentare la "sbandata" che
            aveva preso per lui la contessina Agusta disse: "Io non sono
            razzista: ma non permetterei mai a mia figlia di sposare... un
            milanista". Quando la società rossonera, due anni fa, scivolò
            per la seconda volta in Serie B sospirò: "La prima volta era
            retrocesso pagando, adesso, perlomeno, è andato giù gratis".
            Questo è Peppino Prisco, anzi, l'avvocato Giuseppe Prisco, da
            ventuno anni vicepresidente dell'Inter. Ancor oggi il più grande
            "stopper" che la società nerazzurra abbia avuto: se non
            in campo, certamente nei tribunali sportivi. 
            MILIARDI.
            La sua ultima impresa risale ad ormai un mese fa: ed è un'impresa
            che vale di più dell'acquisto di Zico, se solo si volesse fare un
            conto meramente economico. In poche ore ha salvato l'Inter dall'onta
            di una calunnia per illecito (e in caso di riconosciuta
            colpevolezza, al danno morale si sarebbe aggiunta una pesantissima
            pena sportivo-pecuniaria) e dalla spada di Damocle di una disastrosa
            squalifica per intemperanze del pubblico. Insomma, le partite con
            Groningen e Real Madrid avrebbero potuto "regalare" all'Inter
            una perdita di miliardi e miliardi (soprattutto di mancato
            guadagno). Prisco lo ha evitato. E, naturalmente, non ha presentato
            la parcella. Perché - come ha sempre detto - "bauscia" si
            nasce. 
									  
									
									  
									
									 
            Ma come può - gli abbiamo chiesto - un "bauscia" essere
            finito nel glorioso, ma mite corpo degli Alpini? "Si vede - ha
            risposto - che dovevo andare nei bersaglieri". 
            LATTINA.
            Sottotenente del battaglione "L'Aquila", medaglia
            d'argento e croce tedesca al valor militare. Aveva poco più di
            vent'anni quando - ben prima che inventassero trekking e jogging -
            si fece a piedi una passeggiatina dal Don fino quasi all'Italia. Ha
            raccontato con umiltà il suo eroismo in parecchie pubblicazioni. È
            sicuramente - in incognita - uno dei più arguti e preparati
            giornalisti italiani e si "sfoga" scrivendo ogni tanto su
            "Gazzetta", "Corriere" e "Giornale";
            ma - più per vocazione familiare che per scelta - ha preferito fare
            l'avvocato. Ed è grazie alla sua preparazione a al suo talento
            professionale, che ha tolto la squadra del cuore da più d'un
            pasticcio, a cominciare da quello ormai storico della
            "lattina" di Moenchengladbach. "Nell'83 poi sono
            stato quasi in servizio permanente effettivo; prima il cosiddetto
            "scandalo" della partita Genoa-Inter, poi le montature su
            Inter-Groningen, infine i problemi legati al dopo partita di
            Inter-Real. Bisognerà che proponga che, nell'annuario ufficiale
            della società, d'ora in poi alle "voci" del medico
            sociale, dell'allenatore e del massaggiatore, venga aggiunta anche
            quella... dell'avvocato sociale". 
            Le rievocazioni di Peppino Prisco s ono rievocazioni assolutamente
            disinteressate: non per nulla egli è l'unico vicepresidente della
            fresca mitologia del calcio italiano che non abbia mai sognato (né
            tantomeno sogni) di occupare la poltrona principale ("Anche
            perché, se diventassi presidente, non potrei certo fare tutto il
            chiasso che faccio ora in tribuna d'onore"). 
            PROCESSI.
            I suoi ultimi exploit, si sa, sono legati al doppio
            "processo" di Ginevra. Alcuni giornali avevano previsto
            sentenze quasi capitali per l'Inter. I più affettuosi erano
            arrivati al punto di ipotizzare la radiazione per parecchi anni da
            tutte le Coppe Europee. Ma in realtà, nel podio delle imprese
            dell'avvocato-vicepresidente Prisco, a quale va conservato il
            primato assoluto? Sempre a quella della lattina? 
            "Direi di sì - risponde - perché in quell'occasione vinse la
            bravura: mentre stavolta ha vinto la fortuna. Quello del '71 fu un
            processo regolare impostato sull'abilità delle parti: quello del
            dicembre scorso è stato un "mostro" giuridico celebrato
            in condizioni proceduralmente disperate. Ancora oggi - e parlo
            ovviamente del "caso" Groningen - non sappiamo che cosa
            abbia detto il principale teste-accusatore, che cosa il presidente
            della società olandese e neppure che cosa abbia detto Apollonius.
            Forse in Italia esagereremo in fatto di tutela di diritti, ma questo
            tipo di "giustizia" sportiva internazionale è aberrante
            in senso opposto. Se fossimo stati condannati non avremmo mai saputo
            il perché". 
            - Certo, la stampa italiana non vi aveva comunque prospettato
            ipotesi incoraggianti. 
            "Beh, effettivamente nessuno, specie nel caso-Real, ci
            concedeva un verdetto benigno. Ma è un film già visto persino
            all'epoca del processo-Borussia, la mattina stessa della sentenza,
            "La Gazzetta dello Sport" pubblicò sedici pareri dei più
            autorevoli personaggi del mondo giuridico-calcistico italiano e non
            ce n'era uno che prevedesse la nostra assoluzione. Bastava che
            l'avvocato del Borussia avesse conosciuto la nostra lingua per
            accorgersi della cosa e gli sarebbe stato molto più agevole leggere
            la "La Gazzetta" alla corte invece che tenere la sua
            arringa". 
            RISCHI.
            In realtà, tornando al presente, che cosa ha rischiato l'Inter
            negli ultimi due processi? 
            "Avrebbe potuto subire un paio di turni di sospensione per il
            Real e una condanna molto più pesante (specie sul piano morale) per
            il Groningen: diciamo pure una squalifica per più d'un anno in
            aggiunta ad una considerevole pena pecuniaria. Ma si sarebbe
            trattato, è il caso di ripeterlo, di un'ingiustizia clamorosa.
            Voglio che si sappia che la "fedina" penale dell'Inter è
            tutt'ora immacolata, sia a livello nazionale che a livello
            internazionale. Non siamo come il Milan che si fa pescare con le
            mani nel sacco (accadde, lo ricorderete, cinque anni fa) per aver
            equipaggiato di capi d'abbigliamento un arbitro scozzese e i suoi
            parenti fino alla quarta generazione". 
            - Dica la verità, avvocato,  come ha fatto a "resistere"
            per due anni senza il Milan in Serie A?
             
            "Oh, mi è molto mancato. Anche perché mi faceva una rabbia
            terribile constatare che - in B - vinceva spesso. Io mi difendevo
            come potevo a suon di battute. A un mio collega che mi chiedeva se
            seguissi le sorti del Milan anche in Serie B dissi di no, che mi
            dispiaceva molto, ma che non mi interessavo di calcio minore. A un
            altro avvocato milanista, un lunedì in tribunale, diedi una pacca
            sulle spalle dicendogli "Visto che bel 0-0 ha fatto ieri la tua
            squadra a San Siro col Campobasso? Sono soddisfazioni eh?". Ma
            pensi, a proposito di avvocati, che per non so quale beffa del
            destino, nel mio studio ce n'è uno che si chiama Corso e che è
            milanista. Una vera bestemmia!". 
            PRESIDENTI.
            Lei è stato consigliere al fianco di tre presidenti interisti:
            provi a definirli in poche battute. 
            "Masseroni era un "padrone" all'antica. I giocatori,
            per lui, erano "i uperari", gli operai. Ho il sospetto che
            oggi farebbe fatica a capire i tempi. Ma, calato nella realtà della
            sua epoca fu un grande dirigente. Pensi che non avrebbe mai
            immaginato di arrivare a quella carica: glielo comunicò una
            mattina, in tempo di guerra, l'allora presidente del CONI che gli
            disse per telefono "Carletto, saluto in te il nuovo presidente
            dell'Inter". "Ma a mi me interesa no el foball : a mi me
            pias el ciclismo". Ma non ci fu nulla da fare: era un ordine e
            Masseroni era uno che gli ordini non amava né discuterli né
            vederli discussi". 
            - Moratti? 
            "Moratti arrivò all'Inter come l'"uomo nuovo" (anche
            se era tutt'altro che un "parvenu", vantando - tra l'altro
            - una decennale amicizia personale con Meazza che era quasi suo
            coetaneo). Trasformò, da imprenditore (oggi si direbbe da grande
            manager) una società dilettantesca in un modello di perfezione.
            Ebbe, fra i suoi tanti meriti, persino la forza di lasciare al
            momento giusto. Fu un presidente perfetto". 
            - Fraizzoli? 
            "Fraizzoli è il tipico "tifoso da sempre". È un
            uomo, col cuore in mano. Ogni tanto ha sbagliato per troppa fiducia,
            ma come non essere solidale con lui quando lo attaccano per colpe
            che non ha? Lo hanno accusato, per esempio, di aver lasciato partire
            Oriali: ma lo sapete che cosa gli rispose Oriali quando Fraizzoli
            gli offrì un contratto biennale di un miliardo e 150 milioni?
            "Presidente, ma le tasse sono comprese o no?". Che cosa
            avrebbe dovuto fare pover'uomo?".NYERS. Lei, in ventun anni e
            passa di vicepresidenza non ha mai cercato di imporre qualcosa?
            L'acquisto o la conferma di un giocatore per esempio? "Più che
            "imporre" ho spesso cercato di "suggerire".
            Forse in un'occasione, però, mi impuntai sul serio e, alla fine,
            fui lieto di averlo fatto. Masseroni voleva mandare via Nyers
            perché questi (parlo di oltre trent'anni fa) non aveva restituito a
            tempo debito un prestito di sei milioni contratto con l'Inter. Io,
            che ero un grande ammiratore del giocatore, convinsi a uno a uno
            tutti i consiglieri a respingere il progetto del Presidente. E
            così, al termine di una movimentata seduta, i dodici membri del
            Consiglio Direttivo (con Masseroni astenuto) non solo votarono a
            favore della conferma di Nyers, ma sottoscrissero anche un
            "premio" di sette milioni. "E i alter ses?" e
            gli altri sei milioni, chiese Masseroni. "Glieli
            condoniamo". Masseroni sbiancò, ma la domenica dopo Nyers ci
            ripagò di ogni cosa, facendo le tre reti con cui battemmo il Milan,
            nel derby, per 3-1". 
            - Qual è stato il più grande giocatore che ha avuto l'Inter,
            secondo lei? Quello da mettere in bacheca: da rispolverare quando
            c'è il derby? 
            "Oh, l'Inter non ne ha avuti davvero pochi di grandi giocatori.
            Io sono tentato di risponderle 
            Boninsegna: un vero giustiziere. Uno
            che aveva capito che dai difensori non bisogna prenderle, ma bisogna
            dargliele!". 
            BLOCCO.
            Che farebbe la "grande Inter" se trasportata in blocco nel
            campionato attuale? 
            "Avrebbe terminato il girone d'andata con sei punti di
            vantaggio sulla seconda". 
            - Quali giocatori, di quella squadra, vorrebbe innestare idealmente
            nell'Inter di adesso? 
            "Perlomeno Suarez e Mazzola". 
            - A proposito di Mazzola, lei, quindici anni fa, gli aveva
            pronosticato un futuro come grande allenatore. E invece... 
            "E invece Sandro, che si è confermato intelligente come io
            avevo previsto, ha capito che quello dell'allenatore è un mestiere
            aleatorio, che non sempre rende in proporzione ai meriti. E così ha
            optato per una ben più comoda carriera dirigenziale". 
            GIOIA.
            Quali sono le partite dell'Inter che lei non scorderà mai? 
            "Più di una, naturalmente: ma fondamentale resta quella della
            prima vittoria in Coppa dei Campioni al Prater. E sa perché la
            ricordo? Non solo per la gioia che mi diede, ma anche per un altro
            strano aneddoto. Alla vigilia, presagendo il trionfo mi ero imposto
            di non commuovermi, ovvero di non fare la figura che l'anno prima
            aveva fatto il mio "nemico d'infanzia" Polverini,
            consigliere del Milan, che s'era messo a piangere come un vitello.
            Ebbene, per tutta la sera ci riuscii poi crollai, per telefono, la
            notte, sentendo la voce gioiosa della mia piccola Anna, che aveva
            pochi anni ma che era già... felice per una vittoria dell'Inter.
            Così piansi in camera mia, ma non mi vide nessuno". 
            - E invece la partita da cancellare dalla mente? 
            "Quella di Mantova che ci costò lo scudetto. Mi ricordo che lo
            stesso Moratti non ebbe il coraggio di parlare coi giornalisti: se
            ne andò pochi minuti prima della fine. Mi fece un cenno come dire
            "pensaci tu". E io dovetti affrontare taccuini e microfoni
            da solo. Mi ricordo che dissi: "In otto giorni l'Inter ha perso
            sia il suo primato europeo che il suo primato italiano. Credo dunque
            che abbia perso anche quel primato di antipatia che aveva accumulato
            vincendo troppo". II giorno dopo, sulla "Stampa" di
            Torino, il grande Vittorio Pozzo (che mi amava come solo fra alpini
            ci si può amare) scrisse: "I dirigenti dell'Inter meritano
            solo disapprovazione e biasimo tranne uno: Peppino Prisco, che già
            in guerra, con la penna nera in testa e col moschetto 91 in braccio,
            aveva dimostrato di saper valutare gli uomini e le
            situazioni"". 
            SOGNO.
            Qual è stato il giocatore che lei avrebbe sognato, vedere all'Inter? 
            "Rossi, all'Inter, è stato più vicino di quanto la gente non
            creda. Così come ci fu vicino Riva: ma sapete perché l'affare
            sfumo? Perché il Bologna non volle darci Pascutti: sì perché,
            Riva, lo avremmo acquistato dal Cagliari... come merce di scambio
            per accontentare il "mago"".  
            - Qual'è stato, invece, il nerazzurro più brocco? 
            "Sui due piedi mi viene in mente un certo Rebizzi, per
            celebrare la cui "bravura" io avevo fatto la proposta che
            gli venisse tolta la maglia nerazzurra; che gli venisse concesso, al
            massimo, di giocare, con un maglia grigia con distintivo. Ma il
            record mondiale fu battuto da due sudamericani che io stesso andai a
            prendere all'aeroporto: si chiamavano Orlandi e Cacciavillani.
            Orlandi aveva i piedi piatti e un'apparente età di una quarantina e
            passa d'anni, tant'è vero che credevo che fosse il padre del
            giocatore che aspettavamo. "Dov'è suo figlio?, gli chiesi a
            bruciapelo. Cacciavillani, invece, ci era stato descritto come uno
            Schiaffino con un po' più di classe ma con molto più fiato.
            Probabilmente, ci fu un equivoco". 
            BEARZOT.
            A quei tempi, nell'Inter c'era anche Bearzot: che cosa ricorda di
            lui? 
            "Che aveva la morosa in via Besana e che tutte le sere veniva
            dalle parti del mio ufficio di via Podgora ad aspettarla". 
            - Quale stato il giocatore più simpatico fra tutti quelli che ha
            avuto l'Inter? 
            "Un certo Piero Pozzi perché era mio amico: e poi il grande
            Giovannini". 
            - E il più cattivo? 
            "Nesti: ma anche Boninsegna e Burgnich. Più di tutti però, lo
            fu il tedesco Szymaniak. Ma non era solo cattivo, era anche un duro.
            Una volta io vidi uscire dal campo di Marsiglia con una faccia quasi
            "sdoppiata" per il calcio di un avversario. Non so poi che
            fine abbia fatto quell'incauto che osò colpirlo...". 
            - Il giocatore più matto? 
            "A parte Corso (ma la sua era una follia "sana" e
            memorabile) mi sembra che il più matto di tutti sia in squadra
            adesso: gioca col numero 4". 
            - Il più bugiardo? 
            "Il portiere Ghezzi, celebre per le sue uscite spericolate.
            Più di una volta mi precipitai in campo temendo per la sua vita,
            dopo averlo visto agonizzante. Ma quello mi guardava, strizzava
            l'occhio mi sorrideva e si rialzava". 
            CAPITANO.
            Qual è stato, invece, il calciatore che avrebbe fatto carriera in
            qualsiasi altro campo? 
            "Picchi. Direi che era quasi "sprecato" per fare
            "solo" il calciatore. Era un grande capitano nel campo e
            nella vita. Una volta ricordo che alcuni suoi compagni di squadra mi
            chiesero se avevano fatto bene ad acquistare alcune azioni delle
            "Generali". Alla mia espressione allibita mi dissero:
            "Le abbiamo prese, perché ce l'ha detto Armando"". 
            - Avvocato, che avrebbe fatto se le fosse nato un figlio milanista? 
            "Avrei preteso l'analisi del sangue". 
            - E che farebbe se un giorno le dicessero che Inter e Milan si sono
            fuse? 
            "Comincerei a tifare per il Genoa". Peppino Prisco:
            nerazzurro forever... 
              
            Sezione:
            INTERVISTE 70/80 Leggi H o m e Storie di Calcio Interviste d'epoca
            Personaggi Il Romanzo dei Mondiali Rassegne d'epoca Storie di Calcio
            o email storiedicalcio@katamail.com 
									  
									
									  
									  
									  
									
									
									MILANO, 
									3 NOVEMBRE 1971 
									
									DOPPIO 
									TRIONFO 
									
									Il resto 
									lo fecero loro, i nerazzurri. A San Siro si 
									giocò il 3 novembre, in un clima teso e 
									drammatico. Il Borussia non aveva voluto 
									scendere a Milano, si era acquartierato in 
									periferia, aveva preteso, ed ottenuto, una  
									nutrita scorta di Polizia temendo chissà 
									quali rappresaglie da parte dei tifosi 
									italiani. Timori ridicoli, come dimostrarono 
									i fatti. Le... rappresaglie vennero da parte 
									dei nerazzurri che stravinsero per 4-2 un 
									incontro indimenticabile. Jupp Heinckess, 
									stella del Borussia '71 Peppino Prisco: 
									grazie a lui Inter qualificata agli 
									ottavi!Segnò per primo Bellugi, con una 
									irresistibile proiezione offensiva. 
									Raddoppiò Boninsegna; il solito Le Fèvre 
									accorciò le distanze, ma alla ripresa del 
									gioco andò subito a segno Jair. Gran bordata 
									di Wittkamp e rete finale di Ghio, 
									subentrato a Jair a pochi minuti dal 
									termine. Quattro a due, durissima sconfitta 
									per i campioni di Germania, nel frattempo 
									divenuti celeberrimi anche in Italia. E 
									Netzer, il gigante biondo che in Nazionale 
									contendeva a Overath il ruolo di regista; e 
									Bonhof, il centrocampista dal tiro 
									micidiale; e il mastino Vogts; e la punta di 
									diamante Heynckes; e l'ala belga Le Fèvre; e 
									il regista Wimmer alla vigilia erano temuti 
									come altrettanti spauracchi. Invece... 
									
									Ma si 
									doveva giocare ancora la partita... di 
									andata, quella annullata dall'UEFA. Forte di 
									due reti di vantaggio, l'Inter scese in 
									campo molto sicura di sé il primo dicembre, 
									nel maestoso Stadio Olimpico di Berlino 
									Ovest, in una serata rigida e nebbiosa. Fu 
									il trionfo di Ivano Bordon, il portierino 
									appena ventenne, che prese il posto del 
									titolare Lido Vieri. 
									
									A 
									proposito di Bordon: la sera della vigilia, 
									nell'albergo dell'Inter, si sparse il 
									terrore. Invernizzi, verso le 20,30, piombò 
									nella sala da pranzo sconvolto dicendo: "Ho 
									perso Bordon!". Febbrili ricerche, 
									disperazione, Bordon non si trovava. Poi a 
									qualcuno venne in mente di dare un'occhiata 
									nella camera da letto di Bordon: e lo trovò 
									beatamente addormentato... Era un ragazzo, 
									era una riserva, sapeva già che avrebbe 
									dovuto giocare contro i draghi del Borussia: 
									e se la dormiva, sereno come un bambino fra 
									le braccia della mamma... Non dormì però la 
									sera dopo, quando il Borussia si scatenò 
									contro la sua rete. Ma Bordon parò tutto, 
									compreso un calcio di rigore di Sielof, 
									decretato, a sorpresa dall'arbitro inglese 
									Taylor, severo fino alla esagerazione! Finì 
									zero a zero, artefice primo Bordon, davanti 
									al quale Bellugi, Facchetti, Giubertoni e 
									Burgnich (che giocava libero) eressero 
									un'autentica diga. 
									
									E gli 
									articolati contropiede di Mazzola e 
									Boninsegna fecero tremare più volte il 
									portiere Kleff. 
									
									   
									
									   
									
									  
									
									  
									
									  
									
									
									BERLINO, 1 DICEMBRE 1971 
									
									
									Berlino 1971, quando Bordon parò il «caso 
									lattina» 
									
									Si giocò 
									proprio a Berlino la ripetizione della 
									famosa sfida della lattina contro il 
									Borussia Moenchengladbach. L' Inter strappò 
									un pareggio (0-0) grazie al suo portiere che 
									parò un calcio di rigore. E quel giorno Prisco fu insultato da tutto il pubblico 
									tedesco 
									
									   
									
									Ancora 
									qui, trent' anni dopo la qualificazione in 
									coppa delle Fiere con l' Hertha, che a 
									Berlino aveva vinto 1-0. Ma soprattutto 29 
									anni dopo la ripetizione della sfida con il Borussia Moenchegladbach, coppa dei 
									Campioni. Quella passata alla storia come la 
									partita della lattina. Era il 1° dicembre 
									1971, secondo turno. La lattina, in realtà, 
									aveva colpito Roberto Boninsegna il 20 
									ottobre, lanciata da chissà chi in tribuna 
									allo stadio di Moenchengaldbach. E questo 
									permise di cancellare una delle sconfitte 
									più pesanti nella storia dell' Inter, 7-1. 
									«Ma l' episodio accadde sul 2-1 - ricorda 
									Giacinto Facchetti, capitano di quella 
									squadra  e adesso dirigente di quella di 
									Tardelli - e da quel momento non ci fu più 
									gara. In campo pensavamo a quanto sarebbe 
									successo dopo. C' era chi pensava già alla 
									ripetizione, chi contava sul 2-0 a tavolino, 
									chi addirittura non voleva più giocare». 
									«Non fu una vera partita - concorda Lele Oriali, l' attuale direttore tecnico che 
									allora aveva 19 anni -. Dopo l' uscita di 
									Boninsegna, autore del nostro gol, non c' 
									eravamo più con la testa». Il 7-1 maturò in 
									quel contesto irreale, anche se nessuno 
									nasconde che il Borussia aveva schiacciato 
									l' Inter nella sua area fin dai primi minuti 
									di gioco. Fu ovviamente l' avvocato Prisco a 
									occuparsi del ricorso all' Uefa. «Il massimo 
									che ottenni fu la ripetizione della gara, 
									perché la vittoria a tavolino non era ancora 
									prevista dai regolamenti. Ma in fondo fu 
									meglio così, perché quella partita fu 
									fondamentale per la carriera di Ivano 
									Bordon». Nel frattempo si giocò il ritorno, 
									divenuto l' andata, e a San Siro l' Inter s' 
									impose 4-2. Per la ripetizione fu stabilito 
									di giocare sul «neutro» di Berlino (sempre 
									Germania era), all' Olympiastadion, proprio 
									dove l' Inter torna stasera. «Si giocò con 
									una tensione incredibile - ricorda Facchetti 
									-. Loro erano furibondi per la cancellazione 
									del risultato. Ma noi sentivamo l' impegno 
									morale di dimostrare che quel 7-1 era falso. 
									Eravamo tutti molto nervosi». Anche perché 
									«allo stadio c' erano migliaia di nostri 
									emigrati - aggiunge Ivano Bordon, grande 
									protagonista di quella partita -. E più 
									che Borussia-Inter sembrava di giocare 
									Germania-Italia». «La tensione era stata 
									alimentata dai tedeschi
									 - racconta Peppino Prisco tutto divertito sull' aereo che lo 
									riporta a Berlino -. Ce l' avevano 
									soprattutto con me, mi chiamavano "il 
									mafioso", per via del ricorso. Un giornale 
									aveva titolato: "L' arma in più dell' Inter 
									è un mafioso". Oltretutto ero completamente 
									solo, perché Fraizzoli era dovuto rientrare 
									a Milano al capezzale della madre. Eppure 
									ostentavo provocatoriamente una sciarpa 
									tricolore: ricordo che per tutta la partita 
									mi tirarono addosso mozziconi di sigarette 
									accesi». Anche quella volta il Borussia 
									travolse i nerazzurri fin dal fischio d' 
									inizio. «Per capire quanto eravamo costretti 
									in difesa basti pensare che il fallo del 
									rigore, dopo un quarto d' ora, lo fece 
									Mazzola», dice Prisco. L' episodio chiave lo 
									racconta il protagonista, Bordon, che allora 
									aveva vent' anni e stava prendendo il posto 
									di Lido Vieri: «Sul dischetto va Sieloff, 
									che mi aveva già segnato su rigore all' 
									andata. Aveva tirato a sinistra, così decido 
									di buttarmi da quella parte. Prima però 
									faccio un mezzo passo a destra, lui abbocca 
									e io blocco in due tempi». «Bordon fu l' 
									eroe di Berlino», sentenzia Facchetti, il 
									cui amarcord continuerebbe fino a Rotterdam, 
									dove l' Inter perse 2-0 in finale con l' 
									Ajax. Oggi l' eroe di Berlino è ancora qui, 
									come preparatore dei portieri dell' Inter. 
									Il suo primo allievo è Sebastien Frey, che 
									ha vent' anni proprio come lui allora. «Seba 
									ha personalità, grandi qualità e molti 
									margini per migliorare ancora». E se l'Olympiastadion diventasse fondamentale anche 
									per la sua carriera? Stavolta l' avvocato 
									Prisco, stanco di soffrire, non sa se 
									augurarsi di sì o di no. Luca Curino Così 
									andò il 1° dicembre 1971 Ecco il tabellino 
									di quel famoso Borussia 
									Moenchengladbach-Inter, giocata sul campo 
									neutro di Berlino, il 1° dicembre 1971, 
									valida per il secondo turno della Coppa dei 
									Campioni. 
									
									
									
									http://archiviostorico.gazzetta.it/2000/novembre/21/Berlino_1971_quando_Bordon_paro_ga_0_0011219189.shtml?refresh_ce-cp 
	  
									
									
									  
									
									  
									
									  
									
									  
									
									  
									
									  
									
						
						  
									
									  
									
									
									  
									
									
									  
									
									
									.jpg)  
									
									
									
									  
									  
									
									
									  
									
									  
									
									La 
									stagione seguente, l'en plein. Archiviati 
									campionato e coppa d'Olanda (3-1 all'ADO), 
									l'Ajax elimina Dynamo Dresda, Olympique 
									Marsiglia, Arsenal, Benfica e conquista al 
									De Kuip, lo stadio del Feyenoord, la sua 
									seconda Coppa dei Campioni consecutiva. 
									
									L'Inter 
									non è più lo squadrone leggendario dei tempi 
									di Herrera. Arriva alla finale dopo vicende 
									assai rocambolesche come la "partita della 
									lattina" di Mönchengladbach (che il Borussia 
									aveva stravinto 7-1) e, in semifinale, dopo 
									210' senza gol, la vittoria sul Celtic ai 
									rigori. Nell'ultimo atto, l'infortunio di 
									Giubertoni dopo neanche un quarto d'ora 
									costringe il tecnico interista Invernizzi a 
									rivedere la difesa. I suoi resistono un 
									tempo, il non ancora ventenne Oriali fa 
									l'impossibile per contenere Cruijff, ma non 
									c'è niente da fare: troppo forte quell'Ajax 
									per l'Inter, troppo forte Cruijff per Oriali. 
									Il numero 14 gli scappa due volte, e sono 
									due gol. Quelli decisivi. Il primo arriva, 
									al 48', su papera di Bordon che in uscita 
									alta si scontra con Frustalupi, lasciando 
									all'olandese la porta sguarnita e la più 
									facile delle occasioni. Il secondo, al 77', 
									incornando in splendida elevazione una 
									punizione calciata da Keizer quasi 
									all'altezza della bandierina di sinistra. È 
									una gara senza storia, sia chiaro, ma la 
									fortuna aiuta gli "ajacidi", perché lo 
									spiovente da cui nasce il vantaggio nasce da 
									un rimpallo perso banalmente dai nerazzurri. 
									A quel punto l'attacco interista, votato 
									esclusivamente al contropiede, è una 
									pallottola spuntata. 
									
									  
									
									
									  
									
									  
									
									 Generazione di fenomeni 
									
									Non c’è 
									solo Cruijff, fuoriclasse straordinario, nel 
									Grande Ajax della prima metà degli anni 
									Settanta. Alcuni sono campioni veri, altri 
									quasi. In ogni caso, atleti straordinari. 
									
									HEINZ 
									STUY (portiere, 6-2-1945) – Non un fenomeno 
									tra i pali, scalza il più «tradizionale» 
									Gerrit (Gert) Bals, perché sa stazionare al 
									limite dell’area dove svolge le funzioni di 
									libero aggiunto. Alto e prestante (1,88 m 
									per 85 kg), è l’unico «ajacide» dell’epoca a 
									non vestire mai l’arancione. 
									
									WIM 
									SUURBIER (terzino destro, 16-1-1945) – Nelle 
									giovanili era nato ala sinistra, poi 
									retrocede a terzino e, con l’esplosione di 
									Krol, cambia fascia. Sa fare tutto: difende, 
									imposta, crossa e segna. 
									
									VELIBOR 
									VASOVIC (libero, 3-10-1939) – Dà ordine alla 
									difesa ed è infallibile dal dischetto. 
									Fortissima personalità, a Wembley alza da 
									capitano la Coppa dei Campioni del ’71. 
									
									BARRY 
									HULSHOFF (difensore centrale, 30-9-1946) – 
									Una montagna d’uomo (1,92 m per 82 kg), 
									domina di testa e non è male coi piedi. 
									Incontrista temibile e generoso, incappa 
									spesso in infortuni. In Nazionale, 14 
									presenze e 6 reti. Tante per un attaccante, 
									incredibili per un centrale difensivo..jpg)  
									
									RUUD KROL 
									(terzino sinistro, 24-3-49) – La classe 
									fatta difensore. Come Suurbier dall’altra 
									parte, sa fare bene tutto. A fine carriera, 
									si ricicla da libero con risultati 
									straordinari. È l’ultimo a lasciare l’Ajax. 
									Poi sverna nella Nasl, al Napoli e ai 
									francesi del Cannes. 
									
									ARIE HAAN 
									(centrocampista, 16-11-1948) – Lento di 
									passo, ha la «castagna» da fuori e buon 
									senso tattico. A Monaco ’74 Michels lo 
									impiega addirittura da libero. 35 partite e 
									6 gol in Nazionale. 
									
									 JOHAN 
									NEESKENS (centrocampista, 15-9-1951) – Il 
									calciatore totale per antonomasia. Nella 
									categoria, l’unico superiore a Tardelli. 
									Falcata e tiro irresistibili, fondo, grinta, 
									senso del gol. Da ragazzino, furoreggia nel 
									baseball. Nel ’74-75 raggiunge al Barcellona 
									il «gemello» Cruijff. 
									
									GERRIE 
									MUHREN (interno sinistro, 2-2-1946) – 
									Mancino, buona tecnica, sa cucire il gioco e 
									interdire. Per motivi personali, un figlio 
									malato, salta il mondiale del ’74. In 
									arancione, 10 gettoni. 
									
									JOHNNY 
									REP (centravanti/ala, 25-11-1951) – 
									Attaccante completo, per la foga e 
									l’incredibile mole di lavoro, talvolta 
									spreca troppo. Carattere pepatino e lingua 
									lunga, «digerisce» a fatica l’ingombrante 
									personalità di Cruijff. 12 gol in 42 partite 
									coi Tulipani. 
									
									JOHAN 
									CRUIJFF (attaccante, 25-4-1947) – 
									Grandissimo in campo e in panchina. Con 
									entrambi i club della sua vita, l’Ajax e il 
									Barcellona. La tecnica sposata alla 
									velocità. Profondo conoscitore del gioco, ha 
									il difetto di ritenersi infallibile. Alza da 
									capitano la Coppa dei Campioni ’72-73. 
									
									PIET 
									KEIZER (ala sinistra, 14-6-1943) – Bandiera 
									dell’Ajax, mancino puro, grande realizzatore 
									(146 reti in 365 gare di Eredivisie). Due 
									gravissimi infortuni e una certa 
									incompatibilità caratteriale con Cruijff ne 
									condizionano una carriera comunque di 
									altissimo livello. Capitano a Rotterdam ’72. 
									
									NICO 
									RIJNDERS (difensore/centrocampista, 
									30-7-1947) – Mediano difensivo, 8 volte 
									nazionale. Inesauribile incontrista, 
									trasferitosi al Bruges, morirà durante una 
									partita, colto da un infarto. 
									
									HORST 
									BLANKENBURG (difensore centrale, 10-7-1947) 
									– Tedesco arrivato nel ’70 dal Monaco 1860, 
									in patria rischia una lunga squalifica per 
									una storia mai chiarita di partite truccate. 
									Nasce mediano, poi Kovacs ne fa l’erede di 
									Vasovic. È suo il cross per il gol di Rep 
									che condanna la Juve nel ’73. 
									
									SJAAK 
									SWART (ala destra, 3-7-1938) – Idolo dei 
									tifosi per le funamboliche giocate 
									sull’«out» di destra, sotto rete non 
									perdona: 165 gol in 463 gare di campionato 
									con l’Ajax, 10 su 31 in Nazionale. 
									
									DICK VAN 
									DIJK (centravanti, 15-2-1946) – Ariete un 
									po’ grezzo sul piano tecnico, segna il gol 
									che sblocca il risultato a Wembley nel ’71. 
									In Nazionale, 7 presenze e una rete. 
									
									
									(Christian Giordano) 
									
									   | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			  
			
			LADY RENATA 
              
						
						
						 SANTA
            MARGHERITA - E' di nuovo pimpante, Lady Renata Fraizzoli, Nostra
            Signora di San Siro. La presidentessa dell'Inter. I giornalisti
            l'hanno paragonata a una modella di Tiffany per i preziosi
            gioielli che sfoggia con disinvoltura. Accetta il complimento ma
            rifiuta l'intervista. 
            " Guardi - dice cortese ma gelida - che se è venuto qui con
            la speranza di farmi parlare perde il suo tempo. Io con i
            giornalisti non parlo da mesi anche se continuo a leggere il mio
            nome sul giornale ". 
            - Dispiaciuta signora? 
            " Senta, quando incontro Alberto Zardin della
            "Gazzetta" gli chiedo cosa ho detto a mia madre
            mercoledì scorso ". 
            - Non capisco signora. 
            " Ebbene sulla "Gazzetta dello sport" ho letto che io
            avrei detto a Mariolìno Corso di non impegnarsi con nessuno
            perché l' Inter è a sua disposizione ". 
            - Tutti sanno che lei ha un debole per Mariolino. Non aveva forse
            detto al Circolo dell'Inter che vale più un quarto d'ora di Corso
            di un'ora e mezza di Domenghini?.jpg)  
            " Ma sulla "rosea" c'era pure scritto che io avevo
            incontrato i coniugi Corso alle "Colline Pistoiesi"
            ". 
            - Da Pietro Gori si mangia bene... 
            " Ma io non vado alle "Colline" da parecchio tempo, e
            non vedo Corso dal maggio dell'anno scorso 
            Mi sembra di averlo incontrato a San Siro in occasione di una
            partita di Coppa Italia. Ho rivisto di recente la signora Enrica e a
            momenti nemmeno la riconoscevo perché dopo l'operazione è
            diventata bruna e le hanno tagliato pure i capelli". 
            - Dire che lei rivorrebbe Corso nello staff dell'Inter non è
            certo un'offesa. 
            " Ma scrivere che io l'ho incontrato alle "Colline
            Pistoiesi", non è scrivere la verità. Una volta ì
            giornalisti prima di pubblicare una notizia la controllavano, oggi
            non succede più. E a me questo genere di giornalismo non piace.
            Per questo da tempo non rilascio più dichiarazioni ai giornali.
            Così non ho da pentirmene". 
            Interviene il dottor Ivanhoe: " E' vero, cara, che dopo ogni
            intervista ti sei dovuta pentire di averla rilasciata perché il
            tuo pensiero è stato travisato. Però Domeniconi è un amico, ti
            prego Nana, digli qualcosa ". 
            Lady Renata scatta come se fosse Boninsegna: "Un amico
            Domeniconi? Non ti ricordi, Ivanhoe, che ti avevo ritagliato un
            suo articolo che aveva come titolo: "Fraizzoli è un
            pollo!". Ti avevo pure detto: Ivanhoe perché non vai a San
            Siro con un pollo al guinzaglio? ". 
            Cerco di difendermi: 
            - Non potete negare che in passato qualche volta avete sbagliato
            gli acquisti... 
            " Ne abbiamo sbagliati tanti, tantissimi - ribatte il
            presidente -. Ma lei non ha mai sbagliato un articolo? ". 
            - Tanti, presidente, tantissimi... 
            " Di noi però si ricordano solo gli acquisti sbagliati, mai
            quelli indovinati. Non mi sembra giusto ". 
            - Avete dato via Bellugi che a Bologna è tornato in Nazionale e
            ora dovete arrangiarvi con Gasparini che sembra più un hippy che
            uno stopper.  
            
            Riprende la Lady: " Mio marito ha spiegato tante volte che
            Bellugi non è stato ceduto per motivi tecnici. Come giocatore non
            è mai stato discusso. A volte il matrimonio guasta un uomo
            ". 
            - Cosa intende dire, gentile signora? 
            " Lui forse si era un po' montata la testa! Aveva accanto una
            bella donna, ma poco chic. Ricordo che una sera l'ho conosciuta
            al Circolo. D'accordo la gioventù, ma a una signora non si addice
            la minigonna, insomma è un abbigliamento da ragazzina ". 
            - Qual è la moglie che preferisce? 
            " La signora Bordon. Che ragazza fine e di classe! ". 
            - Forse per questo Bordon è tornato titolare... 
            La Lady non raccoglie. Ivanhoe cerca un'automobile per andare
            sul lungomare a fare la passeggiata del convalescente: " Il
            dottore - spiega - mi aveva ordinato un po' di riposo dopo
            l'operazione di ernia. Ma per le feste sono rimasto a Milano
            perché mio padre mi ha insegnato che bisogna dare l'esempio agli
            operai ". 
            - Anche gli operai adesso hanno diritto alle vacanze invernali. 
            " Ma noi a fine anno abbiamo i bilanci. La mia presenza era
            indispensabile, così sono rimasto a Milano. Ma ora voglio godermi
            un po' questo bel sole della riviera ligure ". 
            Il cavalier Franco Manni fa il gioco del cronista: " Domeniconi
            ha la macchina, vi accompagna lui ". 
            Così Ivanhoe Renata e Lady Fraizzoli prendono posto sull'
            automobile del " Guerino ". Scendiamo nel viale e il
            presidente propone: " Andiamo a mangiare la focaccia. Conosco
            un prestinaio in un vicoletto ". 
            Va a far spesa, la signora Renata. Mentre la aspettiamo passa un
            signore distinto che non ci degna di uno sguardo. 
            " Non mi ha riconosciuto - fa Ivanhoe - eppure eravamo molto
            amici. Come è cambiato e come è invecchiato. Quando incontro
            qualcuno e Io trovo invecchiato poi penso: chissà lui come
            avrà trovato cambiato me. Perché purtroppo si cambia, si invecchia
            ". 
            - E' la legge della vita, presidente. 
            "Che brutto, invecchiare. Quando ero giovane venivo qui a
            Santa Margherita e facevo pesca subacquea. Sono stato uno dei
            primi sub: è un'esperienza bellissima. Il mondo sommerso è un
            mondo fantastico. Compravo la focaccia e andavo in barca con la tuta
            e le pinne ". 
            Arriva la signora con la focaccia: " Adesso la fanno anche a
            Milano, ma questa è diversa. A Milano la fanno troppo alta e
            con poco olio. Per mangiare la vera focaccia bisogna venire qui. A
            me piace pure andare a mangiare la pizza da Alfonso, anche se la
            vera pizza si mangia a Napoli ". 
            Andiamo a prendere l'aperitivo da "Colombo": " E' il
            bar più antico di Santa Margherita " spiega il presidente.
            Il dottor Ivanhoe pensa al fegato e sceglie l'Aperol. La Lady chiede
            un "Carpano", si vede versare un "Punt e Mes" e
            commenta: " Evidentemente non sanno che tra il Carpano e il
            Punt e Mes c'è una certa differenza. Mescolando Carpano e Punt e
            Mes si forma un aperitivo squisito che si chiama Milano-Torino
            ". 
            Il cameriere ha udito tutto. Toglie il Punt e Mes e versa il
            Carpano gradito alla signora. 
            " Molto gentile, ribatte, ma non era il caso. Andava bene anche
            il Punt e Mes ". 
            L'aperitivo fa riprendere la conversazione: 
            
			
             - Signora, perché le squadre milanesi non vanno più bene come
            una volta? 
            " Perché anche nel calcio ci sono i cicli e perché è
            difficile lavorare a Milano. Comunque l'ultimo scudetto l'abbiamo
            vinto noi dell'Inter ". 
            - Quando l'avvocato Peppino Prisco fece mandar via Heriberto per la
            lite della sigaretta. A proposito: perché l'avvocato segue meno
            l'Inter che in passato? Ha perso la fiducia pure lui? 
            " Ha il figlio militare negli alpini. E dice che forse sarà
            un padre all'antica ma se il ragazzo non viene in licenza a Milano
            va lui a trovarlo in caserma".  
            - Torniamo allo scudetto. Avete lasciato Invernizzi però in
            seguito il "mago di Abbiategrasso" non si era comportato
            bene con voi. Adesso ho letto che ha rifiutato l'Avellino perché
            suo marito l'avrebbe pregato di tenersi pronto per l'Inter. 
            Spiega Manni: " Il presidente dell'Avellino Japicca ha parlato
            proprio dell'Inter e forse Invernizzi gliel'ha detto davvero, ma
            era solo per trovare una scusa. Invernizzi è l'unico allenatore
            libero, è sicuro di sistemarsi presto in serie A, non gli
            conveniva accettare l'Avellino e così ha tirato in ballo l'Inter.
            Ma non c'è nulla di vero ". 
            - E sul ritorno di Corso, cosa può dire, presidente? 
            Fraizzoli è preciso: " Le giuro che tutto quello che so l'ho
            appreso dai giornali. Sui giornali ho letto che Corso vorrebbe
            tornare all'Inter per insegnare il calcio ai giovani. Se è così
            Mariolino non ha che da dirmelo e lo accolgo a braccia aperte. Un
            posto nel settore giovanile glielo trovo subito. Del resto è
            tradizione dell'Inter tenere nel proprio seno i giocatori-bandiera
            ". 
            - Mazzola farà il presidente? 
            " Per ora Sandrino ci serve come giocatore ". 
            - Da quanto tempo non vede Herrera? 
            " Dall'anno scorso a Venezia quando giocammo in amichevole a
            Treviso ". 
            - Non lo sente nemmeno a Radio Montecarlo? 
            " Parla troppo presto. Non mi sveglio certo alle 7,30 per
            sentire il "Mago" che commenta il campionato di calcio
            ". 
            - Masiero dimostrò di saper sostituire degnamente Herrera. Perché
            è tornato a fare l'allenatore in seconda? 
            "Bisognerebbe chiederlo a lui". 
            - Lei cosa dice? 
            " A me sembra che Masiero sia troppo grasso anche se mi è
            simpatico proprio perché è pacioccone. Era robusto anche
            quando giocava ma Manni mi ha detto che adesso l'Enea è capace di
            mangiarsi tre piatti di pastasciutta. Al Miramare l'altro ieri
            sera ha protestato con il cameriere dicendo che la porzione di pesce
            era troppo piccola. Eppure pare che gli avessero portato una
            cernia gigante... ". 
            Si torna a parlare di giornali. E Fraizzoli la pensa come il
            "Guerino": le gazzette milanesi hanno contribuito ad
            affossare il Milan e l'Inter. 
            " Non sai più come comportarti. - si sfoga il presidente -
            Se parli con uno, si offende l'altro. Se poi parli anche con
            l'altro si offende il primo che sperava nell'esclusiva. Ricorda
            l'attacco di Ormezzano su "Tuttosport" quando sono stato
            intervistato in "Gazzetta"? Ma io mica ero andato alla
            "Gazzetta" per mettermi in vetrina. Un giorno mi aveva
            telefonato il direttore Griglie supplicandomi di dire qualcosa sull'Inter
            perché il Tour era finito e non sapeva come riempire il giornale
            ". 
            
			
			  
            
            - E lei milanese col " coeur in man "... 
            " Io ho risposto: direttore, sto uscendo di casa perché devo
            andare da un avvocato che ha lo studio nei pressi di Piazza
            Cavour. Poi posso fare un salto da lei così ci conosciamo visto che
            ci siamo sentiti solo per telefono. Sono andato mi ha fatto
            intervistare da Maurizio Mosca (che ora a quanto mi risulta
            potrebbe anche diventare direttore) e gli altri si sono offesi, a
            cominciare dal "Corriere della sera" ". 
            - Presidente qual è il giornale che preferisce? 
            Interviene Lady Renata: " Glielo dico io: il
            "Giornale" di Montanelli perché ha solo una pagina di
            sport ". 
            - Comunque poi avete rinunciato a querelare il " Corriere di
            informazione "... 
            " Perché dopo la lettera dell'avvocato hanno pubblicato la
            lettera di rettifica. Io quella frase ("Oh la Madona"
            dopo un ennesimo errore di Libera n.d.r.) non l'avevo mai
            pronunciata. Non fa parte del mio linguaggio ". 
            - La frase di Gian Antonio Stella voleva solo essere una battuta. 
            " Comunque io non l'avevo nemmeno letta, perché quel giornale
            lo apro solo per leggere l'ultima pagina, quella della
            televisione e del cinema. Il resto non lo guardo nemmeno ". 
            - Speriamo che lo guardi suo marito. Ci sono tante belle
            ragazze... Tornando a bomba, se lei ricevesse con più frequenza
            la stampa certi equivoci non sorgerebbero. Ad esempio Edgarda
            Ferri... 
            " Non mi ricordi quell'articolo su "La Stampa". Per
            fortuna mia madre non l'ha Ietto. Se l'immagina cosa avrebbe
            potuto pensare leggendo la storiella dei quadri che vanno e
            vengono in occasione delle campagne acquisti dell'Inter? ". 
            - Non avete più fatto pace? 
            " Mi ha scritto una lunga lettera, - interviene il marito - e
            mi ha spiegato che era scocciata perché non l'avevamo ricevuta. Ero
            stato io comunque a scriverle, perché dal fratello di latte di
            mio padre che è di Mantova (e io sono legato alla città di
            Virgilio, i primi monumenti che ho visto li ho visti a Mantova)
            mi aveva mandato un libro su Mantova dove ci diceva che quella
            mantovana era una razza gagliarda e onesta ". 
						  
						
			
			  
						
						
            			 
            - Ebbene? 
            " La prefazione era firmata proprio da Edgarda Ferri che,
            l'ho saputo dopo, è di Goito. Allora ho scritto alla Ferri dicendo
            che prima di conoscere lei anch'io la pensavo così sui mantovani,
            ma dopo avevo dovuto cambiare idea. Secondo me non si possono
            scrivere cose del genere con tanta leggerezza. Invece non si
            controllano le notizie proprio perché tutto serve a creare
            polemiche e quindi a far vendere giornali ". 
            - Parliamo di calcio, signora. Chi vincerà lo scudetto? 
            " Il Napoli a San Siro non mi è sembrato molto forte. Manni
            che se ne intende dice che alla fine del primo tempo potevamo
            vincere per tre a zero ". 
            - Qual è l'allenatore che compiange di più? 
            " Mazzone. Poteva rimanersene tranquillo ad Ascoli Piceno. Chi
            gliel'ha fatto fare di andare a Firenze dove era fallita tanta
            gente più famosa di lui ". 
            - Qual è secondo lei la squadra-rivelazione del campionato? 
            " II Cesena. Ma i risultati devono stupire sino a un certo
            punto. II Cesena ha il grande Frustalupi
						 ". 
            - Prima l'aveva l'Inter... 
            " E con noi Frustalupi ha sbagliato una sola partita, quella
            di Rotterdam ". 
            - Allora perché l'avete dato via? 
            " Perché a volte una cessione è indispensabile per avere un
            certo giocatore ". 
            - Lo so, la Lazio non vi avrebbe dato Massa. Ma Peppiniello Massa
            a Milano ha fatto ridere i polli. Gianni Brera era stato costretto
            a consigliargli di tornare a Napoli a fare il pizzaiolo... 
            " E io le dico invece che a Milano Massa è stato distrutto
            dalla stampa. Ricordo che non aveva più il coraggio di aprire i
            giornali. Se li faceva leggere dalla moglie. Ragazzo sensibile era
            come traumatizzato ". 
            - Dunque questa stampa è proprio così cattiva? 
            " Glielo dirò quando avrò letto quello che scriverà di me.
            Anzi la prego di non scrivere niente! " 
            			 
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
							
							  
							  
							
							
								
									| 
			 
			
			MARIO BERTINI 
			
			Quando pensiamo all'Italia del 
			Mondiale del 1970 la nostra mente va inevitabilmente all'epica sfida 
			Italia-Germania 4-3 ed alla successiva finale dove il formidabile 
			Brasile di Pelé ha annichilito la stanca formazione allenata da 
			Valcareggi. Nel mezzo ci possiamo ricordare 
			della fa mosa staffetta tra Rivera e Mazzola, della coppia gol Boninsegna-Riva e solo in misura inferiore degli altri componenti di 
			tale indimenticabile formazione. 
			
			Tra di essi merita una citazione 
			il mediano degli azzurri Mario Bertini, in assoluto uno dei 
			centrocampisti più completi dell'epoca ed elemento insostituibile 
			nello schieramento tattico del commissario tecnico. 
			
			La sua crescita calcistica 
			avviene nella natia Toscana, dove si fa le ossa dapprima a Prato in 
			serie C, dove vince il campionato  e successivamente ad Empoli, dove 
			gioca una sola stagione (1963/1964) mettendo in piena mostra tutte 
			le sue doti di centrocampista, realizzando inoltre 7 reti nelle 31 
			partite disputate. 
			
			Del suo talento si accorge la 
			Fiorentina che decide di acquistarlo per la stagione successiva, 
			volendo in tal senso inserire una forza fresca nel proprio settore 
			mediano. 
			
			Bertini si mette in mostra come 
			un elemento di grande sostanza, in grado di garantire un ottimo 
			contributo in termini di fisicità e corsa. 
			
			In un'epoca nella quale i mediani 
			devono garantire soprattutto copertura, il centrocampista nativo di 
			Prato eccelle in pieno in tale mansione. 
			
			Altresì è dotato di buone qualità 
			tecniche, associate ad un piede destro molto preciso e potente che 
			lo rende insidioso nelle conclusione dalla media-lunga distanza. 
			
			Tale dote, unita alla precisione 
			nei calci piazzati (soprattutto i rigori), permette a Bertini di 
			segnare con buona continuità, elevando di molto la sua importanza 
			all'interno della squadra. 
			
			Durante la sua militanza nella 
			Fiorentina affina maggiormente le sue qualità, maturando 
			quell'esperienza e quell'acume tattico che lo renderanno papabile 
			anche per la nazionale. 
			
			In maglia viola con quista una 
			Coppa Mitropa ed una Coppa Italia, entrambe nella stagione 
			1965/1966. Bertini lega il suo nome soprattutto al secondo trofeo: è 
			proprio un suo gol al 109' minuto a garantire il successo alla 
			formazio ne toscana nella finale contro il Catanzaro, dopo che i 
			tempi regolamentari si erano chiusi sul risultato di 1-1. 
			
			Nella stessa estate ha la 
			possibilità di esordire in maglia azzurra in un'amichevole contro il 
			Messico giocata proprio a Firenze. 
			
			Successivamente viene aggregato 
			alla disastrosa spedizione del Mondiale in Inghilterra, nel ruolo di 
			"apprendista" al pari di Gigi Riva. 
			
			Dopo l'esonero del commissario 
			tecnico Edmondo Fabbri, viene nominato Ferruccio Valcareggi che 
			decide di convocare Bertini nel 1967, durante le qualificazioni per 
			il successivo Europeo. 
			
			Il centrocampista toscano risulta 
			decisivo nella sfida contro la Romania, segnando la rete che 
			garantisce agli azzurri un'importante vittoria in trasferta a 
			Bucarest. 
			
			Valcareggi lo convoca ancora per 
			la gara persa 3-2 contro la Bulgaria a Sofia, ma decide di non 
			includerlo nei 22 che 2 mesi dopo vinceranno in casa l'ambito trofeo 
			continentale. 
			
			Il commissario tecnico stima 
			molto Bertini, ancora di più quando nella stessa estate il 
			centrocampista passa all'Inter, dopo 4 stagioni molto positive nella 
			Fiorentina. 
			
			Il neo interista viene subito 
			convocato per le amichevoli e le partite di qualificazione che la 
			nazionale disputa in vista dei Mondiali che si terranno in Messico. 
			
			Proprio in un'amichevole contro 
			la squadra messicana va a segno per la seconda ed ultima volta in 
			nazionale, realizzando la rete che vale il pareggio per 1-1..jpg)  
			
			Nel frattempo diventa un perno 
			del centrocampo nerazzurro, segnando addirittura 11 reti nella sua 
			prima stagione agli ordini prima di Alfredo Foni e successivamente 
			di Maino Neri. 
			
			Tali segnature sono favorite 
			anche dal suo ruolo di rigorista, a conferma della sue qualità 
			tecniche e della sua personalità. 
			
			La stagione successiva la squadra 
			ora allenata dal paraguaiano Heriberto Herrera arriva seconda alla 
			spalle del sorprendente Cagliari di Manlio Scopigno, che porta in 
			Sardegna il primo e finora unico scudetto rossoblù. 
			
			Bertini gioca un'ottima stagione, 
			che gli vale la convocazione per il Mondiale, nonché il ruolo di 
			mediano titolare durante tutta la rassegna. 
			
			Le sue prestazioni sono 
			encomiabili soprattutto nella famosa semifinale contro la Germania, 
			quando per buona parte della partita si trova a sorpresa a marcare 
			un Uwe Seeler schierato in una posizione arretrata. 
			
			Bertini svolge in pieno il suo 
			compito, finendo sfinito al termine di un incontro giocato in 
			con dizioni ambientali davvero al limite dell'umana sopportazione 
			data l'altitudine. 
			
			Nella sfida finale contro il 
			Brasile, l'Italia, in evidente difficoltà fisica, adotta rigide 
			marcature ad uomo affidando le cure del temutissimo Pelé 
			inizialmente proprio a Bertini. 
			
			Successivamente il quadro tattico 
			cambia e O'Rey viene marcato da Burgnich, proprio quando lo 
			strapotere fisico e tecnico dei sudamericani viene fuori, sancendo 
			il 4-1 finale. 
			
			Il centrocampista dell'Inter 
			abbandona la contesa al 74', dopo la solita gara grintosa in mezzo 
			al fantasioso centrocampo della Seleçao. 
			
			Per Bertini la consolazione 
			arriva con la maglia dell'Inter nella stagione 1970/1971, quando la 
			compagi ne milanese, allenata da Giovanni Invernizzi, compie una 
			clamorosa rimonta ai danni dei "cugini" del Milan, vincendo 
			l'undicesimo scudetto della sua storia. 
			
			Decisivo in tal senso è il cambio 
			di allenatore, con il già citato Invernizzi che subentra al mai 
			apprezzato Heriberto Herrera, donando nuove motivazioni alla 
			squadra. 
			
			Anche nelle successive stagioni 
			il centrocampista toscano garantisce buone prestazioni, prendendo 
			parte alle qualificazioni per l'Europeo, chiusesi con l'eliminazione 
			per mano del Belgio. 
			 
			
			La sconfitta per 2-1 a Bruxelles 
			è proprio l'ultima partita giocata da Bertini in nazionale, lasciata 
			dopo 25 presenze. 
			
			A livello di club arriva con 
			l'Inter in finale di Coppa dei Campioni nella stagione 1971/1972, 
			dovendosi arrendere alla superiorità dell'Ajax ed alla doppietta del 
			"profeta del gol" Johan Cruijff. 
			
			Con la maglia dell'Inter gioca 
			fino al 1977, garantendo in ogni occasione il solito apporto in 
			termini di grinta ed intelligenza tattica, ma cedendo 
			progressivamente il posto a Gianpiero Marini ed a Gabriele Oriali. 
			
			Non manca però di dare il suo 
			contributo in termini di reti, come dimostra questa suo famoso gol 
			realizzato contro la Juventus con un gran destro dalla distanza. 
			
			Lascia Milano dopo 210 presenze 
			in campionato e ben 31 reti, a riprova del fatto che le sue doti non 
			sono limitate al semplice gioco di incontrista. 
			
			La sua ultima stagione da 
			calciatore la gioca a Rimini in Serie B, dove mette a disposizione 
			tutta la sua esperienza per garantire la salvezza alla formazione 
			romagnola. 
			
			Grinta, abnegazione e qualità 
			hanno fatto di Mario Bertini uno degli elementi più affidabili del 
			suo periodo, rompendo in parte il luogo comune che vuole i mediani 
			tignosi e poco dotati dal punto di vista tecnico. 
			
			Nel suo ruolo il giocatore 
			toscano ha dato prova di ottime qualità, che lo hanno reso 
			insostituibile nella Fiorentina, nell'Inter ed anche nella 
			nazionale. 
			
			Tra gli indimenticabili 
			protagonisti del Mondiale del 1970 anche Bertini merita una 
			citazione, a fianco dei soliti tormentoni... 
			
			Giovanni Fasani 
			
			
			
			http://allafacciadelcalcio.blogspot.it/2016/06/mario-bertini.html 
									
			  
			
			  
            						  
			
			
			L’ex calciatore Mario Bertini: «Provai in ogni modo a 
			salvare mio figlio dalla droga. Doping? Giravano pasticche rosse, 
			non presi mai nulla» 
			
			
			
			di Paolo Tomaselli 
			
			
			
			  
			
			
			Mario Bertini è 
			stato uno dei mediani più forti della storia azzurra. Dopo nove anni 
			all’Inter e l’ultima stagione al Rimini si è allontanato dal calcio. 
			Per sempre. 
			
			
			«Non ho tenuto 
			niente della carriera. Ho rigettato un po’ tutto, non so il perché». 
			
			
			Non le piaceva 
			l’ambiente? 
			
			
			«Non mi appartiene 
			adesso e molto probabilmente neanche prima. Ero anomalo: non andavo 
			alle cene coi club, facevo pochissime interviste. Se uno non dà, non 
			prende».  
			
			
			Mai un rimpianto? 
			
			
			«No, avevo deciso 
			di cambiare vita già prima di smettere. Nessun rimpianto, nessun 
			rimorso. Certo oggi con meno fatica si guadagna di più». 
			
			
			Neanche una 
			rimpatriata? 
			
			
			«Ho fatto qualcosa 
			a Firenze e poi per i 50 anni di attività di Pellegrini, ma alla 
			fine sono rimasto deluso. Pellegrini non l’ho quasi visto». 
			
			
			Che lavoro ha 
			svolto? 
			
			
			«Mi sono occupato 
			di abbigliamento di alto livello. Le cose sono andate bene, ma ho 
			dovuto fare tirocinio perché chi compra una camicia da 400 euro o 
			una giacca da 5 mila ti fa domande. E non può saperne più del 
			titolare». 
			
			
			Lei era così 
			anomalo che giocava a Milano, vivendo a Bergamo. Come mai? 
			
			
			«Mi è piaciuta la 
			Città alta, poi ho trovato moglie a Bergamo. Ora sono sposato in 
			seconde nozze, sempre con una donna bergamasca». 
			
			
			È nato in piena 
			guerra. 
			
			
			«E mi chiamavano 
			“rifugino”: sono nato in un rifugio». 
			
			
			Che infanzia ha 
			avuto? 
			
			
			«Felice. Non ho 
			sentito la povertà, anche se c’era. Però non ci è mai mancato 
			niente». 
			
			
			Al calcio arrivò 
			tardi? 
			
			
			«Sì. Giocavo con 
			gli amici in piazza, a 13 anni un osservatore mi ha visto e 
			convocato per un provino. Ma non sono andato, non avevo le scarpe. 
			Mi ha richiamato, dicendo di non preoccuparmi». 
			
			
			I primi stipendi? 
			
			
			«A Prato mi 
			pagarono con un premio: due settimane in Versilia tutto spesato. A 
			Empoli non arrivavo a fine mese. Ma i debiti sono sempre stato 
			abituato a non farne». 
			
			
			Passa dalla 
			Fiorentina all’Inter. E lo sa dai giornali. 
			
			
			«Sì, eravamo come 
			pecore al macello, andavi dove dicevano. Ma io ho potuto scegliere 
			tra Inter, Milan e Juve. In Nazionale mi hanno un po’ convinto ad 
			andare all’Inter». 
			
			
			Mediano con il 
			senso del gol. Si è rivisto in qualcuno? 
			
			
			«Il mio vero ruolo 
			era mezzala, mi identificavo molto in Bulgarelli. Mi rivedevo un po’ 
			in Ancelotti. Oggi diciamo un po’ Barella, un po’ Marchisio: primo 
			difensore, ma capace di rifinire l’azione in area».  
			
			
			In tribuna al 
			Mondiale ’66, con un piede ingessato a Euro ’68, in campo da 
			protagonista a Messico ’70. 
			
			
			«Sia nel ’66 che 
			nel ’70 al rientro ci hanno lanciato i pomodori. Un’altra delusione. 
			A Milano gli animi erano surriscaldati per la staffetta 
			Rivera-Mazzola. E abbiamo preso i pomodori dai riveriani». 
			
			
			La staffetta ha 
			tolto qualcosa alla squadra? 
			
			
			«Abbastanza. 
			Non era tutto bello quello che abbiamo vissuto in Messico. Ci sono 
			stati dei grossi problemi, le discussioni hanno dato fastidio». 
			
			
			I giornali la 
			definivano pupillo di Valcareggi. 
			
			
			«Era così vero che 
			quando mi ha lasciato a casa non me l’ha detto. E, a differenza di 
			altri, non mi ha richiamato. Dal 1972 in Nazionale non ho più 
			giocato, anche se il ’72-’73 fu il mio campionato più bello». 
			
			
			In Messico con chi 
			era in stanza? 
			
			
			«Con Lodetti. Ho 
			vissuto tutta la sua vicenda: Anastasi si fece male, chiamarono 
			Boninsegna e Prati, mandando a casa Giovanni. Brutta storia». 
			
			
			Cosa accadde? 
			
			
			«Ho la mia idea: 
			dato che il Milan doveva cedere Lodetti alla Samp preferì non fargli 
			giocare il Mondiale: chi vinceva non era non vendibile». 
			
			
			Mazzola sostiene 
			che lo 0-0 con l’Uruguay per il passaggio del turno fu concordato. E 
			che solo lei corse e picchiò «come un matto. 
			
			
			«Per me quelle cose 
			non esistono. Figurati se mi metto a pensare a un pareggio. Io 
			giocavo a calcio per vincere: se perdevo stringevo le mani a tutti, 
			con la morte nel cuore». 
			
			
			Come fece Seeler 
			con lei dopo Italia-Germania 4-3? 
			
			
			«Sì, fu un duello 
			da sangue da naso, ma è venuto a scambiare la maglia. Siamo stati 
			esaltati, ma penso sia stata la mia peggior partita. Seeler di testa 
			le prendeva tutte».  
			
			
			È vero che 
			Valcareggi mise il terzo portiere Vieri a fare una sorta di filtro 
			con le belle ragazze attorno al ritiro? 
			
			
			«Forse ero troppo 
			preso da me stesso per capirlo». 
			
			
			Milano come l’ha 
			vissuta? 
			
			
			«Bene. Ma dovevi 
			dire di no sempre, altrimenti era un casino. Non era difficile fare 
			il playboy, ma dovevi scegliere fra quello o il calcio» 
			
			
			Con Boninsegna si 
			sente? 
			
			
			«Sì, è una persona 
			che dice sempre ciò che pensa, come me. Ed è stato il più grande 
			centravanti che ha avuto l’Italia. Cattivo, segnava in tutti i modi: 
			destro, sinistro, testa». 
			
			
			Finale all’Azteca: 
			Pelé con il 10, Bertini con il 10. 
			
			
			«Perché nessuno lo 
			voleva: Rivera perché forse non giocava, Mazzola perché diceva che 
			non l’aveva mai avuto. A me non pesava. Anzi, mi portò bene in quel 
			Mondiale». 
			
			
			Lei marca Pelé, 
			Valcareggi però sposta Burgnich su O Rey. E arriva il famoso gol. 
			
			
			«Mai capito perché 
			quella mossa. Stavo facendo benissimo: poi il c.t. mi mise su 
			Rivelino a fare il terzino perché faceva scoprire Burgnich». 
			
			
			Che pensa del 
			dibattito tra ex sull’abuso di medicinali? 
			
			
			«Vuol dire che 
			hanno preso qualcosa, io non ho mai preso nulla. C’erano delle 
			pasticchine rosse, quelle che prendevano anche gli studenti per 
			stare svegli. A me semmai serviva qualcosa per calmarmi». 
			
			
			Chi le ha lasciato 
			l’impressione di grandezza? 
			
			
			«Burgnich e Suarez. 
			Io sono arrivato dopo i fasti della grande Inter. Da loro ho 
			imparato come uomo e calciatore: Suarez quando beveva un bicchiere 
			in più, il giorno dopo era il primo a tirare la fila». 
			
			
			Nel 1990 uno dei 
			suoi due figli, Gualtiero, muore per overdose. Come l’ha vissuta? 
			
			
			«Difficile 
			spiegarlo. Dico solo che devono morire prima i genitori. Lui ha 
			fatto delle cose che non doveva fare e alla fine ha deciso di 
			togliere il disturbo. Abbiamo provato in tutti i modi a salvarlo: 
			era in comunità da due anni, era andato anche all’estero, era sulla 
			strada giusta. È morto il giorno prima di Natale». 
			
			
			Oggi è un nonno 
			felice? 
			
			
			«Sono bisnonno da 
			un mese e mezzo. Una delle mie nipoti è brava a sciare». 
			
			
			L’ex calciatore 
			oggi è una professione. Che ne pensa? 
			
			
			«Uno come me 
			guadagnerebbe 3-4 milioni. Ma noi sapevamo già che avremmo dovuto 
			lavorare: l’importante era non farsi mangiare i soldi» 
			
			
			  
			
			
			
			https://www.corriere.it/ 
			
			  
			  
			
			Si è 
			fatto le prime scarpe da calcio da sè chiedendo al calzolaio di 
			piantare dei chiodi sotto la suola dei mocassini. E' andato così al 
			provino del Prato . La sera i piedi scarnificati gli sanguinavano 
			come un Cristo. E lui non è un grezzo. al contrario è un calciatore 
			piuttosto tecnico. Prima che all'Inter arrivi Boninsegna, i rigori 
			li tira lui : dunque , sa calciare bene. Se ne accorge la Juventus, 
			che per colpa di una sua punizione a San Siro perderà lo Scudetto 
			del '76. 
			
			
			A lui il 
			commissario tecnico Valcareggi consegna Uwe Seeler per quel 
			pomeriggio all'Azteca di Italia-Germania. E i due si danno battaglia 
			nei cieli come gli Spitfire e gli Stuka. 
			
			
			Quelli 
			come lui spostano i blocchi di pietra e timbrano il cartellino, 
			entrano in fabbrica alle sei di mattina e ne escono alle due del 
			pomeriggio . Stanno inchiodati ai remi nel corpo centrale 
			dell'imbarcazione e vogano, consapevoli che la vita è fatica. 
			
			
			Lui è 
			quello che si porta il pranzo da casa nello scaldavivande d'acciaio 
			che immerge a bagnomaria nell'acqua calda : nello scomparto 
			superiore c'è la pasta al sugo mentre in quello più grande, sotto, 
			lo spezzatino con le patate. Nella borsa ha anche una bottiglia di 
			vino da mezzo litro con la chiusura a macchinetta. 
			
			
			Volete 
			sapere del provino al Prato ? L'hanno preso, ovvio. Offerta : due 
			settimane al mare in Versilia tutto compreso. Poi all'Empoli l'anno 
			dopo prenderà 100 mila lire al mese. 
			
			
			   | 
								 
							 
							 
			
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						  
						
						  
						
						Fraizzoli cominciò 
						allora un’intelligente e mirata opera di rifondazione, 
						affidandosi al duo Mazzola (ritiratosi al termine della 
						stagione 1976/77) – Beltrami (giovanissimo manager 
						proveniente dal Como) e programmando in tre anni uno 
						scudetto che puntualmente arrivò nel ’79-’80: era 
						l’Inter di Beccalossi e di Altobelli, nella quale 
						Marini, Bordon e Oriali erano ormai dei veterani. Tutti 
						comandati dal sergente di ferro Eugenio Bersellini in 
						panchina. 
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
            
						
						  
						
						  
						
						Dalla stagione 1979/80 il logo 
						comincia a comparire anche sulle maglie e il primo ad 
						avere tale onore è ancora uno stemma che rompe con la 
						tradizione: uno scudetto con due strisce nerazzurre 
						trasversali, con un biscione bianco,dal collarino 
						nerazzurro al centro, non più nella classica posizione 
						attorcigliata verticale con l’omino in bocca, ma dai 
						lineamenti più simpatici e raffigurato in transito, e, 
						in alto a sinistra, la stella. Dal 1990 al 1998, invece, 
						si ritorna allo stemma usato fino al 1979, più piccolo e 
						sormontato da una grossa stella. 
						
						
						
						http://www.sportmain.it/2014/07/09/la-storia-del-logo-dellinter-dai-colpi-di-pennello-alle-stelle-rubate/ 
						  
						
						  
						  
						
						
						La sessione di calciomercato 
						estiva vede i campioni in carica del Milan che prendono 
						il giovane centrocampista Romano dalla Reggiana, la 
						Juventus prende 3 giovani dell’Atalanta (Marocchino, 
						Prandelli e Tavola), l‘Inter prende Mozzini in difesa e 
						Caso a centrocampo, il Napoli si rinforza con l’ala 
						Damiani, il difensore Bellugi, il mediano Guidetti e 
						l’attaccante Speggiorin. Il colpo più clamoroso però lo 
						fa il Perugia che ingaggia, in prestito dal retrocesso 
						Vicenza, Paolo Rossi.  
						
						 La partenza è a favore dell’Inter 
						che, dopo la 1° giornata, è l’unica squadra ad aver 
						vinto; dopo essere stata agganciata la squadra 
						nerazzurra, alla 4° giornata, torna solitaria in testa, 
						laureandosi poi campione d’inverno con 1 giornata 
						d’anticipo. 
						
						 Alla 17° giornata il Milan, unica 
						vera inseguitrice dei nerazzurri, perde ad Avellino e 
						l’Inter. vittoriosa sull’Udinese. scappa a +5. Alla 22° 
						i nerazzurri vincono il derby ed allungano a +8. 
						
						 Il 23 marzo, alla fine della 24° 
						giornata, avviene un fatto clamoroso: la polizia arresta 
						dei calciatori tra i quali molti di Serie A (tra questi 
						Giordano, Paolo Rossi e Albertosi) che vengono accusati 
						di scommesse clandestine e di truffa ai danni di Massimo 
						Cruciani, un commerciante romano di frutta all’ingrosso. 
						Cruciani era fornitore di frutta per un ristorante 
						romano (“Le Lampare“, di proprietà di un certo Alvaro 
						Trinca) e qui è entrato in contatto con alcuni 
						calciatori della Lazio, di cui 4 (Cacciatori, Giordano, 
						Manfredonia e Wilson), gli avrebbero assicurato la 
						possibilità di truccare i risultati delle partite, per 
						poter così scommettere e guadagnare forti somme di 
						denaro. 
						
						
						In molti casi però le combine non 
						hanno funzionato e Cruciani si è ritrovato sommerso di 
						debiti e così il commerciante romano si è deciso a 
						denunciare il tutto alla Procura della Repubblica. Parte 
						quindi un processo che, dopo il secondo grado alla CAF, 
						dà questi verdetti: Milan e Lazio retrocesse in Serie B 
						ed Avellino, Bologna e Perugia che nel campionato 
						successivo partiranno da -5. Oltre alle squadre vengono 
						condannati anche i calciatori coinvolti nello scandalo, 
						ma pochi mesi dopo verranno assolti perché “il fatto non 
						sussiste”.  
						
						 Tornando al calcio giocato, 
						l’Inter si laurea campione d’Italia con 2 giornate 
						d’anticipo, in uno dei campionati più brutti degli 
						ultimi anni. Il tecnico artefice di questo scudetto è 
						Eugenio Bersellini e l’undici tipo era questo: Bordon in 
						porta, in difesa Bini libero, Mozzini stopper, Canuti 
						terzino destro e Beppe Baresi terzino sinistro; a 
						centrocampo Pasinato e Marini come mediani, Caso ala 
						tornante destra e Beccalossi interno; in attacco abbiamo 
						Altobelli centravanti e Muraro ala sinistra. Tra i 
						titolari però troviamo spesso Oriali che gioca sia come 
						terzino ad entrambi i lati che come mediano. 
						
						 Ecco il cammino dei nerazzurri 
						verso lo scudetto: INT-PES 2-0 (12’DOMENICHINI AUT., 69’ORIALI) 
						UDI-INT 1-1 (28’ALTOBELLI, 89’VAGHEGGI) INT-LAZ 2-1 
						(17’BECCALOSSI, 42’GIORDANO, 71’MARINI) BOL-INT 1-2 (7’MASTROPASQUA, 
						36’BINI, 40’BECCALOSSI) INT-NAP 1-0 (61’ALTOBELLI) 
						CAT-INT 0-0 INT-MIL 2-0 (14′ E 84’BECCALOSSI) TOR-INT 
						0-0 INT-JUV 4-0 (48′, 50′ RIG., E 79’ALTOBELLI, 74’MURARO) 
						AVE-INT 0-0 CAG-INT 1-1 (63’SELVAGGI, 76’ALTOBELLI) 
						INT-PER 3-2 (4’BECCALOSSI, 19′ E 89’ROSSI, 75’ALTOBELLI 
						RIG., 87’PASINATO) ROM-INT 1-0 (61’DI BARTOLOMEI RIG.) 
						INT-FIO 0-0 ASC-INT 1-1 (3’ALTOBELLI, 59’MORO) PES-INT 
						0-2 (34’BECCALOSSI, 62’PASINATO) INT-UDI 2-1 (42′ E 
						51’ALTOBELLI, 45’ULIVIERI) LAZ-INT 0-0 INT-BOL 0-0 
						NAP-INT 3-4 (19′ E 32’MURARO, 22’PASINATO AUT., 35’IMPROTA, 
						57’ALTOBELLI, 71’BARESI, 81’GUIDETTI) INT-CAT 3-1 
						(15’BECCALOSSI, 36’ORIALI, 60’ALTOBELLI, 78’BRESCIANI) 
						MIL-INT 0-1 (77’ORIALI) INT-TOR 1-1 (20’GRAZIANI, 82’MURARO) 
						JUV-INT 2-0 (32’BETTEGA, 79’FANNA) INT-AVE 3-0 (16’CASO, 
						68’ROMANO AUT., 82’AMBU)INT-CAG 3-3 (3’BARESI AUT., 
						6’SELVAGGI, 33’MURARO, 49’ORIALI, 50’MOZZINI AUT., 
						57’ALTOBELLI) PER-INT 0-0 INT-ROM 2-2 (18’PRUZZO, 36’ORIALI, 
						43’TURONE, 88’MOZZINI)FIO-INT 0-2 (6’ORIALI, 39’RESTELLI 
						AUT.) INT-ASC 2-4 (25’TORRISI, 44’MARINI AUT., 
						55’BELLOTTO, 58′ E 73′ RIG. ALTOBELLI, 66’ANASTASI) 
						
						
						
						http://www.calciogazzetta.it/altro/la-storia-di-un-campione-trattata-da-calcio-gazzetta/storie-di-calcio-campionato-197980-il-trionfo-dellinter-e-lo-scandalo-scommesse/ 
						  
						  
						
						
						
						  
						
						I 60 ANNI DI SPILLO 
						  
						  
            
			EUGENIO
            E REGOLATEZZA  (maggio 1980) 
            MILANO.
            Lo chiamano "allenatore di campagna" e della gente
            semplice, quella che misura ancora il tempo con il sole. Di questa
            gente Eugenio Bersellini ha mantenuto la modestia, la capacità
            ormai rara di commuoversi, la grande dignità, la possibilità di
            tenere dentro di se anche le emozioni più violente che, al massimo,
            confessa con un lievissimo tremore della voce. Uomo attaccato alla
            realtà delle cose di tutti i giorni, Ber sellini non si è scomposto
            nemmeno quando - a due minuti scarsi dalla fine della partita -
            Mozzini ha colpito il pallone che ha trafitto Tancredi dando all'Inter
            la gioia del dodicesimo scudetto, una gioia che inseguiva da nove
            anni. E dire che la stessa azione ha provocato una incontrollabile
            crisi di pianto in Onesti, l'alter ego di Bersellini. Lui -
            l'Eugenio - invece niente: stesso tono di voce pacato, stessa
            freddezza nell'esaminare i pro e i contro della partita, stessa
            determinazione nel dire, "da domani si ricomincia"... Come
            se vincere uno scudetto fosse cosa che capita tutti i giorni. E
            queste parole pronunciate proprio mentre, pochi metri più in là,
            Fraizzoli sottolineava di non riconoscersi in "questo"
            calcio e, conseguentemente, di essere incapace di gioire come
            avrebbe voluto. Fa una certa impressione vedere tanta emotività nel
            presidente e tanta freddezza nel mister, ma forse è anche grazie a
            questo cocktail di caratteri che l'Inter ha vinto il titolo. 
            
			RIMPIANTI.
            "Lo scudetto è arrivato - ci ha detto Bersellini - ma non è
            che sia soddisfatto in pieno di quello che ha fatto la mia squadra.
            Non mi riferisco tanto all'ultima partita, che i ragazzi hanno
            giocato in uno stato di enorme tensione, quanto a quello che è
            stato fatto durante tutto il campionato. So di essere un
            perfezionista, un incontentabile, ma troppe cose, provate e
            riprovate in allenamento non sono state realizzate in partita. Mi
            riferisco in particolare agli schemi, agli incroci, alla confusione
            che vedo ancora sulle... palle morte. Su quelle, cioè, che vengono
            giocate da fermo, su punizione o su corner. Ma c'è di più. Questo
            anno abbiamo vinto lo scudetto, d'accordo, però giocavamo meglio
            dodici mesi fa quando l'inesperienza finiva sempre col
            fregarci...". A questo punto, l'immagine del Bologna che
            giocava come si gioca il paradiso (e che non vinceva il titolo) è
            entrata negli spogliatoi di San Siro... 
            CANDORE.
            Capita la stessa cosa per molto meno, figuriamoci quando una squadra
            vince il campionato. Tutti lì, attorno al mister. Per
            complimentarsi con lui, per dirgli che è bravo, per ricordargli che
            c'era un altro come lui... ma in Cina e l'hanno ammazzato. Ma
            Bersellini è uno che da quest'orecchio mostra di non sentirci e lo
            dice chiaro e netto: "In questa impresa io ho una parte di
            merito, d'accordo, ma il merito maggiore e della società che mi ha
            aiutato a fare la squadra che desideravo. Quando arrivai all'Inter,
            tre anni fa, vidi tre ragazzini che mi parvero subito ben dotati:
            alludo a Pancheri, Baresi e Ambu che, infatti, adesso  sono titolari.
            Era chiaro, però, che non bastavano e l'anno successivo pescai
            Altobelli, Beccalossi e Pasinato che sono stati tra i punti di forza
            della mia terza e migliore stagione nerazzurra. Quindi, se abbiamo
            vinto il dodicesimo scudetto della storia dell'Inter, il maggior
            merito, lo ripeto, va alla società: io mi tengo solo quello
            dell'impegno e della serietà nel lavoro cui si potrebbe aggiungere
            un po' di psicologia e tanto dialogo con i giocatori. Io non sono
            certo di quelli che dicono ai propri ragazzi che sono i migliori di
            tutti. Al contrario: al massimo dico loro che, sì, possono ottenere
            determinati risultati..., ma solo a certe condizioni. E siccome all'Inter
            ho sempre avuto la fortuna di avere a che fare con della gran brava
            gente, i risultati mi hanno dato perfettamente ragione". 
            MISSIONE
            COMPIUTA. Tre anni or sono l'Inter si affidò alla troika
            Bersellini-Mazzola-Beltrami: il loro programma era di rinvigorire e
            ristrutturare la squadra nelle prime due stagioni per poi renderla
            competitiva nella terza. Oggi, quindi, possiamo parlare di missione
            compiuta. "Forse con un minimo di anticipo rispetto ai
            programmi - precisa Bersellini - ma non sarò certamente io a
            lamentarmi. Adesso, comunque, è proibito dormire sugli allori: il
            difficile, ami, comincia proprio adesso, visto che sin d'ora
            sappiamo che il prossimo anno avremo il doppio impegno Campionato
            Coppa dei Campioni". A questo punto, il discorso sullo
            straniero diventa i mmediato. Stando alle voci di corridoio, all'Inter
            sono indecisi tra un centrocampista e una punta: nel primo caso
            Beltrami tenterebbe un ultimo aggancio nei confronti di Hansi Muller
            mentre nel secondo di nomi non se ne tanno. La decisione definitiva,
            ad ogni modo, spetta a Bersellini. 
            PRESENTIMENTO.
            San Siro stava sempre più somigliando ad un deposito di locomotive
            sotto pressione quando Mozzini - mai a segno da quando gioca nell'Inter
            e autore di cinque gol nel Torino - azzeccava un collo destro pieno
            che definire "colpo della domenica" è il minimo.
            "Che succedesse proprio questo - confessa Bersellini - non
            l'avrei mai immaginato, che però sì arrivasse al colpo di scena ci
            avrei giurato. All'inizio del secondo tempo l'ho detto: pareggiamo
            di sicuro e con uno dì quei gol che la gente non si aspetta. Non
            direi proprio di aver sbagliato pronostico". 
            DEDICA.
            Nella carriera di un allenatore - soprattutto se di campagna - uno
            scudetto non è certo cosa che capiti spesso per cui merita ben più
            di un premio in denaro e di una bottiglia di champagne. Uno scudetto
            significa il raggiungimento di un traguardo sperato sopra ogni altra
            cosa. La relazione di un sogno per tanto tempo covato in fondo al
            cuore ma cosa si prova in un momento così? "Una gioia enorme.
            Ma anche un grosso pugno nello stomaco e subito sei preso dalla
            commozione: come in un film vedi tutto quello che hai fatto, rileggi
            tutta la tua vita; ripercorri la tua carriera sin dal primo giorno.
            E poi pensi a qualcuno come per fargli vivere accanto a te questo
            meraviglioso istante. Anche a me è capitato tutto questo. Anche a
            me è venuta in mente una persona". Chi? "Una persona che
            appartiene a Eugenio Bersellini uomo e non a Eugenio Bersellini
            allenatore dì calcio. E' per questo che non ne faccio il nome, che
            questa emozione la tengo esclusivamente per me 
             
						
						
						  
			
			  
			
            
			  
						
			
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
			
			
			
			  
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
			
			  
						
			
			  
						
			Coppa dei Campioni 1981 - Inter - Real Madrid (1-0)  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			
			
			  
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
						
			  
						
			  
						
			  
						
			  
						
			
			
			
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
						Dopo il Mondiale di 
						Spagna, Fraizzoli si trovò a fare i conti con le nuove 
						leggi sul trasferimento dei giocatori, perse due 
						giocatori importanti (Oriali e Bordon) e ne fu molto 
						amareggiato: forse in quel momento cominciò a pensare di 
						lasciare la presidenza ma, come era nel suo carattere, 
						volle preparare con cura la successione. 
						
						Per iniziare chiamò 
						nel Consiglio Ernesto Pellegrini e lo fece 
						vicepresidente. Era un periodo molto combattuto, si 
						trattava di decidere una volta per tutte di staccare il 
						cordone ombelicale e come ricorda lo stesso Ivanoe, 
						tutto cominciò con l’ insonnia: “Continuavo a rigirarmi 
						nel letto, la Renata una notte mi disse: Ivan, basta, 
						vendi l’Inter, così torneremo a vivere“. 
						
						da
						
						http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ivanoe_fraizzoli.html 
						  
						
			
			  
						
			
			
			  
						
			
			  
						
			
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
			
			
			  
						
			  
						
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						
			  
			
            
			  
						
						
			  
			
			
			
			  
			
			
			  
						
			
			  
						
			  
						
							
								
									| 
									
									GUARDA L'INTER IN QUESTO TORNEO | 
									
									
									  | 
								 
							 
						 
			
            
			  
						
			
			  
						
			  
						
			  
						
			
			  
						
			  
			
			  
						
							
								
									| 
									 
									
			  
									
									
									inizio pagina  | 
								 
							 
						 
						
						
			
									  
						
			  
						  
						  
						
						
						 Era l’autunno ’83: 
						Ivanoe Vittorio Fraizzoli, ex pugile (peso medio, si 
						allenava alla palestra “Bosisio”) e ciclista mancato, 
						diede ragione a sua moglie, tifosa dell’Inter come 
						e più di lui, e decise che era venuto davvero il tempo 
						dell’addio. 
						Chiamò Ernesto Pellegrini, allora vice – presidente, che 
						per lettera gli aveva manifestato la propria 
						disponibilità a succedergli e l’operazione venne chiusa. 
						A tempo di record e in gran segreto. Finchè il 15 
						gennaio ’84, la domenica di Sampdoria Inter 0-2, nello 
						spogliatoio deserto di “Marassi”, chiamò Mazzola e 
						Beltrami, consigliere delegato e d.s. nerazzurri e 
						confessò : “Ragazzi, ho venduto l’Inter“. 
						
						La notizia uscì tre 
						giorni dopo e, il 19 gennaio, Fraizzoli spiegò il suo 
						addio: “Con il cuore non si possono più dirigere le 
						società; questo calcio non lo riconosco più. Io sono un 
						uomo d’altri tempi. Il mio calcio era quello di via 
						Goldoni, una serie di traumi mi hanno spinto a lasciare, 
						l’ultimo questa estate, quando Bordon e Oriali, due 
						figli per me, se ne sono andati alla Samp e alla 
						Fiorentina. Io mi sento un De Amicis, ma i De Amicis che 
						vogliono scrivere il libro “Cuore” con le squadre di 
						calcio sono fuori moda“. Scoppiò in lacrime e lasciò. 
						
						da
						
						http://storiedicalcio.altervista.org/blog/ivanoe_fraizzoli.html 
						  
						
			  
						
			  
						
						 
  
						
						 |