La verdura

L'autunno avanza e il freddo che (si suppone) presto arriverà su tutta la penisola invita a piatti più robusti. Le insalate lasciano il posto a verdure cotte, stufate o al forno, in timballi, zuppe, e altre ricette che scaldano corpo e anima. I prodotti di questo mese? Si va sempre più nella stagione delle crucifere: cavoli e broccoli, broccoletti, cavolfiori, verze, cavoli cappuccio, cavoletti di Bruxelles.

Ma non solo: rape, barbabietole e sedano rapa, patate novelle, topinambur e funghi, e ancora zucca e poi i primi finocchi e carciofi. Le bietole, anche rosse, gli spinaci e le cicorie per gli amanti delle verdure a foglia, l'indivia belga e i radicchi, i primi dell'anno. Mescolate insieme i prodotti di stagione: arance e finocchi, appena se ne trovano di buoni, cachi e castagne, ma anche castagne e funghi, o castagne e ceci, o patate, rape e cicorie, per una minestra rustica e corposa.

La frutta

Bisogna attende la metà del mese perché siano buone, ma già occhieggiano sui banchi arance e clementine, e poi cachi o loti che dir si voglia, castagne, kiwi, mele, pere e ancora si trova qualche grappolo d'uva, da usare anche in ricette salate, per esempio in piatti di carne. Le pere cotte (attenzione a lasciarle ancora compatte) si abbinano alla perfezione ai formaggi, anche erborinati, ma sono ottime anche con una ricotta setacciata e un crumble realizzato con farina di mandorle; cotte nel vino rosso con cannella e chiodi di garofano – invece - sono un dessert supertradizionale ma irresistibile, soprattutto se accompagnate da una crema leggera. Se poi siete in vena di sformare... beh non c'è che l'imbarazzo della scelta: pere e cioccolato, mele e cannella, oppure un bel dolce al cucchiaio di castagne e cachi. E che dire di un mont blanc o di una bella marmellata di castagne?

a cura di Antonella De Santis

 

 

 

 

VERDURA CATALOGNA

 

(Chichorium intybus) La cicoria catalogna , appartiene alla famiglia delle Composite ed ha proprietà remineralizzati e stimola la produzione della bile. Tutte le proprietà, i valori nutrizionali e le calorie.

Tipicamente italiana, coltivata principalmente in Veneto, Lazio e Puglia, la catalogna rientra nella famiglia della cicoria, ma per la sua particolare forma, viene denominata anche “cicoria asparago”. Presenta foglie di colore verde scuro, strette e lunghe, dall’andamento piuttosto frastagliato, raggruppate a cespo in coste bianche.

A discapito del suo sapore piuttosto amarognolo, la catalogna è una ricca fonte di principi nutrizionali. Vitamine A e C, nonché minerali quali potassio, fosforo e calcio, fanno di questa verdura un prezioso alleato dell’organismo, per i suoi effetti diuretici e lassativi, a beneficio della circolazione sanguigna e della digestione.

Inoltre, dato il suo bassissimo apporto calorico che si aggira intorno alle 10 kcal per 100 grammi, è ideale per chi segue un piano alimentare a stretto regime.

Stagione: Dalla fine dell’estate fino al mese di aprile, ma il periodo migliore è quello autunnale.

Tre le varietà principali: la Catalogna di Chioggia, dalle coste larghe e bianche, e foglie piuttosto frastagliate; la Catalogna Galatina “a puntarelle”, dal cespo voluminoso e dai germogli molto saporiti detti “grugni”; La varietà laziale, ovvero la Catalogna frastagliata di Gaeta, il cui cespo è piuttosto allungato e le “puntarelle” decisamente tenere e croccanti.

Uso in cucina Per il suo sapore forte, è sempre consigliabile consumare la catalogna previa cottura: al vapore, bollita in acqua salata o in padella con poca acqua. Una volta cotta si può condire con olio extravergine o/e succo di limone per smorzarne il sapore amaro. Ottima per arricchire minestre e zucche. Per le puntarelle, essendo molto più tenere, si può anche optare per il consumo a crudo, nelle insalate o in pinzimonio come propone la cucina laziale.

Come pulire Per prima cosa, occorre eliminare le foglie esterne, quelle più secche o rovinate. Dopo aver asportato l’estremità del gambo, si taglia tutto il resto in diverse parti, a seconda delle dimensioni preferite. Quindi, si immergono in una bacinella d’acqua, meglio se fredda, strofinando ciascun pezzetto con le dita per rimuovere eventuali residui di terra. L’operazione deve essere ripetuta due o tre volte, cambiando l’acqua. È importante ridurre al minimo l’ammollo, per non sgualcire le foglie e favorire la perdita di vitamine e minerali. Una volta lavata, la cicoria catalogna va asciugata facendola sgocciolare nel colapasta o tamponandola con un panno pulito. È pronta così per l’uso in cucina.

Al momento dell’acquisto occorre assicurarsi che le foglie siano abbastanza croccanti e di un verde intenso; le coste, ravvicinate tra loro, devono mantenersi ben erette; i germogli devono risultare turgidi al tatto.

Se fresca, la catalogna può ben conservarsi in frigorifero per qualche giorno, ma è sempre bene consumarla prima possibile. Se cotta, va riposta in un contenitore chiuso e tenuta sempre in frigo al massimo per due giorni.

Per alleggerire l’intensità del sapore amarognolo, è consigliabile tenere le “puntarelle” immerse per un po’ in acqua ghiacciata. Ciò permetterà allo stesso tempo di ottenere quella tipica forma arricciata. Inoltre, il consumo a crudo contribuisce a ridurre l’assorbimento dei glucidi.

http://www.gustissimo.it/ingredienti/verdure-legumi-ortaggi/catalogna.htm

 

_____________________________________________________________________________________________________________

 

BIETOLA SELVATICA 

 

 

La bietola selvatica o spontanea ha il suo nome di riconoscimento botanico Beta vulgaris. Sembra che bett sia un termine celtico per indicare il colore rosso e che questa sua caratteristica si rifletta nelle venature rossicce delle radici e sulle nervature centrali di molte varietà di bietola.

Questa pianta è molto comune in Italia e la troviamo sotto i vigneti, nei luoghi sabbiosi, lungo zone coltivate e incolte ad un'altitudine che va dal piano sino a 600 m s.l.m. La raccolta delle foglie di bietola spontanea inizia da gennaio sino a giugno e riprende poi da ottobre a fine anno.

Molto simile come forma alla sorella coltivata con però più caratteristiche di resistenza e rusticità che si rispecchiano in maggior quantità di principi attivi salutari come vitamine e sali minerali. Infatti è importante come fonte di ferro con proprietà antianemiche ed è una delle verdure più ricche in vitamina A. Un consiglio per conservare tutte le sue preziose sostanze è quello di utilizzare anche l’acqua di cottura delle bietole visto che molti nutrienti sono solubili e per recuperarli va consumata l’acqua. Di facile utilizzo in cucina per torte salate e pasta verde, oltre che nelle zuppe, minestre e sformati, grazie al suo sapore delicato e gradevole.

http://www.cure-naturali.it/dieta-alimenti/piante-spontanee-commestibili-gennaio/38/4/f

 

BROCCOLO SPARACELLO PALERMITANO

 

CAVOLFIORE VIOLETTO NATALINO

 

Violetto Natalino. Questa particolare varietà di cavolfiore viene raccolta mediamente tra gli 80 e i 90 giorni dopo la semina. Si adatta a tutti i tipi di terreno ma predilige quelli freschi e ben drenati, nei quali non necessita di particolari concimazioni, se non di frequente irrigazione durante la formazione del frutto. La testa è di colore roseo, vicino al violetto, il peso medio di circa un chilogrammo. A livello di proprietà presenta un alto contenuto di sali minerali e, in cucina, non provoca odori durante la cottura. La maggior zona di produzione è il territorio regionale della Sicilia.

Palla di Neve. Questa bella varietà di cavolfiore, si coltiva da luglio fino a settembre. Si raccoglie a 105 giorni dal trapianto. Pianta per raccolta invernale, con ciclo di maturazione medio-tardiva. Eccezionale qualità del fiore, compatto di un bellissimo colore bianco molto protetto dal fogliame. Può superare il peso di 1 kg.

 

 

 

 

Boschi dell'Etna in autunno (foto Nino Gemmellaro)

 

 

 

 

__________________________________________________________________________________________________________________

 

Con il termine generico di agrumi vengono oggi indicate tutte quelle specie e cultivar (arance, mandarini, pompelmi, pummeli, limoni, lime e cedri) conosciute e diffuse, presenti sulle nostre tavole, nei mercatini rionali o nei grandi mercati, nelle ville patrizie o nei più moderni e accoglienti terrazzi cittadini o, ancora, nelle vie e nelle piazze di molte città mediterranee, appartenenti principalmente al genere Citrus. Il termine prende origine dalla forma latina cedrus, derivante a sua volta dalla parola greca kedros, che indicava alberi di cedro, pino e cipresso. Il genere Citrus appartiene all’ordine delle Geraniales, famiglia Rutaceae, sottofamiglia delle Aurantioideae. La famiglia delle Rutaceae comprende circa 160 generi e ben 1650 specie tra alberi e arbusti. L’individuazione dell’area di origine e diffusione degli agrumi ha rappresentato un aspetto di difficile lettura che ha portato a conclusioni non sempre concordanti. Tuttavia oggi, alla luce dell’ampiezza del germoplasma agrumicolo ivi presente e sulla base delle numerose ricerche svolte, si concorda nel ritenere le regioni tropicali e subtropicali del Sudest asiatico, del nord-est dell’India, della Cina meridionale, della penisola indocinese e dell’arcipelago malese i centri primari di origine a partire dai quali iniziò la diffusione negli altri continenti.

Le specie vere. Barrett e Rhodes, nel 1976, hanno proposto di considerare solamente tre le “specie vere” all’interno del sottogenere Citrus definito da Swingle: il cedro (C. medica), il mandarino (C. reticulata) e il pummelo (C. maxima). Gli altri agrumi devono essere considerati discendenti dalle tre “specie vere” o da alcune specie appartenenti a generi affini. In effetti l’ipotesi di poche valide specie all’interno del genere Citrus era già stata formulata da affermati tassonomisti: Linneo nel 1753 considerava tre specie e tre varietà.

Frutti veri di agrumi. Il gruppo comprende il genere Citrus e altri 5 generi considerati affini a esso: Fortunella, Eremocitrus, Poncirus, Clymenia e Microcitrus. Il genere Fortunella comprende 4 specie: F. margarita (kumquat ovale), F. japonica (kumquat rotondo), F. polyandra e F. hindsii. È il genere che si avvicina maggiormente al genere Citrus in molte caratteristiche morfologiche dell’intera pianta. L’albero, di piccole dimensioni, presenta fiori di colore bianco e frutti piccoli, di forma diversa, da ovale a rotondeggiante, con colorazione da giallo all’arancio, con epicarpo più o meno sottile e aromatico a seconda della specie. Il genere Poncirus è costituito da due specie dalle caratteristiche foglie trifogliate: P. trifoliata e P. polyandra. È l’unico genere appartenente al gruppo C (frutti veri di agrumi) ad avere foglie caduche, caratteristica che lo rende particolarmente resistente alle basse temperature.

Classificazione delle specie del genere Citrus

A livello mondiale i frutti di agrumi sono divisi in cinque gruppi di significativa importanza economica: arance dolci [C. sinensis (L.) Osbeck], mandarini (C. reticulata Blanco e C. unshiu Marc.), pompelmi (C. paradisi Macfadyen), limoni [C. limon (L.) Burmann f.] e lime (C. aurantifolia Christm. Swingle). Altre specie quali l’arancio amaro, il pummelo, il cedro hanno minore importanza dal punto di vista commerciale. Vengono di seguito riportate alcune caratteristiche delle principali specie oggi coltivate e diffuse.

 

 

 

Classificazione delle specie del genere Citrus

 

A livello mondiale i frutti di agrumi sono divisi in cinque gruppi di significativa importanza economica: arance dolci [C. sinensis (L.) Osbeck], mandarini (C. reticulata Blanco e C. unshiu Marc.), pompelmi (C. paradisi Macfadyen), limoni [C. limon (L.) Burmann f.] e lime (C. aurantifolia Christm. Swingle). Altre specie quali l’arancio amaro, il pummelo, il cedro hanno minore importanza dal punto di vista commerciale. Vengono di seguito riportate alcune caratteristiche delle principali specie oggi coltivate e diffuse.

Arancio dolce e arancio amaro

L’arancio dolce [C. sinensis (L.) Osbeck] e l’arancio amaro (C. aurantium L.), facilmente distinguibili per differenti caratteri morfologici e sensoriali, hanno origine parallela: entrambi derivano dall’incrocio tra il pummelo, genitore femminile, specie monoembrionica, e il mandarino.

 Mandarini e mandarino-simili

Il mandarino è una delle tre specie originarie, capostipite degli agrumi coltivati, e la sua origine è molto antica. Secondo Swingle l’eterogeneo gruppo dei mandarini si può ricondurre a un’unica specie, C. reticulata Blanco. Egli però avvertì la necessità di separarli in vari gruppi secondo affinità di ordine botanico. Hodgson, invece, riconobbe diverse specie e separò i mandarini in 5 gruppi principali: satsuma, Citrus unshiu, mandarini mediterranei, Citrus deliciosa, mandarino King, Citrus nobilis, mandarino comune, Citrus reticulata e mandarini a frutto piccolo. Tanaka, infine, elencò ben 36 diverse specie di mandarini. Il problema dell’inquadramento botanico di tali specie è ancora più complesso in considerazione dell’elevato numero di ibridi naturali intraspecifici e interspecifici esistenti oltre a quelli derivanti da incroci artificiali. A livello mondiale oggi viene utilizzato un sistema combinato tra le classificazioni già citate che vede essenzialmente riconosciuti i gruppi dei mandarini King, satsuma, mandarini veri e mediterranei, tangerini e tangor, tangeli e mandarini a frutto piccolo.

 Pompelmi e pummeli

Il pompelmo, C. paradisi Macf., può essere considerato, in ordine di tempo, l’ultima specie di importanza commerciale a essere stata rinvenuta e anche l’unica autoctona del Nuovo Mondo. È un ibrido derivato dall’incrocio naturale tra il pummelo e l’arancio dolce. Ne esistono diverse varietà sia pigmentate sia a polpa chiara. Il pummelo [C. grandis (L.) Osbeck o C. maxima (Burm.) Merr.], specie originaria, è un agrume oggi molto popolare in Cina e in vari altri paesi asiatici, mentre è pressoché sconosciuto in Occidente. Generalmente il frutto è molto grosso, il più grosso tra gli agrumi, e forse è proprio questo il motivo dello scarso successo riscontrato nei paesi europei. Essendo specie autoincompatibile, si ibrida facilmente e nel tempo ha dato origine a numerose varietà molto variabili per forma e dimensione così come per la colorazione della polpa.

 Limoni e cedri

Sull’origine genetica del limone [C. limon (L.) Burmann f.] nel tempo si sono succedute diverse ipotesi, spesso divergenti: alcuni lo hanno considerato ibrido tra cedro e lima, altri un triibrido tra cedro, pummelo e una specie del genere Microcitrus o, ancora, ibrido tra arancio amaro e lima. Da recenti studi molecolari sembrerebbe che il limone sia discendente dal cedro e dall’arancio amaro. Numerosi e molto diffusi sono oggi gli ibridi tra limone e cedro. Il cedro, C. medica Linneo, è la terza specie originaria, molto antica, di provenienza indiana. Trova oggi diffusione principalmente per l’utilizzo dei suoi frutti nei rituali religiosi dei popoli ebrei o per la produzione dei canditi. Forse nessun frutto, al pari del cedro, è stato così largamente influenzato nella sua diffusione e nella sua utilizzazione dai riti religiosi. Il cedro è una specie che ha dato origine a numerosi altri importanti ibridi di agrumi quali il bergamotto, C. bergamia Risso e Poit., il limone volkameriano, C. volkameriana Ten. e Pasq. (entrambi ibridi tra arancio amaro e cedro), il limone rugoso, C. jambhiri Lush. e la lima di Rangpur, C. limonia Osbeck (entrambi ibridi tra cedro e mandarino).

Lime

Anche per la classificazione delle lime dobbiamo fare riferimento a quanto indicato da Swingle e da Tanaka. Il primo le raggruppa in una sola specie, C. aurantifolia, il secondo ne elenca altre due, C. limettioides e C. latifolia. Oggi le lime vengono commercialmente distinte in dolci e acide; queste ultime a loro volta vengono ulteriormente classificate a frutto grande e a frutto piccolo. Tra le lime dolci, C. limettioides Tan., la lima di Palestina, è la più diffusa: essa deriva dall’incrocio tra cedro e arancio dolce. Tra le lime acide a frutto grande, C. latifolia Tan., sono maggiormente diffuse la lima di Tahiti e la lima Bearss. Tra le lime acide a frutto piccolo, C. aurantifolia (Christm) Swing., è la lima messicana quella maggiormente conosciuta e diffusa; essa insieme all’alemow, C. macrophylla Wester, è un ibrido tra cedro e C. micrantha, specie appartenente al sottogenere Papeda.

Prof.ssa Elisabetta Nicolosi

Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell'Università di Catania

 

http://www.colturaecultura.it/content/inquadramento-tassonomico

 

 

 

 

 

 

Stanno per tornare le ARANCE DOLCI

La stagione siciliana delle arance sta per iniziare.

Questo frutto è uno dei simboli della Sicilia; proviamo ad avere qualche informazione in più.

"...l’arancio dolce si è originato, attraverso complessi cicli di ibridazione e backcross, dall’incrocio tra due ancestrali, nello specifico il pummelo [C. maxima (Burm.) Merr.] e il mandarino (C. reticulata Blanco), presumibilmente in Cina. "

"..l’attuale ampio panorama varietale di arancio dolce derivi esclusivamente da mutazioni gemmarie insorte e selezionate nei diversi areali di coltivazione.

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/283.JPG

Sono 4 le grandi categorie di arance dolci

 1) arance bionde (comuni), il gruppo varietale dei Valencia è il più rappresentativo e diffuso;

2)  arance ombelicate (Navel), i cui frutti sono caratterizzati da sincarpìa, cioè dalla presenza di un frutticino secondario e di una piccola apertura stilare (detta navel = ombelico). 

3)  arance pigmentate (rosse), composto da cultivar con frutti caratterizzati da pigmentazione rossa nella polpa. I principali gruppi varietali (Tarocco, Moro e Sanguinello) sono stati selezionati e prevalentemente diffusi in coltivazione nelle aree della Sicilia prossime all’Etna.

4) arance a basso contenuto di acidità (“acidless”), di minore diffusione ed importanza commerciale.

Grazie al dr. Sebastiano Seminara e al prof. Gaetano Distefano, coautori della ricerca.

Fonte: Rivista di frutticoltura e di ortofloricoltura, Edagricole, n. 1 gennaio 2023.

 

 

 

 

MANDARINO (Citrus reticulata)

 

E' un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Rutacee. Il nome comune mandarino si può riferire tanto alla pianta quanto al suo frutto.

Il mandarino è un arbusto poco più alto di due metri, in alcune varietà fino a quattro metri. Le foglie sono piccole e profumatissime. Il frutto è di forma sferoide, un po' appiattito all'attaccatura, e si lascia cogliere facilmente. La polpa è di colore arancio chiaro, costituita da spicchi facilmente divisibili, molto succosa e dolce, entro la quale vi sono immersi numerosi semi. La buccia è di colore arancione, sottile e profumata, con un'albedo molto rarefatta e granulosa che consente una facile pelatura del frutto. Spesso la buccia addirittura si distacca dalla polpa ancora prima che il frutto venga colto dal ramo, il che gli conferisce un aspetto "ammaccato".

È particolarmente semplice rimuovere la buccia con le mani, proprio in quanto scarsamente attaccata alla polpa. Ha un profumo agrodolce e aromatico come la clementina; il gusto è molto dolce e buono.

I mandarini sono normalmente consumati come frutta fresca o lavorati nella produzione di marmellate e frutta candita. Dalla buccia si estrae un olio essenziale che è un liquido di colore giallo oro leggermente fluorescente. Chimicamente si tratta perlopiù di d-limonene che spesso viene sofisticato con l'olio ricavato dal frutto intero non maturo.

Un albero adulto può dare da 400 a 600 frutti all'anno.

Negli Stati Uniti d'America la varietà più coltivata è la satsuma o mikan, importata nel 1876 dal Giappone. Da notare che Satsuma, oltre al nome di una regione nel Kyushu, è anche una città dell'Alabama cresciuta con i mandarineti. Questa varietà viene coltivata anche in Sicilia, assieme all'avana e al paternò. Da non dimenticare vi è la rarissima e protetta varietà del Mandarino tardivo di Ciaculli dal sapore zuccherino che, viene coltivato nell'omonima frazione di Palermo, nel cuore della pianura Conca d'oro.

Nel Regno Unito e negli USA, oltre alla parola mandarino si usa come sinonimo anche e soprattutto il nome tangerine, dal che possiamo dedurre che il frutto veniva importato dapprima dal Mediterraneo, presso il porto marocchino di Tangeri. Ma si tratta in realtà di due distinte varietà. Il vero mandarino è di colore arancio chiaro e leggermente appiattito; il peduncolo si trova in una piccola infossatura. Il tangerino è un ibrido del mandarino con l'arancio, perciò la buccia è di colore arancio acceso; il peduncolo esce da una piccola protuberanza (come in certi limoni); le foglie sono più larghe.

Alcuni esperti, specialmente americani, includono tra i mandarini anche i clementini, ma la classificazione è molto discussa. Anche i clementini sono degli ibridi, e precisamente tra il mandarino e l'arancio amaro, per cui – come i tangerini - si potrebbero catalogare a pari diritto pure tra gli aranci. È stata fatta anche la proposta di includere in un'eventuale unica varietà comune sia i tangerini sia i clementini. I tangerini sono ritenuti una varietà di mandarini, mentre i clementini fanno specie a parte, in quanto hanno dimostrato di possedere qualità durature e ripetibili, il che li porrebbe sullo stesso piano, ad esempio, delle limette. Ma una classificazione definitiva non è stata ancora concordata.

Tenendo presente quanto sopra detto a proposito delle molteplici varietà ed ibridazioni di questo frutto, nonché della relativa incertezza sulla loro classificazione, si indicano di seguito alcune tra le più note denominazioni commerciali del mandarino.

(Wikipedia)

 

______________________________________________________________________________________________________

 

 

SATSUMA MIYAGAWA (Citrus unshiu). 

 

Arriva l’Autunno e con questo, anche la nostra tavola cambia: ancora possiamo gustare le ultime susine, l’uva, tante mele di diverse varietà, le pere, i primi cachi. Fra la verdura, comincia a  far capolino il cavolo nero, verza e cappuccio e i primi funghi. Per le arance nostrane bisogna ancora attendere un po’, tuttavia possiamo godere di un anticipo grazie ad un piccolo agrume originario del Giappone: il Mandarino Satsuma Miyagawa (nome scientifico Citrus unshiu). 

L’ho notato giusto ieri, sui banchi del mercato e incuriosita, ho deciso di provarlo. E’ un agrume da poco introdotto in Italia ma coltivato con successo anche in Sicilia e nel Lazio. Ha una forma tondeggiante, la superficie leggermente schiacciata e la buccia di colore verde - giallo brillante. Proprio quest’ultima può trarre in inganno gli inesperti che possono considerarla sinonimo di scarsa maturazione. Si tratta di un incrocio fra il clementino e il pompelmo, ottimo connubio per coloro che cercano un sapore dolce ma con una punta  di acidulo data appunto dal pompelmo. La polpa all’interno è, per la gioia della maggior parte, priva di semi, ricca di succo e di un bel colore arancio. La buccia poi, viene via facilmente senza dover usare il coltello.

Il periodo di maturazione è precoce rispetto agli agrumi nostrani, appunto fra settembre e novembre e il prezzo poi, rispetto ai mandarini è di gran lunga più economico e anche questo ha contribuito, specie di questi tempi, alla sua diffusione. Come tutti gli agrumi, è ricco di vitamina C, potassio, calcio e fosforo e inoltre ha proprietà diuretiche.

Rappresenta un valido presidio per mucose, capillari e malattie da raffreddamento. Ottimo anche per contrastare l’insonnia, distendere il sistema nervoso. Nella scelta, orientatevi sui frutti che hanno un peso “consistente” rispetto al volume e dalla buccia “bella tesa”, attaccata alla polpa.

Mi sono chiesta, visto che all’apparenza può sembrare un Mapo (nome scientifico Citrus x tangelo), quali sono le differenze: bene, essendo questo, frutto dell’incrocio fra il mandarino Avana e il pompelmo Duncan, è tutta un’altra cosa in termini di sapore, decisamente più acidulo! Ma anche da un punto di vista nutrizionale, le sue proprietà si avvicinano di più a quelle del pompelmo. Insomma, se anche voi come me attendete con ansia gli agrumi nostrani come le arance succose e i dolci mandarini  potete intanto iniziare ad accontentarvi del fratellino giapponese!

https://www.greenme.it/spazi-verdi/guarire-con-i-colori/2000-al-via-la-stagione-degli-agrumi-sono-arrivati-i-primi-mandarini-satsumi-miyagawa

 

Bosco etneo

 

Il limone è una pianta generosa: seguendo il ciclo delle stagioni sa regalare tre differenti fioriture, garantendo freschi raccolti per tutto l’anno. Si tratta di una naturale magia che accompagna un frutto dalle potenti proprietà benefiche. Ecco perché le tre fioriture di limoni rientrano nella selezione di prodotti a marchio Orto Italiano di Citrus: frutta e ortaggi a filiera controllata che aiutano gli studi scientifici finanziati dalla Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito della Nutrigenomica e promuovono l’educazione alimentare.

 

CLASSIFICAZIONE

 

Varietà di Limoni

 

Femminello comune (con le sue diverse clonazioni (Femminello a Zagara Bianca, Femminello IGP siracusano, Femminello apireno Continella, femminello Dosaco, Femminello SantaTeresa, Femminello Scandurra, Femminello Lunario) è la cultivar più diffusa a livello nazionale, sopratutto in Sicilia e in Calabria, coprendo quasi il 70% della produzione nazionale. Presenta la caratteristica della rifiorescenza, per cui a parte la produzione normale, caratterizzata da limoni con epicarpo rugoso ma dotati di elevata acidità, che copre il periodo ottobre-marzo, il ripetersi della fioritura consente una raccolta più precoce (Sett-ott) con il Primofiore, mentre il periodo Aprile-Maggio viene coperta dai Bianchetti, con l'epicarpo poco rugoso, di scarsa acidità e di colore giallo pallido. I verdelli si raccolgono durante il periodo estivo e si presentano meno acidi, privi di semi e con l'epicarpo liscio.'

Interdonato: è diffuso nel versante Ionico messinese, di origini incerte, è di pezzatura medio-grande allungata, ma poco succoso , la sua rilevanza è da accreditare alla precocità della produzione basata sopratutto sul Primofiore.

Monachello: poco rilevante poichè di scarsa produttività, anche se rispetto alle altre cultivar resiste di più al malsecco.

Sfusato amalfitano (o femminello sfusato): diffuso nella costiera amalfitana , è di grande pezzatura, quasi privo di semi, presenta la scorza piuttosto spessa e rugosa, ricca di oli essenziali, da cui per la prima volta i contadini della zona hanno prodotto e diffuso il famoso Limoncello.

Femminello Lunario: è un cultivar dalla scarsa produttività e scarso contenuto di acido citrico e oli essenziali, nonostante la sua caratteristica sia quella della fioritura durante tutto l'anno "il limone delle quattro stagioni". Alla scarsa importanza commerciale, si contrappone, proprio per la sua grande capacità di fioritura e fruttificazione continua, un largo impiego negli orti e giardini o come pianta ornamentale da vaso.

Femminello apireno Continella: prende nome dall'agricoltore Saverio Continella di Acireale, che lo ha scoperto; varietà pregiata, poichè quasi priva di semi, è di piccola pezzatura, con la buccia spessa, di buona succosità e con un tasso piuttosto alto di acidità.

http://www.valdiverdura.com/limoni-di-sicilia

 


IL FEMMINELLO DI SIRACUSA

 

La pianta del limone è giunta in Italia dalla Birmania, Nazione da cui origina, tramite i traffici dei commercianti di Mesopotamia e Medio Oriente. Qui, essa si è ben adattata al clima in quanto necessita di un habitat che sia secco, quasi per nulla umido; i luoghi del mondo in cui il limone viene al meglio coltivato e conservato, sono infatti quelli della fascia Mediterranea: Italia, Spagna, Grecia e Turchia, ma anche aree similmente calde e miti come Sud Africa, California e Uruguay. La sua coltivazione intensiva però risale ad un periodo particolarmente recente. Fino al Cinquecento e per una prima parte del Seicento infatti, il limone veniva utilizzato per preparazioni classiche e piuttosto lussuose; furono i padri Gesuiti a introdurne le coltivazioni in territorio siracusano, sfruttandole in maniera intensiva non prima del XVII secolo.

 Nel 1891, la produzione di questo frutto arrivò a raggiungere le 11.600 tonnellate, dichiarando ufficialmente il limone il frutto del sostentamento della zona di Siracusa, e facendo diventare, la Sicilia, una delle principali produttrici di limone al mondo. Molta fortuna la fece infatti l’area del siracusano, attraverso i commerci con l’estero, in particolare con gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ma anche con altri porti dell’Italia e del resto del mondo: come Trieste, Malta e Fiume. Assieme al limone, che i siciliani coltivavano soprattutto per ricavarvi citrato di calcio e acido citrico, il porto di Siracusa divenne uno dei più importanti snodi commerciali della Sicilia dell’Ottocento e del primo Novecento, grazie ai traffici che includevano anche le arance, dolci e amare, e prodotti del limone, come il citrato di calcio stesso.

 Nonostante la massiccia urbanizzazione che ha interessato l’area del siracusano nel Secondo Dopoguerra, la coltivazione del limone nei dintorni di Siracusa, è stata tutt’altro che abbandonata.

Il limone di Siracusa I.G.P. deriva da una cultivar detta femminello, una pianta particolarmente conosciuta per la sua abbondanza produttiva; il frutto è infatti presente sul territorio italiano, praticamente tutto l’anno, dato che la pianta fiorisce in tre periodi specifici: con il primofiore, che caratterizza il periodo che va da ottobre a marzo, il bianchetto, che matura tra aprile a giugno, e il verdello, che copre i mesi estivi, da luglio a settembre.

Ognuna di queste specie è differente, ma tutte hanno forma ellittica e succo citrino; sono accomunate da una particolare abbondanza di succo e da una ricca presenza di ghiandole oleifere che rendono la buccia del limone di Siracusa, così aromatica e ricca di olii essenziali, da essere particolarmente noto ed utilizzato nell’industria profumiera e cosmetica delle grandi case di moda, ma è conosciuto anche nel settore alimentare per la realizzazione di prodotti di catene leader come Polenghi e le gelaterie Grom.Risultati immagini per limone di siracusa consorzio

 In Italia il femminello viene coltivato in oltre 12mila quattrocento ettari di terreno, ed è proprio la Sicilia, sulla cui superficie di 5.300 ettari si produce una media di 150 mila tonnellate di prodotto, la regione che rappresenta il 42% della produzione nazionale. Il limone di Siracusa I.G.P. viene anche esportato, con particolare successo, all’estero: il suo principale bacino d’utenza è la Norvegia, mentre carichi imponenti raggiungono periodicamente anche diversi Paesi dell’Unione Europea come Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca e Austria.

L’area di coltivazione di questo frutto di estende lungo la fascia costiera di 10 comuni della provincia di Siracusa, tra cui nominiamo Augusta, Avola, Noto, Solarino e Sortino.

 Il limone di Siracusa, parte dei prodotti agroalimentari tradizionali presenti nella lista stilata dal Ministero delle Politiche Agricole, Risultati immagini per femminello siracusano mercatoè inoltre protetto dal consorzio I.G.P. dal 2011, assieme al limone Interdonato di Messina e ad altre varietà italiane come il limone di Sorrento o il femminello del Gargano. A Siracusa, durante le celebrazioni realizzate in onore di Santa Lucia, nel giorno del 20 di dicembre, il limone, assieme alle arance, viene utilizzato per adornare i ceri che vengono portati in processione insieme al noto simulacro in argento. Il frutto è un dono alla Santa, ma rappresenta anche il passaggio simbolico della processione, dalla campagna alla città, ovvero dall’area di piazza Santa Lucia alla Borgata fino all’Isola di Ortigia.

 In campo medico, il limone di Siracusa è stato testato con una certa efficacia dagli Ospedali Riuniti di Bergamo, per farne un prodotto in grado di prevenire la calcolosi renale nei soggetti recidivanti. Tradizionalmente, il citrato di potassio è infatti l’unico ingrediente in grado di impedire e ridurre la formazione dei calcoli, anche se il farmaco da cui viene derivato provoca diversi effetti collaterali ai pazienti che ne fanno uso, che sono costretti per questo, dopo un po’, a sospendere la cura. Il trial clinico effettuato con la collaborazione tra l’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” e il Consorzio di Tutela, ha determinato come il succo di tre o quattro limoni possa riprodurre gli stessi benefici del farmaco, minimizzandone le conseguenze sul corpo del paziente.

Enrica Bartalotta

http://www.siciliafan.it/limone-siracusa-i-g-p-prodotto-agroalimentare-tradizionale-italiano-provincia-siracusa/

 

__________________________________________________________________________________________________________

Il melo è tra le specie più rappresentative della frutticoltura del territorio etneo. L’ampia adattabilità di questa specie ad ambienti più freddi ne consente, infatti, la presenza lungo le pendici del vulcano a quote più elevate rispetto a quelle raggiungibili da altre specie (fino a 1500 m s.l.m..

Si può senz’altro affermare che la diffusione sul massiccio etneo del melo è relativamente maggiore rispetto a quanto si registra in altri contesti dell’isola. La fascia altitudinale maggiormente interessata alla melicoltura è quella compresa tra i 600 e 1400 m di quota, mentre gli areali maggiormente interessati alla coltivazione sono quelli ricadenti nei comuni di Zafferana Etnea, Milo, Sant’Alfio e Mascali per quanto riguarda il versante orientale e Pedara, Nicolosi, Ragalna, Biancavilla, Adrano per quanto riguarda il versante sud-occidentale.

 

 

PUMA COLA, LE REGINE DELL'ETNA

di Paola Pasetti (In Viaggio - supplemento a La Sicilia)
 
C’è stato un tempo in cui l’Etna poteva a buon titolo dirsi il regno delle mele. Di quelle autoctone, s’intende, almeno una quindicina di varietà (nella maggior parte dei casi andate quasi perdute) i cui nomi sono tutto un programma: come la Rotolo, chiamata così per le sue dimensioni (un rotolo, antica unità di misura, equivaleva infatti a circa 800 grammi); la Turco, dalla buccia scura, color granata; la mela Lappio, da “lappusa”, ossia dal sapore astringente. Cultivar passate alla storia e oggi quasi del tutto scomparse. I meleti etnei sono stati per decenni un unicum nel panorama frutticolo siciliano, tanto più che in quella fascia altimetrica dell’Etna compresa

tra 700 e 1500 metri sul livello del mare il melo ha trovato condizioni pedoclimatiche particolari, capaci di conferire ai frutti proprietà organolettiche uniche. Così, finché non sono arrivate le mele “del Continente”, quelle nostrane
- seppur coltivate su terreni impervii e difficili - avevano potuto ritagliarsi anche sul mercato dell’isola una fetta importante.
La più coltivata, definita a buon titolo “regina dell’Etna”, era la mela Cola. “Puma Cola”, come vengono intese da queste parti: un nome che è derivato - pare - dal fatto che questa particolare varietà si diffuse in principio a Nicolosi, in una zona limitrofa al convento di San Nicola. Forma cilindrica arrotondata, buccia gialla segnata da piccole lentiggini color ruggine, polpa croccante e leggermente acidula. La mela Cola è stata coltivata ed è ancora presente su vari versanti: meleti si trovano anzitutto a Biancavilla e Ragalna, ma anche nel distretto Trecastagni-Pedara- Nicolosi, sul lato Sud; Zafferana e areale Milo-San’Alfio-Mascali, a Est.

Da qualche decennio, però, la Cola ha dovuto cedere lo scettro della più coltivata a sua “figlia”: la Gelato-Cola. O Cola-Gelato, se si preferisce. Un ibrido nato dall’innesto su un’altra varietà autoctona dell’Etna, la “Gelatu”, oggi quasi del tutto scomparsa. Chi ha avuto la fortuna di addentarla, ne ricorderà sicuramente la tipica vitrescenza della polpa, da cui per alcuni deriverebbe il nome.

 

 

Le caratteristiche della “nuova nata” la rendono diversa dalla Cola per il sapore della polpa, meno acidula, per il profumo più intenso e per la grana più raffinata. A occhio nudo, la si riconosce comunque per la forma tronco-cilindrica e per il colore che va dal giallo-verdolino subito dopo la raccolta al paglierino chiaro, quando la maturazione arriva a compimento.
Chi voglia conoscere più da vicino e apprezzare il sapore di questi prodotti del Vulcano non ha che da mettersi in cammino senza perder tempo: ottobre è infatti il mese della raccolta, che si protrae, man mano che si sale di altitudine, fino all’ultima decade del mese.
Fino a poco tempo fa erano le mele più diffuse sul Vulcano. Oggi rischiano di scomparire come è già accaduto ad altre varietà autoctone. Lungo il sentiero della Scalazza alla scoperta dei vecchi meleti
Non c’è migliore occasione, quindi, per fare un salto nei paesini etnei. A partire dal versante Sud, da quella Nicolosi che fu culla della Puma Cola, proseguendo in direzione est verso Pedara, Trecastagni, fino ad arrivare a Zafferana Etnea, uno dei centri di maggior produzione di queste mele.
Una passeggiata in macchina lungo questo percorso, attraverso le piacevoli strade provinciali immerse nel verde, riappacifica con il mondo. I centri abitati, poi, accolgono il visitatore con le loro botteghe aperte anche la domenica mattina, quando la montagna vive per i gitanti alla ricerca di aria buona. Un’occasione ghiotta per provare anche gli altri sapori tipici dell’Etna: funghi, miele, fichidindia, castagne, olio, vino. Tutti, insieme alle mele, si possono trovare nelle botteghe, nei mercatini locali o, più facilmente, lungo le strade man mano che si sale: panieri intrecciati ricolmi di frutta (o, meno poeticamente, secchi gialli di plastica) dal ciglio della strada invitano chi transita a fermarsi per un’acquisto, come si usa dire oggi, a chilometri zero.

 


Chi voglia, poi, visitare un meleto e non tema una piacevole passeggiata di circa un’ora, da Zafferana potrà spingersi fino alla Scalazza, un’antica mulattiera - oggi praticabile grazie all’intervento di alcune associazioni di volontariato - che nell’Ottocento costituiva l’unica via di accesso ai frutteti coltivati dagli zafferanesi alle falde di Monte Pomiciaro.

Per raggiungerla, bisogna lasciare la strada asfaltata che da Zafferana sale verso Piano dell’Acqua all’altezza del fontanile di Scalazza. Subito sulla sinistra si apre una stretta stradina sterrata che scende per qualche centinaio di metri all’interno della grande conca in cui confluiscono valle San Giacomo e il vallone Cavasecca. La Scalazza inizia proprio lì, alla base del costone che divide le due vallate. Una visione mozzafiato: il sentiero, in gran parte lastricato, è completamente immerso nel bosco di castagni; cento tornanti consentono di coprire un dislivello di quasi 500 metri, dai 700 di Piano dell’Acqua ai 1200 della zona di Cassone,
dove si trovano, appunto, diversi meleti. È in un luogo così che si può apprezzare fino in fondo l’unicità di queste “vecchie” mele, frutto, come tutto ciò che si coltiva sui terreni scoscesi del vulcano, della infinita sfida tra l’uomo e la natura. )))

 

LE VARIETA' PIU' DIFFUSE IN QUESTO MESE

 

Gelato Cola - Tra le cultivar autoctone dell’Etna la Gelato cola è quella più diffusa e apprezzata, esistono ancora dei meleti specializzati o promiscui nei comuni di Zafferana Etnea, Biancavilla, Ragalna, Adrano, Santa Maria di Licodia, Pedara, Nicolosi, Trecastagni. Sembra che derivi da un incrocio spontaneo tra Cola e Gelato e che sia stata individuata in contrada Giarrita-Petralia, comune di Sant’Alfio; da qui si è diffusa per le sue interessanti caratteristiche: sapore, precocità, produttività, maggiore pezzatura rispetto a Cola e intenso profumo. L’albero è molto vigoroso e presenta portamento aperto; le foglie sono ellittiche, di medie dimensione, con margine biserrato e picciolo di media lunghezza; i fiori hanno petali di forma ovata, bianchi, con lievi sfumature rosa; la fioritura avviene nella III decade di aprile. Il frutto è piccolo, conico, con peduncolo corto e di medio spessore, la buccia è di colore giallo verde punteggiata, raramente con sovraccolore rosa alla raccolta e diventa giallo crema alla maturazione di consumo; la polpa è bianca, farinosa, succosa, dolce e intensamente profumata. I frutti si raccolgono nella III decade di ottobre e entro novembre sono pronti per il consumo, con la frigoconservazione si può allungare il calendario di commercializzazione fino alla primavera. Si utilizza prevalentemente per il consumo fresco.

Ruggia - Cultivar poco diffusa, deve il suo nome all’intensa rugginosità della buccia. L’albero ha portamento aperto e medio vigore ed è molto produttivo; le foglie sono ellittiche di media dimensione, con margine biserrato e picciolo medio; i fiori sono di media dimensione, hanno petali bianchi con lievi sfumature rosa, di forma ovata, fioriscono nella III decade di aprile. I frutti sono piccoli, di forma arrotondata, con peduncolo corto e di medio spessore; la buccia è rugosa, di colore giallo verde con sovraccolore rosso intenso, la rugginosità è spesso talmente elevata da interessare l’intera superficie del frutto; la polpa è gialla, compatta, poco succosa, dolce e aromatica, con leggero retrogusto di mandorla amara; si raccoglie nella I decade di ottobre e si conserva fino alla fine dell’inverno, si utilizza come frutto fresco.

Cola - Era la cultivar più diffusa sull’Etna fino alla prima metà del ‘900, attualmente la produzione è notevolmente diminuita ed è stata sostituita da Gelato cola e da altre varietà alloctone. Il nome sembra derivi dal fatto che la zona di origine sia quella limitrofa al convento di San Nicola nel territorio di Nicolosi. L’albero è vigoroso ed ha portamento aperto, le foglie sono grandi, di forma ellittica a volte irregolare, con margine biserrato e picciolo lungo; i fiori di media dimensione, hanno petali di forma ovata, sovrapposti, bianchi con sfumature rosa. La fioritura avviene nella III decade di aprile; i frutti sono piccoli, di forma conico allungata, asimmetrica per la presenza di un lobo rilevato, il peduncolo è corto e spesso, la buccia, che è di colore giallo verde alla raccolta, diventa giallo paglierino con punteggiatura rugginosa alla maturazione di consumo.

La polpa che inizialmente è bianca, dolce, acidula, succosa e delicatamente profumata diventa poco succosa e farinosa col progredire della maturazione. Si raccoglie dalla fine di ottobre agli inizi di novembre, si conserva bene nei magazzini di montagna o in cella frigorifera fino a marzoaprile. Le mele cola si consumano prevalentemente come frutto fresco ma possono essere cotte in acqua o al forno.

 

Turco - Unica cultivar dell’Etna a buccia interamente rossa, interessante oltre che per la colorazione anche per il sapore e la pezzatura; la diffusione è attualmente limitata a poche piante sparse. L’albero ha elevata vigoria e portamento assurgente, le foglie di media dimensione sono ellittiche con margine biserrato e picciolo corto; i fiori di media dimensione hanno petali arrotondati e sovrapposti, fioriscono nella III decade di aprile. I frutti sono piccoli, di forma conica, il peduncolo è di media lunghezza; la buccia è liscia, oleosa, di colore giallo verde visibile soltanto in prossimità della cavità peduncolare, con sovraccolore porpora su tutta la superficie, più intenso nella parte esposta al sole. La polpa è bianchissima con sfumature porpora in prossimità della buccia, croccante, acidula, e profumata; si raccoglie nella I decade di ottobre quando la polpa ha perso la colorazione verde e si conserva per qualche mese; con l’avanzare della maturazione i frutti tendono a diventare farinosi. Si utilizza per il consumo fresco.

Bunnanza - Cultivar rara, caratteristica per l’abbondante produzione di frutti portati a gruppi di due o tre su lunghi rami che per il peso si dispongono verticalmente. L’albero di media vigoria ha portamento ricadente, le foglie di forma ellittico allungata hanno margine biserrato e picciolo di media lunghezza, i fiori sono piccoli con petali ellittici, bianchi con leggere sfumature rosa; la fioritura avviene nella II decade di aprile. Il frutto è di forma tronco conica con peduncolo lungo e di medio spessore, la buccia è di colore verde che a piena maturazione vira al giallo con sovraccolore rosso chiaro, la polpa è bianca e acidula, si raccoglie nella II decade di ottobre e si consuma entro dicembre

Rumaneddu - Cultivar rara, si trova ancora qualche pianta nei frutteti dell’areale di Zafferana etnea; il nome deriva dalla dimensione e dalla forma simile al rocchetto di spago (rumaneddu in dialetto). L’albero ha portamento assurgente e medio vigore, le foglie sono ellittiche di media dimensione, hanno margine biserrato e picciolo lungo; i fiori hanno petali di forma ovata, disposti in parte liberi e in parte sovrapposti, bianchi con sfumature e nervature rosa. I frutti sono molto piccoli, di forma arrotondata, asimmetrici, con peduncolo corto e di medio spessore; la buccia è gialla, liscia, con lenticelle bianche e sovraccolore rosso diffuso; la polpa è bianca, dolce, compatta, poco saporita; si raccoglie nella I decade di ottobre, si consuma come frutto fresco.

Amidonna - Sinonimi Medonna o Pomo della Madonna. Varietà presente con pochi esemplari nei meleti del versante orientale dell’Etna, l’albero di media vigoria ha portamento aperto, le foglie hanno forma ellittico allungata, margine crenato e picciolo lungo. I fiori hanno petali bianchi, ellittici, in parte liberi e in parte sovrapposti. La fioritura avviene nella terza decade di aprile. I frutti sono piccoli, di forma conica con peduncolo di media lunghezza, la buccia è di colore giallo-verde con sovraccolore rosso, la polpa è bianca, acidula, leggermente tannica, fine e poco profumata. Si raccoglie nella I decade di ottobre, si consuma come frutto fresco entro dicembre

Fonte: Antichi frutti dell'Etna, di C. Bonfanti, A. Continella, A. Gentile, S. La Malfa

 

 

 

 

 

 

«Il ficodindia dell'Etna è un concentrato di natura ancora tutto da scoprire»

C'è chi lo definisce il frutto più eco-compatibile perché per crescere e maturare non ha bisogno di alcun trattamento chimico, né di concimi né di antiparassitari, non serve neanche l'irrigazione, quindi non consuma acqua né luce, e cresce sui terreni più aridi e sciarosi. Arrivato in Europa nella seconda metà del 500 sulle navi spagnole, pianta ornamentale nei giardini dei nobili, poi piatto dei poveri, il ficodindia è una delle immagini simbolo della Sicilia. Una pianta che ne rappresenta identità, cultura, anima mediterranea.

Dolce e profumatissimo, ricco di minerali come calcio e fosforo e di vitamina C, dalle proprietà salutari, diuretico e cicatrizzante, il frutto del ficodindia - nelle varietà "muscaredda" bianca, "sulfarina" gialla, "sanguigna" rossa - allunga ancora le sue straordinarie qualità note già dagli Aztechi prestandosi ad usi sempre più nuovi, spesso ripescati dalla sapienza antica delle nonne o di popoli lontani che da secoli utilizzano "pale" e frutto. «E' una pianta che ha valenza ambientale, salutare, economica, industriale.

Cresce e si sviluppa anche sui terreni marginali e inospitali dell'Etna, è un'ottima pianta tagliafuoco e frangivento e molti agricoltori la piantano a confine come siepe. Il suo frutto ha un mercato sempre crescente per sue caratteristiche salutistiche ed è assolutamente biologico perché non subisce alcun trattamento.

Un vero concentrato di natura», spiega Salvatore Rapisarda, agronomo, produttore di fichidindia e presidente del Consorzio Euroagrumi, organizzazione di produttori ortofrutticoli che raccoglie 26 cooperative e circa 800 aziende agricole tra cui numerosi produttori del ficodindia dell'Etna Dop nelle zone di Adrano, Belpasso, Biancavilla, Bronte, Paternò, S. Maria di Licodia e Ragalna.
Negli ultimi anni, prosegue Rapisarda, il frutto è diventato molto apprezzato non solo nel nord Italia ma anche all'estero «anche per le nuove modalità con cui viene venduto, senza spine e confezionato in pacchi, con pochi semi, e in versione quarta gamma per la grande distribuzione, quindi già sbucciato e in vaschetta trasparente. Ma anche sotto forma di marmellata e liquore».

L'intento dei produttori è quello di allungare di mesi il periodo di produzione.

«Con la i ricercatori dell'università di Catania coordinati dalla professoressa Alessandra Gentile sono stati fatti numerosi studi sulla cosiddetta "scozzolatura" che se viene ritardata sposta in avanti la crescita dei "bastarduni", così come avviene con l'uso dell'acqua». L'occasione per parlarne è un incontro divulgativo intitolato "Trasferimento di innovazioni tecniche agronomiche e di gestione del prodotto nella filiera del ficodindia" che si terrà il 7 giugno nella "Tenuta della principessa" a Biancavilla. Ancora troppo poco rispetto al Messico dove del frutto e della pianta si utilizza proprio tutto.

 

 

E si usano anche in cucina. «Si preparano piatti gustosi con le "pale", i nopalitos che proporremo anche il 7 nella cena tutta "al ficodindia". Per non dire che gli infusi con i fiori di ficodindia sono un toccasana per la prostata» elenca ancora Rapisarda, e dai semi «si estrae un olio ricco di vitamina E dalle proprietà antietà che è già presente in molte creme naturali». Altro che "industriali del ficodindia", il titolo della fortunata commedia di Massimo Simili, paradigma della truffa costruita ad arte, del paradosso che diventa trionfo di furbizia e barzelletta insieme. «Un precursore! - sorride Rapisarda - il ficodindia è una pianta ancora da valorizzare che potrebbe aiutare molto l'economia siciliana».
O. g.
Lasicilia.it 31/05/2013

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/411.jpg

 

LA MOSTARDA E IL VINO COTTO

 Parecchi secoli dopo, abbiamo cominciato, noi siciliani, a preparare il vino cotto succo zuccherino dei fichi d'India che, introdotti dagli spagnoli hanno trovato il loro habitat divenendo caratteristiche del paesaggio siciliano.

Alessandro Dumas padre, rimasto impressionato dalla quantità di fichi d'India che spontanei crescevano nelle campagne siciliane, scrive: «Il fico d'India è della grandezza di un uovo di gallina, avvolto in un involucro verde, difeso da ciuffi di spine la cui puntura provoca una dolorosa e prolungata sensazione di prurito: occorre quindi usare una certa perizia per sventrarlo senza incidenti.

Completata questa operazione esce dalla spaccatura un globo dalla polpa giallastra, dolce. fresca e prima lo si comincia a gustare con un certo distacco, ma dopo otta gorni, finisce con il diventare una esigenza. I  Siciliani adorano questo frutto, che è per loro l’equivalente del cocomero per i napoletani, con una differenza però che quest'ultimo necessita di una qualche coltivazione e quindi lo si può procurare gratuitamente, mentre il fico d'india cresce dappertutta e bisogna soltanto prendersi la briga di raccoglierlo.”https://www.mimmorapisarda.it/2023/spig.jpg

Secondo una leggenda, riportata da Pierè. in origine i fichi d'India erano velenosi. Sarebbero stati i Turchi per debellare gli infedeli cristiani ad introdurli in Sicilia ma i Siciliani li hanno miracolosamente trasformati in un frutto dolce, succoso sostanzioso. Con gli spinosi fichi d'India le nostre massaie fanno anche a mustadda (la mostarda). Mio padre in settembre ne mandava a casa mia col bburdunar (malamere) quattro caffina (grandi cestI fatti di verghe e liste di canna intrecciate). Togliere la spinosa buceta ai fichi d'India era una grande fatica, ma fortunatamente le donne del vicinato insieme a mia madre, sedute nel cortile, chiacchierando allegramente li sbucciavano. Poi procedevano a preparare non solo u vinu cottu ma anche a mustadda.

Alla fine le compagne di lavoro portavano a casa una grande scodella di mostarda arricchita con nocciole, mandorle, pistacchi tostati e tritati. Era stata una piacevole fatica. Nelle Madonie e nel Nisseno le bucce dei fichi d'India non si batttono ma si preparono delle saporite cotolette.

 

Fonte: SPIGOLATURE STORICHE SULLA CUCINA DI SICILIA – Gino Schilirò – Aracne editrice 2019 - © tutti i diritti riservati - esclusiva concessione del Prof. Schilirò per  il sito web mimmorapisarda.it

come farla : https://blog.giallozafferano.it/ilcaldosaporedelsud/mostarda-di-mosto-cotto/

 

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/284.JPG

ortaggi da tubero: patata, topinambur

 

LA PATATA SICILIANA

 

In Sicilia, grazie alle favorevoli condizioni climatiche riscontrabili in alcune aree costiere, vengono realizzati due cicli di coltivazione extrastagionali: autunno/vernino-primaverile ed estivo-autunnale, temporalmente differenti dal ciclo ordinario, primaverile-estivo. Con il primo ciclo, di gran lunga il più importante, si ottiene la classica ed affermata produzione precoce (denominata anche primaticcia o novella), realizzata tra marzo e inizio giugno, molto apprezzata, soprattutto dai mercati europei e del Nord Italia per la sua freschezza e fragranza. Con il ciclo estivo-autunnale si realizza, invece, la produzione invernale o bisestile o di secondo raccolto (da dicembre a febbraio), che in questi ultimi anni ha visto aumentare la propria importanza relativa. Con i tuberi raccolti in entrambi i cicli è possibile, pertanto, realizzare un calendario di produzione pressoché continuo di 6-7 mesi, da dicembre a maggio-giugno. Entrambe le tipologie di prodotto (patata precoce, o novella, e patata bisestile) sono destinate al consumo fresco e vengono commercializzate subito dopo la raccolta.

 

 

Cenni storici

 La coltivazione della patata precoce in Sicilia, come riportano i numerosi lavori di due illustri studiosi di questa coltura, Jannaccone e Foti, ebbe inizio intorno al 1910 nella fascia costiera ionica catanese, compresa tra Acireale e Taormina (ME). Essa nacque come frutto della collaborazione tra i commercianti di vino della zona di Giarre-Riposto che introdussero i primi tuberi-semi dalla Germania, dove esportavano i vini dell’Etna, e i coltivatori dei vigneti del luogo, alla ricerca di un’occupazione nel lungo periodo di inattività tra le vendemmie dell’autunno e la ripresa vegetativa della vite, in primavera. I commercianti anticipavano ai pataticoltori i tuberi-seme, ma anche concimi, agrofarmaci e, talvolta, somme di denaro, contro l’impegno da parte dei coltivatori a consegnare le patate novelle raccolte, che venivano in larga misura esportate in area tedesca. La terra veniva data in affitto dai proprietari dei vigneti, i quali, oltre al canone, ricevevano come corrispettivo anche gli effetti residui delle lavorazioni e delle laute concimazioni effettuate alla patata, nonché la sistemazione del terreno dopo la raccolta dei tuberi. La patata precoce in quella fase storica ebbe il merito di innescare, nel territorio etneo, un nuovo equilibrio economico-sociale che consentì di superare le ricorrenti crisi della viti-vinicoltura con nuove fonti di reddito per le aziende. A seguito della conversione dei vigneti in limoneti e delle ampliate possibilità di collocamento della patata novella soprattutto sui mercati esteri, ma anche su quelli del Nord Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta sono state destinate alla coltura nuovi areali nelle province di Messina e Siracusa che beneficiavano di condizioni più favorevoli. L’ampliamento degli areali di coltivazione, oltre a comportare una maggiore e più articolata produzione complessiva, consentì un sostanziale allargamento del calendario di raccolta e di commercializzazione e un significativo miglioramento della qualità del prodotto. Quest’ultimo è stato reso possibile sia dall’utilizzo delle cosiddette “terre rosse” nel Siracusano sia dall’impiego della varietà Sieglinde, dalle eccellenti qualità del tubero, nel versante messinese. Da allora, con vicende sia pure alterne, la patata precoce siciliana ha visto incrementare progressivamente le superfici coltivate, che sono passate dai circa 3600 ha del 1939 agli attuali 10.000 ha.

Areali di coltivazione

Le aree di coltivazione, prevalentemente dislocate lungo le zone costiere della Sicilia orientale, hanno manifestato, nell’ultimo ventennio, una sostanziale variazione del loro assetto territoriale. Procedendo da nord verso sud, troviamo la prima zona pataticola isolana lungo la fascia costiera settentrionale della provincia di Messina, con le aree di Milazzo e Torregrotta, caratterizzate, nella seconda metà del Novecento, dall’esclusiva coltivazione della varietà Sieglinde, il cui eccellente prodotto veniva esportato in larghissima misura in Germania. Negli ultimi vent’anni le superfici coltivate in provincia di Messina hanno subito un significativo ridimensionamento, passando dai quasi 2000 ha del triennio 19871989 agli attuali 500 ha. Il secondo areale fa capo alla costa ionica catanese tra Acireale (CT) e Taormina (ME), dove spicca la storica e già citata area di Giarre-Riposto. Qui la coltura viene realizzata prevalentemente su terreni sabbiosi di origine vulcanica, i quali, imbrattando l’epidermide dei tuberi, conferiscono loro la caratteristica colorazione scura, poco apprezzata dai mercati. Per tale motivo il prodotto raccolto nei terreni vulcanici deve subire un attento lavaggio prima del confezionamento. Anche le superfici pataticole di quest’area hanno subito una forte contrazione, passando dai poco meno 1300 ha della fine degli anni Ottanta agli attuali 400 ha. La terza area si colloca in provincia di Siracusa, dove la coltura viene principalmente realizzata lungo la fascia che dal capoluogo si estende fino a Pachino, con particolare concentrazione in Agro di Cassibile. In quest’area la patata, oltre a trovare condizioni pedoclimatiche più consone alle sue esigenze, ha beneficiato di una fase congiunturale favorevole a causa della progressiva contrazione delle superfici negli areali del Catanese e del Messinese, e del basso impiego di manodopera richiesto per la sua coltivazione. Qui la patata ha largamente occupato il posto del pomodoro precoce in pien’aria e del carciofo, colture che, al contrario, richiedevano molta manodopera. Tutto ciò ha fatto sì che la crescita della pataticoltura siracusana, a partire dagli anni Sessanta, risultasse costante e, da vent’anni a questa parte, addirittura impetuosa, passando da poco più di 2000 ha agli attuali oltre 6000 ha, che rappresentano il 60% delle superfici coltivate dell’isola. Caratteristica comune alle tre aree pataticole tradizionali è la cospicua incidenza della monosuccessione della coltura sullo stesso terreno sia per l’elevata frequenza di appezzamenti di limitata estensione (aree tra Messina e Catania) – inconveniente che, tra l’altro, ha fortemente ostacolato una completa meccanizzazione delle operazioni colturali – sia per la carenza di colture ortive alternative alla patata, nel Siracusano. In ogni caso il forte ricorso alla monosuccessione ha portato a una serie di problemi fitosanitari (peronospora, rizoctonia e, soprattutto, nematodi) che attualmente pongono seri limiti alla redditività della coltura in alcune località. È anche per questo motivo che negli ultimi anni la coltura è andata diffondendosi in alcune nuove aree costiere delle province di Ragusa e Caltanissetta dove ha trovato condizioni pedoclimatiche in grado di soddisfare meglio le esigenze delle coltivazioni fuori stagione. In ogni caso, un limite comune a tutte le aree pataticole siciliane è rappresentato dalla mancanza di sistemi organizzati per un’efficace valorizzazione del prodotto.

 È comunque da segnalare con soddisfazione la presenza in coltura, anche con buoni risultati agronomici, delle prime varietà costituite in Italia. Attualmente, accanto alle già affermate Arinda, Mondial, Timate, Nicola e Ditta (preferita, quest’ultima, per le colture biologiche), il panorama varietale include anche nuovi genotipi, quali Marabel, Safrane, Labadia, Matador e le italiane Antea e Bellini, tutti con tuberi a buccia gialla, nonché Romanze e Red Fantasy, con tuberi a buccia rossa. La nuova articolazione varietale della pataticoltura siciliana ha sensibilmente migliorato la capacità di intercettare con efficacia le variegate richieste di un mercato sempre più esigente. In questo quadro è opportuno segnalare la costituzione, negli ultimi anni, di una rete regionale di sperimentazione sulla patata precoce promossa dalla collaborazione tra l’università di Catania e il servizio allo sviluppo dell’assessorato Agricoltura e foreste della Regione Siciliana, che ha già permesso di individuare nuove varietà adattabili alla coltura precoce, quali Everest, Ambition, Labadia, Madeleine e Allians, delineando per ciascuna di esse il profilo qualitativo e la destinazione culinaria più rispondente.

Raccolta e manipolazione del prodotto

 La raccolta viene generalmente effettuata con l’ausilio di macchine scavatuberi, che hanno la funzione di portare in superficie i tuberi stessi, i quali sono poi raccolti manualmente. I tuberi ricavati dalle colture nei terreni vulcanici dell’area di Giarre Riposto, prima di essere confezionati e commercializzati, vengono sottoposti, mediante apposite macchine, a lavaggio con acqua per asportare i residui terrosi di colore scuro. Questa operazione, un tempo esclusiva di tale area, va sempre più estendendosi anche ai tuberi raccolti negli altri areali. I tuberi, dopo opportuna cernita e ripulitura, vengono confezionati in cartoni, retini ecc. e, relativamente a quelli esportati, anche in cesti di castagno oppure sacchi di juta o altre fibre. L’extrastagionalità permette che una quota apprezzabile della produzione, seppure in forte contrazione nell’ultimo decennio, sia collocata sui mercati esteri. L’altra quota di prodotto è destinata, invece, alla grande distribuzione organizzata e ai mercati ortofrutticoli, del Centro-Nord Italia in particolare.

 

Prof. Giovanni Mauromicale - Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente

dell'Università degli Studi di Catania

http://www.colturaecultura.it/capitolo/patata-sicilia

 

L'Olio Extravergine di Oliva si ottiene dal frutto della pianta di Olivo. L'oliva è un frutto carnoso detto, in botanica, drupa.

Il fatto che l'olio di oliva si estragga da un frutto e non da un seme, è molto importante dal punto di vista organolettico, nutrizionale e salutistico poiché oltre ai grassi, molte altre sostanze preziose, tipiche solo dei frutti, si trasferiscono nell'olio.

L'olio extravergine di oliva è uno dei pochi prodotti dell'agricoltura derivati da un frutto, per semplice estrazione fisico-meccanica, che può essere consumato direttamente senza che subisca ulteriori processi industriali. Più di ogni altro prodotto alimentare, la sua qualità dipende dalla delicatezza con cui si eseguono tutte le lavorazioni del frutto stesso (l'oliva).

 

 

Le caratteristiche di pregio dell'Olio Extravergine di Oliva sono:

Tecnologia di estrazione fisico-meccanica, senza aggiunta di solventi chimici;

Presenza nell'olio di una serie di componenti minori, derivati dal frutto dell'oliva (steroli, squalene, alcoli, pigmenti, fenoli, tocoferoli e sostanze volatili) che costituiscono la frazione insaponificabile;

Composizione equilibrata in acidi grassi (in saturazione intermedia).

Odore più o meno intenso, che ricordi il frutto fresco dell'oliva (fruttato);

In bocca deve dare una leggera sensazione di amaro e piccante alla base della lingua, non deve essere untuoso, ma fluido.

Secondo il mito, la prima regione italiana a ricevere l’albero sacro dalla Grecia fu la Sicilia grazie ad Aristeo, figlio di Apollo, che ne introdusse la coltivazione e insegnò alle popolazioni locali come ricavare l’olio dalle olive.

In base al regolamento Europeo, Reg. CE 1513/2001, l’olio viene cosi classificato:

– Olio di oliva extravergine: gusto assolutamente perfetto e acidità libera, espressa in acido oleico, non superiore allo 0,8% (0.8 grammi per 100 grammi).

– Olio di oliva vergine: gusto perfetto e acidità libera non superiore al 2%.

– Olio di oliva vergine lampante: gusto imperfetto e/o acidità libera superiore al 2%.

L’introduzione dell’olivo nella zona orientale della Sicilia è avvenuto intorno al II° millennio a.C., ad opera dei Fenici e dei Greci. In questo areale, la presenza del vulcano Etna, con le sue manifestazioni eruttive, ha alimentato il mito di questa coltura: il Ciclope Polifemo, personificazione dell’Etna con il suo occhio iniettato di fuoco, viene accecato da Ulisse con un tronco di olivo.

Testimonianza dell’importanza della produzione oleicola “etnea” si riscontra già nell’opera di Pietro Bembo che, nel suo “De Aetna”, cita la bontà ed il pregio della coltura dell’olivo coltivato intorno al vulcano.

Tocqueville nel 1827, durante il suo viaggio in Sicilia, a proposito della zona dell’Etna parla di prosperità ed abbondanza grazie alle coltivazioni locali di olivo rese particolarmente fertili grazie anche alle peculiari proprietà conferite dal terreno vulcanico.

Oggi sull’Etna la “cultura dell’olio”, parte integrante e preponderante della cultura delle sue genti, assurge a simbolo di qualità della vita e di rispetto di secolari tradizioni.

 

 

 

Per Nocellara il futuro è Dop. L’oliva da tavola etnea conquista l’attenzione dei buongustai e degli Enti locali

 

Al mattino presto, l’aria è piena d’odori e il sole che scalda la terra e il cuore dei siciliani sembra non conoscere mezze misure. Il silenzio dei giardini è rotto da grilli e cicale, quando un refolo di vento s’incunea tra i rami di secolari ulivi, straordinari nell’offrire doni come la Nocellara dell’Etna: un’oliva verde, grande, tonda dalla polpa consistente. Olive da mangiare condite con olio, aglio, sedano, prezzemolo e aromi. Una produzione tipica che merita il marchio DOP (Denominazione d’origine protetta). Con questo scopo si sono riuniti a Paternò, all’auditorio “Don Dilani”, produttori e trasformatori, politici e amministratori per dare avviare la costituzione di un consorzio dell’oliva da tavola.

“Ottenere questo riconoscimento – dice il consigliere provinciale Salvo Panebianco, promotore dell’iniziativa – è molto importante soprattutto se si pensa che nel 2006 non saremo più tra i Paesi dell’Unione Europea ad obiettivo 1. Ciò comporterà, inevitabilmente, che saranno finanziate solo le produzioni di qualità e la Nocellara Etnea può diventare volano di sviluppo locale”.

Certo l’oliva da mensa può rappresentare insieme con altri prodotti della provincia catanese, come il vino e l’arancia rossa, la punta di diamante del “made in Sicily”alimentare. Un pacchetto di prodotti tipici d’alta qualità in grado di assicurare un futuro più roseo alla nostra agricoltura.

E’ il primo passo del percorso che deve portare all’ottenimento del marchio DOP. Tra i punti più importanti ricordiamo le zone di produzione, riservate ad ampie fasce dei comuni di Bronte, Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Ragalna, Paternò, che rientra quasi per intero nell’area delimitata, Catenanuova, Belpasso, Motta S.Anastasia e Ramacca. Altri requisiti indispensabili perchè si possa parlare di Nocellara DOP sono: il tipo di raccolta che va effettuata a mano e le tecniche di coltivazione esclusivamente tradizionali in modo da dare alle olive specifiche caratteristiche organolettiche.

Un’agricoltura che, di fronte alla globalizzazione dei mercati deve puntare con coraggio e determinazione su prodotti che si collocano nelle fasce più alte del mercato. D’altra parte i consumi in tutto il mondo stanno crescendo e sono finalmente riconosciute alle olive proprietà non solo organolettiche a sostegno della dieta mediterranea, ma anche salutistiche, basta pensare all’olio extravergine, che ne fanno un prodotto unico e insostituibile.

Salvo Reitano

 

 

 

 

MONTE ETNA

 

 

L'olio "Monte Etna" DOP è ottenuto dalla varietà Nocellara etnea per almeno il 65% e da altre varietà presenti nella zona (Moresca, Brandofino, Biancolilla, etc.). Al consumo ha un colore giallo con riflessi verdi, odore fruttato leggero, sapore fruttato con leggera sensazione di amaro e piccante.
L'olio extra vergine si ottiene da olive sane, raccolte entro il periodo compreso tra l'invaiatura delle drupe fino alla seconda decade di gennaio, variazione dettata dalla diversa altitudine dei territori di produzione. Dopo la raccolta le olive vengono conservate in recipienti areati fino alla molitura per la quale sono ammessi solo processi meccanici e fisici, al fine di ottenere un olio che sia il più possibile fedele alle caratteristiche peculiari del frutto.

La zona di produzione delle olive destinate alla produzione dell'olio extravergine di oliva a denominazione di origine protetta comprende, nell'ambito del territorio amministrativo della regione Siciliana, i territori olivati dei comuni (atti a conseguire le produzioni con le caratteristiche qualitative previste nel disciplinare di produzione) che elenchiamo di seguito:

La D.O.P. “Monte Etna” ricade in un comprensorio compreso tra 100 e 1000 m sul livello del mare appartenente al rilievo montuoso vulcanico dell’Etna. Le tradizionali sistemazioni a terrazze e i muretti a secco in pietra lavica ne segnano in modo inconfondibile il paesaggio.

Il clima ventilato e il terreno vulcanico costituiscono un “unicum” capace di conferire all’olio etneo caratteristiche uniche ed irripetibili.

Recenti ricerche hanno fra l’altro evidenziato nell’ olio Monte Etna significative differenze nella composizione in acidi grassi rispetto ad oli di diversa provenienza.

La zona di produzione delle olive destinate alla produzione dell'olio extravergine di oliva a denominazione di origine protetta comprende, nell'ambito del territorio amministrativo della regione Siciliana, i territori olivati dei comuni (atti a conseguire le produzioni con le caratteristiche qualitative previste nel disciplinare di produzione) che elenchiamo di seguito:

Provincia di Catania: Adrano, Belpasso, Biancavilla, Bronte, Camporotondo Etneo, Castiglione di Sicilia, Maletto, Maniace, Motta S. Anastasia, Paterno', Ragalna, Randazzo, Santa Maria di Licodia, San Pietro Clarenza.

Provincia di Enna: Centuripe.

Provincia di Messina: Malvagna, Mojo Alcantara, Roccella Valdemone, Santa Domenica Vittoria.

VAL DI MAZARA

 

 

 

 

La denominazione fa riferimento ai giustizieriati (province) di epoca Normanna che dividevano la Sicilia in cosiddette Valli: Val di Mazara, Val di Noto e Valdemone.

Le notizie storiche sulla diffusione dell’olivo in questo territorio sono antichissime e si confondono tra mitologia e storia. Testimonianze storiche sono fornite dai ritrovamenti nei paramenti sepolcrali d’età Sicana. La testimonianza più tangibile è però data dai millenari esemplari che facilmente si possono incontrare nelle campagne dell’Agrigentino (Sciacca), in cui si ritrova anche una ricca variabilità genetica e cultivar di olivo spesso ancora poco note.

Il Val di Mazara nasce nell’intero territorio della provincia di Palermo e in alcuni comuni della provincia di Agrigento (Alessandria della Rocca, Bivona, Burgio, Calamonaci, Caltabellotta, Cattolica Eraclea, Cianciana, Lucca Sicula, Menfi, Montallegro, Montevago, Ribera, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita del Belice, Sciacca, Villafranca Sicula). Prodotto di grande qualità e salubrità, è frutto esclusivamente di varietà di olive locali: Biancolilla, Nocellara del Belice, Cerasuola (per il 90%) e Ogliarola Messinese e Giarraffa (per il restante 10%).

La coltivazione in queste terre avviene secondo metodi tradizionali, tali da non modificare le caratteristiche originarie delle olive, la cui raccolta avviene con leggero anticipo rispetto alla piena maturazione al fine di estrarre un olio di maggiore fragranza e contenente più alti valori di antiossidanti naturali.

Di odore e sapore leggermente fruttai, aroma mandorlato, retrogusto dolce ed eccellente persistenza aromatica, il Val di Mazara è leggero e fragrante al gusto e benefico per la salute. E’ infatti ricco di vitamine e di polifenoli, ha una scarsa presenza di perossidi e una concentrazione di acidi monoinsaturi.

La zona di produzione si estende per 35.000 ettari circa. Le aziende olivicole sono circa 30.000 distribuite nella provincia di Palermo e nell’Agrigentino.

 

VALLI TRAPANESI

Fin dall’antichità le olive erano usate nell’alimentazione dei locali e, a partire dal IV secolo a. C., nella Sicilia occidentale, le olive più grosse venivano trattate con sale e morchia e conservate nello stesso olio, come riferiscono molte commedie latine a proposito delle grosse olive dell’Ericino conservate in salamoia d’erbe.

L’olio di oliva era dunque sempre presente sulle mense dei Sicilioti e, in seguito, dei latifondisti Romani. Questi ultimi, nelle grandi tenute, in cui era divisa la provincia di Sicilia, ricavavano l’olio anche dall’olivo selvatico e dall’olivo nano.

La denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” è riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalle seguenti varietà di olivo presenti, da sole o congiuntamente, negli oliveti: Cerasuola e Nocellara del Belìce in misura non inferiore all’80%. Possono, altresì, concorrere altre varietà presenti negli oliveti in misura non superiore al 20%.

Le condizioni ambientali e di coltura degli oliveti devono essere quelle tradizionali e caratteristiche della zona e, comunque, atte a conferire alle olive ed all’olio derivato le specifiche caratteristiche. I sesti di impianto, le forme di allevamento ed i sistemi di potatura devono essere quelli tradizionalmente usati o, comunque, atti a non modificare le caratteristiche delle olive e dell’olio. La produzione massima di olive non può superare 8.000 kg per ettaro negli oliveti specializzati. Anche in annate eccezionalmente favorevoli la resa dovrà essere riportata sui limiti predetti attraverso accurata cernita purché la produzione globale non superi di oltre il 20% il limite massimo sopra indicato. La raccolta delle olive destinate alla produzione dell’olio extravergine di oliva a denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” può avvenire con mezzi meccanici o per brucatura. La raccolta inoltre viene effettuata nella fase della seminvaiatura e non deve protrarsi oltre il 30 dicembre di ogni campagna oleicola. La resa massima di olive in olio non può superare il 22%. Le olive devono essere molite entro i due giorni successivi alla raccolta. Per l’estrazione dell’olio sono ammessi soltanto processi meccanici e fisici atti a produrre oli che presentino il più fedelmente possibile le caratteristiche peculiari originarie del frutto.

L’olio di oliva extravergine a denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” presenta le seguenti caratteristiche: colore: verde con eventuali riflessi giallo oro  - odore: netto di oliva con eventuali toni erbacei - sapore: di fruttato con sensazione leggera di piccante e di amaro - acidità massima totale espressa in acido oleico, in peso, non eccedente a grammi 0,5 per 100 grammi di olio

Il prodotto si presenta alla vista di un colore verde intenso con decisi riflessi giallo dorati. Si caratterizza per l’odore fruttato di media intensità oltre ad essere dotato di ricchi sentori di pomodoro di media maturità e spiccate note balsamiche. Ha un gusto fruttato di media intensità, caratterizzato da eleganti note di pomodoro acerbo e spiccati toni di erbe officinali. Amaro e piccante sono equilibrati e ben distribuiti.

Le olive destinate alla produzione dell’olio di oliva extravergine della denominazione di origine protetta “Valli Trapanesi” devono essere prodotte, nell’ambito della provincia di Trapani, nei comuni di:Alcamo, Buseto Palizzolo, Calatafimi, Castellammare del Golfo, Custonaci, Erice, Gibellina, Marsala, Mazara del Vallo, Paceco, Petrosino, Poggioreale, Salemi, San Vito Lo Capo, Trapani, Valderice, Vita. La zona predetta è delimitata in cartografia: 1:25.000.

L’olivo caratterizza il paesaggio locale fin dal tempo dei Greci e dei Fenici, ma è con gli Arabi e ancor di più con gli Spagnoli che l’olio di questa zona è diventato rinomato per il suo valore nutrizionale. Molti degli oliveti impiantati dagli Spagnoli sono ancora oggi presenti nelle Valli Trapanesi e hanno assunto un valore storico e a volte monumentale.

http://www.tp.camcom.it/porting/guidaagricoltura/Sito/src/Trapanesi.htm

VALDEMONE

Area di produzione - comprende i territori di tutti i comuni della provincia di Messina, fatta eccezione per Floresta, Moio Alcantara e Malvagna.

Varietà - è ottenuto dalle varietà di olivo Santagatese, Ogliarola Messinese e Minuta presenti negli oliveti, da soli o congiuntamente, nella misura minima del 70%. Le varietà Mandanici, Nocellara Messinese, Ottobratica, Verdello e Brandofino possono essere presenti per il restante 30%.

Caratteristiche al consumo - aspetto limpido e leggermente velato; colore da verde con tonalità gialle a giallo oliva; fruttato: la sensazione olfattiva mette in risalto il profumo più o meno intenso delle olive appena raccolte, accompagnato sempre da sentori di erbe, foglie e fiori di piante spontanee presenti nel corteggio floristico degli oliveti della provincia di Messina; sensazioni gustative: al gusto, l'olio ribadisce le percezioni olfattive con una sensazione di olive fresche appena raccolte contrastata, in minor misura, dall'amaro; le sensazioni retro-olfattive che accompagnano più o meno nettamente l'olfatto e il gusto dell'olio Valdemone, sono la mandorla, la frutta fresca, il pomodoro, il cardo; l'acidità massima è dello 0,7%.

Metodo di produzione - la raccolta deve essere effettuata dalla pianta sia a mano che con macchine agevolatrici (es. pettini vibranti). E' ammesso l'impiego di reti per l'intercettamento delle olive al momento della raccolta; dove possibile è ammessa la raccolta meccanica con l'impiego di vibratori. E' comunque vietato l'impiego di prodotti cascolanti così come non sono ammessi altri metodi di raccolta che possono danneggiare le olive o determinare il contatto del frutto con il terreno. L'operazione di raccolta deve essere effettuata nel periodo che va da ottobre fino a gennaio. Le olive appena raccolte vanno conservate in cassette di plastica finestrate, ben arieggiate in modo da non alterare la qualità originaria e vanno molite entro due giorni dalla raccolta. Per il trasporto si possono usare anche cassoni di plastica di maggiore capacità. Le olive devono essere prive di imperfezioni (attacchi di mosca e tignola) che potrebbero influenzare negativamente la qualità dell'olio. Le operazioni di oleificazione e di imbottigliamento dell'olio devono essere effettuate entro il territorio previsto dal disciplinare. La produzione massima di olive per ettaro non deve superare i 60 q.li negli impianti tradizionali e i 100 q.li per ettaro negli impianti intensivi. Le rese massime in olio delle olive non possono superare il 24%. Prima della molitura, le olive devono essere preventivamente lavate e defogliate. Per l'operazione di frangitura sono ammessi tutti i tipi di frantoio. L'operazione di molitura avviene con il controllo della temperatura che non deve superare i 28-30 °C. I frantoi tradizionali possono essere a 2-4 macine. Nei frantoi a molazza, i tempi di lavorazione sono di 20-30 minuti, mentre con i frangitori sono dell'ordine di un minuto; tali tempi di lavorazione variano in funzione del grado di maturazione delle olive. La temperatura ottimale della gramolatura si aggira intorno ai 28-30 °C, mentre i tempi di lavorazione sono mediamente di 30 minuti.

http://www.lavinium.com/dop/olio_valdemone.shtml

MONTI IBLEI

La DOP "MONTI IBLEI", è il riconoscimento ufficiale delle caratteristiche di pregio dell'Olio Extra Vergine di Oliva ottenuto nel comprensorio omogeneo dei Monti Iblei, territorio, a sud della Sicilia, nel cuore del mar Mediterraneo, antica porta di ingresso dell'olivo in Europa.

Il consumatore può riconoscere un prodotto di qualità assaggiando direttamente il prodotto, leggendo ed individuando in etichetta il marchio comunitario DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Tipica) che danno garanzia che quel prodotto è stato sottoposto a severi controlli di tracciabilità e all'analisi organolettica di un Panel ufficiale.

Consumare Olio Extravergine di Oliva DOP significa, pertanto, avvicinarsi al territorio di origine, alla sua storia, alle sue tradizioni ed apprezzare il frutto del lavoro dell'uomo. La nostra terra di Sicilia, grazie alla secolare abilità ed esperienza degli olivicoltori e frantoiani, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento europeo. L'ampia gamma di profumi e sapori che le tre varietà principali di oliva sono in grado di esprimere, consentono di ottenere oli unici ed inimitabili.

Aree di produzione: Il territorio di produzione dell'olio extra vergine d'oliva DOP Monti Iblei riguarda le province di Catania, Ragusa e Siracusa, per una superficie complessiva di 19.000 ha circa. In questa zona elettiva la coltivazione dell'ulivo si basa su sistemi tradizionali e ciò è testimoniato dalla presenza di migliaia di ettari di uliveti e di centinaia di piccoli frantoi, che utilizzano processi di estrazione dell'olio tramite centrifuga, o secondo sistemi ancora più tradizionali, quali i meccanismi a pressione.

L'estensione della coltura ha determinato la nascita di decine di aziende che imbottigliano il prodotto e lo commercializzano e che sono proiettate sui mercati nazionali ed esteri.

 Le varietà più coltivate sono: la Moresca, la Tonda Iblea e la Nocellara Etnea o Verdese, in minor misura si trova la Biancolilla, la Siracusana, la Nocellara Messinese, e di recente introduzione varietà non siciliane come la Carolea e la Coratina. La raccolta delle olive viene fatta in maniera differenziata a seconda dell'altitudine, dal mese di settembre a gennaio.

L’areale Monti Iblei è un massiccio di natura calcarea, che due milioni di anni fa è emerso dal fondo del Mar Mediterraneo. I movimenti orogenetici e i continui sollevamenti della crosta hanno determinato l’attuale configurazione del territorio, creando le masse rocciose, le caratteristiche cave dal lento digradare verso il mare e gli spettacolari canyons.

http://www.montiblei.com

NOCELLARA DEL BELICE

Le caratteristiche organolettiche tipiche di quest’olio extravergine di oliva sono: colore verde intenso, profumo di fruttato d’oliva appena raccolta, tono erbaceo, sentori di pomodoro e carciofo, retrogusto di mandorla con sensazioni di amaro e piccante. Acidità massima dello 0,70% e una densità di valore medio.

Ciclo produttivo

La raccolta delle Olive di Nocellara per olio ha inizio i primi di Ottobre e si conclude, di norma, entro la fine di Novembre.

Le olive subito dopo la raccolta vengono trasportate al frantoio dove vengono trasformate in olio entro le 12 ore successive in impianti di trasformazione a freddo (la temperatura nel processo di macinatura non deve superare i 27°c).

Nel processo di trasformazione si possono distinguere quattro fasi importanti:

Pulitura, le olive vengono lavate e defogliate con getti di acqua calda e aria forzata.

Molitura, le olive vengono macinate meccanicamente.

Gramolatura, le olive macinate vengono ridotte in pasta.

Estrazione, dalla pasta di olive viene estratto l’olio, la sansa (residui solidi), e l’acqua, separati da moderne centrifughe.

Ottimo per le fritture, perché il suo punto di fumo è di 140-180° e può raggiungere i 280° senza bruciare grazie alla sua bassa acidità, nessun altro grasso può resistere a temperature così elevate e a differenza di altri oli o grassi per frittura, dopo il primo uso, può essere conservato ed adoperato per molte altre volte.

La sua coltivazione si estende in tutta la Valle del Belice tra Partanna, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Salaparuta, Poggioreale e Gibellina.

Differenza tra Olio Vergine ed Extravergine

Un olio estratto solo con processi meccanici a una temperatura tale da non provocare alterazioni negative al prodotto finale, può essere definito “Olio Vergine”.

A sua volta, un “olio vergine”, per ottenere la denominazione di “extravergine” deve obbligatoriamente rispettare determinati parametri di qualità molto restrittivi (valore di acidità, indicatori di perossidazione, caratteristiche organolettiche). Quindi l’Olio Extravergine risulta essere superiore rispetto all’Olio Vergine. Questi due eccellenti prodotti Siciliani, le olive da mensa e l’olio Nocellara del Belice, possono essere acquistati online anche su Essenze di Sicilia, direttamente da Castelvetrano (TP).

testo a cura di essenzedisicilia.it

http://www.viedelgusto.it/nocellara-del-belice-olive-olio-extravergine/

COLLINE ENNESI

L’olio extravergine d’oliva "Colline Ennesi” è prodotto il territorio della provincia di Enna: Agira, Aidone, Assoro, Barrafranca, Calascibetta, Catenanuova, Centuripe, Cerami, Enna, Gagliano Castelferrato, Leonforte, Nicosia, Nissoria, Piazza Armerina, Pietrapezia, Regalbuto, Sperlinga, Troina, Valguarnera, Caropepe e Villalrosa. Deve essere ottenuto da oliveti composti dalle seguenti varietà: Moresca, Nocellara Etnea e Biancolilla per il 70% e altre varietà tra le quali Giarraffa, Tonda Iblea e Ogliarola per un massimo del 30%.

E’ un olio extra vergine di oliva dal colore che va dal verde al giallo oro. Fruttato medio o intenso, esibisce leggere sensazioni di erba e sensazioni di piccante amaro, con eventuali sentori di carciofo, sedano, pomodoro.

La coltivazione dell'ulivo e di conseguenza la produzione dell'olio tipico dell'ennese, possedendo queste singolari qualità organolettiche che lo differenziano nettamente da altri oli, non si configura solo per l'importanza data da una significativa produzione locale, ma anche, nella tradizione antica, come albero di culto al quale tutti i sicilioti dovevano portare somma venerazione così come dimostrato da una ampia e ricca documentazione storica. Questa testimonia una antica presenza della coltivazione dell'ulivo nel territorio provinciale ennese unitamente ad una profonda tradizione degli usi e delle consuetudini ancora vive nel contadino, legati non solo alla produzione di olio ma anche alle sue utilizzazioni.

Le cultivar che si sono specializzate nel territorio rispondono all'esigenza tramandata dai greci di un frutto dedicato alla mensa, l'oliva, ed un prodotto, l'olio, che come unguento era legato ai riti propiziatori: da questo, l'affermarsi di cultivar a duplice attitudine. Qualità e tipicità dell'olio nella provincia di Enna risultano in diretto collegamento. Studi sul germoplasma confermano l'esistenza di una caratterizzazione genetica ennese di Olea Europea e l'analisi chimico fisica dell'olio in relazione al germoplasma oggetto di studio ha evidenziato che le caratteristiche specifiche dell'olio ennese hanno comunque una forte correlazione con la matrice genetica. La combinazione tra cultivar presenti nel territorio di antico insediamento, così come è emerso dall'indagine sul germoplasma, condizioni pedoclimatiche e particolarmente del clima mite mediterraneo che caratterizza questo territorio prevalentemente di media ed alta collina, collocato in area interna priva di diretta influenza del mare, sta alla base della qualità elevata e della tipicità del prodotto i cui specifici parametri chimici hanno come conseguenza la notevole stabilità dell'olio nel tempo a vantaggio del carattere decisamente fruttato che permane a lungo. I terreni sono particolarmente vocati alle coltivazioni arboree ed in particolare per olivo e mandorlo.

 

www.firriando.it

COLLI NISSENI

L’area di produzione dell’olio extravergine di oliva "Colli Nisseni” interessa, come facilmente intuibile dal nome dell’olio, tutto il territorio dei 22 comuni della provincia di Caltanissetta: Acquaviva Platani, Bompensiere, Butera, Caltanissetta, Campofranco, Delia, Gela, Marianopoli, Mazzarino, Milena, Montedoro, Mussomeli, Niscemi, Resuttano, Riesi, San Cataldo, Santa Caterina Villarmosa, Serradifalco, Sommatino, Sutera, Vallelunga Pratameno e Villalba.

 L’olio deve essere ottenuto da oliveti composti dalle varietà: Tonda Iblea, Moresca, Nocellara del Belice per almeno il 70% e altre varietà tra le quali Carolea, Giarraffa, Nocellara Etnea, Nocellana Messinese, Biancolilla e Coratina per un massimo del 30%.

 La tipicità dell’olio extravergine di oliva "Colli Nisseni” D.O.P. ci giunge dalla specifica piattaforma varietale, dai fattori naturali dell'areale di produzione quali il microclima, il terreno e le cultivar (le varietà delle olive utilizzate), nonché dalle particolari tecniche di coltivazione e di produzione tramandate nei secoli dagli olivicoltori nisseni. Il clima della zona è tipico dell'area mediterranea, caratterizzato da inverni miti e piovosi e da estati calde ed aride. La caratteristica comune di molti terreni dei "Colli Nisseni”, fortemente acclivi, ricchi di scheletro e poveri di strato superficiale coltivabile è propria quella di prestarsi poco all’utilizzazione con colture più esigenti.

 Per queste ragioni l’olivo si trova fortemente diffuso, rientrando, fin dai secoli più remoti nell’economia della zona, continuando ancor oggi ad essere di primaria importanza sia per l’alimentazione che per l’utilizzo come fonte energetica, o come materia prima per l’artigianato. In questo contesto ambientale ed umano si sono radicate tradizionali tecniche di sfruttamento della pianta d’olivo, idonee a esaltare le pregiate caratteristiche dell’olio prodotto, che denota una sua spiccata tipicità. L’insieme di tali fattori concorre a differenziarlo nelle sue caratteristiche chimiche ed organolettiche, da qualsiasi altro olio extravergine d’oliva, rendendolo quindi unico.

L’olio extravergine di oliva Colli Nisseni D.O.P. presenta colore da verde a giallo paglierino con riflessi verdognoli, è un fruttato di intensità media, con sentori di erba fresca e pomodoro. Il sapore esprime sensazioni di amaro e di piccante.

 

www.firriando.it

L'OLIO D'OLIVA ENTRO QUANDO VA CONSUMATO?

 

L’olio d’oliva è uno degli alimenti principali della dieta mediterranea e, per noi amanti di cucina, un ingrediente semplicemente irrinunciabile.

Chi ne fa un uso frequente lo acquista in genere in cisterne o damigiane, comprandone grandi quantità e poi conservandole nel modo opportuno. Entro quando però va consumato questo olio? Ha una data di scadenza? C’è un limite oltre il quale non è più possibile consumarlo in sicurezza?  Cercheremo di rispondere a questo e ad altri quesiti in un articolo che chi ama la buona cucina dovrebbe mandare a memoria.

12 mesi, massimo 18

Un vecchio adagio recita <<vino vecchio, olio nuovo>> a sottolineare la profonda differenza tra questi due prodotti. Se il primo infatti può, in determinate condizioni, essere invecchiato e migliorato, il secondo andrebbe invece consumato quasi fresco e comunque mai oltre i 18 mesi dalla produzione.

 L’olio d’oliva infatti tende a perdere le sue caratteristiche organolettiche (quindi colore, sapore, acidità e via dicendo) a partire dal primo anno successivo alla produzione, e oltre il limite dei 18 mesi il prodotto non dovrebbe essere più consumato, perché ormai diventato lontano parente dello straordinario prodotto che era in principio.

 L’olio extravergine vecchio fa male?

No, non fa male, tant’è che fino a pochi anni fa (prima della UE per intenderci) le conserve a base d’olio d’oliva extravergine si consumavano anche dopo qualche anno dalla produzione.

 L’olio non fa male, anche se ha superato i 18 mesi, ma perde molte delle sue proprietà e dei suoi sapori, diventando un prodotto scadente e che non merita l’attenzione di chi ama cucinare e mangiare bene.

 Se ne fosse rimasto in dispensa meglio smaltirlo, soprattutto se ci teniamo al gusto dei nostri piatti.

 Olio da supermercato: la scadenza non la racconta giusta

Curiosa è la situazione degli oli d’oliva da supermercato, dato che la normativa europea permette dei strani giochini che possono mantenere sul mercato un prodotto che non dovrebbe essere, in una situazione normale, destinato alla vendita.

La normativa parla infatti di una scadenza da apporre al momento dell’imbottigliamento e non al momento della produzione, il che permette ai produttori di guadagnare qualche mese. Facciamo l’esempio di un produttore che mantiene l’olio stoccato per 3 mesi, per poi imbottigliarlo. La bottiglia riporterà una data di scadenza ultima che indicherà in totale 21 mesi dalla produzione, ben oltre il limite massimo entro il quale l’olio conserva inalterato il suo sapore.

Come si altera l’olio

Non stiamo parlando di un prodotto stabile, stiamo parlando di un prodotto che subisce ossidazioni e trasformazioni e che cambia (e di molto) il suo sapore dopo il periodo che abbiamo indicato. Il sapore dell’EVO ad esempio tende a diventare più acido, quasi metallico, se non addirittura con note decise di muffa, segno che il prodotto è ormai inutilizzabile e deve essere smaltito il prima possibile.

 

http://tecnichef.it/lolio-doliva-scadenza-entro-quando-consumato/

 

 

 

 

 

 

La Sicilia 26/11/2017 di Carmen Greco

Dalle lenticchie nere di Leonforte a quelle di Ustica e Villalba la forza di piccole produzioni che combattono con la qualità contro la globalizzazione del cibo

Gioielli piccolissimi, ma gioielli. La riscoperta dei legumi di Sicilia è cosa relativamente recente, non più di 10-15 anni. Nel 2007 secondo il Consorzio di ricerca Gian Pietro Ballatore di Palermo c’erano 50mila ettari coltivati a fava, 10mila per il fagiolo e 1.800 per la lenticchia. Oggi, dopo dieci anni di globalizzazione selvaRisultati immagini per cece leonforteggia, le colture siciliane si sono ulteriormente contratte (su tutto il territorio siciliano si contano circa 24.000 ettari coltivati a legumi) ma gli agricoltori “illuminati” hanno deciso - in primis per sopravvivere - di seguire la linea della qualità, l’unica strada per entrare in quella nicchia di mercato che privilegia la storia della nostra cultura agricola e che apre vere prospettive di futuro per fave, lenticchie e fagioli “made in Sicily”. «Certo, siamo Davide contro Golia - osserva il produttore Luca Parano di Leonforte - non possiamo competere con le multinazionali del Canada e del Messico che contano su estensioni infinite e pianeggianti per coltivare e soprattutto praticano trattamenti (leggasi glifosato e veleni vari) che noi non possiamo, nè vogliamo fare, intanto perché Italia e Ue li vietano, poi perché non è la nostra filosofia». Parano è proprio uno di questi agricoltori “illuminati” che, quindici anni fa, ha deciso di diversificare la produzione di pesche di Leonforte igp, must dell’azienda di famiglia, recuperando la coltivazione della “lenticchia nera” e della “fava larga”, due presidi Slow Food (tre con le pesche tardive igp).

 Quando parla dei “suoi” legumi gli si illuminano gli occhi. «Sono ottimi - descrive - sotto tutti i punti di vista, organolettico, nutrizionale, tengono benissimo la cottura, hanno un gusto unico. La lenticchia nera è una pianta nana e tutte le fasi della lavorazione, dalla raccolta alla pulitura, devono essere fatte necessariamente a mano. E’ un prodotto che non subisce alcun tipo di trattamento, non viene lavorato da macchinari, è tutto fatto dall’uomo».

 Anche per questo un chilo di lenticchia nera di Leonforte costa 20 euro al kg rispetto alla lenticchia classica del Canada che di euro al chilo ne costa appena 2. Un abisso, ma soprattutto un abisso qualitativo se si pensa, un dato su tutti, che le lenticchie nere hanno il Risultati immagini per cece leonforte36% di ferro in più rispetto alle lenticchie comunemente commercializzate. Una caratteristica che, oggi, i consumatori hanno cominciato ad apprezzare. «Assolutamente sì - conferma Parano - la gente lo sa e vuole la nostra lenticchia pur essendo molto più cara. Io faccio parte del circuito di Campagna Amica (i mercatini a km zero di Coldiretti ndr) e ho difficoltà a coprire la richiesta. Non ho il tempo di pulirla, la richiesta è più alta dell’offerta. Ma la lenticchia nera non è l’unica eccellenza, a Villalba, per esempio coltivano un’altra bellissima varietà. Noi produttori abbiamo cominciato a capire che queste coltivazioni andavano recuperate e rilanciate quando siamo stati invasi da tutte le produzioni estere a bassissimo costo e a bassissima qualità. La Val Dittaino, parlo per il mio territorio, era il granaio dei Romani e finalmente qui gli agricoltori hanno capito che bisognava puntare sulla qualità dei prodotti autoctoni siciliani. Io non pianto il cece grosso californiano, coltivo due varietà autoctone, il “cece sultano” e il “cece pascià” due autentici prìncipi della nostra agricoltura e mi augurerei della nostra alimentazione».

 A “schiacciare” da un punto di vista commerciale le produzioni di legumi siciliani sono Canada ed Egitto con le fave, Messico con i fagioli, la California con produzioni di ceci, anche se meno massicce. Di fatto, nei supermercati siciliani è raro trovare i legumi autoctoni, a meno che non ci siano delle aree dedicate alle produzioni di nicchia.

 «Negli Anni Settanta - ricorda parano - la lenticchia nera si stava perdendo e qui a Leonforte, un unico produttore ne ha preservato il seme dall’estinzione. E’ grazie a lui se la lenticchia nera oggi esiste ancora, e nell’area ennese siamo in 7-8 a coltivarla. Io ci credo, e ci credo tanto. Ci stiamo lavorando molto sul cibo buono e pulito. Coinvolgo i miei vicini a fare lo stesso, li invito a non abbandonare i terreni, a non lasciarli incolti, a prediligere i prodotti ricercati come la fava larga e le lenticchie nere. Sono pronto ad aiutarli a commercializzare questi prodotti. Per me i legumi siciliani hanno un grande futuro e questa convinzione mi viene anche dal riscontro con le persone con le quali parlo nei mercati. La gente sta imparando a capire, c’è molta più attenzione, chi ha la possibilità di comprare i nostri legumi, anche se mi rendo conto che non sono accessibili a tutti, lo fa con molta curiosità e competenza. Vuole sapere come vengono prodotti, che trattamenti sono stati fatti sul terreno, che caratteristiche hanno da un punto di vista nutrizionale, come si cucinano. Io non mi stanco mai di raccontare la storia di questi prodotti, la manualità che c’è dietro, le tecniche di coltivazione che sono quelle tradizionali anche se oggi incontrano la tecnologia. Per esempio stiamo provando dei sistemi per la sterilizzazione naturale della lenticchia nera mettendola in celle frigorifere a meno 40° e ci siamo accorti che la “farfallina” non si formava più. Ecco, per me, il futuro è questo».

 http://www.lasicilia.it/news/cibo-salute/123392/legumi-di-sicilia-gioielli-di-qualita.html

 

 

 

Monte Etna

 

Il territorio etneo è ricco di piante erbacee spontanee molte delle quali, assieme ai funghi ed ai frutti di bosco, fino ad un passato non troppo lontano rappresentavano una fondamentale risorsa alimentare per le popolazioni locali (contadini, boscaioli, pastori, ecc.). Infatti, era prassi quasi quotidiana andare per le sciare, le timpe, i coltivi ed i boschi in cerca di verdure selvatiche.

Tale abitudine alimentare, principalmente, traeva origini da uno stato di necessità, data la cronica indigenza in cui versava la popolazione rurale e talora quella cittadina. Pure i cacciatori avevano l'abitudine di raccogliere piante selvatiche che trovavano nel loro girovagare.

Si cercavano verdure selvatiche anche per variare la dieta giornaliera, principalmente a base di pasta, carne e legumi, e per la mancanza delle diverse varietà di ortaggi carnosi, multicolori ed esotici che oggi si trovano, invece, in bella mostra nei negozi di frutta e verdura. Da questa abitudine alimentare, attraverso i secoli, è giunto fino a noi un imponente patrimonio culturale, tramandato di generazione in generazione.

 http://www.dipbot.unict.it/alimurgiche/introduzione.htm

 

_____________________________________________________________________________________________________________

 

 

 

 CASTAGNO (Castagnu)

Il Castagno (Castanea sativa Mill.) e' originario dell'Europa meridionale, Nord Africa e Asia occidentale. E' presente anche sulle coste atlantiche del Marocco, sulle rive del mar Caspio e nel sud dell'Inghilterra. I castagneti da frutto sono ormai molto ridotti (in seguito al mal dell'inchiostro e al cancro) in Italia, anche se in questi ultimi anni si sta assistendo ad un tentativo di recupero non solo ai fini produttivi. Le regioni in Italia in cui la coltura del castagno da frutto assume maggior importanza sono la Campania, la Sicilia, il Lazio, il Piemonte e la Toscana.

Le castagne sono ricche di amido e in molte zone montane d'Italia hanno rappresentato, fino agli anni '50, la principale fonte alimentare.

Nell’ultimo decennio la castanicoltura ha segnato, nel nostro Paese, un’interessante ripresa. Numerosi vecchi castagneti da frutto sono stati sottoposti ad una potatura di ringiovanimento, l’infezione del cancro della corteccia sta registrando una fase di regresso mentre le quotazioni del mercato per il prodotto di pregio (marroni e frutti degli ibridi) sono oggi particolarmente remunerative ed allettanti per i produttoriIl castagno appartiene alla Famiglia delle Fagaceae: il genere Castanea comprende:

- Castanea sativa Mill., o castagno europeo, diffuso in Europa;

- Castanea crenata Sieb. e Zucc., o castagno giapponese, diffuso in Asia e resistente al mal dell'inchiostro e al cancro della corteccia;

- Castanea pumila Mill, o castagno americano, diffuso nell'America del Nord.

 

Castagneto sull'Etna

 

Il castagno europeo e' una pianta longeva, alta fino a 25 metri, con tronchi di circonferenza talora imponenti, chioma espansa e molto ramificata, foglie caduche, di forma ellittico-allungata, a margine seghettato, quasi coraicee, di colore verde intenso e lucide, più chiare nella parte inferiore.

Pianta monoica. Le infiorescenze maschili sono rappresentate da spighe lunghe 10-20 cm di color giallo-verdastro. Quelle femminili sono costituite da fiori singoli o riuniti a gruppi di 2-3 posti alla base delle infiorescenze maschili. La fioritura si ha in piena estate. Il frutto è rappresentato da una noce detta castagna, interamente rivestita da una cupola spinosa, detta riccio. L'impollinazione puo' essere anemofila o entomofila, per cui molto importante e' la presenza delle api.

Il castagno ama i terreni profondi, leggeri, permeabili, ricchi di elementi nutritivi, con pH tendenzialmente acido, con poco o privi di calcare. Non sopporta i terreni pesanti e mal drenati. E' una pianta eliofila, ama i climi temperati, pur sopportando freddi invernali anche molto intensi.

Infiorescenze e frutti Castagno Infiorescenze e frutti Castagno

Varietà e portinnesti

La scelta della varieta' deve tener presente le esigenze del mercato. Vengono considerati 4 gruppi varietali ben distinti: Marroni, Castagne, Ibridi Eurogiapponesi, Giapponesi.

 

 

 

_______________________________________________________________________________________________________________

 

- Marroni: sono così considerati i frutti di castagno che presentano, nell’interno della buccia, i frutti interi, non settati, con la pellicola (episperma) che non penetra nella polpa e che si stacca con facilità nelle operazioni di pelatura.

Sono destinati alla trasformazione industriale e al consumo fresco.

I marroni sono particolarmente ricercati sul mercato e spuntano prezzi elevati; la pezzatura dei frutti delle diverse varietà si può considerare medio-grossa (da 55 a 70 frutti per Kg); tutte le varietà derivano dal castagno europeo (Castanea sativa). Le piante sono di buon vigore con portamento assurgente. L’entrata in produzione avviene dopo il 5°-6° anno dall’impianto o dall’innesto.

La quasi totalità delle varietà di Marrone sono astaminee, cioè prive dei fiori maschili e necessitano quindi della presenza di impollinatori.

Quelle più diffuse e consigliate sono le seguenti: Marrone Fiorentino, Marrone di Caprese Michelangelo, Marrone di Viterbo, Marrone di Marradi, Marrone di Castel del Rio, Marrone di Susa, Marrone di S. Mauro di Saline, Marrone di Chiusa Pesio, Marroncino di Borgovelino, Marrone Comballe (Francia), Marrone Bouche Rouge (Francia), Marrone Goujounac (Francia), Marrone Belle Epine (Francia).

La maturazione dei frutti di questo gruppo varietale si può considerare medio-tardivo ed inizia verso la fine di settembre.

Sono considerati buoni impollinatori dei Marroni: fra le europee "Castagna della Madonna" o "di Canale d’Alba", "Marrone Belle Epine", "Marrone Goujounac". Ottimi impollinatori sono considerati gli ibridi eurogiapponesi "Precoce Migoule", "Marsol", "Bournette", "Bouche de Betizac".

_______________________________________________________________________________________________________________

 

- Castagne: questo gruppo comprende numerosissime varietà diffuse nelle diverse zone castanicole italiane e derivano tutte dal castagno europeo. I frutti definiti commercialmente con il nome di "castagna" sono di pezzatura diversa (da 45 a 110 frutti in 1 Kg) e sono caratterizzati da una pellicola interna che penetra in profondità nell’interno della polpa, in qualche caso fino a dividerla (frutti settati); i frutti hanno una duplice destinazione: consumo fresco e trasformazione in castagne bianche secche e, per alcune varietà, in castagne confettate. Spuntano sui mercati all’origine dei prezzi sensibilmente inferiori rispetto ai marroni ed agli ibridi. Pur presentando nella stessa pianta i fiori maschili e femminili tutte le varietà necessitano di impollinazione incrociata.

Le varietà di "castagna" più diffuse sono le seguenti: Castagna della Madonna di Canale d’Alba (a maturazione precoce), Bracalla (a frutto di grosse dimensioni), Garrone rosso (pregiata per il sapore della polpa e la pezzatura), Pistoiese, Reggiolana, Castagna di Montella (ottima per le castagne secche), N’zerta, Riggiola e Gabbiana.

_______________________________________________________________________________________________________________

 

- Eurogiapponesi: sono derivati da incrocio naturale o guidato tra il castagno europeo (Castanea sativa) ed il castagno giapponese (Castanea crenata); sono stati introdotti in Italia verso la metà degli anni ‘70.

Le principali caratteristiche sono una spiccata resistenza di alcune varietà al "cancro della corteccia", una minore sensibilità nei confronti del "mal dell’inchiostro", lo sviluppo contenuto che consente di realizzare impianti con sesti più ridotti, spiccata precocità nell’entrata in produzione, elevata pezzatura dei frutti che presentano, per la quasi totalità delle varietà, le caratteristiche del marrone, precocità nella maturazione e raccolta dei frutti che inizia a settembre, cioè prima dei marroni e delle castagne, si impollinano reciprocamente fra di loro.

Nel Nord Italia non devono essere posti a dimora ad un’altitudine superiore ai 700 m.

Le varieta' Eurogiapponesi pi note sono: Primato, Precoce Migoule, Bournette, Bouche De Betizac, Marsol.

 

_______________________________________________________________

________________________________________________

- Giapponesi: le piu' importanti varietà di Castanea crenata sono: Tanzawa e Ginyose.

 

Sono caratterizzate da piante di sviluppo ridotto, necessitano di una razionale irrigazione e di una potatura annuale che consenta un continuo rinnovo della chioma al fine di evitare alternanza di produzione. Le due varietà si impollinano reciprocamente. Entrano in produzione al terzo anno dall’impianto e la raccolta inizia a partire da fine di agosto-primi di settembre. Pezzatura media: 60-65 frutti per Kg.

Il castagno si puo' riprodurre per seme (i selvatici, utilizzati come portinnesto e i moltiplica per innesto, per margotta di ceppaia e, solo con tecniche particolari, per talea semilegnosa.

 

 _______________________________________________________________________________________________________________

 

Tecnica colturale

La forma di allevamento piu' adatta per questa specie e' il vaso piuttosto libero, molto vicino alla forma naturale, ottenuto con un'impalcatura piuttosto alta (120-150 cm) e successivamente una ridottissima potatura, per evitare i rischi di infezione che ogni taglio comporta I sesti di impianto piu' adatti sono quelli compresi fra m 5 x 5 per le specie e cultivar a modesto sviluppo fino ai m 10 x 10 per le varieta' di grosse dimensioni.

Con le forme a vaso, provviste di 3-4 branche principali, alla fine del 4° anno le piante sono in genere ben formate per cui negli anni successivi, la potatura potra' essere limitata a sfoltimenti per permettere la penetrazione della luce, all'eliminazione dei rami secchi, rotti e deperiti, e a tagli di rinvigorimento a seconda dello sviluppo raggiunto dalla pianta. nelle cultivar euro-giapponesi e soprattutto in quelle giapponesi, piu' che nel castagno europeo, e' inoltre necessaria una energica potatura di produzione.

Se il contenuto di sostanza organica non arriva al 2%, occorre apportare 300-500 q.li/ha di letame da interrare almeno a 10-15 cm. E' necessario inoltre distribuire 80-100 kg/ha di P2O5 e 200-250 kg/ha di K2O.

Per quanto riguarda la concimazione di produzione l'azoto deve essere distribuito in modo frazionato nella misura di 80-100 kg/ha. Gli apporti di fosforo e potassio dopo 10 anni dall'impianto, saranno di circa 200 kg/ha ogni 3-4 anni. Ogni 4-5 anni e' utile apportare letame. Nei primi anni dovranno essere eseguite delle lavorazioni superficiali, poi si potra' passare all'inerbimento. Quando le piante avranno raggiunto una dimensione tale da non essere danneggiabili e' consigliato il pascolamento con pecore o capre.

La raccolta, scalare come la maturazione, viene attuata mediante la raccattatura o una leggera bacchiatura. La produzione puo' andare dai 10 q.li/ha nei castagneti delle zone marginali ai 40-50 q.li/ha in quelli intensivi.

Le castagne possono essere destinate alla trasformazione industriale (marrons glaces, marmellate di castagne, farine e frutti secchi) o al consumo fresco. Il legno semiduro trova impiego soprattutto nella fabbricazione di mobili e pali di sostegno.

La malattia più pericolosa per il castagno rimane ancora il "cancro della corteccia". L’infezione penetra nella pianta attraverso le ferite e pertanto tutti i tagli di potatura e le eventuali ferite provocate dai mezzi meccanici o da grandinate devono essere disinfettate con sali di rame o altro.

Anche il "mal dell’inchiostro" può risultare pericoloso quando si verificano degli accessi di umidità per accumuli di foglie o sostanze organiche varie attorno al ceppo; per questo motivo i ceppi vanno mantenuti puliti e disinfettati periodicamente.

http://www.agraria.org/coltivazioniarboree/castagno.htm

 

 

I CASTAGNETI DELL'ETNA (consigli utili)
Sul vulcano è stagione di castagne come segnalano le tante sagre in giro per i comuni. Decalogo per la raccolta dei frutti: che vinca, finalmente, la civiltà!

San Martino è già alle spalle, ma sull’Etna la stagione delle castagne è nel vivo. Basta solo dare uno sguardo alle sagre che si svolgono nel fine settimana: tutte onorano San Martino con il classico menù di castagne e vino. Un binomio che, sul nostro vulcano, ha gusto e sapore unico, beneficiato dal terreno lavico ricco di minerali. In genere il periodo buono per raccogliere le castagne è compreso fra ottobre e novembre, ma in questo strano 2014, nel quale l’inizio dell’autunno è stato, in realtà, il prolungamento dell’estate, i tempi di fruttificazione si sono allungati. Riguardo le sagre, segnaliamo la festa di San Martino a Sarro (Zafferana) e Fornazzo (Milo), e le altre iniziative sui gusti d’autunno a Ragalna e Nicolosi. Date un’occhiata alla nostra sezione eventi per scoprire orari e programma delle varie iniziative.

 Dunque un week-end che i siti di meteorologia indicano di bel tempo e che sarà di certo speso da tanti, soprattutto nella giornata di domenica, nei boschi dell’Etna alla ricerca del gustosissimo frutto. Sarebbe bello parlare di castagne e raccontare un po’ di storia, ricordare che sull’Etna il “Castagno dei Cento Cavalli”, a Sant’Alfio, è fra gli alberi più longevi della terra, o ricordare i segreti delle caldarroste, o come si preparano il “marron glacé” o la marmellata di castagne. Purtroppo, in primis, ci dobbiamo occupare delle raccomandazioni per non vedere trasformati i nostri boschi in una immonda discarica.

 Dovrebbe essere superfluo lanciare l’ennesimo appello al rispetto della civiltà. Nel contesto catanese sembrano cadere nel nulla gli inviti al buonsenso, all’educazione civica, a quella che un tempo si definiva la condotta del “buon padre di famiglia”. I nostri boschi si mostrano ancora deturpati dai rifiuti, nonostante gli anni trascorsi a cercare di sensibilizzare verso il rispetto dell’area protetta (ricordiamo e scriviamolo ancora è un sito Patrimonio dell’Umanità UNESCO) e a invitare i cittadine ed i gitanti a smaltire i rifiuti nella maniera corretta (certo le istituzioni di loro ce ne hanno messo, non riuscendo a risolvere il problema rifiuti alla base, addirittura aggravandolo) consegnando elettrodomestici, rifiuti pericolosi, inerti edili ai luoghi di smaltimento anziché abbandonarli lungo le strade dell’Etna o nei suoi boschi, e a riportare a casa l’immondizia post-scampagnata.

Chiudiamo qui il sermone e passiamo alle avvertenze. Le regole sono poche, ma buone, quante ne bastano per una fruizione civile dell’ambiente e della nostra “muntagna”, ma anche per evitare rischi a se stessi, ai propri cari e agli altri fruitori della natura. 

 

 

RISCHI.

Non sostare lungo strade strette, in prossimità di curve e tornanti, in aree sterrate di difficile accesso e uscita. Sono luoghi rischiosi per conducente e passeggeri e automobilisti in transito; basterebbe parcheggiare un po’ più distante; d’altronde si è in una giornata in cui alcuni metri in più a piedi si possono percorrere. Oltretutto, anche un semplice graffio all’auto può compromettere un momento spensierato.

Stesso consiglio per l’approntamento del luogo del pic-nic: se non si opta per l’area attrezzata, si posizionino tavoli, sedie e teli non nelle immediate vicinanze della strada. Si evitano rischi, soprattutto nelle zone in discesa, e non si respirano gas di scarico.

 FUOCHI.

Accendere i fuochi nelle aree attrezzate. Al di fuori di esse sono vietati. Tuttavia, se proprio si vuol sfidare il corpo forestale e rischiare una multa, al di fuori delle aree idonee si faccia in modo da non correre rischi, per sé e per l’ambiente. Ma, ripetiamo, sono vietati.

 CASTAGNE.

Ricordarsi che l’Etna non è interamente demaniale, i terreni, cioè, non sono totalmente pubblici. Se vi sono muretti, recinzioni, reti che delimitino un terreno, quella è una proprietà privata e vigono le stesse leggi che la tutelano altrove. Per cui non oltrepassare le recinzioni per raccogliere frutta o castagne. Se non vi sono evidenti segni di proprietà, ovviamente, non si può di certo rispondere di violazione.

Fatto questo necessario preambolo, invitiamo a raccogliere le castagne che sono già a terra. L’albero non va colpito né con legni o pietre (non inconsueta la scena di venir centrati come un boomerang dallo stesso oggetto lanciato); non arrampicarsi sugli alberi per evitare di danneggiarli e per non incorrere in incidenti. Limitarsi a staccare i ricci ormai maturi e pronti a cadere, alla nostra stessa altezza.

 CIVILTÀ CIVILTÀ CIVILTÀ.

Consigli che iniziano tutti con “Non”: sporcare; danneggiare pianti e alberi; ascoltare musica a volume eccessivo; disturbare la fauna anche con iniziative apparentemente nobili come far osservare un nido ai bambini.

 

 RIFIUTI.

Portare con sé l’immondizia e smaltirla nei cassonetti o riportala a casa per liberarsene secondo le modalità del proprio comune; non abbandonare nulla nei boschi.

 Infine ricordiamo le zone dell’Etna dove si trovano i maggiori boschi di castagno.

Nel versante sud l’area dei castagneti è quella alta di Nicolosi e Pedara (S.P. 92, San Nicola, Salto del Cane, Tarderia); spostandosi verso ovest, l’area di Milia sopra Ragalna, e l’area alta di Biancavilla e Adrano. Procedendo verso occidente, l’area di Maletto, Bosco Chiuso Case Pappalardo.

Una miniera è l’area orientale: da Zafferana si possono raggiungere, tramite la S.P. 92 (tratto sino al Rifugio Sapienza), i castagneti di Cassone e Piano del Vescovo. Altro luogo ricco di castagni è la Mareneve imboccata da Fornazzo (Pietracannone), ma anche da Linguaglossa.

Insomma, Etnalife è contro la mummificazione del territorio convinta, com’è, che il territorio debba e si debba vivere. Ma Etnalife chiede a tutti di portare rispetto alla nostra grande madre Etna, declinata al femminile, e che sia rispettata come la nostra madre, appunto.

http://www.etnalife.it/san-martino-etna-castagne-vino/

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/415.jpg

 

 

CORBEZZOLO (Aummuru e mbriaculu)Risultati immagini per corbezzolo

 

Il Corbezzolo (Arbutus unedo L.) e' originario del bacino del Mediterraneo e costa atlantica fino all'Irlanda. Appartiene alla Famiglia delle Ericaceae. Si dimostra una delle specie mediterranee meglio adatte agli incendi. Infatti sui terreni acidi l'incendio ripetuto favorisce il corbezzolo, capace di emettere rapidamente da terra nuovi turioni dopo il passaggio del fuoco, imponendosi sulle altre specie. Alberello sempreverde alto 5-6 m (a volte fino a 10 m), con portamento spesso arbustivo.

Il tronco presenta una scorza sottile, finemente e regolarmente desquamata in lunghe e strette placche verticali di colore bruno-rossastro.

Le foglie persistenti, alterne, coriacee, con breve picciolo, hanno una lamina obovato-ellittica. I fiori sono posti in racemi ramificati di colore bianco crema o rosato, provvisti di corolla lanceolata con 5 denti brevi; il calice ha denti triangolari. Fiorisce da ottobre a dicembre e fruttifica nell'autunno seguente. Il frutto e' una bacca globosa di 1-2 cm, rosso scura a maturita', edule, con superficie ricoperta di granulazioni; polpa carnosa con molti semi.

 

http://www.agraria.org/coltivazioniarboree/corbezzolo.htm

 

NASCOSTA E….GUSTOSA ZINZULA

Siamo in autunno e quello di cui sto per parlarvi è un frutto tipico di questo periodo; sono “i ‘nzinzuli” o per meglio intenderci le giuggiole. Perché parlarne in una rubrica comeRisultati immagini per zinzula questa che abitualmente si occupa di arte, luoghi e monumenti?

Semplicemente perché questo è un frutto  ormai quasi del tutto dimenticato, ed i pochi alberi che ancora si trovano in Sicilia,  e personalmente ne ho incontrato casualmente uno nel nisseno, sono anche loro pressoché “nascosti” in luoghi spesso privati e quindi inaccessibili.

La sua presenza nella nostra terra è molto antica e pare risalga addirittura ad oltre duemila anni fa; il frutto del giuggiolo, simile ad un olivo,  per dolcezza e gusto può essere paragonato ad un dattero.

 L’albero, generalmente irregolare e contorto, viene ormai coltivato per lo più a scopo ornamentale; pur tuttavia dal frutto i contadini estraevano anticamente anche un liquore dal gusto dolce e raffinato.

Pare abbia delle proprietà benefiche ed agisca efficacemente anche sull’umore; quindi se, come spesso capita di questi tempi, vi sentite giù, bevetene un sorso (ammesso che lo troviate), andrete subito in “Brodo di Giuggiole”. 

Nando Cimino

 

fonte www.siciliafan.it

 

 

LATTUGACCIO o Ginestrella (Curi i suggi)

 

Chondrilla Juncea (Ginestrella, Lattugaccio comune,Pioletta,Mastrici,Erba pizzuta,Lattaiola)

 

Etimologia: Il nome del genere Chondrilla si riferisce al greco chondrus, seme, cartilagine ma anche grumo, usato per via del latice, il nome della specie juncea, si riferisce alla forma a giunco del fusto.

 Il lattugaccio comune (Chondrilla juncea) è presente nei prati aridi, negli incolti e fra le stoppie del grano, in tutto il territorio italiano. È conosciuto anche con i nomi dialettali di lazzeo, tassella, cassella, cudidda, lattuchiello, ma chiamato più frequentemente ginestrella, perché nella fase della fioritura somiglia ad una piccola ginestra, o meglio ad un “giunco” (da cui il nome popolare di ginestrella e l’aggettivo “ juncea “ adottato da Linneo). È composto di tre strati di foglie, come anche il lessico popolare spagnolo evidenzia (“Leitugas des tres los planos”). La piccola pianta dalle foglie frastagliate è caratterizzata da una venatura rossiccia che si intensifica verso il cuore. Le foglie della rosetta basale sono glabre, lanceolate, roncinate, grossolanamente dentate, leggermente spinulose ai bordi, hanno un colore verde tenue ed una consistenza turgida: per questa speciale caratteristica, masticate crude, risultano croccanti. I contorni delle foglie hanno una minuscola peluria rossiccia. Presenta un fusto eretto con spinule retroflesse in basso e liscio in alto.

Dopo la fioritura la pianta appassisce per riapparire l’autunno successivo. Come certe piante del genere Lactuca, mostra la caratteristica disposizione delle foglie in senso parallelo ai raggi solari (pianta bussola). I capolini sono numerosissimi, spesso riuniti in fascetti di 2-4. Ama i terreni lavorati e ben soleggiati (non trattati con i diserbanti), i margini dei campi, dei fossi; si ritrova anche in prossimità delle strade poderali e delle strade ferrate, nasce persino nei muri e fra le rocce. Un tempo era diffusa soprattutto nel campi di cereali. Nel Sud è molto frequente negli orti, nei prati e negli incolti.

Usi culinari:

La giovane pianta si raccoglie dall’autunno fino all’inizio estate. In inverno si usa la rosetta di foglie basali tagliandola alla base in modo da preservare la radice; in questo periodo infatti dal suo interno fuoriesce la propaggine del futuro fiore, il gustoso picciolo della lazzea, ricercatissimo in alcune zone dell’Alto Lazio per utilizzarlo nella salsa con il pesto di acciughe e aglio. In primavera si utilizza lo scapo, infine, all`inizio dell`estate, le cime terminali di ciascun ramo. Al momento della raccolta, dal taglio della radice esce un liquido appiccicoso, bianco latte.

Il suo sapore amarognolo la rende adatta anche per altri tipi di condimento. L’uso di queste cime dell’infiorescenza è stato riscontrato anche nel meridione d’Italia, in Basilicata. La pianta giovane e tenera è consumata di preferenza nelle insalate, a fine inverno inizio primavera e negli autunni miti, sia da sola sia mista ad altre erbe spontanee. Fa parte del mischietto caninese, una specie di misticanza tipica della cittadina di Canino in provincia di Viterbo, dove è chiamata lazzea. Più tardi, quando dal centro della rosetta fuoriesce la propaggine del futuro fiore, questo, che nella Tuscia viene chiamato “picio della lazzea”, viene raccolto per essere consumato insieme con la salsa a base di un pesto di acciughe, olio e aglio, comunemente usato anche per condire le puntarelle dei mazzocchi. Spesso questa erba si usa cotta, ripassata in padella con aglio e olio, o condita con solo olio extravergine d’oliva, sale e limone. Può essere utilizzata anche nelle zuppe di verdure o per la preparazione di torte rustiche. Nel comune di Matelica, la ginestrella, detta maittici, viene ancora consumata in insalata con il raperonzolo tagliato a fettine. Nel Meridione d’Italia, in Basilicata, la parte tenera dell’infiorescenza viene usata come gli asparagi per fare le frittate, oppure lessata e condita con olio e limone, usanza questa sconosciuta anche nell’Italia Centrale. In Calabria invece, nei pascoli del Monte Poro, dove quest’erba è pure assai diffusa ed è conosciuta col termine dialettale di cacazzimmeri, cioè “erba che piace alle capre”, se ne conosce un uso assai sporadico. In Europa una tradizione di raccolta per usi alimentari è confermata solo in Grecia e nella regione sud occidentale della Francia.

http://www.accademiaerbecampagnole.eu/la-ginestrella-la-regina-delle-insalate-miste/

 

 

 

 

CARCIOFO SELVATICO (Carduni)

 

Il cardo (Cynara cardunculus altilis) chiamato anche carciofo selvatico oppure gobbo è un ortaggio disponibile sulle nostre tavole solamente in autunno/inverno ed ha una forma simile al sedano anche se appartenente alla famiglia del cardo selvatico, come anche i carciofi.

La forma e il sapore ricordano il sedano, ma il gusto che primeggia è quello del carciofo, dal sapore amarognolo. Oltre a ricordare il sapore del carciofo, si comporta come esso, infatti al momento di pulirlo, le coste esterne più di dure e filamentose devono essere eliminate fino ad arrivare a quelle più interne. Con l’utilizzo di un pela patata si tolgono le fibre esterne e i pezzi puliti vanno messi subito in acqua e limone proprio come i carciofi per non farle annerire. La pulizia richiede parecchio tempo!

La particolarità di questo ortaggio difficile da coltivare, a causa dei gambi piuttosto duri dal sapore amarognolo, i coltivatori per limitarne il retrogusto amaro, coltivano i cardi in assenza di luce ed è importante che avvengano anche le gelate tardo-autunnali, per permettere ai gambi di diventare più teneri. Alcune varietà, vengono addirittura interrate, piegando la pianta di lato, verso il basso coprendola di terra, restando così fino al momento in cui vengono raccolti. Questo tipo di coltivazione è prevista per il “gobbo” di Monferrato, chiamato così per la forma che assume, simile ad un grosso uncino.

AI momento dell’acquisto i gambi che devono essere bianchi e compatti; non acquistate esemplari che abbiano tracce di colore verde, in quanto duri e amari, mentre quelli che tendono ad aprirsi non sono più molto freschi, quindi scegliete piante dal colore chiaro, chiuse e pesanti, prive di macchie, con costole croccanti e larghe. La cottura è molto lunga si va dalle 2 alle 4 ore.. quindi non abbiate fretta! La pianta è nota nelle medicina popolare per le sue virtù benefiche di tonico per il fegato.

Il cardo può essere impiegato per realizzare piatti gustosi. Per esempio in Piemonte vengono mangiati accompagnati con la famosa Bagna cauda, oppure possono essere preparati gratinati con la besciamella, buoni… ma per gustare a pieno il loro sapore dopo averli bolliti sono ottimi saltati semplicemente in padella.. in questo modo oltre a essere deliziosi sono anche molto dietetici!

http://www.santuccirunning.it/il-cardo-carciofo-selvatico-per-un-inverno-tutta-112121/

 

 

 

Boschi dell’ambiente montano

ABETE BIANCO ACERO DI MONTE FAGGIO TASSO

 

 

betulla dell'Etna (foto Nino Gemmellaro)

 

La betulla dell'Etna è una pianta arborea, che raggiunge altezze da 4 a 15 metri, ma che alle altitudini superiori ai 2000 metri può assumere un portamento arbustivo.

Le foglie hanno forma romboidale o sub-triangolare, meno acuminate di quelle della Betula pendula, con margine crenato.

I fiori sono riuniti in infiorescenze di colore giallo quelli maschili, e verde chiaro quelli femminili. Fiorisce in aprile-maggio. I frutti sono piccoli acheni conici di colore marrone.

In fitoterapia, vengono adoperate le gemme, la linfa e sopratutto le foglie, per preparare degli infusi che stimolano le funzioni renali ed alleviano i leggeri disturbi infiammatori dell’apparato urinario.

 

Alberi da frutta

ARANCIO LIMONE KAKI CEDRO MELO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEDITERRANEO. Formaggio di pezzatura medio-grande da latte di pecora e latte di capra a pasta molle semicotta , con leggera occhiatura , di forma tonda . Peso da 4 a 8 kg. , stagionatura da 60 a 90 giorni .

Il formaggio Mediterraneo nasce dal desiderio del casaro di esaltare al massimo la trasformazione del latte di pecore e capre allevate nella nostra azienda . Viene prodotto dai pastori nel periodo estivo, quando le pecore cominciano ad andare in asciutta e le capre sono al massimo della loro lattazione, perchè a differenza delle pecore , sfruttano al massimo i pascoli estivi fatti da arbusti e macchie di piante sempreverdi , quindi il latte di capra che abbonda viene unito a quello di pecora che comincia a scarseggiare . Gli aromi e i profumi della flora della macchia mediterranea si ripresentano, infatti, in modo variegato nella pasta del formaggio , esaltando un gusto che riporta ai sapori antichi del mondo agro-pastorale della nostra Sicilia , fatto di lunghe transumanze e di convivenze con intemperie atmosferiche caratterizzate da caldi afosi e da gelide nevicate ,che erano parte integrante dell’uomo- pastore e del suo gregge . Il gusto è intenso ed al contempo delicato ; è un formaggio tradizionale , adatto anche a consumatori più giovani e meno giovani dai fini palati che vogliono riscoprire quei sapori che la civiltà moderna e strapiena di tecnologie e comodità ha fatto dimenticare .

Il nome “Mediterraneo” è un pregevole intuito di Gino Armetta, titolare dell’omonima storica salumeria a Palermo e grande intenditore di formaggi , il quale assaggiandolo per la prima volta, non ha avuto esitazione nel dargli questo nome, proprio perchè trasmetteva in pieno la sensazione di sicilianità e centralità del Mediterraneo .

Azienda Polizzi

 

 

 

Nel 1924, dopo più di 50 anni dall’esordio sul mercato, il Comm. Alfio Fichera rileva l’azienda che oggi porta il suo nome e, insieme ai figli e ai suoi più stretti collaboratori, dà vita a una vera e propria famiglia aziendale che lavora con grande spirito di solidarietà e di intraprendenza per portare la distilleria ad altissimi standard qualitativi.Risultati immagini per distilleria fichera logo

 Alla fine degli anni '50, l'azienda si amplia e ammoderna le attrezzature, divenendo così una delle più apprezzate fornitrici di distillati per grandi aziende nazionali, quali la Stock di Trieste.

 Nel 1967, la scomparsa del Comm. Alfio Fichera ha lasciato un profondo vuoto nel cuore dell’azienda, ma non ha esaurito la determinazione dei suoi discendenti che hanno deciso di guardare avanti, fino a far diventare l’azienda leader nel settore dei liquori e dei distillati. Passione che adesso anche la nuova generazione continua ad alimentare, per tramandare la tradizione di famiglia, e per donare alle Distillerie Comm. Alfio Fichera fama riconosciuta a livello internazionale.

 

 

cotognata

 

 

 

L'immagine può contenere: testo e cibo

 

 

 

 

Il 'tiraciatu' o gongilo: rettile temuto dai siciliani

Il gongilo è un rettile metà serpente e metà lucertola che in terra siciliana viene chiamato 'tiraciatu'. Ecco il perchè

 

Flavio Sirna 4.9.2019

 Forse in molti non ne hanno mai sentito parlare in vita loro, altri invece ci hanno avuto a che fare nel momento in cui se lo sono trovati di fronte sollevando una pietra, attraversando un terreno sabbioso, sotto cataste di legname o sotto altri rifugi.

 Parliamo del gongilo, meglio conosciuto dai siciliani come 'tiraciatu'. Si tratta di un piccolo rettile metà serpente e metà lucertola, dotato di zampe, che può raggiungere fino ai 30 cm di lunghezza. Ha la testa piccola, il corpo cilindrico e le zampe molto piccole che gli permettono di muoversi serpeggiando.

 In terra sicula viene chiamato in questo modo perchè si diceva in passato che venisse attratto dall'alito dei lattanti e per questo motivo era temuto dalle mamme, preoccupate che si sarebbe potuto avvicinare alle culle dei bambini.

 Nella realtà il gongilo ricopre un ruolo fondamentale negli ecosistemi perchè rappresenta un anello della catena alimentare, fungendo da predatore e preda (mangia artropodi, chiocciole ed altri invertebrati). Non è assolutamente pericoloso o nocivo per l'uomo, anzi è una specie molto timida ed innocua. E' diurno e se si spaventa scappa via tra le piante.

 Favorisce la dispersione di alcune piante, su tutte il fico d'india. Nelle zone eccessivamente aride si nutre dei frutti di queste piante. L'ingestione e la successiva espulsione, mediante le feci, di queste piante, fa sì che esse vengano disperse nel territorio e possano aumentare la loro capacità di colonizzazione.

 Al momento si ritiene che in gongilo sia ancora presente, oltre che in Sicilia, anche in Sardegna, nel Nord dell'Africa ed anche nelle zone della Turchia. A minacciare la sua tranquilla esistenza sono la frammentazione degli habitat, l’uso di pesticidi e sostanze chimiche in agricoltura, e l’uccisione da parte del gatto domestico.

https://www.cataniatoday.it/casa/giardino-terrazzo/gongilo-cosa-e-rettile-serpente-lucertola-sicilia.html?fbclid=IwAR2O5tM6bG3nihvKVwTy46A362zGvACxbS2P0GA8YmEPUaczINd4meCjywU