Lasciato il borgo di Ognina, ha inizio uno dei più suggestivi litorali della costa jonica di Sicilia, tre miglia di litorale basaltico interrotto da sette grotte, battezzato Costa dei Ciclopi. Risalendo, la prima località che s’incontra è Aci Castello, facilmente riconoscibile per la rocca basaltica a strapiombo sul mare, su cui è arroccato il Castello di origine normanna, edificato come difesa costiera. La tappa successiva il villaggio di pescatori di Aci Trezza con il suo accogliente porticciolo turistico: due moli convergenti, il Nord banchinato, che termina con una piccola darsena, e il sud formato da due tronconi, orientati a est e nord-est. C’è un piacevole via vai di barcaioli-taxi, di pescatori e di imbarcazioni per la visita della Costa, il chiosco “Luna Rossa” proprio sul molo e, sulla piazza del paese, un’infinita scelta di trattorie e ristoranti di pesce. «Terra vergine e selvatica abitata da Ciclopi e
Lestrigoni»
così Omero definisce la Sicilia e da qui è nata la leggenda
dell'identificazione dell'isola Lachea e dei faraglioni con i massi che
Polifemo, accecato e furente, scagliò contro Ulisse e i suoi compagni. Accanto a questa leggenda è fiorita anche quella del fiume Aci, che ha dato il nome ai vari paesi che attraversava. Il mite pastorello Aci, era innamorato della dolce Galatea, ma Polifemo reso folle dalla gelosia perchè pazzamente innamorato della Ninfa5 uccide Aci con un enorme masso.
Gli Dei, mossi a pietà dallo strazio di
Galatea trasformarono il pastorello in fiume che scorrendo perenne,
trova‑ pace e ristoro tra le braccia di Galatea che l'attende
nell'azzurro Ionio ove si fondono in un abbraccio senza fine. La fantasia popolare ha probabilmente in tal modo spiegato eventi e cose naturali, ammantandole di una dolce poeticità.
Polifemo
potrebbe essere la personalizzazione dell'Etna, Galatea la spuma del
mare, Aci il fiume‑ che sfociava nei pressi di Capo Mulini.
La suggestione della costa e del paesaggio ha ispirato l'opera di G. Verga. Nei «Malavoglia», il poeta ha voluto immortalare la vicenda umana di umili pescatori.
POLIFEMO
(mitologia romana).
Il più celebre dei Ciclopi, figlio di
Poseidone e della ninfa Toosa. Dimorava in una caverna nell'isola
dei Ciclopi (Sicilia). Ulisse, tornando da Troia,
Polifemu era un omu grossu
ammàtula
Polifemo era un uomo grosso invano Chiù non ci spércia jiri a
la putia
Più non si cura di andare alla bottega A guardàrilu
era cosa d'allucchiri,
A guardarlo era cosa da intontire, Comu un tirrenu
chinu di pirreri
Come un terreno cosparso di pietre Era lu nasu
quantu un bastiuni,
Era il naso quanto un bastione, D'un chiuppu sbacantatu
s'avia fattu
D'un pioppo svuotato s'era fatto Giuvanni Meli Giovanni Meli http://www.csssstrinakria.org/mitos.htm#contact2
"Vino
ai Ciclopi la feconda terra pioggia,
onde Giove le nostre uve ingrossa:
Com'era questo vino, tanto buono al punto che Polifemo ne volle bere ancora fino ad ubriacarsi? Vediamo un po'...
I
Ciclopi sono figure favolose della mitologia greca, di statura
gigantesca e fornite di un solo occhio in mezzo alla fronte
(propriamente dal greco kuklops = dall'occhio rotondo). In
epoca arcaica gli antichi mitografi distinguevano tre stirpi di ciclopi:
i figli di Urano e Gaia (il Cielo e la Terra), che appartengono alla
prima generazione divina dei Giganti; i Ciclopi "costruttori",
che avrebbero costruito tutti i monumenti preistorici che si vedevano in
Grecia, in Sicilia e altrove, costituiti da blocchi enormi il cui peso e
dimensione sembravano sfidare le forze umane (le "mura
ciclopiche"); e i Ciclopi "siciliani", compagni di
Polifemo, di cui narra Omero. Odisseo si scontrò con Polifemo e riuscì
a fuggire dalla sua caverna coi compagni superstiti, solo dopo avergli
accecato nel sonno il grande occhio con un palo arroventato. E'
ipotizzabile che nell'Ellade dell'epoca primitiva con il nome di Ciclopi
si indicassero i membri di una sorta di associazione di fabbri ferrai
I
Ciclopi siciliani sono gli artefici del fulmine di Zeus, per questo
motivo incorsi nell'ira di Apollo, il cui figlio Asclepio - dio della
medicina - aveva risuscitato alcuni morti ed era stato pertanto
fulminato da Zeus. Sono anche i fabbri degli dei, sotto la direzione di
Efesto dio del fuoco, ai quali forniscono le armi. Abitano la Sicilia e
le Eolie, in caverne sotterranee dove i colpi delle loro incudini e il
loro ansimare fa brontolare i vulcani della zona, mentre il fuoco della
loro fucina arrossa la cima dell'Etna. Omero li descrive come esseri
selvaggi e giganteschi, muniti di un solo occhio al centro della fronte
e dotati di forza smisurata, che allevano montoni, vivono allo stato di
natura selvaggia e praticano l'antropofagia. Virgilio
nell'Eneide riprende in un certo senso dove l'Odissea aveva lasciato,
quando i Troiani, sotto la guida di Enea, approdano in Sicilia e
incontrano l'atterrito Achemenide, un compagno di Ulisse rimasto per
sbaglio sull'isola, e Polifemo, avvertita la loro presenza, chiama a
gran voce gli altri Ciclopi per catturarli. Anche
il dramma satiresco di Euripide, il Ciclope, è imperniato sulla figura
di Polifemo, e in un idillio di Teocrito il gigante si umanizza in un
giovane rozzo ma sentimentale, innamorato di Galatea. L'arte antica ha
raffigurato Polifemo, sia nella scena dell'accecamento, sia in quella
della fuga di Ulisse; e nel periodo ellenistico è rappresentato anche
l'episodio di Galatea. http://www.sullacrestadellonda.it/mitologia/ciclopi.htm
Non soltanto la dea Mater venne messa in rapporto con la terribile voragine del vulcano, ma anche le popolazioni etnee furono ideomorfizzate da quanti si accostarono alla costa jonica ritenendoli degli esseri giganteschi, crudeli ed inospitali. Quel loro vivere nella terra delfuoco dette occasioni a un gran numero di conclusioni poetiche e a quegli etnicoli si diede metaforico appellativo di Ciclopi, che valeva «cerchi», monocoli5 con chiara allusione al gran cratere ardente. Allo stesso modo le tribù stanziate nella Piana di Catania furono nomate Lestrigoni, ossia lagunari, e quelle delle regioni meridionali Lotofagi, perchè si nutrivano di fave e sorbe.
Gli antichi mitografi distinguevano tre specie di
Ciclopi: i Ciclopi "urani", figli di Urano e di Gaia (il Cielo
e la Terra), i Ciclopi "siciliani", compagni di Polifemo, che
intervengono nell'Odissea, e i ciclopi "costruttori". I Ciclopi "urani" appartengono alla prima generazione divina, quella dei Gianti. Hanno un solo occhio in mezzo alla fronte, e sono caratterizzati dalla forza e dall'abilità manuale. Se ne contano tre, chiamati Bronte, Sterope (o Asterope) e Arge, i cui nomi ricordano quelli del Tuono, del Lampo e del Fulmine. Dapprima incatenati da Urano, sono liberati da Crono, poi incatenati da quest'ultimo nel Tartaro, fino a che Zeus, avvertito da un oracolo che avrebbe potuto riportare la vittoria soltanto col loro aiuto, non li liberò definitivamente. Allora, gli dettero il tuono, il lampo, e il fulmine; dettero ad Ade un lmo che rendeva invisibili, e a Poseidone un tridente. Armati in tal modo, gli Dei Olimpici sfidarono i Titani, e li fecero precipitare nel Tartaro. Nella leggenda, i Ciclopi restano fabbri del
fulmine divino. A questo titolo, insorsero nell'ra di Apollo, il cui
figlio, Asclepio, era stato ucciso da Zeus con un colpo di fulmine per
aver risuscitato alcuni morti. Non potendo vendicarsi su Zeus, Apollo
uccise i ciclopi (o i loro figli, secondio una tradizione isolata), e ciò
gli valse, come punizione, l'obbligo di servire, in qualità di schiavo,
presso Admeto. In questa versione, i Ciclopi appaiono dunque come esseri
mortali, e non dei.
Nella poesia alessandrina, i Ciclopi non sono considerati altro che demoni subalterni, fabbri e artigiani di tutte le armi degli dei. Fabbricano, per esempio, l'arco e le frecce d'Apollo e della sorella Artemide, sotto la direzione d'Efesto, il dio fabbro. Abitano le isole Eolie, oppure la Sicilia. Qui possiedono una fucina sotterranea, e lavorano con gran rumore. Sono proprio l'ansimare del loro fiato e il fracasso delle loro incudini che si sentono rimbombare in fondo ai vulcani siciliani. Il fuoco della loro fucina rosseggia la sera in cima all'Etna. E, in queste leggende legate ai vulcani, essi tendono a confondersi con i Giganti imprigionati sotto la massa delle montagne, e i cui soprassalti agitano talvolta il paese. Già nell'Odissea i Ciclopi sono ritenuti una popolazione di esseri selvaggi e giganteschi, dotati di un solo occhio e di forza prodigiosa, che vivono sulla costa italiana (nei Campi Flegrei, presso Napoli). Dediti all'allevamento dei montoni, la loro sola ricchezza consiste nel gregge. Sono volentieri antropofagi e non conoscono l'uso del vino
. E neppure la
coltivazione della vite. Abitano nelle caverne e non hanno imparato a
formare città. Certi tratti
di questi Ciclopi tendono a farli assomigliare ai Satiri, con la quale
sono talvolta assimilati. Si attribuiva a Ciclopi (venuti, si dice,
dalla Licia) la costruzione di tutti
i monumenti preistorici che si vedevano in Grecia, in Sicilia e
altrove, costituiti da grossi blocchi il cui peso e dimensione
sembravano sfidare le forze umane. Non si tratta più dei Ciclopi figli
di Urano, ma di tutto un popolo che si era messo al servizio degli eroi
leggendari, di Petro, per esempio, per fortificare Tirinto, di Perseo,
per fortificare Argo ecc. Si affibia loro il curioso epiteto di
Chirogasteri, cioè "coloro che hanno braccia al ventre", e ciò
ricorda gli Ecatonchiri, i "Giganti dalle Cento Braccia", che
sono, nella mitologia esiodea, i fratelli dei tre Ciclopi Urani. Polifemo è il nome di due personaggi distinti.
Il primo è un Lapita, figlio d’Elato e d’Ippe.
Suo padre "divino" è Poseidone. E’ il fratello di Ceneo.
Sposò Laonome che, in una tradizione oscura, passava per essere sorella
d’Eracle. Questo Polifemo partecipò alla spedizione degli Argonauti;
ma restò in Misia, dove fondò la città di Cio. Perì nella guerra
contro i Calibi.
Il secondo personaggio con questo nome, assai più
celebre, è il Ciclope che ha una parte nell’Odissea. E’ figlio di
Poseidone e della ninfa Toosa, ella stessa figlia di Forcide. Il
racconto omerico lo presenta come un gigante orribile, il più selvaggio
di tutti i Ciclopi. E’ pastore, vive del prodotto del suo gregge di
pecore e abita in una caverna. Benché conosca l’uso del fuoco, divora
la carne cruda. Sa che cos’è il vino, ma ne beve molto di rado e non
sta attento agli effetti dell’ubriacatura. Non è totalmente
insocievole poiché, nel suo dolore chiama gli altri Ciclopi in aiuto,
ma è incapace di far loro capire quello che gli è capitato. Si sa come Ulisse, catturato da lui con alcuni
compagni, in numero di dodici, fu rinchiuso nella caverna del Ciclope.
Questi cominciò col divorarne diversi e promise ad Ulisse di divorarlo
per ultimo per ringraziarlo d’avergli dato un vino delizioso, che
l’eroe aveva fatto sbarcare con lui. Di notte quando il Ciclope era
profondamente addormentato sotto l’effetto del vino, Ulisse e i
compagni aguzzarono un palo immenso, l’indurirono al fuoco e lo
piantarono nell’unico occhio del gigante. Al mattino quando il gregge
uscì per andare al pascolo, i greci si legarono sotto il ventre degli
arieti, per oltrepassare la soglia della caverna, dove il Ciclope,
cieco, controllava con le mani tutto ciò che passava. Una volta libero,
quando la sua nave prese il largo, Ulisse gridò a Polifemo il suo nome
e lo canzonò. Ora, un oracolo aveva predetto un tempo al Ciclope
ch’egli sarebbe stato accecato da Ulisse. Incollerito per essere stato
ingannato, lanciò contro le navi massi enormi, ma invano. Proprio da
questo momento data la collera di Poseidone, padre di Polifemo, contro
Ulisse. Dopo i poemi omerici, Polifemo diventa, in modo
assai strano, l’eroe di un’avventura amorosa con la Nereide Galatea.
E’ un Idillio di Teocrito che ci ha conservato il quadro più celebre
del Ciclope galante, innamorato di una civetta che lo trova troppo
villano. Lo stesso tema è ripreso da Ovidio. Esiste una tradizione
secondo cui Galatea è innamorata del Ciclope e gli dà figli.
La
ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea, venne dai Greci
spiegata con il mito di Aci e Galatea. Aci,
era un pastorello che viveva, pascolando il suo gregge, lungo i pendii
dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto
le proposte amorose di Polifemo. Galatea
era una splendida ninfa del mar Ionio, che, durante le belle aurore, era
solita sedersi su uno scoglio e aspettare che il sole la rivestisse di
perle. Una
mattina la leggiadra fanciulla fu notata dal ciclope Polifemo, che
abitava in una grotta sui fianchi dell’Etna e, spaventata, si tuffò
subito nell’azzurro mare.
Un
pomeriggio, il pastorello Aci avanzò con il suo gregge fino alla
spiaggia, suonando dolcemente la zampogna. Galatea,
dal profondo del mare lo udì e corse ad ascoltare quelli che a lei
sembravano i sospiri di un sereno tramonto. La
ninfa, incantata da quella musica, pregò il giovanetto di andare ogni
giorno per farle sentire la zampogna. Così tutti i giorni Galatea,
adagiata sulla sabbia, ascoltava silenziosamente il canto del pastorello. Un
triste giorno furono scoperti dal ciclope. Il gigante non riusciva a
dimenticare quella fanciulla vestita di rosea luce e tutti i giorni,
mentre il suo gregge brucava l’erba, si sedeva di fronte al mare,
sperando di rivedere la ninfa per chiederle di sposarlo. Quindi cercò
subito un pretesto per litigare: accusò Aci di essere il ladro dei suoi
pascoli e, scagliandogli un macigno, lo colpì a morte. Galatea,
disperata e sconsolata chiese ed ottenne dal padre Oceano che Aci
venisse trasformato in un fiume. La
bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli dèi, trasforma il corpo
morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i
pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente
nostalgia. Ancora oggi il fiume Aci scaturisce da sotto una rupe di lava
e spinge il suo corso fino a mescolarsi, nel mar Ionio, con la spuma
dell’infelice Galatea. Non
lontani dalla costa, vicino la località chiamata oggi "Capo
Molini", in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente
dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente
locale "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro. Notare
quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega
nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi
"Capo Molini" esistette un modesto villaggio chiamato, in
memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec.
d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo
dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni.In
memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero
chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito
un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci
Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da
un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica
nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la
presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci
Catena, Aci S. Antonimo, Aci Platani, Aci Sanfilippo.
Narra
una leggenda popolare che il corpo del pastorello ucciso da Polifemo si
sia smembrato in nove parti cadute dove poi sono state fondate
Aci
Bonaccorsi, Aci Castello, Aci Catena, Aci Platani, Acireale, Aci S.
Filippo, Aci S. Antonio, Aci S. Lucia ed Aci Trezza.
La costa viene
anche chiamata Riviera dei Ciclopi. Percorso
nella memoria verghiana, si snoda attraverso i luoghi suggeriti
dall'Autore. Parte dal Castello, con la drammatizzazione della novella
"Le storie del Castello di Trezza", e prosegue per Acitrezza,
dove si rivisitano i luoghi de "I Malavoglia": la casa del
nespolo, le viuzze, la piazza, la fontana, la chiesa. "
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada
vecchia di Trezza […], tutti buona e brava gente di mare, proprio
all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, […] Alla domenica,
quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro pareva una
processione" Si
ripercorrono anche i luoghi del celebre film "La terra trema"
di Luchino Visconti, girato con attori locali, i pescatori di Trezza.
ACICASTELLO
è una caratteristica
cittadina sul mare, famosa per il suo castello in pietra lavica, eretto
nel 1.076. Alcune sale del
castello ospita La colata del 1169 fu di enormi proporzioni, se ne vede
testimonianza nella costa che va da Acicastello ad Ognina, spettacolare
per altezza, raggiunge anche i 30 m sul mare, e movimentata dalla
presenza di anfratti e grotte che creano un suggestivo paesaggio dato
dalla grandiosità dell'insieme, dallo scuro colore della lava e
dall'azzurro del mare. Altre grotte esistono nel territorio compreso tra Acicastello
e Ficarazzi nella zona denominata «Timpa Rosa». Una in particolare è
assai interessante per avere tracce di abitati archeologici.
La grotta è un classico esempio di scolamento lavico, ove
insieme alle formazioni geologiche quali i «denti di cane» vive una
fauna tipica da grotta quali i ragni e i pipistrelli. I pochi cocci
rinvenuti parlano del periodo denominato «Castellucciano», databile
intorno al 1800‑1400 circa a.C. In questa età, mentre in altre
zone della Sicilia era uso scavare le tombe a grotticella artificiale
nel calcare, nelle zone laviche intorno all'Etna (es. Adrano), data la
durezza della lava, si sfruttavano come sepolture le grotte che si erano
formate all'interno delle varie colate laviche di età molto antica. Certo è necessario operare una ricerca approfondita nella
zona al fine di ben individuare i vari periodi archeologici che si sono
susseguiti nel territorio di Acicastello, visto che esistono parecchie
testimonianze che vanno dal neolitico al periodo bizantino: resti di
asce litiche, strumenti di selce e ossidiana, ceramica preistorica,
fram~ menti di età greco~ellenistica, romana, bizantina. Le fonti
classiche parlano del fiume Aci e in relazione a questo fiume è la statio di Acium a 9 miglia da Catania e a 24 da Naxos, citata
nell'itinerarium Antonini. Vissuto sempre ai piedi del Castello fu chiamato dagli Arabi
«Al‑Yag». Esistono tracce di un passato medievale in un troncone
di mura costruite utilizzando la pietra lavica. Il suo nome è legato
alla leggenda del fiume Aci, che un'epigrafe settecente~ sca posta sul
prospetto della chiesa di S. Mauro definisce «Acensitim faecunda parens»:
madre feconda degli Acesi.
I terribili cataclismi del 1169, terremoto, maremoto, e una
colata lavica di notevoli diniensioni,, dispersero gli abitanti della
zona che si trasferirono nelle zone vicine. Colpito dal terremoto del
1693 fu ricostruito nel 1718. Costruito su un'immensa rupe, prodotta da un'eruzione
sottomarina, formata da un ammasso di pillows di lava, il Castello
s'innalza scuro e imponente sulla piazza, come la prua di un'immensa
nave. L'impianto attuale di chiara impronta normanna lascia intravedere qua e là resti di passate civiltà. Resti di una probabile porta romana e una grotta che ricorda le tholos Micenee del XIII sec. a.C. ci inducono a pensare che il Castello, proprio per la sua posizione, sia stato abitato da civiltà diverse non esclusi Fenici, Greci e Romani per i quali il nome era «Rocca Satumia». La prima battaglia menzionata dalla storia fu quella che nel
414 a.C. vide in lotta Magone generale cartaginese contro Leptine
siracusano. La vittoria dei Cartaginesi consolidò il loro dominio sulla
Sicilia Orientale. La posizione che il Castello occupa non passò
inosservata agli Arabi ed ai Normanni, che tanta parte ebbero nella
cultura della nostra terra. Distrutto in un primo tempo (902) dagli Arabi fu poi ricostruito dal Califfo Al‑Moez.
Circolò per anni la leggenda che nel suo museo esistesse la
testa del ciclope Polifemo, in quanto per molto tempo si credette d'aver
trovato il cranio del Ciclope con un solo occhio. La scienza ha
vanificato questa leggenda, idenficando il cranio con quello
dell'elefante Falconeri, per l'appunto il nostro elefante nano. Non mancano a completamento della sezione i fossili dei
vegetali, tronchi, foglie, alghe e i pesci fossili su tripoli del
Messiniano risalente a circa 8.000.000 di anni fa, periodo in cui,
chiusosi lo Stretto di Gibilterra, il Mediterraneo si prosciugò
lasciando grossi laghi. L'uomo è stato l'ultimo a comparire sulla terra ed ha
seguito un lento e faticoso processo detto appunto di ominazione. I
calchi dei crani acquisiti presso il Museo dell'Uomo di Parigi ci
consentono di seguire attraverso lo studio e l'analisi dei tratti
somatici tutte le modificazioni che hanno portato l'uomo da un aspetto
simile alla scimmia all'aspetto attuale. A questa parte si aggancerà la sezione archeologica con i
manufatti del paleolitico, mesolitico, neolitico nonché di età greca,
romana, medievale. A ciò si aggiungerà una sezione dedicata al materiale archeologico subacqueo frutto in una recente donazione, che permetterà di studiare la navigazione, la storia commerciale e storia politica della nostra zona.
Il robot Gnom. Era questa la stagione in cui, fra Castello e Faraglioni, «ciàuli» e «mìnnuli» celebravano il loro matrimonio d'amore circondati da un ricco stuolo d'invitati («sardi, opi e masculini») che nel mare calmo formavano un tappeto argenteo, luccicante ai raggi del sole. Ciàuli e mìnnuli si trovano attualmente solo in pescheria, mentre riesce difficile tirarli su dal fondo del mare ai pochi che, con barche e lenze, ancora vanno nel «vadu», cioè sulla verticale del luogo in cui, in numero enorme, essi coronavano una volta il loro sogno d'amore. Sono finiti i tempi in cui si raccontava che un polpo, emergendo dalle acque, a mezzogiorno, faceva suonare le campane delle chiese di S. Giovanni e di S. Mauro! Non è che i pesci si siano estinti, ma altri sono i dominatori delle acque della Riviera dei Ciclopi: i bagnanti!
E' arrivato anche un nuovo protagonista nei fondali dei Ciclopi: Gnom! E' un
piccolo robot, grosso quanto un pallone, che scandaglia i fondali e trasmette su
uno schermo, in diretta, tutto quello che riesce a vedere. E' legato a un cavo
di circa 100 metri ed è tale quindi il suo raggio d'azione. L'area protetta «Isole
Ciclopi», che lo ha adottato, ha già iniziato a farlo conoscere, o meglio, a
farne conoscere le capacità di scrutare i più nascosti anfratti dei fondali.
Poco
più di mille anni prima di Cristo, una sanguinosa guerra fra Greci e
Troiani sconvolse molte città dell'Ellade. Valenti guerrieri di ambedue
gli schieramenti si batterono con coraggio e valore per dieci lunghi
anni. Malgrado l'audacia e l'ardimento dei combattenti, il conflitto non
accennava a volgere a termine. Un
prode ed astuto combattente del campo greco, Ulisse, re di Itaca,
escogitò un piano che consenti di rovesciare le sorti della guerra.
Fece costruire un enorme cavallo di legno, lo portò in prossimità
delle mura di Troia, dicendo che i Greci intendevano togliere l'assedio
e lasciavano il cavallo come dono di ringraziamento per la dea Minerva. I
Troiani, che non potevano sospettare quale inganno si celasse
all'interno del cavallo, accettarono il dono e lo introdussero in città
fra feste e canti. Nottetempo,
mentre i Troiani, felici, festeggiavano la partenza dei loro nemici, un
numero imprecisabile di soldati uscì dall'enorme pancia del cavallo con
armi in pugno. In breve la città fu messa a ferro e fuoco ed i Troiani
furono sconfitti.
Dopo
dieci anni, la guerra si concludeva grazie all'astuto inganno di Ulisse.
I Greci vincitori si spartirono il bottino e fecero vela per rientrare
in patria. Proprio per Ulisse, l'ideatore del cavallo di legno, il
destino aveva riservato un lungo viaggio di ritorno, pieno di pericoli e
disavventure. La
sua flotta, spinta dai venti e dalle tempeste, giunse in Africa
settentrionale e da lì, approfittando dell'Austro, il vento che spira
dal sud, raggiunse la Sicilia. Ormeggiate le navi, scese a terra con
dodici marinai per far provviste. Portava con se oggetti da barattare e
fra questi anche alcuni otri di vino. Arrampicandosi
su per un ripido sentiero di montagna, il gruppo raggiunse una grotta.
Ulisse fece segno ai compagni di fermarsi, guardò attentamente verso
l'interno aguzzando la vista, ma la penombra non gli consentì di
distinguere quel che c'era dentro. Spinto della curiosità decise di
entrare. I suoi, a spada tratta, lo seguivano dappresso, pronti ad
intervenire ad ogni minimo segno di ostilità. Poco
oltre la soglia della caverna, c'era un rudimentale focolare, con delle
pietre disposte in cerchio. La cenere e i tizzoni freddi dimostravano
che la grotta era abitata e che il padrone di casa era uscito da tempo.
I
dodici si scambiarono qualche commento, poi, più curiosi che mai,
entrarono in quella strana abitazione. Andavano avanti con prudenza, esaminando attentamente ogni angolo. Sulla destra, seminascosto nella penombra, un enorme giaciglio, fatto di paglia, foglie secche e pelli di animali,confermava l'uso della caverna come dimora abituale di qualcuno. A prima vista tutto sembrava normale, tuttavia la sproporzionata dimensione del pagliericcio incuriosì i dodici visitatori. Infatti era così grande che avrebbe potuto ospitare un uomo ben tre volte più alto del normale. Questo non spaventava per nulla i dodici prodi, che abituati ad affrontare situazioni ben più pericolose, più che preoccupati, erano curiosi di conoscere lo smisurato inquilino. Continuarono
ad addentrarsi per una decina di passi, senza scorgere alcun segno
d'anima viva. Intorno c'era un gran silenzio e nell'aria si sentiva un
forte odore di sterco di capra, che faceva capire quale attività
svolgesse lo strano abitante della caverna. Più avanti, in un angolo
buio, disposte ordinatamente in fila, delle enormi provole pendevano da
un'asta di legno fissata orizzontalmente fra due pareti. Sotto di esse,
poggiate sopra un piano, c'erano svariate forme di formaggio. Tutti
questi elementi confermavano che doveva trattarsi della dimora di un
pastore. Tuttavia, ciò che lasciava perplessi i dodici era la
sproporzionata dimensione dei vari oggetti. Non
riuscendo a farsene una ragione, Ulisse ed i suoi compagni si erano
fatti più guardinghi. Per precauzione procedevano carponi, per non
farsi scorgere, nel caso ci fosse stato qualcuno nascosto da qualche
parte. Nella
grotta, invece non c'era proprio nessuno. C'era soltanto un assoluto
silenzio, che faceva aumentare il nervosismo, e tanto cattivo odore di
escrem Al
tramonto, s'udì il ritmico tintinnare di un campanaccio. I dodici si
sentirono rincuorati. Dopo ore d'attesa, finalmente giungeva qualcuno. Uno
del gruppo andò sull'uscio e guardò verso l'esterno. Un gregge,
guidato da un grosso ariete, risaliva lungo il pendio e si dirigeva
proprio verso la grotta. Il pastore procedeva lentamente, per ultimo,
portando sulle spalle un agnellino. Vestiva una pelle d'animale che gli
lasciava scoperta la spalla destra. L'osservatore, lo guardò bene e
rimase sorpreso per la sua enorme statura. Impaurito, corse subito ad
avvertire i compagni. I
dodici greci, nel vedere quell'omaccione, si guardarono in faccia
sbalorditi. Uno di essi suggerì di darsela a gambe prima che arrivasse
il padrone di casa. Ma il consiglio fu subito scartato, poichè ormai il
pastore era così vicino che si sarebbe sicuramente accorto della loro
presenza e li avrebbe acciuffati con molta facilità. Non restava che
nascondersi nel punto più buio della grotta ed aspettare. Intanto
il gregge aveva raggiunto l'ingresso e come un fiume in piena, dilagava
all'interno della caverna. Le capre, nel massimo disordine, raggiunsero
l'angolo a loro riservato e, belando, rimasero ferme, in piedi, in
paziente attesa della mungitura. Per ultimo giunse il pastore. Appena
dentro, si guardò intorno per assicurarsi che le bestie fossero entrate
tutte, poi chiuse l'accesso facendo rotolare un grosso macigno, tanto
pesante che neppure dodici buoi sarebbero stati capaci di smuovere. Intanto
Ulisse si era rannicchiato in un cantuccio buio insieme ai compagni e da
lì, sicuro di non potere essere scoperto, osservava attentamente quel
che succedeva. Il
pastore si avvicinò al focolare, prese alcuni rami secchi e li accese,
poi si chinò e soffiò sul fuoco per ravvivare la fiamma. A quel punto
una vampata gli illuminò il volto. Non appena lo videro, i dodici si
guardarono atterriti. Non avevano mai visto un viso così orribile. Il
gigantesco pastore non aveva due occhi, come tutti gli esseri normali,
ma uno soltanto, sormontato da un enorme sopracciglio nero che gli
attraversava quasi tutta la fronte.
Adesso
era tutto chiaro. Erano capitati nella terra dei Ciclopi, un popolo di
giganti con un solo occhio, che viveva di pastorizia. Questi esseri
giganteschi si cibavano di prodotti caseari, ma, di tanto in tanto, non
disdegnavano dei bocconcini di carne umana. Quello nel quale erano
incappati i prodi greci si chiamava Polifemo ed era il più vorace di
tutti. Il
Ciclope, che non si era accorto della presenza degli intrusi, continuò
a svolgere le normali attività di ogni giorno. Munse una capra, poi
prese un pentolone lo riempì di latte e lo mise a scaldare sul fuoco.
Appena pronto, lo versò dentro una grossa scodella e lo bevve tutto
d'un fiato, quindi prese del formaggio e lo mangiò avidamente, a grossi
bocconi. Mentre
compiva quasi meccanicamente questi semplici gesti, il suo unico occhio
continuava ad osservare distrattamente, di qua e di là, senza alcun
interesse particolare. Il caso volle che il suo sguardo andasse a
posarsi nell'angolo buio, proprio dove erano nascosti i dodici. Non
appena li vide, colto dalla sorpresa, diventò furente. D'istinto s'alzò
in piedi e strinse i pugni per la rabbia. L'occhio, roteando
nervosamente, fissava guardingo a destra e a manca, come se cercasse
qualche altro intruso nascosto chissà dove. Se avesse avuto sottomano
uno di quei malcapitati, sicuramente lo avrebbe stritolato.
Dopo
alcuni attimi, quando si rese conto che nella grotta c'erano solo quei
dodici, puntò lo sguardo su di loro e con voce possente, tuonò:
"Chi siete ? Cosa fate qui ? Come siete entrati ?" Lo
scaltro Ulisse si fece coraggio e uscì dal nascondiglio trascinando un
otre di vino. Fece qualche passo verso il Ciclope e, con tono
persuasivo, gli disse di chiamarsi Nessuno, che aveva combattuto nella
guerra di Troia insieme ai suoi compagni e gli chiedeva ospitalità solo
per una notte. Poi gli si avvicinò, gli pose l'otre ai piedi dicendo
che era un dono portato espressamente per lui e lo ringraziava anche a
nome dei compagni per l'ospitalità che gli avrebbe concesso. Evidentemente
le parole di Ulisse non furono troppo convincenti, poichè il gigante,
per nulla preoccupato di rispettare i doveri d'ospitalità, non rispose
neppure. Con la sua enorme mano abbrancò due uomini del gruppo e li
uccise sbattendoli con violenza contro una parete, poi se li mise in
bocca e li pasteggiò di gusto, sotto lo sguardo sgomento degli altri.
L'astuto Ulisse, fingendosi indifferente davanti a tanta atrocità, aprì
l'otre, riempì una grossa scodella di vino e gliela offrì. Polifemo la
prese, guardò attentamente il contenuto, poi lo annusò, quindi,
convintosi della bontà della bevanda, la tracannò tutta d'un fiato.
Soddisfatto emise un sonoro sospiro per sottolineare che ne aveva
apprezzato il sapore e si asciugò le labbra sbavanti con il dorso della
mano. Il
gusto del buon vino greco dovette riuscirgli gradevole, poichè, con la
scodella in mano, il braccio teso ed eloquenti grugniti, fece capire che
ne voleva ancora. Lo scaltro Ulisse assecondò prontamente il suo
desiderio riempiendogli una seconda scodella. Polifemo la bevve e, con
voce alterata per effetto dei fumi del vino, rivolgendosi al suo
coppiere, gli disse: "Tu, Nessuno, mi sembri più coraggioso degli altri. Per premio ti mangerò per ultimo!". Poi bevve una terza scodella, una quarta, una quinta, finchè stramazzò sul pagliericcio completamente ubriaco e si addormentò profondamente.
A
quel punto i dieci del gruppo avrebbero potuto ucciderlo con estrema
facilità, ma non avendo la forza di smuovere l'enorme macigno che
chiudeva la caverna, sarebbero rimasti intrappolati. Così decisero di
trovare uno stratagemma che permettesse loro di farsi aprire l'uscio
della grotta dallo stesso Polifemo. Rimasero
svegli per tutta la notte, pensando al modo migliore per vendicare ì
compagni uccìsi e per fuggire. Trascorsero ore ed ore discutendo, senza
arrivare ad una conclusione vera e propria, fino a quando una fioca luce
cominciò a filtrare attraverso un tenue spiraglio fra il macigno e le
pareti dell'ingresso. Gli
animali sottolinearono l'arrivo dell'alba con un insistente corale
belato, che svegliò il padrone di casa. Ulisse ed ì suoi, prevedendo
che il nuovo giorno non sarebbe stato tanto fortunato, sì nascosero fra
gli animali. Polifemo si sedette pigramente sul gìaciglio, si stiracchiò le braccia emettendo un sonoro sbadiglio, poi, ancora pieno di sonno, si alzò e si dìresse verso il gregge con sguardo assente. Non era ancora completamente sveglio e, muovendosi automatìcamente, si avvicinò ad una pecora e la munse. Riempì un'intera scodella di latte, che bevve ingordamente, mentre era ancora caldo. Poi si guardò intorno con insaziabìle appetito, alla ricerca dei suoi gustosi ospiti. Non appena li vide tese la mano e ne afferrò due. Con la stessa freddezza della sera precedente, li uccise fracassandoli contro una parete, e li mangiò sotto gli occhi atterriti degli altri.
Quando
fu sazio, si avvicinò all'ingresso e con estrema facilità fece
rotolare il grosso macigno. Un abbagliante fascio di luce intensa
illuminò l'interno della caverna. Gli animali, ansiosi di raggiungere
il pascolo, facendo ressa sull'uscio, in breve uscirono tutti, sotto il
vigile controllo di Polifemo, che, prontamente, richiuse l'ingresso, in
maniera da impedire al gruppo dei prodi greci di squagliarsela. Adesso
Ulisse ed i suoi erano rimasti soli nella grotta. Questo dava loro il
grande vantaggio di esamìnare accuratamente ogni angolo e di prendere
in considerazione ogni opportunìtà per battere Polifemo. Perlustrarono
l'ambiente in lungo ed ìn largo. Oggetti, attrezzi e quant'altro
potesse tornare utile al loro scopo fu analizzato con cura. Poggiato ad
una parete, lo scaltro re di Itaca vìde un grosso palo ricavato da un
solìdo ramo d'ulivo. Lo scrutò attentamente, ne constatò la
robustezza, poi rimase in silenzio, a riflettere sull'uso che ne avrebbe
fatto. Dopo qualche minuto di attenta riflessione, ordinò di appuntirne
una delle due estremità e di nasconderlo sotto lo sterco, poi spiegò
ai compagni il suo piano. Verso
il tramonto giunse il Ciclope. Più ansioso che mai di gustare quegli
ottimi filetti di carne umana, aprì l'ingresso della caverna, fece
entrare il gregge, munse una capra ed accese il fuoco sul quale mise a
scaldare una scodella di latte.
I
prodi greci, che ormai si erano ridotti ad otto, presi dalla paura,
cercarono di nascondersi nell'angolo più buio. Ciascuno di loro pregava
ardentemente tutti gli dei dell'Olìmpo perchè non fosse trasformato in
cena per il Ciclope. Neppure Ulisse, al quale era stato detto che
sarebbe stato mangiato per ultimo, si sentiva al sicuro. Quando
lo sguardo di Polifemo si soffermò nel nascondiglio, gli otto si
sentirono raggelare il sangue. Due di loro, da lì a poco, avrebbero
fatto la medesima atroce fine dei loro compagni uccisi il giorno
precedente. Malgrado la paura, però, non s'udì un lamento o
un'imprecazione. Tutti rimasero fermi al Toro posto, in attesa che il
destino si compisse. Inesorabile,
la gigantesca mano del mostro si avvicinò a quei poveretti, ne afferrò
due e, con il solito macabro rituale, li uccise e li mangiò. A quel punto, Ulisse si fece avanti con un otre pieno dì vino. Lo aprì e riempì una scodella. Il Ciclope la afferrò e bevve tutto d'un fiato, poi chiese dell'altro vino. Con smisurata avidità tracannò circa sei scodelle colme fino all'orlo, finchè, completamente ubriaco, stramazzò sul pagliericcio e dormì profondamente.
Per
i sei eroi era giunto il momento di vendicare i compagni uccisi e di
liberarsi dalla crudele prigionia. Cautamente, Ulisse si avvicinò al
mostro e, sentendolo russare sonoramente, si rese conto che il vino lo
aveva reso innocuo per un bel po'. Quando ritenne di potersi muovere con
una certa sicurezza, ordinò ai suoi compagni di prendere il palo di
legno nascosto sotto lo sterco e di metterlo sul fuoco per arroventarne
la parte appuntita. Dopo
una decina di minuti, la punta diventò incandescente. A quel punto
Ulisse e gli altri cinque sollevarono il palo, si avvicinarono a
Polifemo, che dormiva saporitamente, e, tutti insieme, concentrando al
massimo i loro sforzi, gli conficcarono la punta infuocata nell'occhio. Nella
grotta echeggio un urlo bestiale. Il Ciclope in preda ad un atroce
dolore, si dimenava nel tentativo di liberarsi, mentre i sei, per creare
un effetto più devastante, spingevano e facevano ruotare il palo dentro
l'orbita. L'occhio, ormai spappolato per effetto del colpo ricevuto,
emetteva un crepitio come se friggesse, mentre nella grotta, pervasa dal
fumo e da un odore acre di carne bruciata, l'aria era diventata
irrespirabile. -
Si compiva così l'anatema della ninfa Galatea. - Eseguita
l'azione, i sei marinai si allontanarono rapidamente nell'angolo più
oscuro della caverna per non farsi acciuffare. Polifemo, dolorante,
continuava a gridare, mentre con ambedue le mani tentava di sfilarsi il
palo dall'occhio. A viva voce chiamò i suoi amici Ciclopi, che giunsero
in breve tempo. Lungo il pendio che portava all'ingresso della grotta se
ne radunarono almeno una ventina, pronti ad intervenire in aiuto del
loro compagno. La Toro presenza creò qualche attimo di tensione fra i
Greci. Infatti, se i giganti fossero entrati nella grotta, per loro
sarebbe stata la fine. "Polifemo,
perchè ti lamenti ?", urlò uno dei Ciclopi dall'esterno. "Nessuno
mi acceca!", gli rispose dolorante Polifemo con voce roca e
cavernosa. "Se nessuno ti acceca, perchè ci fai alzare in piena notte?"; e credendo che il loro compagno fosse in preda ad un incubo, si allontanarono seccati.
Quando
giunse l'alba, malridotto e dolorante com'era, Polifemo avrebbe
preferito restarsene coricato, ma l'insistente belato del gregge lo
convinse ad andare al pascolo. Come al solito rimosse il macigno che
chiudeva l'ingresso e si mise sulla soglia. Per evitare che i
prigionieri fuggissero, palpava accuratamente il dorso delle pecore man
mano che uscivano. Lo
scaltro Ulisse, che aveva considerato ogni evenienza, legò i suoi
compagni sotto il ventre degli arieti più grossi, mentre egli stesso si
aggrappò sotto il lanoso capomandria. Con quest accorgimento, malgrado
il Ciclope verificasse col palmo della mano il dorso degli animali, non
potè accorgersi della fuga dei suoi ospiti. -
Ancora una volta l'astuzia di Ulisse aveva avuto la meglio sulla forza.-
Appena fuori dalla grotta, il gruppo dei sei corse precipitosamente
verso la nave, dove l'equipaggio aveva gia preparato tutto per la
partenza. Aiutandosi con la vela e con i remi, in breve tempo le navi si
allontanarono dalla costa. Intanto
Polifemo, che aveva intuito quel che era successo, andando avanti a
tentoni, cercò di raggiungere i fuggitivi, ma ormai era troppo tardi.
Le imbarcazioni si dirigevano velocemente verso il largo. A quel punto,
Ulisse, sentendosi sicuro di non poter essere raggiunto, dalla prora
della nave, con tono di scherno e non senza una buona dose d'orgoglio
per averla fatta franca, rivolgendosi al Ciclope, gli urlò "Polifemo!
se qualcuno dovesse chiederti chi ti ha accecato, dirai che non è stato
nessuno, ma Ulisse, re di Itaca!". Il Ciclope era fuori di se. Livido di rabbia, concentrò i suoi sforzi, afferrò la cima di una collina e la scagliò verso la direzione dalla quale veniva la voce di Ulisse.
Il
gesto non ebbe alcun effetto. La nave fluttuò lievemente per le onde
prodotte dalla caduta in mare del macigno e proseguì con la vela
spiegata. Polifemo non si diede per vinto. Afferrò la cresta di
un'altra collina e la scagliò contro le navi. Ma anche questo tentativo
fallì miseramente. -
Gli increduli possono verificare: le cime delle colline sono ancora lì,
nel mare di Acitrezza, a poche centinaia di metri dalla costa -. In
preda allo sconforto, Polifemo aprì le braccia al cielo ed invocò suo
padre Poseidone, il dio del mare. "Padre
- implorò il Ciclope - fa che Ulisse soffra come io sto soffrendo e
giunga in patria dopo infinite peripezie, senza navi e senza
compagni". Invece,
Ulisse ed i suoi, con vento favorevole, in meno di un giorno di
navigazione giunsero nelle isole Eolie, dove dimorava Eolo, il dio dei
venti. L'accoglienza fu sincera e calorosa. Il signore dei venti ospitò lui e l'equipaggio per un mese intero nella sua reggia. Quando fu il momento della partenza, Eolo voile fargli un grande dono. Gli regalò un otre contenente tutti i venti eccetto uno: il vento di ponente, grazie al quale la nave sarebbe stata spinta fino all'isola di Itaca. Nel consegnargli l'otre, gli raccomandò di non aprirlo per nessuna ragione, altrimenti i venti sarebbero usciti e, spirando tutti insieme, avrebbero causato una terribile tempesta. Ulisse lo ringraziò e ripose l'otre in un angolo della stiva, poi si preparò a salpare.
La
partenza fu favorita da una dolce brezza, l'unica che potesse spirare,
poichè gli altri venti erano chiusi dentro l'otre. Il mare era calmo e
la prua fendeva l'acqua, sollevando due onde schiumose che lambivano le
fiancate, lasciando una lunga scia dietro la nave. Dopo
due settimane di tranquilla navigazione, la nave giunse in vista
dell'isola di Itaca. Erano trascorsi più di dieci anni dalla partenza
ed i reduci della guerra di Troia erano Quando
mancava ormai poco tempo all'arrivo, improvvisamente, Ulisse sentì gli
occhi chiudersi per un'inspiegabile stanchezza. Un sonno pesante scese
su di lui costringendolo a sedersi in un angolo e a dormire
profondamente. Nettuno, che non aveva dimenticato le implorazioni del
figlio Polifemo, stava mettendo in atto la sua vendetta. Mandando ad
Ulisse un sonno pesante, gli aveva tolto il controllo della nave. Intanto
i compagni, che per tutto il viaggio avevano sospettato che dentro
l'otre ricevuto in dono da Eolo ci fosse del vino, approfittarono del
sonno del loro capo, per aprirlo e brindare alla conclusione del
viaggio. Non
appena l'ultimo laccio che chiudeva l'otre fu sciolto, i venti uscirono
tutti insieme e presero a spirare ognuno per la sua naturale direzione.
All'istante, turbini violentissimi sollevarono onde gigantesche; si
scatenò una burrasca che infuriò per giorni e giorni con inaudita
violenza. Le navi furono sballottate di qua e di là. Alcune si
inabissarono, altre, malridotte, continuarono a vagare per i mari per
dieci lunghi anni, finchè il fato non fu compiuto. "
[…] Ciclope, io dissi con lo sdegno in petto, Se
della notte, in che or tu giaci, alcuno Ti
chiederà, gli narrerai che Ulisse, D'Itaca
abitator, figlio a Laerte, Struggitor
di cittadi, il dì ti tolse. […]
Sollevò un masso di più vasta mole E,
rotandol nell'aria, e una più grande Forza
immensa imprimendovi, lanciollo. Cadde
dopo la poppa, e del timone La
punta rasentò: levassi al tonfo L'onda,
e il legno coprì, che all'isoletta Spinto
dal mare, subitamente giunse." (Omero
- Odissea, libro IX)
Secondo
il racconto che Ulisse fa dei suoi viaggi ai Feaci (Od. IX-X), la cui
isola, Scheria, sin dall'antichità si identificò con Corcira.(Corfù)
(G. De Sanctis), quando, al ritorno da Ilio, sta per doppiare il Capo
Malea, un vento che viene da Nord lo respinge indietro lungo Citera (Cerigo):
Al 10° giorno approda al paese dei Lotofagi (IX, vv. 103-133). Gli
antichi lo collocavano sulle coste della Libia; talora invece nei pressi
di Agrigento e Camarina., come pensano anche il Columba ed il Pace. I
Greci gustano i germogli del loto offerti dagli indigeni e dimentichi di
tutto vorrebbero restare. A stento Ulisse li fa imbarcare e ripreso il
viaggio per mare. giunge nella terra dei Ciclopi , localizzata sin
dall'antichità presso l'Etna.. Vicino alla costa c'è un'isoletta
boscosa, abitata
L'isoletta potrebbe essere l'Isola Lachea o di Aci, la più grande dei cosiddetti “Scogli dei Ciclopi” di Acitrezza, e “la densa caligine” può indicare le nere ceneri spesso vomitate dall'Etna. Il porticciolo può ben essere l'altro “Porto di Ulisse ”, oggi Ognina. Dopo il famoso episodio di Polifemo e la fuga per mare, l'eroe giunge all'Isola Eolia , identificata con Stromboli, Vulcano o Lipari, cioè una delle isole chiamate appunto Eolie. Da questa passano nel paese dei Lestrigoni , antropofagi, identificato probabilmente con la piana di Catania. Scampato ai Lestrigoni, con una sola nave Ulisse giunge all'isola Eea, dimora di Circe, figlia del Sole e di Persa, generata da Oceano, identificata col Promontorio Circeo (Eneide VII, 10ss.), nel Lazio, considerato dagli antichi come un'isola. Passato un anno riparte e dopo esser approdato nel misterioso paese dei Cimmeri, scende negli Inferi , nel regno di Plutone. Gli inferi sono localizzati a Cuma presso il lago Averno, nelle cui vicine cavità sotterranee vivevano i Cimmeri.
Nell'Ade l'indovino Tiresia lo informa dei suoi casi futuri e come evitare i pericoli. “Tutti del mar vinti i perigli”, egli vaticina “approderai col ben formato legno alla verde Trinacria Isola, in cui pascon del Sol, che tutto vede ed ode, i nitidi montoni e i buoi lucenti….”. Lo ammonisce a non toccare i sacri buoi pena gravi sciagure. Ritornato da Circe, l'eroe riceve da costei conferma delle predizioni e ammonimenti di Tiresia.. Dopo aver superato le insidie delle Sirene e di Scilla e Cariddi, la maga gli predice, “Allor incontro ti verrai le belle spiaggie della Trinacria isola, dove pasce il gregge del Sol, pasce l'armento:….se giovenca molestate od agna, sterminio a te predico, e al legno e a' tuoi.”. La triste predizione purtroppo si avvera. Infatti l'eroe riparte, vince prima il pericolo delle Sirene , la cui isola si è cercata nella penisola Sorrentina e le loro tombe in Campania; quella della Sirena Partenope nel sito della futura Napoli, la città Partenopea.
Altri però, meno verosimilmente,
fissano la loro sede vicino allo stretto di Messina, all'Etna, Catania,
Capo Posidonio. Ulisse oltrepassa.quindi Scilla e Cariddi , indicate
nello stretto di Messina, e subito gli appare l'Isola del Sole. Ulisse
vorrebbe evitarla, ma i suoi compagni vogliono approdare per non
incorrere, specie di notte, nelle tempeste e nei disastrosi venti. :
“Or chi fuggir potrà l'ultimo danno” di Importante
questo riferimento ai venti di Mezzogiorno e di Ponente che sono proprio
quelli che dominano nel nostro versante e causano spesso violente
tempeste. Nel versante ionico invece domina il levante e lo scirocco; Le
navi dunque avevano superato il Capo Pachino e si trovavano nel nostro
litorale! Ulisse
cede e decide di approdare.al calar del sole e “nel porto appo una
fonte e lauta cena apparecchiar sul lido”. Rientrati nelle navi,
quando erano passati i due terzi della notte, il cielo diventò
minaccioso, come spesso capita nel nostro litorale, ma non si scatenò
una tempesta. “Declinavan le stelle, quando il cinto di nembi Olimpio
Giove destò un gagliardo turbinoso vento, che la terra coverse ed il
mar di nubi, e la notte di cielo a piombo cadde. Ma, al sorgere
dell'Aurora il cielo si rasserenò, “tirammo a secco il legno ed in
cavo speco, dei seggi ornato delle Ninfe, ch'ivi i lor balli tessean,
l'introducemmo”. Ebbene
questo porto può ben essere il nostro Porto Ulisse , come confermano il
nome e le fonti antiche! La sorgente poteva essere il fiumicello che
allora dai pantani sboccava a mare. Invero l'ampia spiaggia sabbiosa di
Porto Ulisse è adattissima per tirare a secco le leggere navi omeriche
dal basso pescaggio, mentre la vicina costa della Marza era piena di
spelonche dove potersi riparare, come scrive il Camilliani nel 1584. E
nella zona non mancavano oltre le grotte, fiumi, laghi, sorgenti,
boschi, dove avevano dimora le Ninfe della mitologia greca! I Greci si
trattengono nella nostra zona per un mese perché i venti non erano
favorevoli alla navigazione. E durante questa dimora possiamo collocare
la costruzione del tempio e del cenotafio , di cui parla Licofrone!. “Per un intero mese Austro [vento del Sud] giammai di spirar non restava, e poscia fiato non sorgeva mai, che di Levante od Austro.”.
Questi
venti, specie lo Scirocco, gonfiano infatti il nostro mare e durano
parecchi giorni, impedendo l'uscita delle barche e dei pescherecci. Durante
questa sosta forzata, i compagni di Ulisse giravano “ dispersi per
l'isola, d'augelli e pesci in traccia, con archi ed ami o di qual altra
preda lor venisse alle man…”. Viene in mente la suggestiva
descrizione del Fazello “Nella città scorre una grandissima sorgente,
per cui tutta questa zona del litorale, oggi chiamata Ficallo, coi suoi
fiumi, torrenti, laghi, fonti straordinariamente irrigue, offre agli
uomini svariati piaceri, soprattutto con la pesca, l'uccellagione e la
caccia.”. Ulisse
cerca una “solitaria piaggia, gli Eterni a supplicar se alcuna via mi
si mostrasse del ritorno”. E certo l'eroe poté appartarsi in una
delle numerose piccole insenature della vicina scogliera della Marza! I compagni però, spinti dalla fame, rompono il giuramento fatto al loro capo di non toccare i vitelli del Sole e di nascosto, “ del Sol cacciate le più belle vacche di fronte larga e con le corna in alto, che dalla nave non pascean lontane” (vv. 456-58), le arrostiscono al fuoco e se ne cibano.
Le vacche e gli armenti del Sole, considerate sacre come oggi per gli Indù che non se ne cibano, potevano ben essere quelli della razza modicana, come dice il Caruso, ma dovevano pascolare nelle vicine nostre contrade della Marza e S. Maria, perché “dalla nave non pascean lontane”. Una conferma possiamo trovarla nell'etimo da noi proposto del fiume della Cava d'Ispica, Busaitone, dalle parole greche “bous = bue e “aedòn” = canto, muggito. Ma anche la derivazione da Poseidone, proposta da B. Pace, può mettersi in relazione col Dio del Mare, padre di Poliremo e fiero nemico di Ulisse, che lo aveva accecato. Anche il tempio di Apollo Libistino , di cui parla Macrobio, sito nel versante orientale di Porto Ulisse, preesistente allo sbarco dei Libici, come già notava il Cluverio, potè essere eretto per riparare l'offesa fatta a Febo-Apollo, Dio del Sole, dallo stesso Ulisse o dai Greci che, dopo di lui, vennero a colonizzare la nostra Isola. Una relazione, anche se debole, potremmo trovarla ancora con le “ Secche di Circe ”, distanti ca. Km.1,3 da Cirica, cosiddette non sappiamo se per voce popolare o per indicazione di qualche studioso del sette-ottocento; infatti. questo toponimo non si riscontra nelle carte antiche ed è segnato solo nelle carte nautiche. Invero, se sulla base del testo Omerico è da escludere che l'isola Eea di Circe fosse nel nostro territorio, si può tener conto che Circe era figlia del Sole. Malgrado i lamenti e i rimproveri ai suoi di Ulisse, ignaro ed innocente del misfatto, Giove vendica l'irato Sole. Infatti dopo sei giorni, cessato “il turbinoso vento”, si misero in mare. “Di vista già della Trinacria usciti”, dopo breve tratto, “uno stridulo ponente”, colpisce la nave. Le acque si intenebrarono, un vento impetuoso imperversò, ruppe le funi, le vele e l'albero maestro. La nave, colpita dal fulmine di Giove si inabissa coi compagni e a stento l'eroe si salva legandosi all'albero spezzato. Egli supera incolume ancora una volta Scilla e Cariddi, .e dopo nove giorni in preda ai flutti, viene sbattuto nell'isola di Ogigia , dove è accolto dalla ninfa Calipso . Questa isola si è cercata a Gozo, nell'arcipelago maltese; ma è più probabile l'isola Melena o Nufea nell'Illiria (Albania).
Questa
descrizione corrisponde alle condizioni meteorologiche della nostra
zona. Il “turbinoso vento” che ostacolava l'uscita in mare, allora
come oggi, è lo scirocco; la nave non era molto distante da Porto
Ulisse e non aveva ancora girato Capo Pachino, perché viene colpita dal
vento di Ponente, dominante nel nostro litorale a sud, mentre il
versante ionico ne è riparato. E' poi evidente che l'eroe ritorna
indietro spinto dal Ponente, perché non poteva andare controvento lungo
il versante meridionale. Un
riferimento alla leggenda dello sbarco di Ulisse nel nostro porto si può
rinvenire ancora nell'accenno di Virgilio (3° Eneide, vv. 698-670):
“Oltrepassiamo il pingue suolo dello stagnate Eloro, indi rasentiamo
gli alti scogli e le rocce prominenti di Pachino….” Enea naviga
costeggiando il litorale ionico da nord a sud e, superato il Capo
Pachino, passa oltre il Promontorio Odisseo e prosegue per Camarina,
Gela, Agrigento fino a Trapani: è in parte lo stesso itinerario fatto
all'inverso da Ulisse, come ricorda il suo compagno Achemenide che
mostra ad Enea i lidi già percorsi. E invero se riferiamo “gli alti
scogli” a Capo Pachino, cioè all'alta punta rocciosa dell'Isola di
Capo Passero, allora unita alla terraferma, possiamo ben intendere per
“le roccie che si protendeno innanzi” la nostra Punta Castellazzo,
dove già ai tempi di Virgilio c'era il castello romano dei tempi di
Verre (Cicerone, Verrine lib. V). Prof.
Melchiorre Trigilia
Santa Tecla
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