capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino, pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino. capitano che hai trovato principesse in ogni porto, pensi mai al rematore che sua moglie crede morto

 

 

 

 

Il mare di Catania è quello che Omero scelse per raccontare di Ulisse e dei Ciclopi. Quello che Verga scelse per "I Malavoglia" e Visconti per "La Terra Trema". Un mare dove si intrecciano da sempre storie e leggende, e dove la movida catanese trova i suoi punti di appoggio, tra granite, pesce e borghi marinari.

Il mare bagna Catania da oriente e presenta due scenari naturali molto diversi, separati dal porto e da una zona demaniale con la stazione e le linee della ferrovia. A sud le spiagge di fine sabbia dorata fino all'Oasi del Simeto e, oltre, fino al borgo di Agnone. A nord le lave nere della scogliera che si spinge per 30 chilometri fino a Fiumefreddo, in vista di Taormina. Così i catanesi si dividono in due fazioni: i fautori della sabbia e quelli degli scogli.

Verso sud, a partire dal faro Biscari, si svolge la grande "Plaia" costellata di stabilimenti balneari dove il mare diventa un fatto sociale e culturale, un mondo estivo di conoscenze, scambi e vicinato. Più ci si avvicina all'Oasi naturalistica gestita dalla Lipu e più ci si trova a contatto con la natura.  

 

 

 

Il mare di scoglio verso nord lo si incontra a piazza Europa e, poco più avanti, nei due antichi, deliziosi borghi marinari di San Giovanni Li Cuti e di Ognina, con chiesetta, porticciolo e ristoranti con vista sullo Jonio. A partire dalla primavera sul mare luccicano le lampare, piccole barche, dotate di luci, per la pesca notturna di polipi e calamari. Lasciano il molo insieme ai pescherecci più grandi che escono a caccia di pesce azzurro e pescespada. Sulla strada che costeggia la scogliera nata dall'emersione di lave basaltiche, i grandi alberghi si alternano a lidi balneari, ristoranti e complessi residenziali. La litoranea s'interrompe davanti a una grande rupe sormontata da un maniero normanno. Il fascinoso castello di Aci ha terrazze a strapiombo sul mare, resti di torri merlate, portali duecenteschi e un giardino che ospita una collezione di piante succulente. Ai suoi piedi una grande piazza, cuore della vita sociale di Acicastello. Un chilometro più avanti si raggiunge Aci Trezza, l'antico borgo di pescatori nel quale Giovanni Verga ambientò "I Malavoglia" e Luchino Visconti girò "La Terra trema". Di fronte alle case arroccate intorno al porticciolo e alla chiesa si spiega lo spettacolo naturalistico e il fascino omerico delle isole dei Ciclopi. La più grande, l'isola Lachea, è un microcosmo tutelato con flora e fauna rarissime. Ospita una stazione per gli studi biologici e di fisica del mare gestita dall'Università di Catania. Sul molo non è difficile trovare barcaioli disposti a portare turisti e bagnanti in un giro per le isole, oppure a organizzare un'uscita notturna con pescatori. Alla sera non si contano locali, pizzerie, ristoranti, gelaterie: la movida catanese invade la costa. Tra le palme del giardino botanico del Banacher, uno dei locali notturni all'aperto più belli d'Italia, si tira tardi fino all'alba per l'immancabile granita con brioche al mercato ittico in piazza della Marina, sempre ad Aci Trezza.

Ancora qualche chilometro tra i limoneti e le scogliere e si incontrano Capo Mulini, la timpa di Acireale, il belvedere di Santa Caterina, borghetti marinari come Santa Maria La Scala, Santa Tecla (dove nuotare è ancora piacevole), Stazzo, Pozzillo, Torre d'Archirafi. A ovest l'Etna cambia volto mentre a nord la sagoma di Taormina si fa più definita.

(Toto Roccuzzo)

 

Figlio di Laerte e di Anticlea, si finse pazzo per non andare alla guerra di Troia; smascherato da Palimede, portò la sua astuzia al servizio dei Greci, dopo aver arruolato anche Achille, che si era travestito da fanciulla, anch'egli per evitare la guerra. Grande fu il contributo che Ulisse diede alla vittoria dei Greci e di ciò l'Iliade tratta a profusione. L'Odissea, invece, racconta le peripezie dell'eroe nel viaggio di ritorno alla sua Itaca e le vicende drammatiche con le quali scaccia i Proci e si riappropria delle proprie terre. Dopo la sua morte fu posto fra i semidei. Fin qui la presunta storia, ma sono in molti a vedere in Ulisse qualcosa di più e di diverso. Esotericamente, il suo viaggio è inteso come le peripezie del Sè nella lotta contro il corpo e le passioni, prima di conquistare la pienezza della sua affermazione. Qualche storico vorrebbe che Ulisse fosse vissuto ai tempi della Quarta Razza e che Ogigia, l'isola dove l'eroe rimase per sette anni con Calypso, fosse l'Atlantide. Ma ciò è molto improbabile, poiché i tempi presunti non coincidono. I filosofi stoici lo consideravano il prototipo del saggio, mentre i politici vedevano in Ulisse la figura del capo nonché dell'uomo di azione.

 

  (foto di Francesco Tomarchio)

 

 

 

Demitizzare Ulisse Ulisse, in greco Odisseo (il nome latino Ulixes risulta preso da una forma dialettale), è l'eroe più celebre di tutta l'antichità e il più celebrato negli ultimi 27 secoli.  

Tutti i manuali scolastici presentano l'Odissea come un poema in cui viene narrato il ritorno avventuroso in patria di uno degli eroi della guerra di Troia. In realtà le vicende di Ulisse sono solo il pretesto per raccontare una storia che di avventuroso ha assai poco rispetto al motivo di fondo che la domina e che è eminentemente tragico, come è tragico il suo eroe principale. 

Tra la fine dell'VIII sec. a. C. e l'inizio del VII furono messi per iscritto, in lingua greca, l'Iliade e l'Odissea, approdo finale di una tradizione orale risalente, probabilmente, all'età dei greci micenei, la cui civiltà era crollata verso il 1200-1100 a. C. Fu nel momento in cui, verso il VII sec. a. C., molti greci cominciarono a migrare verso occidente, portando con sé le loro memorie, che qualcuno mise per iscritto i due poemi. 

Secondo un'antica tradizione leggendaria Ulisse è un bisnipote di Ermes, il dio delle trasformazioni, che si contrappone ad Apollo, dio semplice, chiaro, unico. E infatti per Omero Ulisse è al vertice delle capacità umane, complessivamente intese: è dotato d'incredibile perspicacia e intuito (polymetis), sa adattarsi alle più inattese emergenze della sua tumultuosa esistenza (polytropos), ha una grandissima astuzia (polymechanos), è capace di mille pensieri (polyphron) ed è in grado di sopportare le più terribili sofferenze (polytlas), è insomma un uomo di mondo, rotto, anzi "navigato" a tutte le esperienze (polyplanes).   

 

 

E' il personaggio più moderno perché il più umano, non ovviamente nel senso "cristiano" o "laico" in cui oggi intendiamo la parola "umano" o l'espressione "senso dell'umanità", poiché Ulisse era anche capace di efferate crudeltà e terribili vendette 1, ma semplicemente perché incarna tutte le caratteristiche dell'uomo moderno, ed infatti egli è figlio di una grande civiltà antagonistica: passione militare, volontà di comando, astuzia politica e diplomatica, affabulazione e capacità di persuasione, relativismo etico 2, licenza sessuale (note sono le sue amanti: Circe, Nausicaa, Calipso ecc.), coraggio nell'affrontare le avventure, patriottismo 3 e senso di superiorità etnica, di stirpe 4, di civiltà, spirito di sacrificio 5, curiosità intellettuale 6, rispetto formale della religione. 

Ulisse in realtà non è mai esistito, se non nella fantasia di un redattore o di più redattori, che volevano convogliare in un individuo isolato quei valori che tutti insieme non realizzarono né avrebbero potuto realizzare alcun ideale sociale, di convivenza pacifica e democratica. 

L'Iliade infatti è il fallimento di una civiltà, quella micenea, rappresentata da una polis che vince un'altra polis, senza per questo migliorare il proprio destino, è cioè il simbolo dell'impossibilità di una coesistenza in nome degli ideali e dei comportamenti che furono di molti eroi troiani e greci e che in Ulisse si sommano stupendamente (sul piano artistico delle letteratura) in un'unica persona, che però appare come eroe isolato, i cui compagni di sventura sono soltanto delle comparse. 

 

 

L'Odissea è la sconfitta dell'Iliade, ma in forma sublimata, accentuando al massimo l'umanità di un eroe di carta, che nella realtà non può esistere, perché nessun uomo può essere tutte quelle cose insieme. Lo stesso Omero afferma che oltre il Peloponneso esiste solo l'irrealtà. 

L'Iliade infatti, trattando il tema della guerra in nome di un ideale di giustizia, suggeriva l'idea che entro certi limiti era possibile sospendere le esigenze della democrazia, in attesa della conclusione del conflitto. Ma l'Odissea è il tentativo di mascherare il fallimento di quegli stessi ideali vissuti in tempo di pace. 

Ulisse viene fatto vivere in una dimensione surreale proprio perché non sarebbe stato in grado di vivere un'esistenza normale, nella vita reale, nella prosaicità di una vita pacifica, senza conflitti sociali o bellici.  

La sua personalità è in fondo quella di un disadattato sociale, analoga a quella dei reduci militari di qualunque sporca guerra, di uno che non può avere amici che non siano i propri commilitoni, e che quindi andrebbe rieducato a una vita sociale normale, dedicata al lavoro, al rispetto delle regole di una convivenza civile. 

E' raro nella nostra civiltà, che nella sostanza rispecchia molti di quei valori omerici, nonostante i duemila anni di cristianesimo, vedere qualcuno criticare il mito di Ulisse, ovvero riprendere le critiche di Sofocle (Filottete) ed Euripide (Ecuba), e anche di Filostrato (Eroico), approfondendole ulteriormente.  

Eppure l'umanità di Ulisse è un inganno e dovremmo liberarcene, cioè non dovremmo lasciarci più sedurre dalla sua personalità accattivante, come lui non si lasciava sedurre dal canto delle sirene, perché Ulisse non è un modello da imitare, ma un cattivo esempio per chi vuole fuoriuscire dall'antagonismo sociale. Le sue disavventure non possono più indurci a giustificare il suo egocentrismo, il suo maschilismo, e tutte le debolezze connesse a questi vizi capitali, che dalla cultura della sua civiltà si sono introiettati nel comportamento della sua persona. 

Ulisse è un personaggio invivibile, è quello che ogni maschio vorrebbe essere e che se vi riuscisse renderebbe impossibile la vita di società. Egli rappresenta il tentativo di voler sopravvivere a se stessi, nonostante le contraddizioni impongano una svolta verso il recupero di una dignità umana autentica. 

Neppure Penelope è in grado di riconoscerlo (e come avrebbe potuto dopo dieci anni di guerra contro i troiani e dopo altri dieci di peregrinazioni?) e ha bisogno di un segno tangibile, che però, guarda caso, è un'altra prova di abilità: il letto scavato nell'ulivo, mentre a tutti gli altri dovrà dare l'ennesima prova di forza. Ulisse non viene riconosciuto come uomo, ma come artigiano e come militare. La sua personalità di uomo è da tempo scomparsa. 

Penelope è in fondo la vera eroina (anch'essa molto irreale) che ha sopportato per vent'anni l'egocentrismo del marito, solo che il suo atteggiamento non fa storia, o meglio, non fa il "romanzo d'avventura", non stimola la fantasia, non fa evadere nei sogni irreali. La sua figura non appare chiaramente come un'alternativa a Ulisse, ma piuttosto come una forma di ripiego.   

Ulisse torna a casa non perché vuole rivedere la moglie e il figlio, ma perché è stanco delle sue avventure. Torna a casa da vecchio, come se avesse bisogno di farsi compatire o perdonare. La strage dei Proci non è forse servita a tale scopo? Il suo modo di dimostrare la propria utilità è stato, ancora una volta, quello di usare le armi e seminare morte e terrore.

 

S'è fatto perdonare e nel contempo ha fatto capire chi comanda di nuovo a Itaca: di tutti i pretendenti e molestatori di Penelope sono due personaggi minori avranno salva la vita. E così ha dato l'impressione d'essere tornato per rivendicare una proprietà minacciata, di cui moglie e figlio costituivano un mero accessorio 7. 

In realtà Ulisse non può essere riscattato dal suo ritorno in patria, dalla fedeltà coniugale affermata solo in ultima istanza, dall'amore dimostrato nei confronti di un figlio che è cresciuto all'ombra della sola madre. Non lo riscatta tutto ciò e neppure lo riscattano tutte le sue disavventure, che lui in fondo ha cercato per dare un senso alla sua vita errabonda, vana e vacua, e neppure il fatto ch'egli abbia dimostrato una indipendenza di giudizio nei confronti della religione ufficiale: Ulisse ha un atteggiamento troppo opportunista nei confronti degli dèi pagani falsi e bugiardi.  

La vita di un uomo non può essere riscattata dalle disgrazie che avrebbe potuto tranquillamente evitare, se avesse vissuto una vita più normale, o peggio dagli ultimi cinque minuti in cui l'ha vissuta, accanto alla moglie e al figlio, da vero marito e da vero padre, perché non saranno questi minuti a porre le basi per un senso alternativo di umanità. Non a caso una leggenda lo fa morire oltre le colonne d'Ercole, alla ricerca di nuove avventure e giustamente Dante lo condanna all'Inferno (canto XXVI), non solo come consigliere fraudolento, ma anche come uomo folle ed egoista che porta alla rovina i suoi compagni, raggirati col miraggio d'una conoscenza illimitata (che nella Commedia appare fine a se stessa, ma che nella realtà storica diverrà occasione di saccheggi e devastazioni coloniali da parte dell'Europa borghese).   

 

Caponata catanese  Ingredienti:Melanzane 8, peperoni gr. 800, pomodori maturi gr. 600,  cipolle grosse 2, sedano un mazzetto, aglio uno spicchio, olive bianche gr. 200, capperi gr. 50, basilico, aceto mezzo bicchiere, olio, sale, pepe. Preparazione: Tagliate le melanzane a dadi e friggetele in olio abbondante dopo averle tenute circa un'ora in acqua salata. Preparate una salsa di pomodoro con l'aglio e il basilico. Friggete a parte i peperoni tagliati a strisce con le cipolle affettate e appena appassiti, nell'olio rimasto in padella, rosolate le olive snocciolate, i capperi e il sedano triturato.Versate quindi nella salsa già pronta le melanzane, i peperoni e le cipolle, il sedano le olive e i capperi, lasciate insaporire qualche minuto a fuoco basso e sfumate con l'aceto. Correggete di sale e pepe e servite fredda.  

Ulisse deve smettere d'esserci simpatico. Uno che non ha imparato altro che a uccidere e mentire, uno che odia la cultura perché conosce solo l'uso della forza e dell'astuzia quando la forza non basta, uno che maschera dietro una serietà formale la propria superficialità, per quale motivo deve occupare un posto centrale nella cultura del nostro tempo e soprattutto nella cultura classica delle nostre scuole? 

 Per esempio: scannò Polissena, figlia di Priamo, sulla tomba di Achille per esaudire un desiderio postumo di costui. Una delle cose più vergognose che fece fu quella di far credere a Clitennestra che Achille voleva sposare sua figlia Ifigenia; invece ne aveva bisogno il padre Agamennone per sacrificarla ad Artemide.; Ulisse aveva un senso etico così relativo che quando ebbe necessità di trafugare i cavalli di Reso e il Palladio, promise al soldato troiano catturato, Dolone, un'alta ricompensa se li avesse aiutati, ma subito dopo aver ottenuto quanto cercava chiese la testa di Dolone e le sue spoglie le appese alla prua della sua nave. Nella stessa occasione, quasi pugnalò a tradimento il compagno Diomede, che era riuscito a mettere le mani sul Palladio prima di lui. Tuttavia Ulisse quando si trattò di entrare in guerra contro Troia, onorando così lo stesso patto che lui aveva richiesto di firmare, si finse pazzo, e mentre stava arando la sabbia, Palamede tolse dalle braccia di Penelope il piccolo Telemaco e lo adagiò davanti all'aratro, costringendo Ulisse a fermarsi. Fu in quell'occasione ch'egli promise di vendicarsi di Palamede, riuscendo a farlo lapidare proprio durante la guerra troiana, dopo averlo fatto passare per un traditore (cfr Filostrato, Eroico). A dir il vero esiste una versione sulla nascita di Ulisse che vede non in Laerte ma in Sisifo suo padre, il quale, per vendicarsi dei furti di bestiame che subiva da parte del nonno di Ulisse, Autolico, violentò la figlia di quest'ultimo, Anticlea, mettendola incinta. Fu proprio Autolico che mise a Ulisse il nome di Odisseo, che in greco significa "l'odioso". Però volle a tutti i costi le armi di Achille, che invece sarebbero dovute spettare ad Aiace Telamonio, che era riuscito a trascinare il corpo e le armi di Achille dietro le linee. Aiace, umiliato da Ulisse, impazzì e si suicidò. Attenzione che in Ulisse la curiosità intellettuale non coincide propriamente con l'esperienza culturale. Ulisse è refrattario alla cultura (p.es., fece di tutto per eliminare Palamede, figlio di Nauplio, molto più colto e geniale di lui). Non dimentichiamo che Ulisse voleva sposare Elena, messa all'asta da suo padre Tindaro, e che sposò Penelope solo perché squattrinato. Fu in quell'occasione che chiese a tutti i principi Achei di firmare un patto di alleanza per difendere l'onore di Elena anche dopo il matrimonio; e da qui nascerà, formalmente, la guerra di Troia.

http://www.homolaicus.com/storia/antica/grecia/ulisse/ulisse.htm

 

 

 

Brevi accenni sul borgo. Famosissimo fin dall’antichità, il porto di Ulisse fu per tanti secoli lo scalo ufficiale dell’antica Catania, fino a quando, nel 1381, venne sepolto definitivamente da un fiume di lava scaturito da una fessura eruttiva apertasi tra i comuni etnei di Mascalcia, Tremestieri e Gravina.

L'immane colata lavica cancellò anche il borgo e lasciò una piccola insenatura che forma oggi un delizioso golfo.

Lo splendido mare, la vetusta chiesa di S. Maria, la torre di guardia, le casa dei pescatori, le stradine della borgata, la vecchia garitta e le vecchie barche da pesca costituiscono le tessere di un prezioso mosaico chiamato Ognina.

Già nota agli storiografi antichi, era  così conosciuta da far scrivere tante pagine di storia e ispirare perfino poeti. Per più di quattro secoli, scomparso il vecchio Porto di Ulisse, rappresentò un importante scalo marittimo la cui borgata divenne uno dei principali centri dei commerci via mare tra la provincia catanese e i luoghi dove i prodotti erano destinati, di conseguenza non poteva che detenere anche il primato nella costruzione di imbarcazioni. Infatti, fino al finire degli anni '50, i maestri d'ascia di Ognina erano considerati i migliori della costa orientale etnea.

E’ necessario distinguere tra l’antica Ognina e quella nuova. Il suo non è un nome proprio ma un nome comune: da Lògnina o Longone, un termine che indicava i porti provvisti di pietre forate per l’approdo delle navi. I Longoni erano le bitte d’ormeggio delle banchine portuali, infatti troviamo Ognina a Siracusa, in Sardegna e all’Isola d’Elba.

L’Ognina di Catania era chiamata Porto Ulisse (o calcidico). Un grandissimo porto costruito dai Calcidesi nel VIII sec. a.C. che poi subì altre occupazioni fra le quali quella dei greci di Gerone e quella dei Romani.

 

Porto Ulisse costituiva lo scalo ufficiale dell’antica Katane. La sua felice posizione geografica lo faceva punto d’incontro quasi obbligato delle vie marittime mediterranee. Poteva contenere quasi 250 navi ma scomparve sotto l’eruzione lavica del 1381. Quel che è rimasto del grande Porto Ulisse (oggi sepolto sotto il lungomare di Catania) e che arrivava fino alla zona del Gaito, è l’attuale porticciolo di Ognina.

Virgilio, nell’Eneide, ce lo descrive ampio, dal calmo specchio acqueo interno e dalla imboccatura ridossata dai venti di traversia: "Portus ab accessu ventorum immotus et ingens ipse".

Aveva anche un porto ausiliario ad Agnone, sito all’inizio della piana di Catania. I terreni della Piana, per i loro pregiatissimi prodotti erano chiamati dai greci Elysia perché paragonati ai mitici campi Elisi, i giardini di eterna primavera e di infinita delizia riservati nell’oltretomba ai giusti. I Romani, per far risaltare  di più il loro dominio in quella zona prosperosa (chiamata Horreum Romae – "Il granaio di Roma"), premisero l’aggettivo "latia" (da latius che significa "appartenente ai latini") sicchè quella denominazione si mutò in "Latia Elysia". Il passaggio da Latia Elysia a La Zia Lisa fu facile. Oggi indica la zona d’inizio della Piana di Catania.

Nella zona di Lognina scorre un fiume antichissimo, il Longane, che scaturiva dalle colline di Santa Sofia, passando per Cibali e nei sottosuoli ricchi di acqua, la cui abbondanza è confermata dal nome della vicina località ogninese "Nizeti", derivante dal greco "nizo" che significa lavo. Ad Ognina il fiume arriva ancor oggi con vere risorgeze sottomarine facendoci ricordare la sua perenne presenza, seppur nascosto  dall’eruzione del 1381. La denominazione della vicina zona Acque Casse deriva da Acquae cassae (che significa acque coperte) testimonia la presenza del grande pozzo naturale che si è venuto a creare a seguito delle colate laviche che coprirono il fiume.

La vecchia Lognina partiva dalla Porta di Aci (l’attuale Piazza Stesicoro), dove finiva la città e arrivava fino all’attuale porticciolo. Poi i confini di Catania si estesero oltre la Porta di Aci invadendo Lognina e a ricordarne l’antico sito rimase soltanto il nome di una strada detta anche oggi Via Vecchia Ognina, che arriva fin quasi alla chiesa di S. Maria di Betlem, allora punto di confine con la città, unica strada catanese a non essere retta e dal suo percorso si capisce che era una linea di confine tra due zone.

 

 

 

 

 

Sul nome del quartiere del Rotolo ad Ognina, descritto anche da Verga ne I Malavoglia, alcuni sostengono che sia dovuto a un dipinto che raffigura una Madonna che tiene in mano una bilancia che raggiunge un rotolo di peso (trovasi attualmente all’angolo tra Via Messina e Via Galatioto). Ma che il nome sia stato originato dal Rotolo delle Sacre Scritture è confermato da Jacomo Saba "un antico tempietto di Santa Maria del Sacro Rotolo, da alcuni creduta della Lettera dei Messinesi, nei pressi dell’Abbazia brasiliana Santa Maria di Lognina". Insomma, la Madonna teneva in mano le sacre scritture. Tra Via Calipso e Via Ginestra emergono tuttora i ruderi di quel Tempietto, che venne eretto in onore di Sant’agata quando le sue reliquie, arrivate da Costantinopoli, furono date in consegna al Vescovo Maurizio proprio in quella zona.

Durante la guerra dei Vespri, più volte il mare di Lognina conobbe le vicende degli urti fra i D’Angiò e gli Aragona. I grandi ammiragli catanesi Ruggero di Lauria e Artale Alagona si distinsero per valore e strategie ed a loro venne intitolato il lungomare catanese, un tempo teatro delle loro vittorie navali in difesa dei catanesi.

Ad Ognina esisteva un vecchio castello, l’Italion, che attraverso i secoli subì le molteplici traversie. Sui suoi ruderi nel 1548 venne eretta la Torre cilindrica, tutt’ora a fianco della chiesa.

Il popolo la chiama Torre dei Saraceni, ma non perché costruita dai Saraceni ma per difendersi dai Saraceni. Era stato l’imperatore Carlo V a dare disposizioni al Vicerè di Sicilia Giovanni Vega, per fortificare l’isola nei punti strategici e per difendere la popolazione dall’incubo degli sbarchi musulmani.

Come funzionava la torre? Le sentinelle delle garitte in pietra lavica che si ammirano ancor oggi, una sul lungomare vicino al porto di Ognina e l’altra sulle lave di Piazza Europa, (le chiamano garitte arabe, ma arabe non lo sono mai state perché furono costruite per difendersi proprio da loro), quando avvistavano i galeoni musulmani che si avvicinavano alla costa , attraverso una torcia accesa davano il segnale ai soldati di guardia nella Torre i quali, a loro volta, lanciavano l’allarme al popolo suonando una campana.

Il suono della campana veniva avvertito anche al campanile-fortezza del Duomo di Catania. Quindi, da tutti i quartieri della città  era un accorrere di gente per apprestare la più tenace difesa alla loro terra.

Dopo l’eruzione del 1669 Lognina esisteva ancora grazie all’opera di ricostruzione del Duca di Camastra, del Duca Uzeda e della Famiglia Mancini Battaglia, ai quali è intitolato lo spazio antistante il porto.

Oggi rimane solo il porto, che insieme al porticciolo peschereccio di Guardia Ognina - San Giovanni Li Cuti, sono posti incantevoli della scogliera cittadina.

 

Il porticciolo di San Giovanni Li Cuti è un piccolo gioiello incastonato nel golfo e quello antichissimo di Ognina un ritrovo per i buongustai del pesce, che vanno a comprarlo appena pescato. Famoso anche perchè comprende quella spiaggetta sempre ripresa dalle TV nazionali che fa vedere i primi bagni degli italiani.  E' uno dei tratti della costa più belli ed affascinanti, ove il nero della costa lavica spicca nel contrasto con l'azzurro vivido del mare e del bianco delle onde.

Ognina, la scogliera in cui tutto parla di Ulisse e di Sirene: dal nome delle strade, dai luoghi, dalla sua storia, dal suo mare, dal suo profumo più incantevole del canto delle sirene. Io la definisco  la "vasca da bagno degli Dei", in cui tutti prima o poi rimangono stregati, affascinati e incantati. E' come la maga Circe, ti seduce e ti ammalia fino al punto di non accorgerti di baciarle le onde, fino ad annegare.

(Mimmo Rapisarda)

   

 

Un museo del mare sempre più famoso Mare in Italy ha scoperto ad Ognina (Ct.) il meraviglioso “Museo del Mare“ antico scalo marittimo di Catania detto anche il “Porto di Ulisse” rimasto sommerso nel 1381 da una tremenda colata lavica.

Il Museo è diviso in varie sezioni tutte molto interessanti, si inizia con la parte archeologica comprendente reperti di una nave romana naufragata nella zona di mare prospiciente Ognina, per proseguire poi visitando la parte in cui sono esposti attrezzi tipici della pesca, donazioni dei pescatori locali, per finire con la sezione nella quale si trovano reperti naturalistici. 

Il bilancio dei primi tre anni di vita del museo e le intenzioni per i prossimi anni sono stati illustrati dal Sindaco Umberto Scapagnini e dagli assessori al Commercio e Turismo ma in particolar modo da chi ha fortemente voluto questa interessante struttura, padre Antonio Fallico e i responsabili dell’Associazione S. Maria di Ognina.

L’intenzione, è stato ribadito, è quella di fare del museo un importante strumento di apprendimento utile a tutte le fasce di età e cultura nonché naturalmente grande attrazione per tutti gli amanti del mare, facendo uso anche di tecnologie multimediali che riproducano l’ambiente marino reale.

Altro proposito è quello di incontrare alunni e fargli conoscere il fascino dell’ambiente marino sia con la visita al museo sia direttamente con uscite in barca.

Il sindaco ha anche riferito di un piano per la realizzazione di un Parco del Mare, una specie di acquario gigante di cui la parte formativa sarebbe ospitata nel Museo di Ognina. (Luca Coccia)

 

 

Litterio al Luna Park del lungomare

L' altro giorno, sig. La Rosa, ddu zzaurdu di me cucinu Affio si nni nesci ca ni nn'havimu a jri all'una park!

"Bestia" ci dissi "bestia chi ci jemu a fari all'una park ca già sunu i setti i sira, u dici a stissa parola ca si cci a jri a l'una"

"no”  mi dissi iddu, “dda si cci po jri macari e setti'. "bestia"  ci dissi iù  allura u chiamamu setti park,

 "no” mi dissi iddu  "quello si chiama luna tutta una parola, tutto ioncioto luna, senza l'apostolo.

'Nzomma, sig. La Rosa, mi hanno portato 'e setti all'una park, eromo il sottoscritto, CIIICCCIIUUU, Fulippo "peri peri" e ddu zzaurdu di me CUCINU AFFIO, e abbiamo venuti a Catania, a Ognina, alla piazza dell'ammogghio .... dell'arrotolo, do Rotolo, vah....

Miiiili  e chi c'era di cristiani! C'era una folla .... Proprio, chinu chinu di picciriddi, picciriddi ca currevunu, mammi c'assicutavunu i picciriddi ca currevunu, picciuttazzi c'assicutavunu i mammi c'assicutavunu i picciriddi ca currevunu... Era insomma un fuggi fuggi ginirali.

Appoi i giostri, i bancarelli, il tiro inzegno ... ca è praticamente: tu spari n’fino ca non t'insigni ... non t'insigni a sparagnari i soddi inveci di spinnilli in minchiati. Ddocu Fulippu peri peri avvicinandomisici mi dissi: "Madonna chi cunfusioni, mi staiu scantannu ca ni pirdemu"; "ma comu ti perdi tu, ca c’hai questo radari segnalatore fetaiolo di peri morti!!!" Ca questa estate, sig. La Rosa, ce ne siamo andati in campeggio col treno, sopra il vagone si livau i scarpi... appunu a ricoverare tutto il vagoni per avvelenamento al sangue con dasgnosi preservata!

A un certo punto abbiamo visto come una specie di treno ca però camina ndell'aria del cielo... C'era scritto OTTOVOLANTE, noi eromo quattro e non ci pottimo andare; caminando caminando abbiamo visto come una specie di palazzo tutto bello infiorato ma sempri a tipo di giostra e c'era scritto TUNNEL DELL'AMORE; ndella biglietteria si presentau CIICCIIUUU, I' impiegato u taliavu un pocu curiuseddu, ppoi mi fa "prego, signora, si accomodi" .

"a mia signora?”  ci dissi iù  “comu si permettii?' . "ah mi scusi "  mi fa iddu  “Forsi sognorina!"

Iù nda me testa dissi ma chistu che cosa vuoli diri??? Forsi picchi Cicciu havi quel vizietto, ci sembra ca macari sugnu di l'autra sponda.

Comunqui, pi non fari discussioni, u lassai perdiri e trasemu in questo tunnel dell'amore. Acchianamo nda una barchetta ca appoi passavamo del lago, canale.

CIICCIIIUUU si vosi mettiri con me, era una barchetta a 4 posti, l'autri due posti ci acchianaro n'autri due masculi che io non conoscevo, ddocu visti che all'ingresso di questo tunnel c'erano fremmi na pocu assai di individui strani e ntisi un ciauru di mari e pensai forsi è perché siamo vicino al mare delungomari. Ad ogni modo abbiamo partiti con questa specie di barchetta, prima c'erano i lampioni belli grandi che facevano bella luci, poi i lampioncini belli piccoli, poi sempri cchiù nichi quasi al buio e ddocu iù ntisi una voci ca faceva "Beeddu, beeddu ‘cchi capiddi rizzi, lo sai ca sei cchiù beeddu do signor La Rosa?" e sintevo come dei pallini di carta ca mi arrivavano ndo coddu; mi stavo accomincianno a siddiari, e ci facevo "carusi finemila picchì vi abbio ammollo" e chiddi nautra vota "Bedduuu... Beddu, e chi capiddi rizzi, lo sai che sei cchiù intelligenti del signor La Rosa?" e mi arrivavano autri pallini di carta nda testa;

Ddocu iù mi siddiai, in quel momento priciso arrivamu ndel punto del tunnel ca era o' scuru completo e io non ci visti cchiù di l'occhi quanno 'ntisi una mano ca si appoggiava ndella mia spalla o scuru; iù dissi chista m'a vogghiu vidiri tutta e pinsai: sicuramenti sarà un ladro bossaiolo, e intanto dda manu scinneva verso i sacchetti dè causi e iù ddocu capii ca mi voleva furtiri u portafogghiu chi sordi, e mi priparai!

Ero teso e all'improvviso in quello scuro ca si pizziava ntisi a manu ca avevo sopra il petto ca di botto s'avvicino' ai sacchetti, scinnivu verso a panza “ma chistu” dissi nda me testa  “e chi ci paru babbu?” Io ero pronto ppi bloccari i sacchetti di causi; comu a mano si sollevavu iù u capii, dissi "nde sacchetti si stà abbiannu", e mi chiantai in contemporaneo velocissimo i manu ndei sacchetti, e il ladro borsaiolo cchiù lesto ancora di mia mi acchiappau di sotto nei paesi bassi.

Iu ddocu chiantu m’pugnu ccu tutta a me forza... dissi... ora ci fazzu cascari a manu!... il ladro cchiù lesto ancora si livau a manu e .... ntisi un dolore di l'autra munnu... ittai una schigghia ca si 'ntisi oltre mare nei Foracoglioni da Trizza...

Chiddu non era ladru di sordi, era latru di carni... Na vota ca si visti scoperto il ladro ittò un sauto e scappò. Ciiicciuu, per prendere le mie offese cercò d'acchiappallu, si alzò... la barchetta si abbuttò di lato,... Cicciu persi l'equilibrio e cascò 'ndell'acqua, io ci gridai "disgraziato ma chi ti pari il momento di fariti il bagno? e intanto iddu faceva..."glu... glu..." si stava anniando.

Io signor La Rosa, arristai rimminchilonito, pinsai "ma come, un puppu ca non sapi natari?' e subito u trascinai vicinu a banchina del canale; si avvicinaru i cristiani e siccome aveva pigghiato acqua assai ci ficiru a respirazione artificiale; iddu veramente vuleva fatta a respirazione bocca a bocca, ma quelle ci ficiro a respirazione artificali, quella coi bracci all'aria, così accuminciau a jittari acqua da vucca... Ittò quasi trecentoquarantacinquelitri di acqua, cchiù acqua ittava e cchiù acqua tirava, era un mistero!!!

Ci vosi menz'ura ppi capiri picchì... aveva u culo a moddu!!!

 

Di recente in una grotta spagnola, chiamata Gran Dolina, sono stati scoperti dei reperti che, studiati, hanno portato il paleontologo Eduard Carbonell ha dire che "erano cannibali i primi europei".
Poiché - ha ribadito il paleontologo - questi resti sono tra i piu antichi tra i nostri progenitori, possiamo affermare dire che siamo discendenti di cannibali".
Tra i popoli che in Europa hanno praticato il cannibalismo c'è stato quello dei Lestrigoni, che secondo diverse teorie, che oggi hanno trovato un riscontro, abitarono nell'età del bronzo (2000 a.C.) la località di Valsavoia, territorio di Lentini.
Ad ipotizzare che i Lestrigoni fossero un popolo realmente esistito fu lo storico Sebastiano Pisano Baudo, nato a Lentini nel 1840. Uno dei capi dei Lestrigoni fu Antifate, personaggio omerico che viene menzionato nell'Odissea, allorché Ulisse nel suo peregrinare lungo il mare Mediterraneo approda nella Lestrigonia, terra abitata da un popolo antropofago.

Ed Omero, a tal proposito narra di un compagno di Ulisse che fu divorato dal re Antifate. In epoche successive i Lestrigoni, sempre secondo l'ipotesi di Sebastiano Baudo si sarebbero evoluti e si sarebbero chiamati Sicani che, oltre alla pastorizia, si sarebbero dedicati all'agricoltura.

La ricostruzione di Sebastiano Pisano Baudo, però, non era supportata da alcuna evidenza archeologica o storiografica, e ben presto fu ritenuta destituita da fondamento.
Altri archeologi nel secolo scorso, fra cui Paolo Orsi e Luigi Bernabò Brea , tentarono, con i loro scavi archeologici a Valsavoia, località che si estende sulle basse colline di roccia calcarea, nelle vicinanze del Biviere di Lentini, e precisamente nei pressi della masseria Cattivelle, di rinvenire qualche reperto che potesse confermare la presenza dei Lestrigoni in quel territorio. Non ci riuscirono.
Soltanto negli anni Ottanta del secolo scorso, come ricorda Francesco Valenti, direttore del museo archeologico di Lentini, durante alcuni scavi in Valsavoia eseguiti dall'archeologo Umberto Spigo, attuale direttore della sezione archeologia della Sovrintendenza ai Beni culturali di Catania, venne rinvenuto quell'anello di congiunzione per dimostrare che questa zona della Sicilia fu abitata dai Lestrigoni, popolo antropofago.
Questo anello di congiunzione tra la località Valsavoia e i Lestrigoni è dato dal rinvenimento di un tipo di ceramica della facies Vallelunga, sito archeologico della provincia di Caltanissetta. In questo sito, come fa rilevare l'archeologo Francesco Valenti vennero rinvenuti da un gruppo di archeologi, caso unico sino ad ora in Sicilia, una serie di teschi umani, disposti in cerchi, lungo il perimetro di
una capanna. Inoltre, altri teschi erano ammonticchiati in un'area dove doveva, verosimilmente, sorgere un villaggio.
I dati archeologici contenuti in uno studio che venne presentato durante un convegno svoltosi a Palermo, hanno escluso che si potesse trattare di sepolture. Mentre, era evidente che quei teschi venissero utilizzati, così come avviene tra i cacciatori di teste del Borneo o di altre aree dove tuttora si pratica il cannibalismo, per uso magico e ornamentale.
Una specie di culto proprio di un popolo antropofago. Se il popolo che abita la zona di Vallelunga era antropofago, era anche antropofago il popolo che abita Valsavoia. Ad unire la località del Calatino a quella del Siracusano c'è il tipo di ceramica che è stata rinvenuta in entrambi i siti archeologici. Alla luce di questa scoperta vengono in mente i Lestrigoni ed i racconti omerici sui popoli antropofagi della Sicilia. Infatti, se molti reperti archeologici di ceramica della cultura di Vallelunga, si associano a quelli della cultura dei Lestrigoni diventa piu di un'ipotesi che la città degli antropofagi dalle larghe porte, di cui parla Omero nell'Odissea, sia localizzata nell'area del Lentinese di Valsavoia, unico sito tra quelli conosciuti nella zona del Siracusano ad averci restituito ceramiche della facies culturale di Vallelunga.
PAOLO MANGIAFICO (Lasicilia.it)

 

 

'a Norma Ingredienti: Magliette di maccheroncino gr. 600, pomodoro per salsa kg. 1, melanzane 4, basilico un mazzetto, aglio 2 spicchi, ricotta salata gr. 100, olio, sale, pepe. Preparazione: Spellate il pomodoro e tagliatelo a pezzetti togliendo i semi e mettendo da parte il succo. Soffriggete in padella l'aglio con olio abbondante, aggiungete il pomodoro e appena sarà bene appassito allungate col succo, condite con pepe e sale e lasciate insaporire per qualche minuto. Spento il fuoco versate nella salsa una manciata di basilico, possibilmente quello con le foglie piccolissime. Friggete a parte le melanzane tagliate a tocchetti, dopo averle tenute per circa un'ora in acqua e sale. Quando avrete pronta ogni cosa, lessate la pasta, scolatela al dente e conditela nella zuppiera con la salsa e le melanzane. Completerete la pietanza versando su ogni piatto un bel cucchiaio di ricotta salata grattugiata.  

 

zoppicante della pernice in onore del dio Hephaistas zoppo, s'abbinavano i baccanali dionisiaci per affermare la superiorità del vino inebriante sopra ogni altra bevanda. Euripide ricorda come in onore di Hephaistas si celebrassero gare podistiche con fiaccola in mano; manifestazione che si ritrova nella festa di sant'Alfio nel centro vinicolo etneo di Trecastagni, dove nella corsa dei nudi che recano torce al santuario dei tre martiri è da rintracciare un frammento dell'antica sagra della vendemmia così come la solennizzavano i coltivatori sicelioti. Del resto glì stessi miracolosi santi patroni sembrerebbero essere una trasposizione cristiana dei Paliki, giacché l'autenticità del terzo, san Filadelfio, non va immune da gravi sospetti, avendo egli tutta l'apparenza di un epiteto trasformatosi in persona. Né diversa origine hanno Gisliberto e Goselino, gli armigeri bizantini che compirono l'impresa santa del trafugamento delle reliquie di sant'Agata, portandole da Costantinopoli a Catania.

In occasione dei baccanali ad Hephaistas, le vendemmiatrici siceliote accompagnavano il ritmo cadenzato dei pigiatori con movimenti frenetici della persona e urla sfrenate. I vignaioli col viso imbrattato di mosto e celato sotto maschere grottesche, inscenavano rustiche rappresentazioni cantando inni in onore del dio. Sulle vigne e nei palmenti spesso si disputava il cottabo, consistente nel lanciare in aria il vino da un boccale a facendolo ricadere nello stesso recipiente. In epoca alessandrina la comunità isiaca di Catania al seguito della principessa Teoxena, solennizzava i riti metallurgici sostituendo ad Hephaistas il dio egizio Ptah, creatore ed artista,patrono degli operai e degli artigiani. Un frammento marmoreo di naoforo d'epoca romana, rinvenuto anticamente in città, ne conferma il culto e le solennità.   (Luccjo Cammarata)

 

 

 

 

Nella parte meridionale dell'abitato sono state individuate opere di fortificazioni megalitiche in tutto simili a quelle rinvenute al Mendolito, poste a difesa dell'insediamento nel punto in cui l'Amenano sboccava in mare. La dedalica costruzione consisteva in tre filari di grossi blocchi calcarei collocati a secco per una lunghezza d'una ventina di metri, poggiata sulle alluvioni di spiaggia del Mongibello recente, ed innalzata sul lato sud occidentale della foce, corrispondente all'attuale via Zappalà.

Gemelli, nell'aria dell'Indirizzo, punto in cui il fiume faceva un piccolo porticciolo riparato dai venti, ed appunto per questo necessitoso di una sicura difesa in quanto più esposto alle possibili incursioni esterne, principalmente da parte dei pirati micenei e nordafricani e degli schiavisti che già razziavano nel Mediterraneo. Queste difese furono mantenute e migliorate dai colonizzatori greci ed assolvettero la loro funzione di riparo fino a metà Cinquecento, epoca in cui vennero totalmente ristrutturate per ordine vicereale di Juan de Vega, il quale, per timore delle incursioni barbaresche  impose alla città il pesante onere di conchiudere prontamente la cortina. Fu in questa occasione che vennero costruite le garitte d'avviso lungo il litorale che va da Porto Ulisse alla scomparsa punta di Sciara Biscari, delle quali rimangono presentemente due esemplari impiantati sopra la colata lavica del Rotolo.

Al di là della ciclopica fortificazione, un tratto di lastricato lavico d'epoca imprecisabile, inciso da profondi solchi longitudinali, indicava un antichissimo sito sparso alla foce dell'Amenano. Lo Spirito di questo torrentello era onoratissimo dagli Etnei, che a sentir Claudiano lo ritenevano uno dei geni al seguito di Persefone nell'ascesa dall'Avemo. La spiegazione sta nei suoi eccessi di magra, in taluni periodi prolungati, per poi irrompere con furia improvvisa straripando nei terreni all'intorno e fertilizzandoli dei detriti trascinati per oltre 60 miglia di misterioso tragitto, fluttuando sotterra senza potersene localizzare né il corso né la sorgente. Un circuito sacro bagnato dalle acque benefattrici prossime alla foce, può immaginarsi collegato fin d'allora strettamente con la vita religiosa e sociale della tribù, che in esso purificava l'impurità fisica con bagni e riti lustrali. Recinto divenuto in epoca imperiale romana un vastissimo complesso termale, impropriamente nominato Terme Achilliane, sopra il quale poggia in parte l'ecclesia munita di Ansgerio.

 

Maccu. Ingredienti:Fave fresche grosse kg. 2, finocchietto selvatico un mazzetto, cipolla una piccola, taglierine gr. 300. Preparazione: Soffriggete in tegame la cipolla grattugiata con un pò d'olio e appena dorata aggiungete le fave sgusciate (che saranno di quelle grosse e già un pò dure), e il finocchietto tagliuzzato. Allungate con acqua e lasciate cuocere a fuoco basso per circa due ore, ammaccando sempre col mestolo di legno perchè le fave si sfarinino. A fine cottura versate in tegame la pasta sminuzzata, aggiungete se necessario un altro pò d'acqua, e condite con sale, pepe e olio crudo. Servite la minestra tiepida o fredda.  

 

Sullo sbocco settentrionale, in quella che fu poi la darsena aragonese, è stata riesumata a circa otto metri sul livello del mare un'armatura foranea attraversante l'impianto lavico del 252-53 che lascia presumere l'esistenza di un porto-canale naturale scavato nel basalto, simile a quello dell'antica Trotilon, presso Brucoli, inciso a parete verticale nelle vive rocce ove sfocia il torrente Polcheria: l'antico Pantakias, ch'era di portata molto maggiore rispetto a quella dei nostri giorni. Con l'ingegnoso procedimento del portocanale dell'Amenano, realizzato nel punto più impetuoso di massima traversia, si creava un setto che, come è stato osservato dall'ingegnere D'Arrigo, rifletteva le onde incidenti senza farle frangere e respingeva al largo le alghe e le torbide sedimentarie fluitate dai flutti. Funzionava altresì da impluvio durante le piene piovane che d'inverno scorrevano impetuose dalle chine etnee, defluendo le acque alte nell'estuario. Nel portocanale, che doveva svilupparsi con andamento meandriforme ed appunto per ciò chiamato dal popolo la «petra pirduta», trovavano rifugio le imbarcazioni durante l'infuriare del mare in traversia sciroccale. Ancora nel medio evo la struttura sopravviveva in buona parte e per la sua configurazìone ebbe nome di canalotto. Sembra avesse l'entrata a orìente lungo la Costa del Salvatore, in corrispondenza del Porto Puntone, nei pressi della piazza dei Martiri, percorreva le attuali vie S. Tommaso e Anzalone giungendo al piano degli Amalfitani, il quale si specchiava nella darsena aragonese col Porto Saraceno, oggi colmati artificialmente. In epoca primitiva si può ragionevolmente ipotizzare che il canale proseguisse verso occidente, dove al Chianu riceveva le acque dell'Amenano; curvava per via Pardo; toccava l'Indirizzo e sboccava in mare. La stretta lingua di terra isolata che il portocanale formava fu dagli Arabi chiamata z'iz'eri (giseri), ossia budello, ricordata tuttora dalla toponomia cittadina. Al tempo di re Alfonso lungo il lato settentrionale del canalotto si affacciavano le terrazze di numerose ville baronali che godevano il privilegio dello sbocco a mare, prova ne sono le tribune delle case Bonajuto e Platamone. (Luccjo Cammarata)

 

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Di che si cibò Ulisse? Nonostante si possa affermare che quella siciliana è una cultura gastronomica iscritta nella tradizione mediterranea, è anche ricca di prodotti, spezie e profumi che testimoniano le tante dominazioni della Sicilia.

Non e' possibile parlare di cucina siciliana come di un'unica entità: le diversità originate dalle numerose influenze culturali si sono incrociate con quelle determinate dalla differenza tra cucina della costa e dell'interno. La cucina della regione che circonda l'Etna, e più specificamente quella di Catania è una delle più ricche e gustose della Sicilia.

Il pesce, vista la posizione geografica della regione, è un' ingrediente base di molti piatti. Famosissima è l'insalata di mare con polpi, gamberi e occhi di bue (molluschi tipici di questo mare) bolliti; altrettanto diffusi sono i masculini marinati (alici del mare Ionio marinate in olio e limone), le acciughe salate, gli occhi di bue crudi conditi con limone o arrostiti sul carbone, la pepata di cozze soffritte, con pepe abbondante, limone e prezzemolo tritato, u mauru, un'alga cruda condita con limone.

Tra i primi piatti un posto preminente lo occupa la popolarissima pasta alla Norma con salsa di pomodoro, melanzane fritte, basilico e abbondante ricotta salata grattugiata. Altre pietanze di spicco sono la pasta con il nero delle seppie, con l'estratto di pomodoro, seppie e il nero di questi gustosi molluschi;  la pasta con i masculini (alici fresche in un soffritto di cipolla, piselli e finocchietto rizzu); la pasta 'ncaciata, condita con cavolfiori cucinati in un soffritto di cipolla e insaporiti con acciughe salate, olive e, come vuole la tradizione, passata in un tegame a fuoco vivace con abbondante caciocavallo grattugiato; la pasta con le uova di ricci, le linguine al cartoccio o all'acqua di mare (con pesce e molluschi), la pasta con il muccu (pesciolini neonati), u maccu (fave bollite e setacciate).

Anche tra i secondi il pesce è in primo piano. Molto diffusi sono la frittura di pesce, che viene preparata con i pesci tipici della costa come triglie, aguglie, pettini, masculini e opi di ognina, il pesce arrostito sulla carbonella (orate, saraghi, dentici, luvari, àiole ecc.), sparacanaci (triglie neonate fritte, mangiate assieme alla cipolla calabrese), u muccu (frittata di neonate), le sarde a beccafico.

Non mancano certo i dolci, molto influenzati dal gusto orientale e arabo. Primeggiano i cannoli di ricotta, la cassata siciliana, la frutta martorana o pasta reale, le crispelle di riso, le paste di mandorla, le olivette di Sant'Agata.

Una terra generosa e ricca di minerali regala prodotti davvero unici. La coltivazione della vite rappresenta una delle attività più conosciute di questi posti. Molto apprezzati sono i vini rossi doc dell'Etna.

Ma Il vino più pregiato è di colore giallo paglierino, limpido e brillante. Tra i vini della zona ci sono l'Etna Bianco, Rosato, Rosso e Bianco Superiore (Milo), quest'ultimo ottenuto da un pregiato vitigno locale, adatto a piatti di pesce e antipasti, e non possiamo dimenticare la Malvasia.

Hanno avuto un grande rilancio i rosòli tipici, prodotti con procedimenti tradizionali, alla camomilla e alla cannella.

 

UNA STORIELLA SULLE ARANCINE

Un cliente entra in un rinomato locale catanese in Via Etnea e chiede un invitante arancina poggiata al banco della tavola calda!

Arrivato a metà si accorge di un pelo e chiede di cambiarlo. Nel secondo arancino trova due peli, nel terzo una matassa arrotolata di peli. Che schifo, dice l'avventore, voglio parlare con il titolare.

Alle proteste del cliente, che minaccia di far chiamare l’Ufficio Igiene, il titolare replica “ma non è possibile, questo è uno storico locale. Venga con me nel laboratorio le faccio vedere come lavoriamo. Da noi l’igiene e la sicurezza per la nostra clientela è una cosa di vitale importanza”

Lo invita a passare nel retrocucina e vede il che un lavorante, di spalle, che con la mano prende del riso, mette il ragù, e per arrotolarlo bene e dargli la forma a palla se lo sbatte con forza sotto l'ascella schiacciandola e arrotolandola per farle assumere la forma di cono.

A quella vista, il titolare si mette a gridare “Pazzo, ma che stai facendo? Io ti licenzio! Che schifo, una scena simile neppure nella peggiore cucina di uno zoo! Che figura ci fai fare?”

E il garzone :"Principali, lei si lamenta pi comu staiu facennu l’arancini…. avissi a vidiri comu fazzu i scorcia ‘de cannoli !!! "

 

 

 

Eccoci arrivati al Porto di Ulisse (come lo chiamava Plinio), nel piacevole borgo di Ognina, l’antico porto naturale di Catania colmato dalla lava nel 1381. E’ un tranquillo rifugio peschereccio riparato, dedito alla pesca del pesce azzurro, qui ricco per la presenza di un’alga che attira i gamberi imperiali: chi decide di ormeggiare troverà in paese ogni rifornimento oltre al piacere di una cena di pesce cucinato alla siciliana in riva al mare.

amosissimo fin dall’antichità, il porto di Ulisse fu per tanti secoli lo scalo ufficiale dell’antica Catania, fino a quando, nel 1381, venne sepolto definitivamente da un fiume di lava scaturito da una fessura eruttiva apertasi tra i comuni etnei di Mascalcia, Tremestieri e Gravina.

L'immane colata lavica cancellò anche il borgo e lasciò una piccola insenatura che forma oggi un delizioso golfo. 

Lo splendido mare, la vetusta chiesa di S. Maria, la torre di guardia, le casa dei pescatori, le stradine della borgata, la vecchia garitta e le vecchie barche da pesca costituiscono le tessere di un prezioso mosaico chiamato Ognina.  

Già nota agli storiografi antichi, Ognina non era che una piccola borgata di pescatori, ma così conosciuta da far scrivere tante pagine di storia e ispirare perfino poeti. Per più di quattro secoli, scomparso il vecchio Porto di Ulisse, rappresentò un importante scalo marittimo la cui borgata divenne uno dei principali centri dei commerci via mare tra la provincia catanese e i luoghi dove i prodotti erano destinati,   di conseguenza non poteva che detenere anche il primato nella costruzione di imbarcazioni. Infatti, fino al finire degli anni '50, i maestri d'ascia di Ognina erano considerati i migliori della costa orientale etnea.  Le imbarcazioni realizzate erano solitamente destinate a due scopi:  

- Il trasporto locale tra i porti della costa, il carico e scarico dalle imbarcazioni di maggiore stazza ancorate al largo, la pesca d'altura.

-Il piccolo trasporto locale di modesti carichi, la pesca sotto costa. 

Tra queste ultime la  “palombella con sperone” di Ognina merita, per la sua slanciata sagoma, per la caratteristica  prora allungata e per le bellissime decorazioni sia interne che esterne, particolari attenzioni. Essa, senza dubbio alcuno, può essere definita la più bella e caratteristica barca della costa orientale siciliana (Giordano Baroni).  

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Quindi Ognina sarebbe stata sede dell'enigmatica Longone, in cui si venerava anche uri Athena longhatis. Ma Ciaceri indugia oltre, e a questa equazione accosta anche il ricordo di un altrettanto enigmatico Longon, cioè quella terza testimonianza riferita da Diodoro Siculo nel frammentario libro XXIV e utilizzata da Jacoby per sollecitare una diretta aderenza fra Longone filistiana e area etnea: Diodoro parla difatti di un Longon presso Katane in cui, durante la prima guerra punica, il cartaginese Amilcare Barca avrebbe assediato un avamposto fortificato, un phrourion, chiamato Italion. Quindi, a circa centocinquant'anni di distanza da Dionisio e Imilcone, il pericolo cartaginese si affacciava nuovamente in territorio etneo e questa volta si presentava in un'area del catanese chiamata Longon, area particolarmente vasta, dato che all'interno era localizzabile un luogo fortificato (Italion) distinto dal Longon vero e proprio. La singolare denominazione Italion ha fatto pensare a un'origine "rappresentativa" del termine, cioè il luogo sarebbe stato così chiamato a seguito dell'insediamento di genti italiche in Sicilia, limitato a soli scopi commerciali, in una fase che precede l'avvio ufficiale del protettorato romano sull'isola (1).

Anche in questo caso, non è mancata un'interpretazione alternativa: per altri studiosi il termine sarebbe riferibile a un fiume e il phrourion di Italion sarebbe sorto in prossimità di un corso d'acqua di nome Longon non distante da Catania. Un'ipotesi che comunque non esclude la derivazione di un toponimo da un originario idronimo, in sintonia con le tradizioni coloniarie (il nome di una polis generato da un preesistente e identico termine di origine fluviale). A prescindere dalle due ipotesi, se vedere cioè in Longon un territorio o piuttosto un fiume, rimane certo un dato: il termine per la prima volta è ancorato agli immediati dintorni di Katane (Italion era forse un'altura come Monte San Paolillo?). Ricordiamo che un fiume dalla simile forma nominale, Longanos, è ricordato dallo storico Polibio, ma la sua localizzazione si riferisce con certezza alla citata area del messinese, anche per via degli avvenimenti storici riferiti in quel passo, relativi allo scontro del 269 a.C. fra Ierone II e i Mamertini. Tuttavia la testimonianza polibiana è utile per rintracciare ancora una volta un nome con una radice "familiare" e connesso sempre a un percorso fluviale della Sicilia (2).

Che l'area di Ognina fosse ricca di sorgenti è un dato certo (alvei sotterranei sono tuttora esistenti) e tale considerazione si può riflettere anche sui territori limitrofi, citati peraltro da autori di rilievo26. Teocrito, ad esempio, fa esplicito riferimento al fiume Akis e alle sue acque gelide, generate sull'Etna e legate al noto mito di Aci e Galatea. Lo sfortunato destino del giovane innamorato, che fu schiacciato da un masso lavico scagliato dal ciclope Polifemo, adombra probabilmente il ricordo di un'eruzione che fu capace di obliterare il percorso fluviale, rendendolo semisotterraneo (3). Si tratta di un frequente cliché letterario nell'ambito della storia geologica etnea e basato anche su reali azioni eruttive: la "pietrificazione" di un corso d'acqua, causata dalla sovrapposizione di magma lavico, può quindi assumere, attraverso la visione mitografica, un senso concreto e probabilmente può anche trasmettere un valore propagandistico.

 

 

Il mito di Aci e Galatea ha difatti trovato fortuna narrativa durante la tirannide di Dionisio il Vecchio, in quanto il suo utilizzo è riconducibile alla politica adriatica dell'autocrate siracusano, mirante a instaurare rapporti di collaborazione con Galli, Illiri e Celti, etnie che figurano come discendenti del Ciclope. In quest'ottica la codificazione mitica, ripresa da Filosseno di Citerà, un letterato giunto alla corte di Dionisio, potrebbe non riferirsi alla secolare attività dell'Etna, ma risalire a un evento eruttivo ben più recente, probabilmente lo stesso ricordato da Diodoro e connesso alla deviazione di marcia effettuata da Imilcone (4).

Proprio nei primi decenni del IV secolo a.C, quindi, il tiranno siracusano non soltanto approfittò, per il tramite litografico, del fittizio legame instaurato con popoli dell'area adriatica, ma sollecitò anche un diretto riferimento al suolo siciliano, applicabile alle aree costiere etnee, alla vasta pianura (non a caso Akis è figlio della ninfa Symaithis), nonché al fertile entroterra collinare, ricco di quelle verdi selve boschive che Dionisio stesso sfruttò per la costruzione di flotte navali (5). Per l'età repubblicana, il trasporto di legname prelevato dalla vicina area pedemontana è testimoniato da Cicerone, ma è naturale che le folte macchie siano state sfruttate in tal senso anche nei secoli precedenti. Ancor più di Catania, la baia di Ognina poteva costituire un primo punto di arrivo per chi proveniva con grossi carichi dalle alte pendici e non è escluso che l'area probabilmente fu anche predisposta alla raccolta di materiale e/o alla costruzione di imbarcazioni (6). Ma al momento non vi sono dati particolarmente illuminanti: oltre alle antiche emergenze visibili, come la Torre cinquecentesca (o forse già del secolo XV), annessa alla chiesa di Santa Maria dell'Ognina e trasformata in campanile, rimangono cursorie notizie del Biscari e alcune stampe di Jean Hoùel, pertinenti allo stato di fatto della baia e di un monumento forse di età romana (7).

 I recenti risultati raccolti dalla ricerca archeologica subacquea e da una nuova analisi topografica per opera di Edoardo Tortorici (individuazione di relitti e recupero di ceramica frammentaria, soprattutto di età romana) gettano ora nuova luce su aspetti, finora ignorati, connessi alla baia etnea e al suo rapporto con la città. E ormai ben nota la questione relativa all'individuazione dell'antico porto di Catania e allo stretto legame che si è voluto instaurare con il golfo di Ognina: sulla base dell'informazione pliniana sul portus Ulixis si è pensato di includere nella ricerca topografica anche l'adiacente baia di San Giovanni li Cuti, ritenuta da Vincenzo Casagrandi il vero scalo di Catania greca e romana, al quale è da associare, secondo lo studioso, anche il tempio di Athena, frequentato in particolare dai naviganti (8). Contrari a tale ipotesi lo Sciuto-Patti e Guido Libertini, seguiti in tempi recenti da Sebastiana Lagona, per i quali il porto della città antica sarebbe localizzabile nel tratto di costa lungo il centro antico, precisamente nell'area occupata oggi dalla Villa comunale Pacini.

 

 

Un'ipotesi in gran parte condivisa, che si basa su alcuni rinvenimenti effettuati nelle aree immediatamente alle spalle (scavi di via Zappala Gemelli), sul recupero di un gruppo scultoreo in marmo di limitate dimensioni dai fondali del porto attuale e sulla base soprattutto delle fonti a disposizione: sia nel caso della seconda spedizione ateniese, sia per le manovre militari durante lo scontro fra Dionisio e Imilcone, l'impressione che se ne trae è quella di un porto nelle vicinanze di un luogo in cui era possibile tirare a secco le imbarcazioni. Un'area che sembra corrispondere alla costa sabbiosa della Plaia. D'altro canto, tracce dei primi nuclei coloniali greci (databili già nell'VIII secolo a.C), sono emerse sia sulla collina di Monte Vergine, sia fra le fondazioni del Castello Ursino e appare quindi naturale che l'approdo principale fosse nel punto di sbocco più vicino (9). Già in età greca il porto della città etnea doveva avere un ruolo certamente primario, soprattutto per il suo rapporto col fertile entroterra: Tucidide fa notare che è a Katane che gli Ateniesi riescono a procurarsi il grano per affrontare l'inverno e prepararsi quindi ai nuovi scontri con i siracusani. Sempre al grano (per lo più dell'ennese) si riferiscono Cicerone e Livio. Quest'ultimo ricorda inoltre gli approvvigionamenti che venivano stipati per essere spediti in seconda battuta all'esercito di servizio a Taranto. Cicerone cita anche la nota vicesima portorii, la tassa (del 5%) sull'esportazione per tutte le merci e che testimonia ancora una volta un'organizzazione di imposta doganale ben pianificata (10).

 

A queste notizie non corrispondono purtroppo molti indizi sul campo: una sola iscrizione di età tardo imperiale, ritrovata vicino all'attuale Mercato del pesce, ricorda alcuni interventi di ripristino operati su banchine e moli, a seguito di una procella. Il contenuto fa tuttavia ipotizzare la presenza di notevoli strutture e conferma quindi l'esistenza di impianti portuali nella zona, connessi forse a opere di incanalamento delle acque fluviali dell'Amenano, il fiume "instabile" che, stando a Strabone, attraversava la città, per sboccare verosimilmente in prossimità dell'area portuale (11). Data la vicinanza alla linea di costa originaria, non è escluso che la stessa struttura oggi chiamata "Terme Achilliane" fosse in realtà un edificio molto più complesso e con varie funzioni: di lupanare e caupona nella zona più arretrata (un ambiente rinvenuto da Paolo Orsi con graffiti "irriverenti" potrebbe costituirne un'esigua testimonianza), di impianto termale nel settore mediano, nonché di installazione portua-le sul versante a mare, dotata di un piazzale di carico e scarico, di magazzini per lo stoccaggio delle derrate in arrivo (Jhorred) e, infine, di banchine e strutture/argine rivolte sul versante della costa (12).

A tal proposito, i piloni in opera quadrata rinvenuti al di sotto del Seminario dei Chierici, potrebbero rappresentare - piuttosto che una continuazione dell'impianto termale - l'ultimo residuo di vaste strutture portuali (anche più antiche), connesse all'ampio complesso edilizio (13). Che la struttura termale abbia pure assolto una funzione, diremmo, commerciale potrebbe essere confermato dagli ultimi scavi archeologici, che hanno messo in luce - oltre a differenti canalizzazioni (forse pertinenti al restauro ricordato sulla nota iscrizione delle Terme) e a fasi di riutilizzo in età moderna - anche numerosi frammenti ossei di animali, tracce forse di attività connesse alla macellazione38. L'impressione che si può trarre dagli elementi finora noti - seppur intricati da una inevitabile stratificazione storiografica e da insufficienti dati di scavo - è quella di immaginare un sistema portuale bipartito (o forse anche tripartito), costituito cioè da un polo principale nell'area delle città antica e moderna, e da un polo secondario a nord, fra San Giovanni li Cuti ed Ognina, zona che probabilmente non fu mai dotata di complesse strutture portuali come per Catania, perché la sua fortuna si basò soprattutto sulle caratteristiche naturali offerte dalle ampie e profonde insenature, oggi confinate nella sola memoria del mito. Quello di Ulisse, dei Ciclopi, dei fiumi di acqua e di lava.

Antonio Tempio

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tratto da "C'era una volta Ognina" di Giuseppe Anfuso - Monforte Editori.

 

APPROFONDISCI SUL LAGO DI NICITO

 

 

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(1) M. Mazza, Terra e lavoratori nella Sicilia tardo repubblicana, in A. Giardina - A. Schiavone (a cura di), Società romana e produzione schiavistica 1. Lltalia: insediamenti e forme economiche, Roma-Bari 1981, pp. 19-49, in particolare p. 31.

(2) Polyb., I, 9, 7-8; si veda la discussione di G. De Sanctis in merito al passo polibiano paragonato a quello diodoreo (XXII, 13), in Storia dei Romani. L'età delle Guerre puniche, Firenze 1967, III/1, p. 93 nota 11; sullo scontro in prossimità del fiume Longano e sulla diversa datazione (269 oppure 265-264 a.C.) si vedano G. De Sensi Sestito, Gerone LL. Un monarca ellenistico in Sicilia, Paler mo 1977, pp. 224-232 e G. Tagliamonte, I figli di Marte. Mobilità, mercenari e mercenariato italici in Magna Grecia e Sicilia, Roma 1994, pp. 192 e 205 (con breve discussione sul toponimo Ltalion).

(3) Teocr., I, v. 69: lo scolio parla chiaramente di unpotamos Sikelias; si veda anche Hom., //., XVIII v. 45; Hes., Theog., v. 250; Teocr., XI; N. Rapisarda, Polifemo, Aci e Galatea divinità sicule ellenizzate. (Studio topomitico), in "Archivio Storico della Sicilia Orientale" 12 (1916), pp. 208-228; P. Anello, Polifemo e Galatea, in "Seia" 1 (1984), pp. 11-51.

(4) L. Braccesi, Diomede, Dionigi il Vecchio e i Galli, in Grecità di frontiera. I percorsi occidentali della leggenda, Padova 1994, pp. 85- 110; M. Vaglio, Filosseno e il Ciclope. Polifemo, i Galli e la propaganda di Dionigi di Siracusa, in "Hesperìa" 14 (2001), pp. 171-177.

(5) In tal senso, soprattutto per i periodi precedenti, A. Corretti, "Fornirò 200 triremi... " (Hdt., 158, 4): per un riesame delle tradizioni antiche sulla marineria siceliota, in Guerra e pace in Sicilia e nel Mediterraneo antico (VIH-III sec. a. G). Arte, prassi e teoria della pace e della guerra, Atti delle V Giornate Internazionali di Studi sull'area elima e la Sicilia occidentale nel contesto mediterraneo, Pisa 2006, 2, pp. 415-430; Sulla fortuna delle rappresentazioni odissiache in territorio etneo e sul mito di Akis si veda A. Tempio, DaAitne ad Aetna cit., pp. 42-43, con note.

(6) Cic, Verr., II, 3, 83.

 (7)  I. Paterno Castello, Viaggio per tutte le antichità cit., pp. 25-27; G. Pagnano, Le antichità del Regno di Sicilia. I plani di Biscari e Torremuzza per la Regia Custodia. 1779, Siracusa 2001, p. 153; oltre alle gouaches si veda anche J. Hoiiel, Voyagepittoresque des isles de Sicile, Malta et Lipari, Paris 1782-1787, 3, tav. 147; valido tuttora quanto riferito da A. Holm, Catania antica (trad. it. a cura di G. Libertini), Catania 1925, p. 72, con note.

(8) V. Casagrandi, La pistrice sui tetradrammi di Catana e sullAureo della collezione Pennisi, con osservazioni sull'antica monetazione di Catana-Aetna, in "Archivio Storico per la Sicilia Orientale" 11 (1914), pp. 3-32, in particolare pp. 29-30 nota 1.

(9) C. Sciuto-Patti, Su taluni avanzi d'arte antica scoperti in Catania nella via Zappalà-Gemelli, in "Archivio Storico Siciliano" 21 (1896), pp. 88-96; G. Libertini, La topografia di Catania antica e le scoperte dell'ultimo cinquantennio, in "Archivio Storico per la Sicilia Orientale" 19 (1923), pp. 53-68; S. Lagona, Catania: il problema del porto antico, in B. Gentili (a cura di), Catania antica. Atti del convegno della Sisac, Pisa-Roma 1996, pp. 223-230; G. Rizza, Leontini e Katane nell'VIII e VII secolo a.C, Atti del Convegno Internazionale, in "Annuario della Scuola archeologica di Atene e delle Missioni italiane in Oriente" 59 (43), (1983), 1, pp. 313-317; Id., Catania in età greca, in B. Gentili (a cura di), Catania antica cit., pp. 11-18; A. Patané, Saggi di scavo all'interno del Castello Ursino di Catania, in "Kokalos" 39-40 (1993/1994), II/1, pp. 901-907.

(10) Thuc, VI, 94, 3 e VII, 60, 2; Cic, loc. cit.; Liv., XXVII, 8, 19.

(11) Strabo, V, 3, 19; G. Manganaro, Epigrafi frammentarie di Catania, in "Kokalos" 5 (1959), pp. 145-158, in particolare pp. 156-158.

(12) P. Orsi, Catania. Scoperte varie di antichità negli anni 1916e 1917, in "Notizie degli Scavi" 1918, pp. 53-71, in particolare pp. 56- 61; G. Manganaro, Graffiti e iscrizioni funerarie della Sicilia orientale, in "Helikon" 2 (1962), pp. 485-501, in particolare 485-493.

(13) Su questi rinvenimenti, molti dei quali definiti ingenuamente di fattura "sicana", si veda C. Sciuto-Patti, Su taluni avanzi d'arte antica cit., pp. 92-94; una rassegna degli scavi e delle fonti locali è raccolta da G. Libertini, La topografia di Catania antica cit., pp. 55-58; Id., L'indagine archeologica a Catania nel secolo XVI e l'opera di Lorenzo Bolano, in "Archivio Storico per la Sicilia Orientale" 18 (1922), pp. 105-138, in particolare pp. 121-123.

 

 

IL PORTO DI ULISSE E IL VECCHIO FIUME

Famosissimo fin dall'antichità, il porto di Odisseo fu per tanti secoli lo scalo ufficiale dell'antica Catania, fino a quando, nel 1381, non venne sepolto definitivamente da un fiume di lava scaturito da una fessura eruttiva, apertasi tra i comuni di Mascalcia, Tremestieri e Gravina.

L'immane colata lavica cancellò anche il borgo e lasciò una piccola insenatura che forma oggi il nostro delizioso golfo, tra villa Pàncari e la "Punta del Cavallazzo". Lo splendido seno di mare, la vetusta chiesa di S. Maria, la torre di guardia, le case dei pescatori, le stradine della borgata e la vecchia garitta costituivano le tessere di un prezioso mosaico chiamato Ognina che, profondamente trasformata negli ultimi anni, non ha potuto sottrarsi al diffuso scempio ambientale e conservare intatta la sua autentica fisionomia di borgo marinaro.

Ognina - scomparso il cosiddetto Porto di Ulisse - rappresentò un importante scalo marittimo. Di conseguenza la borgata divenne uno dei principali centri dei commerci via mare. Olio, vino frumento cereali veniva custodito in magazzini sorti ai margini dell'attuale via Marittima e poi imbarcato sugli antichi bastimenti.

Se vogliamo trovare il vero motivo di tanta fama, ci dobbiamo necessariamente rifare ad alcune autorevoli testimonianze storiche. In merito abbiamo non pochi importantissimi contributi: Tucidide, Plutarco, Omero Virgilio, Plinio, Massa, Amico, Fazello, Villabianca, Gemmellaro, Vigo, Castorina.

- tratto da "C'era una volta Ognina" - Giuseppe Anfuso - Montorte Editore

 

 

LA COSTA CATANESE FRA MITO, LEGGENDA E STORIA

Il mare è da sempre anche sinonimo di morte. Lo sapevano bene Ulisse, Enea, gli Argonauti e tutti gli eroi mitologici che hanno dovuto combattere contro le furie di Poseidone. Anche se le vie del mare sono state in passato sempre preferite a quelle terrestri, molti erano i fattori che rendevano pericolose le rotte marittime. La navigazione a lunga percorrenza in età preistorica e protostorica, si svolgeva, per quanto possibile, soprattutto nella buona stagione, di giorno e quando l'esperienza faceva prevedere vento e condizioni del mare favorevoli; al tramonto le navi trovavano rifugio (tirate in secca su una spiaggia riparata o alla foce di un fiume) e all'alba venivano rimesse in mare; numerosi erano quindi gli scali intermedi, anche perché era necessario il rifornimento d'acqua dolce e di viveri freschi.

Ma certamente la costa catanese nell'antichità non aveva l'aspetto che ha oggi . Gli studiosi (quelli veri) ritengono che una rotta piuttosto antica univa l'area dello stretto di Messina con Malta. La rotta dell'ossidiana, lungo la costa ionica della Sicilia, era stata utilizzata dai primi coloni del neolitico che, provenienti dalla penisola italiana, si erano spinti fino all'isola di Malta. È probabile quindi che nel tratto di costa catanese esistessero almeno due insediamenti a partire dal Neolitico medio. L'avvento dei metalli e dei loro manufatti fecero incrementare i commerci lungo le rotte che toccavano la costa ionica. È proprio a questo periodo che viene attribuita la nascita di un insediamento umano a ridosso dell'attuale area urbana di Catania.

Arriviamo al periodo culturale (facies) di Castelluccio, che viene datato dagli studiosi tra il 2300 e il 1400 prima di Cristo. Ora gli insediamenti umani si fanno più numerosi e coprono quasi tutta l'area di Catania fino alle falde dell'Etna. Molti dati provengono dalla zona alta della città, soprattutto nella fascia che va da Barriera del Bosco a Canalicchio. E probabile che questi nuclei abitativi preistorici, situati in posizione dominante ma piuttosto interna, utilizzassero un vicino centro costiero oggi scomparso che poteva collocarsi tra l'attuale porticciolo di San Giovanni li cuti e quello di Ognina. L'antico approdo di Ognina fu certamente attivo durante la successiva media età del bronzo (facies di Thapsos) assieme agli scali catanesi già accennati.

 

L'insediamento di Canalicchio, con il suo approdo nel porto di Ognina, continuarono a persistere per tutta l'età del bronzo fino alla prima età del ferro. In età arcaica e classica (per intenderci l'età dell'arrivo dei coloni calcidesi), la linea di costa non era più la stessa dell'era preistorica. I siculi, i greci e i romani, ebbero una visione della costa catanese completamente diversa dall'attuali. Le poche fonti letterarie antiche hanno alimentato, come sappiamo, molte leggende, storie false e documenti apocrifi. L'Odissea e l'Eneide hanno certamente influenzato gli eruditi e gli studiosi dal 16° secolo in poi. Così il medievale porto "Saracino" diventa il portus Ulixis citato da Plinio, assieme a quello che rimane dell'approdo di Ognina.

In realtà le prime notizie provenienti dal mondo antico che fanno riferimento al porto di Catania sono i passi di Tucidide relativi a quanto accadde in Sicilia durante la guerra del Peloponneso negli anni 415-414 a.C. e di Diodoro (guerra tra Cartaginesi e Siracusani del 396 a.C)

Ma l'antico approdo immediatamente vicino al nucleo urbano non era l'unico e ce lo dimostra un importante e ancora valido contributo per la comprensione dell'antico profilo di costa ci è stato proposto dal regio Ispettore per le Antichità, l'ing. Carmelo Sciuto Patti, che nel 1873 in una serie di sette tavole a colori mostrò quella che, secondo i suoi studi, è stata la successione delle colate laviche che hanno colpito da sempre il territorio di Catania e i sui dintorni. Prima che un'altra grande colata lavica, quella del 5 agosto 1381, lo colmasse esisteva un ampio golfo compreso tra i due promontori del Gaito (all'altezza di piazza Europa) e del Rotolo (piazza Nettuno). Non sembrano quindi condivisibili le ipotesi che tendono a localizzare il porto di Catania greca e romana in corrispondenza dell'attuale porticciolo di S. Giovanni Li Cuti. Di contro il porticciolo di Ognina, che prima della colata lavica del 1381 era più ampio, rientra fra gli approdi individuati non solo come il portus Ulixis ma anche come principale porto di Catania.

- tratto da "La costa catanese fra mito, leggenda e storia" (XXX) Corrado Rubino

 

 

 

Masculina da magghia La cornice è quella del golfo di Catania: un arco che va da Capo Mulini a Capo Santa Croce, nel comune di Augusta. Una porzione di mare tutelata in parte dalla Riserva Naturale Marina delle Isole Ciclopi e solcata ogni giorno dalle piccole barche dei pescatori del golfo. Qui, secondo la stagione, si pescano aguglie, spigole, tonni, triglie, sgombri, e masculini. I pescatori li chiamano anche anciuvazzu o ancora anciuvurineddu: molti nomi per le piccole, guizzanti acciughe, le stesse catturate dai liguri e dalle menaidi cilentane. Le stesse che, diceva padron ’Ntoni ne I Malavoglia, «sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, (…) è sempre stato così, l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno». Ad aprile, si comincia a calare le tratte (così chiamano a Catania le reti menaidi, che hanno maglie di un centimetro di lato e sono lunghe circa 300 metri): il momento giusto è la notte fonda, quasi sul fare dell’alba. La tecnica è la stessa praticata in tutto il Mediterraneo già dai tempi di Omero. Questo meccanismo di cattura (l’imprigionamento della testa dell’alice nelle maglie della rete, da cui il nome da magghia) provoca un dissanguamento naturale che rende il pesce più gustoso e quindi pregiato. In Italia le flottiglie che praticano la pesca tradizionale con la menaide sono poche: si trovano a Pisciotta, in alcuni piccoli centri della costiera del Cilento (in Campania) e nel golfo di Catania. Qui le famiglie che vivono di questo mestiere antico sono una trentina: un gruppo sparuto – che si divide fra i porticcioli di San Giovanni li Cuti, Ognina, Aci Trezza – e qualche civitotu (così si chiamano gli abitanti del quartiere catanese della Civita) al porto di Catania. Attualmente, i masculini da magghia sotto sale non sono in commercio: si possono ancora assaggiare soltanto in qualche ristorante di Catania o nelle dispense delle famiglie dei pescatori. Il neonato Presidio sta tentando di riorganizzarne la produzione e la commercializzazione.  

 

Spaghetti alla Colatura di Alici Ingredienti per 4 persone: - 350 gr di spaghetti - 15 olive nere - 1 cucchiaio di capperi - 1/2 spicchio d'aglio - 1 cucchiaio di colatura di alici - 4 gherigli di noci - olio extravergine di oliva - 1 peperoncino piccante - succo di limone Procedimento: Snocciolare le olive e metterle nel bicchiere del mixer. Unite un punta di peperoncino, l'aglio, i capperi, 4 cucchiai di olio, qualche goccia di succo di limone, i gherigli di noce e la colatura di alici.  Frullare tutto per un minuto e mettere il composto ottenuto in una terrina. Non aggiungete sale perchè la salsa è già molto saporita.  Cuocere le linguine in abbondante acqua non salata, scolatele al dente, tenendo da parte un pò d'acqua di cottura, e versatele nella terrina. Mescolate bene per amalgamare i sapori e, se le linguine si ammassassero troppo, diluite con acqua di cottura. Servire subito. 

 

I masculini si vendono freschi sul mercato catanese di piazza Pardo ( ‘a Piscaria) oppure vengono messi sotto sale dalle mogli dei pescatori. La tecnica di salagione è la stessa di tutto il Mediterraneo, ma qui esiste una preparazione assolutamente unica, inventata dai pescatori catanesi per sfamarsi durante le molte ore trascorse in mare. Si tratta di una conserva fatta con pezzetti di alici e con le teste che rimangono impigliate nelle maglie della menaide. Impossibili da vendere, questi “scarti” erano consumati in barca. Tornati a riva, le donne di casa mettevano ciò che rimaneva sott’olio di oliva, in vasetti di vetro o in piccoli orci di terracotta (i cugnitti) e all’occorrenza se ne prelevava una parte per cucinare sughi e salse. Area di produzione: Golfo di Catania