La Civita

 

 

 

 

A JARITA (La garitta)

Andando ora poco più a nord, ci si presenta un tratto di costa ormai deturpata, chiamata «Jarita». Qui la scogliera ha perso parte del suo antico fascino; in passato le sue manifestazioni erano straordinarie e, in un mare di cobalto ricco e pescoso come non molti, odori e sensazioni cambiavano al volgere delle stagioni.

Il luogo, data la sua natura, un tempo si prestava non solo alla pesca, ma anche al contrabbando, soprattutto di sigarette. Sulla scogliera, che ora notiamo a babordo, esisteva un tempo, proprio a picco sul mare, una Garitta («Jarita»), che era il posto di osservazione dei finanzieri, addetti al controllo della costa per la repressione del contrabbando. Da qui il nome di «Jarita» dato alla località.

Lo spericolato, quanto ignaro, pescatore di turno, che di notte andava con la canna da pesca in cerca di saraghi  e si avventurava nei paraggi, doveva fare i conti con i contrabbandieri, infastiditi ed ostacolati dalla sua presenza. Cosicché i degni rappresentanti della città di Catania, per sbarazzarsi di lui, giocavano d'astuzia. Nascosti tra gli scogli, lasciavano che il poveretto scendesse fino al mare e poi, nel silenzio della notte, ogni qualvolta metteva in mare la lenza o la tirava, lo spaventavano, scandendo con voce cavernosa e misteriosa: «calàau, tiaràau» e lanciando grossi sassi che, ad ogni calata o tirata, arrivavano in mare a guisa di proiettili, «anniànnulu d'a test'e peri!» .

Tanto bastava perché il poveretto, dopo essersi «pigghiata 'a giàlina» , lasciasse libero il campo.

Così gli indaffarati Catanesi continuarono a divertirsi fino a quando non incapparono nella persona sbagliata: un ex «collega» — conosciuto come «Tinu 'u contrabbanneri» — che, non conoscendo la nuova testa di ponte, andò lì tranquillamente a pescare. E quando i contrabbandieri diedero inizio alle operazioni di disturbo, egli non si spaventò più di tanto, anche se dovette ugualmente fare le valigie, giurando peraltro che avrebbe restituito la cortesia.

Così una notte Tino e il fratello, armati di pistole scacciacani, aspettarono di nascosto l'inizio delle «operazioni» per improvvisarsi finanzieri. Quindi, sbarcata che fu la prima cassa di sigarette, diedero l'altolà che produsse uno straordinario parapiglia: repentino fuggi fuggi di contrabbandieri con funambolici salti tra gli scogli; vociare concitato di ordini e contrordini; tuffo in mare di «Voce cavernosa», che rischia la vita, e complicato salvataggio operato dai colleghi, che prendono il largo, remando a più non posso.

Ma la cassa abbandonata dai contrabbandieri - che ne sanno una più del diavolo - fu l'occasione per rovinare la festa a Tino e Gianni, quando scoprirono che i pacchetti, anziché sigarette, contenevano segatura!

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da "Luci sulla scogliera" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco in Catania

Il Lido Scogliera d'Armisi

 

 

L'ARMISI (L'Artemision)

Lasciata la «Jarita», poco più a nord, incrociamo il cosiddetto «Armisi», località che occupa il tratto di scogliera che va dalla «Jarita» sino al «Gaito».

In questo luogo, natura, storia e mitologia si alternano: il nome trae origine da Artemide (Artemis), dea greca della caccia, corrispondente alla dea Diana dei Romani, a cui era dedicato un tempio, l'Artemision. Da qui Artemisi e quindi Armisi.

Artemide, figlia di Zeus e di Latona e sorella di Apollo, veniva raffigurata con l'arco in mano e la faretra sulla spalla, pronta a scagliare le sue frecce contro chiunque suscitasse la sua collera. I templi a lei dedicati sorgevano dovunque, ma i più famosi erano quelli di Efeso.

Fin qui la mitologia. Ma il luogo, messi da parte gli dei, si presenta con il consueto biglietto da visita di indiscutibile fascino, anche se chi ricorda l'«Armisi» di una trentina d'anni addietro, popolato di cernie e di saraghi, stenterebbe a riconoscerlo nei fondali di oggi, non proprio deserti, ma assai meno popolati di allora.

Queste acque, benché depauperate continuamente, presentano ancora oggi fondali interessanti e sono quindi oggetto di attenzione da parte degli appassionati del bolentino costiero  e dei trainisti .

La fauna è quindi ancora discretamente rappresentata, soprattutto dagli onnipresenti «sàuri»  e «opi» , dai variopinti labridi e dai bei saraghi dei fondali adiacenti o delle secche circostanti.

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da "Luci sulla scogliera" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco in Catania

 

 

 

 

IL GAITO (Vaitu o Caìto).

Piccolissimo quartiere etneo sul mare che conserva però tracce di una cultura millenaria.

Convenzionalmente per “Caìto”, a Catania, si intende la singola area occupata dal Porto Rossi, una piccola insenatura naturale collocata nella parte est del capoluogo etneo, compresa tra la Stazione Centrale, a poche centinaia di metri di distanza, e il quartiere di Ognina.

Oggigiorno questo braccio di costa rocciosa viene ormai indicato come parte integrante del più grande borgo marittimo etneo, ma in vero la presenza e la collocazione del Caìto si sono però rivelate significative, già in epoca remota, per la costituzione di un’identità storica e sociale proprie di questo scorcio di Catania.

Le origini del piccolo quartiere del Caìto sono, infatti, antichissime, e la sua nascita risalirebbe, addirittura, al tempo della dominazione araba in Sicilia. Già dal nome stesso dell’area è infatti riconoscibile una palese influenza saracena.

“Caìto” infatti deriverebbe dal termine “Kâit” che significa “giudice, governatore, capo amministrativo”. È dunque intuibile che nella zona, diversi secoli fa, esistesse un avamposto arabo caratterizzato dalla presenza di un magistrato preposto alla persecuzione dei Cristiani.

Quest’area viene poi storicamente ricordata per aver ospitato, in epoca più recente, un importante tratto della Ferrovia Circumetnea. La fermata si trovava a pochi passi dal Porto Rossi, nell’area oggi occupata da Piazza Galatea.

Il 13 marzo 1895 venne inaugurata la tratta Catania Gaito-Catania Borgo, congiungendo così i due quartieri del capoluogo etneo. Il 17 Agosto 1897 l’ingegnere Francesco Clarenza scrisse una lettera al Presidente del Consiglio d’Amministrazione del Consorzio per la Circumetnea esponendo i progetti per la fermata al Gaito ed il prolungamento al porto di Catania. L’anno seguente il prolugamento divenne realtà e il 10 luglio 1898 venne aperta la tratta Catania Gaito-Catania Porto.

La fermata del Gaito venne chiusa nel 1993, ma l’area continua ancor oggi a conservare il suo nome.

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Salvatore Rocca

http://www.vivict.it/luoghi-e-monumenti/catanomastica-caito/

 

 

 

A PUNTA DI JADDINA (La punta di Gallina)

Un'alta rocca che termina con una punta in mare, conosciuta soprattutto perché vi si posano alcuni tipi di uccelli marini che, d'inverno, migrano a sud. Diciamo alcuni tipi perché il nostro mare non consente l'esistenza di colonie paragonabili a quelle immense di altri paesi, ad esempio del nord Europa.

Molte specie di Sule, tutti gli stercorari, alcuni tipi di gabbiani sono assenti come nidificanti e giungono dalle nostre parti solo per svernare.

Altri, invece, vivono sulle alte e desolate pendici, dove nidificano e allevano i piccoli tra la stentata vegetazione dei depositi di lava.

Sulla punta anzidetta sono presenti sule, cormorani, tuffetti, gabbiani, ecc., che impiegano una grande varietà di tecniche di pesca. Le sule piombano sul mare e afferrano i pesci anche sott'acqua; i cormorani nuotano a pelo d'acqua, tuffandosi ogni tanto; i tuffetti nuotano in superfìcie e si immergono quando avvistano la preda; e i gabbiani, rapidissimi, arraffano la minutaglia più lenta alla fuga.

Sulla nostra punta — chiamata genericamente «Punta 'e jaddina» — c'è chi racconta di aver notato anche qualche gallinella d'acqua («jaddinedda d'u pantanu»), che per sua natura frequenta, invece, le distese d'acqua dolce e le terre vicine, e di averne visto fiocinare qualche sfortunato esemplare.

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da "Luci sulla scogliera" di Pippo Testa e Mimmo Urzì - Edizioni Greco in Catania

 

a punta 'e Jaddina, nei pressi del Gaito

 

 

La punta 'E Jaddina

(La Punta di gallina)

 

Tutti i pescatori ogninesi conoscono bene il tratto di scogliera lungo la linea di Costa che va dal porticciolo di S.Giovanni Li Cuti verso il porto di Catania, questo tratto è chiamato "Jaddina". Ma non tutti sanno l'origine di questo nome. Una tradizione popolare l'attribuisce al salvataggio di una gallinella recuperata sopra lo scoglio, ma è una suggestiva invenzione popolare perché in un manoscritto del 1400, degli archivi della Curia Vescovile di Catania, troviamo tale nome. I preziosi documenti ci fanno sapere che già dal 1400, tutta la scogliera Catanese era sotto la giurisdizione del Vescovo di Catania, il quale poteva dare la concessione demaniale dei tratti della Costa. Il tratto di cui parliamo nel 1456 fu concesso per la pesca ad un certo signor Gallina, al quale curiosamente rispetto ad altri venne rinnovata la concessione per più anni. Su quello scoglio si poteva pescare con la canna, lenza, coppo e nasse. Riguardo alla possibilità di pescare dagli scogli a coloro che erano sprovvisti di licenza, vigeva l'assoluto divieto, pena il pagamento di una multa salata di 15 carlini. L'interesse per le pietre di "piscari" inizia a declinare bruscamente in favore di barche e reti, come attestato in un bando del 15 Gennaio 1574, per l'armamento di una imbarcazione appartenente a Luca Oleastris (familiare del vescovo), la barca di piscari conteneva: rimi statti e palelli (remi stretti e scalmi), un ferro con lo suo capo (ancora con sua fune), un timuni con suo Jaci (un timone con la leva), fucuni per piscari (braciere per pescare), una vila con sua intinnola (una vela con la sua antenna), dui sidituri con tri parati (due sedili e tre parati), una sasola (una sassola), cinco rimi (5 remi), un lanzaturi (fiocina), dui guanti (due guanti), una tenda, diciassette pezzi di riti usitati e quasi vecchi (diciassette pezzi di reti usate e vecchie), e quattro aitri pezzi di riti novi (quattro pezzi di reti nuove).

Finalmente sappiamo la verità sul nome Gallina.

Mario Strano

 

 

 

 

IL PORTO ROSSI

La storia - La M.E.C. Auto di Rossi P&C snc, meglio conosciuta come Porto Rossi, nasce nel 1961, grazie alla passione verso l’arte navale di Pietro Rossi , che ha l’obiettivo di istituire una realtà portuale che giovi alla nautica da diporto.

L’origine è quindi da considerarsi un’esigenza dei mutamenti sociali ed economici degli anni 60’. Pietro Rossi (concessionario dei motori marini Mercury e Mercruiser, nonché uomo stimato dal grande Giuseppe Pasini simbolo italiano del marchioMercury ) attento conoscitore e acuto osservatore delle costruzioni dei porti turistici, si chiese come fosse possibile vendere barche e motori senza l’esistenza di nature valide per la nautica da diporto.

Percorrendo il litorale catanese, al centro della città, scorse una sorta di discarica pubblica, zona denominata dai catanesi “Caito”, caratteristica per le golette naturali create dalle colate laviche del 1300 e del 1600. Iniziò così la creazione del porto , si costruì una strada che conduceva da piazza Europa al porto, si incominciarono a costruire piazzali e pontili per l’ormeggio delle imbarcazioni.

Grazie al suo interesse sempre vivo e tenace e all’ aiuto dei figli Ezio e Federico, il 10 ottobre 2001 il sig. Rossi vedrà finalmente approvato il progetto per l’ampliamento del porto, trasformando cosi l’attività svolta in una realtà nautica efficace e produttiva per tutto il Mediterraneo.

Il verde che circonda l’approdo fa da cornice al mare, rendendo il porto confortevole e invitante per tutti coloro che si trovano a transitare da queste parti.

Le idee incamerate e scolpite nella mente nel corso degli anni, le dure battaglie, ma anche una ferma determinazione, contribuiscono a trasformare ciò che prima era soltanto una discarica, in una meravigliosa oasi oggi denominata Porto Rossi, immersa nel cuore della città di Catania  

http://www.portorossi.com/La-storia.aspx

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/391.jpg

 

 

 

grazie a Francesco Raciti per le immagini

 

La stazione di Catania Centrale è la stazione principale della città di Catania. Si trova adiacente alla grande piazza Papa Giovanni XXIII nella quale confluiscono alcune tra le arterie viarie più importanti e trafficate della città. È importante stazione, oltre a Messina Centrale, della linea costiera Messina-Catania-Siracusa ed è origine delle linee Catania-Caltagirone-Gela e Catania-Palermo (che passa dalla stazione di Caltanissetta Xirbi). È inoltre connessa al proprio deposito locomotive e raccordata con il Porto di Catania.

Catania Centrale venne costruita nell'ambito del programma di costruzioni ferroviarie intrapreso in Sicilia con la costituzione della Società Vittorio Emanuele e proseguito con la Società per le Strade Ferrate della Sicilia, detta anche Rete Sicula. Faceva infatti parte del progetto per connettere mediante la strada ferrata l'estremo lembo nord della Sicilia e il porto di Messina alle zone produttive della fascia orientale e zolfifere di quella centro-orientale dell'Isola. La stazione venne costruita nella stessa zona delle raffinerie di zolfo, ove ora sorge il Centro fieristico le Ciminiere e venne inaugurata il 24 giugno 1866[1] ma aperta al traffico regolare dal 3 gennaio 1867, giorno in cui venne aperto all'esercizio il tronco ferroviario Giardini-Catania della ferrovia Catania – Messina (il cui primo tratto era stato inaugurato meno di un mese prima).Il 1º luglio 1869 la stazione di Catania veniva collegata al fascio binari del porto della nuova Stazione di Catania Marittima mediante un raccordo in discesa lungo 914 metri. L'edificio di stazione costruito dalla Vittorio Emanuele era molto semplice e privo di tettoia e solo dopo il 1870 si pose mano alla costruzione definitiva Il fascio binari della stazione venne interessato, lato mare dal collegamento ferroviario a scartamento ridotto della Ferrovia Circumetnea, dalla fermata di Catania Gaito alla stazione di Catania Porto attivato il 10 luglio 1898. Se fosse stata accolta la richiesta della FCE la stazione avrebbe avuto un tratto a doppio scartamento con inserzione nell'ultimo tratto della Messina Catania (a quel tempo gestita dalla Società Sicula).

Venne invece costruito un viadotto in ferro a due travate per sovrappassare la detta linea ferrata all'altezza degli scambi di ingresso proseguendo il rilevato in discesa fino ad affiancarsi al XXIII° binario (della stazione Centrale di Catania) con un semplice marciapiedi per la fermata proseguendo fino al porto quasi a filo del mare. Il viadotto in ferro è stato demolito alla fine degli anni 80 durante i lavori di costruzione del ramo di metropolitana.
La stazione ha subito un primo ampliamento all'inizio degli anni sessanta quando in conseguenza dell'elettrificazione della Messina-Catania è stato anche ampliato il fascio dei binari (lato Sud) con la creazione di una diga sul mare che ha consentito il prolungamento dei binari di stazione. Nell'occasione vennero realizzate anche le pensiline sui marciapiedi esterni. Un'ulteriore ampliamento del fascio viaggiatori, portando da 7 a 9 i binari dedicati, è avvenuto a metà degli anni settanta in conseguenza della maggiore richiesta di trasporto pendolare. Nello stesso periodo gli apparati di stazione sono stati centralizzati in un'unica grande cabina di comando ACEI eliminando definitivamente le due vecchie cabine di comando ACI A e B. Il programma di ristrutturazione del Nodo Catania in corso di realizzazione prevede l'abbandono della localizzazione attuale del fascio binari, con l'interramento già approvato della stazione. Il fabbricato attuale tuttavia verrà conservato.

http://it.wikipedia.org/wiki/Stazione_di_Catania_Centrale

 

 

 

 

 

 

 

Ratto di Proserpina

 

Tale fontana, edificata intorno al 1904, dallo scultore ascolano Giulio Moschetti (1849-1909), che realizzò le allegorie della tragedia e della commedia poste sul frontone del teatro Bellini, rappresenta "il ratto di Proserpina" da parte del dio Plutone (o Ade).

Il mito è uno dei più cari alla tradizione pagana siciliana (molti sono i riferimenti immaginifici nell'arte isolana), in quanto secondo il poeta Claudiano, nel suo "De Raptu Proserpinae" il luogo degli accadimenti coincide con le sponde del lago di Pergusa, in provincia di Enna.

Plutone rapisce Proserpina, la strappa con forza alla sue vicende, ai suoi luoghi ed alle persone care, la porta con se sulla sua biga trainata da neri destrieri e la rende sua compagna e regina del mondo delle ombre.

 

 

La madre di Proserpina, Cerere (o Demetra), richiesta udienza al sommo padre degli dei, Giove, ottiene che le figlia le venga restituita, ma non verrà accontentata in pieno.

Infatti Cerere ottiene che la ragazza passi con lei solo sei mesi dell'anno, ed i restanti mesi con il marito.

Proserpina, il cui nome viene associato all'emergere, alla crescita, rappresenta per gli antichi la ragione dell'alternanza delle stagioni.

Quando infatti risiede tra le ombre sotterranee la terra è cinta dai freddi venti invernali, mentre quando la giovane "emerge" dall'oscurità la natura prorompente riprende il suo corso, esplodendo di vita e colori.

 

 

L'impianto del'opera, realizzata in cemento, vede al centro poste in rilievo, la figure di Plutone e della giovane Proserpina, attorniate da cavalli e sirene che trainano la biga del Dio, il tutto al centro di una grande vasca coronata da giochi d'acqua e zampilli, e che fino a poco tempo fa, insieme alle luci che la decoravano, regalava uno spettacolo non indifferente.

Perche fino a poco tempo fa? Perchè il comune di Catania, in palesi ristrettezze economiche, ha reso vittima la stazione centrale della città (dove quasi a dirimpetto è sita la fontana) ed altre zone della città, di una "riduzione" dell'illuminazione notturna......

 

 

 

 

U Passiaturi ("il Passeggio")

 

 

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/MASTRO1.GIF

Una parte del film è ambientata e girata a Catania. Qui in Via VI Aprile, al Passiatore

 

 


Ampio balcone civico realizzato nell'Ottocento in sostituzione di un passeggio che già esisteva alla Marina (oggi via Dusmet), lì ostruito dal nascente ponte ferroviario noto come "L'Archi" (gli archi). Nato per essere un "salotto" all'aperto per i cittadini, dove svolgere attività fieristiche, concerti o anche solo per una passeggiata affacciati sul mare, a lungo cadde in abbandono e in stato di degrado. Solo in anni recenti è stato riqualificato, sebbene oggi la minaccia del degrado aleggi ancora sul luogo.

 

 

 

 

Chiesa del SS. Sacramento Ritrovato di via VI Aprile

 

ci racconta Mons. Mariano Foti: "Ritrovandosi la Santa Cattedrale della Città di Catania situata provvisoriamente nel Collegio degli Ex Gesuiti, in detta Matrice, accadde nell'anno 1796 a 29 maggio il sacrilego furto di Gesù Sacramentato che si trovava dentro la sfera d'oro situata nel Tabernacolo per la Solennità dell'Ottavario de/ Corpo del Signore, commesso da un foresf/ero". La notizia procurò un'enorme costernazione nella popolazione catanese che si prodigò in preghiere per il suo ritrovamento Questo avvenne miracolosamente l'indomani.

Per cui quale ringraziamento, con deliberazione del Senato Catanese, autorizzazione del Vescovo e permesso (con sostegno economico) del Re Ferdinando III, venne eretta in via VI Aprile una nuova Chiesa intitolata "SS. Sacramento Ritrovato"

 

 

 

 

 

 

SS. SALVATORE

Proseguendo per la via Dusmet, dopo avere superato il complesso Biscari, di fronte alla vecchia Dogana, si incontra la chiesetta del SS. Salvatore (un piccolo ambiente d raccoglimento religioso prima di affrontare i possibili pericoli del mare).

La sua esistenza proviene da un voto espresso da una nobildonna il cui figlio, a seguito delle preghiere della madre, era scampato ad un terribile naufragio. Il fatto viene raccontato da Mariano Foti ed illustrato da Giovanni Verga in una sua novella.

Si trattava di un vero piccolo santuario costruito su un altissimo scoglio di basalto a piombo sul mare. Vi troneggiava un busto lgneo di Cristo, tuttora esistente nella chiesuola, scolpito dal Canonico Vito Balsamo.

Più volte la chiesetta fu bersaglio dei pirati musulmani, senza mai essere abbattuta, e le sue fondamenta a livello del mare sono oggetto di varie leggende.

 

 

 

''Laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c'era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra s'accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell'abisso già nero, sprofondava una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.

Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti - nell'ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti - un prete sepolto da cent'anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò «la Camera del Prete».

 

immagine TAM - Fotogrammetria

 

Dal largo, verso Agnone, i naviganti s'additavano l'illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra riviera."

"Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l'argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l'enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall'incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell'argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e cancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete».

Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo."

 

da "Vagar bondaggio" di Giovanni Verga

 

Risultati immagini per ss. salvatore catania via dusmet

Per la sistemazione del porto, dovette essere eliminata e, nel 1851 ricostruita, pur ridotta in dimensione, per forte richiesta dei pescatori nella via Della Marina (Dusmet) e intercalata tra private abitazioni, con una dicitura sul frontespizio: "Salvator mundi". La chiesetta oggi è chiusa al culto. I pochi anziani, di successiva generazione che conoscono la storia per averla ascoltata dai nonni, spesso portando fiori, vanno in adorazione, per chiedere la salvezza degli uomini che affrontano i pericoli del mare.

Non esiste più l'altissimo scoglio con su la chiesetta nel suo originario sito in quanto lì vi è stata localizzata una stazioncina della Circum Etnea.

l'attuale chiesetta in Via Dusmet

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La chiesetta che si trova agli Archi della Marina è l'antica cappella di Sant'Agata alla marina. Che poi a fine '800 ha preso anche la titolarità del Salvator Mundi e nel '900 anche della Madonna di Portosalvo quando queste due chiese furono demolite. La chiesa di Santa Maria di porto salvo (che era stata costruita modificando una preesistente moschea), con relativo monastero, si trovavano alla civita. Dopo il 1693 venne ricostruita solo la chiesa col titolo di Santa Maria di porto salvo e San Tommaso apostolo. Negli anni 50 del 900 la chiesa venne demolita. Ne resta solo il ricordo nel nome della via ... via San Tommaso, per l'appunto.... nei pressi di Piazza Card. Pappalardo.

(Antonio Trovato)

 

In quest'anno 1887, la chiesetta era stata demolita da più di venti, per far posto alle opere del nuovo porto e al viadotto che lo costeggia, e dov'era essa, dov'era l'altissimo scoglio che scendeva a picco sul mare,, vi è oggi una larga spianata coperta di alti cumuli di carbone, con qualche baracca per coloro che vi lavorano, e la stazioncina della ferrovia che recinge l'Etna. Il Poeta la fece rivivere, e con essa il paesaggio ; un paesaggio così profondamente mutato ora, che se risorggessero i morti che non vi trovarono l'estrema pace a cui avevano diritto, giacche le loro povere ossa - quando la Chiesa fu demolita - vennero raccolte e portate al Camposanto ; esse se risorggessero, dico, con tutta la chiaroveggenza attribuita dalla nostra illusione alle anime dei trapassati, non lo riconoscerebbero.

Il Rasa Napoli nella sua "quida alle chiese di Catania"(edita nel 1900), sulla Chiesa di S. Agata alla marina o S. M.di Portosalvo scrive: sorge nelle via Dusmet( nei pressi della Dogana) col prospettino a sud fiancheggiata da fabbricati. È una edicoletta con un solo altarino ed un quadro on l'effige della Madonna di Donea. Fino a pochi decenni or sono vi si celebrava la messa tutte le domeniche e specialmente il 4 febbraio nella ricorrenza della festa della gloriosa vergine e martire Catanese S. Agata, ma ora è chiusa al culto.

Saverio Fiducia

 

l'inizio di Viale Libertà

La vecchia zona industriale delle Ciminiere di Catania. 

Una finestra sul Mediterraneo, ricca di storia.

L'area delle raffinerie di zolfo di Catania si estendeva per decine di ettari in prossimità della stazione e del porto, unico esempio nel Meridione d´Italia, di una vera e propria zona industriale. Cessata, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l´intensa attività degli opifici catanesi, e dopo un lungo periodo di abbandono, le generose ciminiere hanno ripreso ad essere testimoni e simbolo dello sviluppo economico,sociale e culturale dei nostri giorni.

Prezioso esempio di archeologia industriale reso fruibile grazie alla scelta di valorizzazione ambientale, voluta dalla amministrazione provinciale e all´accurata opera di recupero e ristrutturazione, coordinata dall´architetto catanese Giacomo Leone.

Oggi il Centro le Ciminiere rappresenta, con la sua memoria storica ed il suo suggestivo segno architettonico, un´ideale vetrina sul Mediterraneo e sul mondo per attività Prospettiva delle ciminiere espositive, fieristiche, congressuali, culturali e didattiche.
Comunicazione e cultura: un quartiere fieristico globale.

Le Ciminiere in Viale Africa

Punti di forza del Centro le Ciminiere sono la centralità della posizione geografica, rispetto al bacino del Mediterraneo ed ai mercati dell´Europa Meridionale, del Nord Africa e del vicino Oriente, ed il vasto ed articolato panorama di attività ed iniziative attuabili. Il Centro si estende su di una superficie di circa 25.000 metri quadrati,suddivisa in tre distinte aree (Fieristica, Espositiva, Congressuale) integrate e complementari.
Musei, convegni, spettacoli, luoghi di comunicazione e di incontro, teatri, sale per concerti, laboratori di addestramento professionale, esposizioni, fiere, corredati di servizi,sorvegliati e assistiti permanentemente.
Il Centro le Ciminiere mette a disposizione dei fruitori e del pubblico grandi spazi attrezzati e con un elevato standard qualitativo.
Raggiungibile in pochi minuti dal porto, dall´aeroporto, dalle autostrade e dalla tangenziale è servito da tutti i mezzi di trasporto pubblico.
Ogni area, come ogni edificio, è priva di barriere architettoniche

Il Centro culturale fieristico dell'Artigianato di viale Africa, conosciuto anche come Le Ciminiere, é uno degli esempi più avanzati di sperimentazione nell'ambito dell'architettura contemporanea in Sicilia. Autore del progetto è l'architetto Giacomo Leone.
Esso recupera parte della cittadella industriale, sorta all'inizio del secolo, che il PRG del 1964 prevedeva di demolire e che il Piano Particolareggiato prevedeva di adibire a grande autostazione. Il progetto unifica, senza soluzioni di continuità, antico e moderno. La lunga facciata sul viale è un continuum di preesistenze e integrazione, non celata quest'ultima, ma distinta con vigore. Ai conci di pietra lavica e ai mattoni viene opposto l'acciaio congiunto al vetro: l'acciaio, perchè permette di svincolare la struttura muraria preesistente dai solai intermedi e dalle coperture; il vetro, perchè lascia trasparire il ventre degli edifici. Paradosso progettuale è che le trasparenze rendono giustizia alle raffinerie, affermando la presenza e il potere di quelle memorie, mentre l'architettura nuova in alcuni tratti è stata volutamente stroncata al fine di renderla rudere, di sfregiarla come è avvenuto
www.cormorano.net

IL MUSEO DELLO SBARCO IN SICILIA NEL 1943 (complesso Le Ciminiere)

 

Prima di muoverci lungo via Crociferi, percorriamo idealmente via Vittorio Emanuele, da ponente a levante, dall'incrocio con via Plebiscito fino a piazza dei Martiri. Per storia, posizione, tracciato e architettura, si tratta di una delle strade più importanti della Catania settecentesca.
Come ho avuto modo di accennarvi, questa arteria, ideata dal duca di Camastra, si chiamò in origine strada del Corso perchè, durante i festeggiamenti agatini e anche in altre occasioni, vi si svolgevano le corse dei cavalli, con o senza fantino. Nella seconda metà dell'Ottocento, venne intitolata al re Vittorio Emanuele II; ma poteva ben essere intitolata a Giovambattista Vaccarini, poiché in questa strada si affacciano le opere più significative di questo geniale architetto.
Proviamo ad immaginarla com'era sul finire del Settecento, senza l'ingombrante presenza delle automobili, senza i pali della segnaletica, senza le ragnatele dei fili
elettrici, senza la bruttura di certe orribili insegne pubblicitarie. Proviamo ad immaginarla com'era in pieno Ottocento, nel fulgore della sua architettura incontaminata, immersa nei dolci silenzi notturni, o durante le solenni processioni religiose, piena di folla, strabocchevole di cavalli e di carrozze, con le dame, in
crinolina e parrucca, appoggiate alle panciute ringhiere dei balconi. Quale differenza con lo stato attuale!
Allora sì , l'arte del Vaccarini trovava spazio e poteva agevolmente imporsi all'ammirazione dei catanesi e dei forestieri. Qui, infatti, egli realizzò opere destinate a restare come l'esempio più rimarchevole del barocchetto catanese: il monastero e la chiesa di Sant'Agata, di cui abbiamo parlato, i palazzi Valle e Serravalle, l'atrio del collegio Cutelli, il palazzo Reburdone e, poco distante, la sua stessa casa, ne danno ampia testimonianza.
- Scusi professore, . . . - Dimmi, Donatella. - Gradirei conoscere il significato dell'espressione « barocchetto catanese ».
- Ma certamente, cara. Catania settecentesca, si mostra in architettura attraverso il barocco delle chiese e dei palazzi; con lo sfoggio dei bugnati, dei frontali ricchi di frastagli, di volute, di mascheroni; con le grate panciute dei balconi; insomma, con un'architettura sfarzosa e, per molti aspetti, singolare. Ora, voi mi chiederete cos'è il barocco. In architettura (a noi interessa questo settore), è uno stile che prevalse nel Seicento, e si caratterizzò per le sue forme curvilinee, i disegni elaborati, le decorazioni complicate, gli effetti prospettici ricchi di chiaroscuri. Poi degenerò nel cattivo gusto; divenne artificioso, ampolloso, esagerato.
Non lasciatevi impressionare da certe parole ostiche; bisogna prendere confidenza anche con le parole che non ricorrono nella parlata di tutti i giorni. Il vocabolario c'è per questo, e bisogna farne buon uso. Dicevo, dunque, non lasciatevi impressionare dalle parole difficili, e seguitemi nella logica del discorso. Voi avete l'idea di che cosa voglia dire esser semplici? voi sapete cos'è la semplicità? Certamente, sì . Esser semplici significa lineari, credibili, naturali, essenziali, veri, spontanei. Ebbene, il barocco fu l'opposto della semplicità, divenne, anzi, sinonimo di tutto ciò che appare complicato, pesante, tronfio, aggrovigliato (non soltanto in architettura). Ma - potreste osservare - se così è, il barocco non serve, è da buttare! No. Il barocco catanese non arriva agli accessi testé elencati.
Resta entro i limiti della misura, tanto che alcuni autorevoli studiosi lo hanno definito « classico fiammeggiante ». Il barocco del Vaccarini, in particolare, sobrio e fastoso al tempo stesso, ricco di slanci ma privo di complicate strutture, pulito, leggero come non se ne vede altrove, ha tutti i requisiti per rappresentare il «barocchetto catanese».

Via Vittorio Emanuele sfoggia questa splendida cornice, soprattutto nella parte bassa, da piazza Duomo al piano della Statua (poi ribattezzato piazza dei Martiri, perché nel 1837 vi furono fucilati - ad opera dei Borboni, alla cui tirannide si erano ribellati - otto patrioti catanesi). Ma, essendo andati a finire al piano della Statua, conviene indugiare un po’ in quei paraggi, osservare i lati più interessanti di quest'angolo della vecchia città. E vediamo perché, in origine, si chiamò piano della Statua. Premesso che, nel Settecento, la parola piano veniva usata per indicare una piazza, resta da conoscere la radice del toponimo.
- È facile, professore. Si chiamò piano della Statua perché c'è la statua al centro della piazza.
- Bravo, Fabio. Dato che ci sei, dicci di quale statua si tratta. - Della statua di Sant'Agata!
- Due volte bravo. Si tratta proprio della statua di Sant'Agata.

Lucio Sciacca - “La città” da Katana a Catania le lunghe radici - Cavallotto Edizioni - Anno 1980
http://www.cataniaperte.com

 

 

 

 

 

 

PIAZZA DEI MARTIRI 

Alla fine della via Dusmet si incontra piazza della Statua (prima individuata come "chiana da  fucca", perché vi venivano giustiziati a mezzo della forca i condannati a morte), dopo chiamata dei Martiri, perché, nel periodo borbonico vi vennero fucilati patrioti per l'Unità d'ItaIia. Proseguendo sulla via VI Aprile a sinistra si incontra la chiesa parrocchiale del Santissimo Sacramento Ritrovato e sulla destra il parterre (chiamato dai catanesi Passiaturi), realizzato per offrire ai cittadini I'illusione della vista di un sottratto paesaggjo marino, che resta lontano ed inaccessibile ed, appena prima della Stazione ferroviaria, la fontana del Ratto di Proserpina dello Scultore Giulio Moschetto.

La statua di S. Agata che calpesta un dragone, simbolo della peste, posta in cima ad una monolitica colonna di granito, proveniente dal nostro anfiteatro romano, venne edificata a seguito di una epidemia colerica che si era manifestata nella zona del Messinese, per cui i catanesi terrorizzati si rivolsero con fiducia alla loro Patrona S. Agata al fine di non esserne contagiati, promettendo il voto di innalzarle un monumento presso la marina della Civita, provenendo il pericolo del contagio dal mare. Per cui,  quando il pericolo fu scongiurato, dopo un Te Deum di ringraziamento, il 5 febbraio del 1774 venne eretto l'artistico marmoreo monumento votivo nella piazza.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009 

 

 

IL PIANO DELLA STATUA

Il Duca di Camastra, giunto a Catania nel pomeriggio del 12 febbraio 1693, esattamente un mese e un giorno dopo l'evento fatale, si trovò dinanzi ad un paesaggio allucinante: la città distrutta, migliaia di persone senza tetto, senza pane, senza speranza.
Dotato di polso ferreo e di ferrea volontà, munito dei pieni poteri conferitigli da Uzeda, il coraggioso magistrato, a cui non mancavano idee in fatto di urbanistica, si rimboccò le maniche e si mise subito a lavorare.
Per bonificare l'ambiente cominciò col togliere di mezzo due grossi ostacoli: i ladri che rovistavano ancora fra le macerie e i fabbricati pericolanti che minacciavano d'intralciare l'attuazione del suo piano regolatore. I ladri colti sul fatto furono impiccati e i fabbricati fatiscenti demoliti (a proposito di questi ultimi, scaturì poi il detto popolare: Ciò che il terremoto risparmiò, Camastra distrusse).
Trovatosi a dover operare sulla tabula rasa che gli si stendeva davanti, appuntò l'asta del suo ideale compasso nel centro dell'ex platea magna, (dove a tamburo battente sarebbero stati ricostruiti la Cattedrale, il Seminario e il Palazzo Senatorio) e da quel punto nevralgico tracciò con mano sicura quattro lunghe linee rette fra di esse ortogonali, le quattro strade costituenti la spina dorsale sulla quale, mese dopo l'altro, si formerà il tessuto connettivo della ricostruenda città.
L'odierno nostro itinerario ci porta a considerare il coronamento di una di queste strade, di quella che, tagliando la città alla base, da ponente a levante, si sarebbe poi conclusa verso il mare nel piano della Statua (oggi piazza dei Martiri).
Conviene annotare, in primo luogo, che al tempo del Camastra la strada s'interrompeva all'altezza di piazza Cutelli, e lì si fermava.
Nel giro dei successivi cinquant'anni, alcune cose cambiarono in quella zona.
Il tracciato viario fu prolungato fino al mare; nuove costruzioni si elevarono ai limiti dello spiazzale (tra queste, notevole il palazzo Reburbone, poi Gravina); il quartiere della Civita si dilatò a levante, scavalcando la porta di Ferro e il convento di San Francesco di Paola; lo spiazzale stesso venne ingrandito, così da poter degnamente accogliere una marmorea statua di Sant'Agata che i catanesi vollero, in quello scorcio di secolo, per saldare un debito di gratitudine con la loro Protettrice.

I fatti che determinarono l'atto di omaggio sono noti. Li riassumiamo in breve.

Nel 1743 la peste infierì nella città di Messina seminando, per cinque lunghissimi mesi, morte e desolazione fra quella gente. I catanesi, provati da non troppo remote sventure, paventarono il contagio, tanto più che il morbo s'era preannunciato anche a Siracusa.
Presi fra due fuochi, cosa potevano fare per uscirne illesi? Tapparsi in casa o fuggire? Affidarsi alla cintura sanitaria imposta dal regio governo? No. Una sola cosa c'era, piuttosto, da fare: rivolgersi a Sant'Agata. A Sant'Agata si rivolsero; e Sant'Agata li salvò dalla peste.

Riconoscenti per lo scampato pericolo, vollero un monumento che, onorando la Santa, ricordasse ai posteri il memorabile evento. Così, nel 1744, la statua (che rappresenta Agata nell'atto di calpestare l'idra velenosa della pestilenza, ed è opera del palermitano Michele Orlando) scolpita in marmo di Carrara, venne alzata sulla sommità d'una colonna romana proveniente dall'Anfiteatro, e collocata nel centro dello spiazzo che, da quel momento, fu chiamato piano della Statua.


Malgrado così nobile decorazione, nonostante l'impegno svolto dal patrizio Giovanni Rosso di Cerami (cui si devono l'ingrandimento della città e il primo progetto d'una passeggiata a mare in quella zona), malgrado il fervore religioso e le buone intenzioni del Decurionato, il piano della Statua per molti anni non fu che una polverosa spianata con la superba veduta dell'Etna sullo sfondo libero di tramontana, e nient'altro.
Nel 1806, un grosso avvenimento lo toccò da vicino.
Un ospite illustre prese alloggio nel palazzo del principe Reburdone: Ferdinando IV, terzo re di Sicilia.
Dalle cronache del tempo risulta che, nei quattro giorni trascorsi .a Catania, il re non si stancò di ammirare le bellezze della città, delle sue strade, delle sue piazze. In particolarè egli elogiò la imponente strada dritta dal Borgo a piazza Duomo; la strada Ferdinanda, coronata a occidente dalla Porta dell'Ittar; la strada del Corso, riccamente addobbata.
Del piano della Statua nemmeno un cenno. Come mai? Possibile che l'augusto ospite, che pure dormiva accanto, guardando il mare non lo avesse notato? O si trattò di presagio di futuri eventi?
Sta di fatto che trentuno anni dopo l'avvenimento ricordato, i patrioti catanesi che si erano ribellati alla tirannide borbonica furono in quel luogo fucilati.
"Là, suIl'ararida spiaggia, in quella piazza che doveva poi ricordare ai posteri il loro martirio, volto il viso verso l'immensa distesa del mare, i loro occhi fissarono per l'ultima volta l'azzurro del cielo ... ".
Cosi, in faccia al cielo settembrino, ai piedi di Agata, morirono Barbagallo Pittà e gli altri i cui nomi scolpiti in prosieguo di tempo nel marmo d'una lapide, furono cementati - guarda caso - su una parete di quel palazzo che aveva ospitato il terzo re di Sicilia.
Ribattezzata piazza dei Martiri e tuttavia trascurata dalle civiche amministrazioni succedutesi nell'ultimo Ottocento, essa servì soprattutto ai pescatori della vicina Civita che vi trovarono sole e spazio per stendere e asciugare le loro reti.

 

Poi, qualcuno prese a cuore le sorti di questa trascurata piazza, cosi vicina al mare alla stazione ferroviaria al porto; una piazza decorata da una colonna romana, dalla Statua per antonomasia, dal sangue dei martiri del 1837; una pIazza spazIosa, invitante, di felice squadratura.
Bitumato il fondo, sistemata la base della colonna, piantati tutt'intorno una collana di palmizi, costruiti dei sedili, delle aiuole e persino un grande albergo, essa si abbellì per la prima volta dopo un secolo e mezzo di abbandono.

E tuttavia, la toeletta non poteva dirsi completa. Le mancava l'ornamento più necessario e prestigioso: la passeggiata a mare.
Era l'inizio del ventesimo secolo. Giuseppe De Felice, pro-sindaco del tempo, trovò modo di occuparsi anche del piano della Statua.
Superate non poche difficoltà (remore di carattere finanziario, resistenze di privati, ostilità di politici), egli potè realizzare l'ambìta opera la quale, col passare del tempo, rivelò i suoi limiti.

 

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Una parte del film è ambientata e girata a Catania. Fefè infatti ha voglia di rivedere Angela e deve fare un acquisto importante, così, dopo la prima scena che mostra una panoramica su piazza Duomo, con la fontana dell’Elefante, ritroviamo il barone al tavolino di un bar del porto di Ognina mentre immagina il suo delitto e offre del vino ad un avvocato.

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L'espandersi dei vicini binari della ferrovia andò sempre più allontanandola dal mare; e i catanesi, che non avevano mai dimostrato inclinazione per quel passeggio, non seppero fare di meglio che voltarle le spalle.
La mai abbastanza compianta Carmelina Naselli scriveva agli inizi degli anni Trenta: " ... io dico che di passeggiate i catanesi ne facciamo ancora molte, e tuttavia disertiamo volentieri l'ampia terrazza della piazza dei Martiri la quale, a parte ogni altra considerazione, così alta com'è e isolata dal traffico, rimane uno dei posti più tranquilli e suggestivi ...

Davanti, a perdita d'occhio, le acque più azzurre, dopo quelle di Capri, che offrano i mari d'Italia; a sinistra la selvaggia bellezza della scogliera prolungantesi lontano, più oltre Acitrezza; a destra la dorata distesa della Plaja; alle spalle l'Etna, maestosa nel cobalto del cielo, elemento di bellezza, di ricchezza, se pur anche di timori ... " .
Verissimo. Ma, a dispetto di tutto questo, la bella terrazza fu smaccatamente snobbata dai catanesi. Questione di fortuna; di quella fortuna che la piazza non aveva avuto, evidentemente.

 

da Catania com'era, di Lucio Sciacca - Vito Cavallotto Editore

 

E se la via Etnea costituì l'avamposto dì una vita culturalmente, socialmente e politicamente nuova oltre che per la presenza dell'Ateneo, per i numerosi locali letterari che offriva, la Civita rappresentò durante e dopo la ricostruzione, il quartiere residenziale più illustre, comprovato dalle residenze di prestigiosi Cittadini e dai numerosi locali teatrali che essa ha ospitato. A quel tempo teatri, circoli e riviste periodiche erano le uniche vie percorribili dalle attività culturali e ricreative di quella società.

Anche se all'inizio i ritrovi da intrattenimento erano esclusivi, i cui locali venivano ricavati adattando parti delle stesse residenze nobiliari, restando i ceti sociali rigorosamente distinti.

Per poter aumentare il numero degli invitati si arrìvò così a costruire veri e propri teatri. Successivamente vennero realizzati teatri privati ad uso pubblico, seppur con settori dì distìnzione sociale diversificata che, sempre di meno venivano rispettati.

È noto come fin dalle orìgini I'uomo, per farsi comprendere, si è aiutato con gesti ed espressioni facciali. Sappiamo che nell'epoca rupestre egli, non possedendo una scrittura, per trasmettere i suoi messaggi sostituiva ad essa rudimentali disegni (disegni rupestri).

lmmagini che, quando l'espressione parlata venne praticata mediante scrittura, non vennero eliminati, bensì perfezionati. Infatti il disegno, la pittura, Ia scultura continuarono ad avere una funzione determinante a sostegno di una migliore comprensibilità come mezzo di comunicazione del pensiero. Sempre di più, agli ascoltatorì, l'esposizione di un avvenimento vero o immaginario, veniva affiancata oltre che ad un espressione faccìale e gestuale, ad una o più immagini, ottenendo risultati esaustivi al fine di una loro comprensione.

Man mano che la gestualità, la vocalità, la varietà della vestitura, a supporto di uno spettacolo, vennero associati rappresentarono preziosi complementi di arte e di cultura. Tali iniziative, poi trasformate in spettacolo vero e proprio, ebbero un ruolo culturale ed istituzionale a sostegno di principi morali. Quando questi spettacoli diventarono volgari o addirittura licenziosi, vennero relegati a spettacoli della plebe, oltre che proibiti. Seppur disprezzati ufficialmente dalle élite colte, restavano gradìti al popolino; ma capitava che, riservatamente, venissero organizzate all'interno di periferici edifici nobiliari.

 

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

ENTRIAMO  NEL CUORE DELLA CIVITA

 

L'AVVURU ROSSU (grande platano) Era anche il nome del quartiere in cui si trovava il palazzo arcivescovile. Sotto l'albero, la statua di Ferdinando I di Borbone.

Alta più di tre metri, mostra il sovrano con un ampio mantello rifinito sul retro da fiordalisi (abito cerimoniale di Gran Maestro dell’Ordine di San Gennaro).

La statua venne eretta il 12 gennaio 1853, e posta originariamente nel Largo San Francesco, nel centro storico di Catania. Nel 1860, quando le truppe garibaldine invasero l’isola, la statua del sovrano venne letteralmente decapitata, azione che denota il fanatismo antiborbonico legato agli eventi rivoluzionari. La testa non fu mai più trovata, mentre la statua fu conservata per un secolo nei magazzini municipali (che all’epoca si trovavano nell’ex monastero dei Benedettini) e ricollocata di fronte alla facciata est di Palazzo Biscari nel 1964.

http://www.vivict.it/luoghi-e-monumenti/le-tre-statue-borboniche/

 

Oltrepassando la cittadella Vescovile lungo la via Cardinale Dusmet troviamo l'arvulu rossu, all'angolo della via Porticello che porta nella piazzetta S. Placjdo (ex porto Saraceno o porticello, dove inizalmente sfociava l'Amenano).

Qui si incontra la Chiesa di San Placido in tututto con Casa Platamone che, attraverso le vie Vittorio Emanuele e Biscari, collegate dalla via Landolina, riporta nella piazzetta che prende il nome della chiesa.

Dal lato nord, percorrendo la via Vecchia Dogana ritroviamo in via Vecchio Bastione l'antico teatro Coppola al fianco di quanto rimane dell'ex Collegio Stesicoro a seguito dei bombardamenti dell'ultimo conflitto bellico

Superando il complesso Biscari a sinistra si accede nella piazza Duca di Genova e quindi nella piazza Bellini, con il suo Teatro Massimo a sud ed il Palazzo dell'lntendenza di Finanza a nord, sul sito dove sorgeva l'Abbazia di Nuovaluce, ed era in previsione la costruzione di un grande teatro cittadino.

 

 

 

 

 

IL OUARTIERE PRIMOGENITO

Anche se sono state riscontrate tracce di un insediamento umano su una delle alture, tra le tante che oggi fanno parte della città, Ii ubicata, per meglio difendersi da gruppi ostili trovasi, non lontano dall'attuale porto, Ia Civita, quartiere storicamente più importante di Catania.

Viene riportato che un tempo esso dovette essere una cittadina, tanto che molti popoli mediterranei, al tempo dei normanni, per Civita intendevano indicare l'intera città.

Su indicazioni che provengono da testimonianze storiche, si è certi che la Civita è stato il vero primo nucleo abitato dai catanesi. Sorto in riva al mare punti di riferimento sono: il Porto, la Platea Magna e la Marina.

Essi in sinergia hanno favorito le attività pubbliche e private dei vari insediamenti umani che nel tempo si sono succeduti.

Fin dall'epoca preistorica, il territorio del quartiere è stato interessato dalle colate laviche dell'Armisi che, raggiunto il mare, hanno disegnato l'andamento dell'attuale bagnasciuga.

 

Genericamente viene indicata Civita il quartiere che, dal lato mare, inizia dalla villetta Pacini, segue la costa tra la piazza Duomo e la piazza dei Martiri, prolungandosi per la via VI Aprile fino nei pressi della Stazione Ferroviaria; dal lato monte comprende parte del territorio lungo la via Di Sangiuliano, a partire dalla via Coppola, fino ad incrociarsi con la stessa via VI Aprile all'altezza della Stazione, al confìne tra i quartieri di S. Berillo da una parte e dello Spirito Santo dall'altra; seppur vengono considerate "Civitote" altre aree circostanti.

La parte est della via Vittorio Emanuele, tra le vie Cardinale Dusmet e Di Sangiuliano, rappresenta la centralità del quartiere.

E, se per i normanni con la Civita veniva indicata l'intera città, per gli antichi catanesi  il quartiere andava.. d'ò Signuri asciutu all'arvumare e delle attività religiose che, di epoca in epoca, si svolgevano nella Platea Magna, sono state una componente importante per la formazione del quartiere prima e della città successivamente.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

Il percorso di oggi ci ha fatto riscoprire il piacere di passeggiare attraverso i vicoli del più antico quartiere della nostra città, per ritrovare in esso gioielli architettonici come la casa di Giovan Battista Vaccarini – il principale protagonista della rinascita barocca della città dopo il disastro del 1693 – e luoghi carichi di storia, come la piazza XVII Agosto, con le sue pesanti memorie legate ai bombardamenti del 1941 ma anche e soprattutto testimonianza della capacità di rialzarsi che Catania ha sempre dimostrato nei momenti più difficili della sua storia.
Qui fra vicoli, cortili e case terrane ancora oggi è facile trovare anziani pescatori seduti a cucire le reti, aiutati dai nipoti in una importantissima continuità nella trasmissione dei valori, delle tradizioni e dei mestieri che da millenni caratterizzano questa zona della città.
Le stesse scene avremmo potuto infatti ritrovarle anche nel Medioevo, quando attorno alla nuova Cattedrale normanna nasce la Civitas, sebbene allora il quartiere si presentasse molto diverso rispetto ad oggi. La principale differenza, che salta agli occhi guardando le antiche carte, era la presenza della possente cinta muraria.

La tradizione, la topografia e la toponomastica, estremi baluardi di una memoria storica sempre più labile, raccontano ancora di quel tempo – nemmeno troppo lontano – in cui l’orizzonte della città era chiuso entro un limite sicuro e invalicabile. Di questo sono pochi i catanesi ad aver coscienza, sebbene in migliaia ogni anno il 4 febbraio, nel “giro esterno” di Sant’Agata, seguano inconsciamente quell’antico tracciato che, seppur con modifiche e adattamenti, rimase pressoché invariato dall’ XI al XVIII secolo.
All’alba del Cinquecento Catania si presentava ancora cinta dalle antiche fortificazioni normanne, segnate da piccole torri a pianta quadrata, e con la zona della marina che – dicono le fonti – versava in condizioni pessime, spesso impaludata dalle piene dell’Amenano ed esposta a venti e mareggiate.
Ma dal 1541 iniziarono grandi lavori che cambiarono il volto della città, seppure portati avanti lentamente e conclusi soltanto pochi anni prima che la lava del 1669 e il terremoto del 1693 spazzassero nuovamente tutto via.

 


 

Primo, fondamentale oggetto di restauro, furono le fortificazioni che urgeva adeguare alle nuove tecniche di assedio, su progetto di Antonio Ferramolino da Bergamo. Iniziati a rilento, i lavori ebbero un’accelerazione a partire dal 1551, per impulso del viceré Juan De Vega e del pressante pericolo turco, e avanzarono tenendo conto delle priorità, poiché i fondi – provenienti da un’autotassazione dei cittadini – erano limitati.
In questo senso si spiega la maggiore attenzione che fu rivolta al fronte mare, il più esposto agli attacchi, che venne totalmente rifatto e protetto da una spessa cortina muraria, rafforzata dai nuovi bastioni di San Giorgio e Santa Croce attorno al Castello Ursino, don Perrucchio (nella zona dell’attuale via Vecchio Bastione prendeva nome da don Perrucchio Gioeni personaggio di spicco dell’aristocrazia catanese del tempo, che aveva il compito di curarne la manutenzione) e il Bastione Grande nella zona dell’attuale piazza dei Martiri, detto anche San Salvatore dal nome della vicina chiesetta in cui era conservato il mezzobusto ligneo di Cristo veneratissimo dai pescatori (dopo la demolizione della vecchia chiesa per far posto alla linea ferrata, oggi è conservato nella cappella di Via Dusmet).

Tali interventi nel 1620 furono completati su iniziativa di don Francesco Lanario, Duca di Carpignano, Soprintendente generale alle Fortificazioni. Egli, oltre al miglioramento funzionale delle difese, curò la nuova sistemazione della marina che, da sito pericoloso e malsano, divenne luogo di delizie e di piacevoli passeggiate, con panchine e palchetti per la musica.

 


Questa nuova strada, ribattezzata Via Lanaria in onore del Duca, seguiva l’andamento dell’attuale via Dusmet, era pavimentata – cosa straordinaria per l’epoca – ed arricchita da tre monumentali fontane nelle quali era stata incanalata l’acqua dell’Amenano: la prima era la biviratura magna sotto la cortina di Gammazita, la seconda la grande Fontana dei 36 Canali vicino alla porta omonima che ancora oggi si può ammirare alla Pescheria, e la terza la Fontana di sant’Agata realizzata sul luogo in cui secondo la tradizione i catanesi salutarono fra le lacrime le reliquie della martire trafugate nel 1040 dal generale bizantino Giorgio Maniace. Quest’ultima fontana è l’unico ricordo che resta di quel sito di delizie, cancellato dalla furia della lava del 1669 che cambiò totalmente al morfologia di questa zona della città.
Altro fu invece il destino delle mura, che resistettero bene alle calamità naturali che alla fine del ‘600 si abbatterono sulla città, ma non ad un nuovo modello di sviluppo urbano proiettato all’espansione sul territorio, che dalla metà del XVIII secolo portò a sacrificare gli antichi imponenti bastioni sull’altare dell’apertura dei nuovi assi viari.
Ma sotto il moderno assetto urbanistico, si può ancora seguire il tracciato della possente cinta muraria fatta per resistere agli attacchi del temibile pirata Dragut. Essa è ancora parte della memoria storica della città. Non perdiamola.
MATILDE RUSSO
http://cataniagiovani.wordpress.com/2011/01/09/catania-il-volto-dimenticato-della-citta%E2%80%99/

 

 

 


 

A colori e in bianco e nero. 

A colori come il mare e il cielo di Catania ma anche come quello dei suoi palazzi: il bianco del tufo e il nero della pietra lavica. E nella città vecchia di questi palazzi ce ne sono parecchi.

E poi, consentitemelo, mi sono voluto un po' divertire a pennellare questo spazio fotografico dedicato allo splendido quartiere della Civita ovvero l'antica Catania all'interno della quale, vicino ai rioni popolari - architettonicamente non meno validi di quelli più blasonati che li circondano -, furono ricostruiti i sontuosi palazzi dell'aristocrazia catanese ad opera dei migliori architetti del tempo dopo il terremoto del 1693.

Una ricostruzione che non avvenne solo alla Civita, e gli esempi sono a tutti noti: anzi Noto, Acireale, Militello Val di Catania, Vizzini, Modica, Ragusa, tutta la zona di Via Crociferi, Piazza Duomo e parte del centro storico di Catania.  Fu, soprattutto, l'occasione per mettere in opera l'estro e la fantasia di quegli architetti (possiamo chiamarli artisti?) fra i quali spiccarono Ittar, Battaglia e Vaccarini, fautori del forte sviluppo dell'arte barocca in Sicilia orientale.

Ma non solo quello, perchè tutta la parte bassa di Via Vittorio Emanuele (quella che da Piazza San Placido porta fino in Piazza dei Martiri e quindi al mare) è stata creata grazie alla costruzione, fino alla fine dell'Ottocento, di bellissimi e nobili palazzi che molti catanesi sconoscono. A volte basterebbe sollevare solo un po' il nostro naso per renderci conto di quello che abbiamo sopra le nostre teste. Questa è roba nostra, alla nostra portata; è in attesa di farci vedere i suoi terrazzi, i saloni, le stanze, la sua storia ..... e le occasioni sono tante, basta solo informarsi. Purtroppo i nostri sguardi rimangono calati in basso perchè al piano-terra di questi edifici c'è il ristorante dove cucinano un kebab eccezionale o perchè al Circolo culturale di fronte suona chissà chi.

Incastonato fra il centro storico e il porto, questo quartiere è un gioiello che va invece salvaguardato perchè è il biglietto di benvenuto per chi entra a Catania da ovest passando attraverso quegli archi bianchi e neri che la separano dal mare. Quel mare arretrato artificialmente tanto tempo fa e che una volta lambiva addirittura le mura della città, appunto la Civita.

 

 

 

 

 

 

LA STORIA URBANISTICA DEL QUARTIERE

Nel successivo periodo medievale, il quartiere fu interessato da una ristrutturazione per la realizzazione di isolati circondati da strade larghe e piazze che avvenne a cominciare dal mare. E si presume essere il periodo in cui gli ebrei, integrati vi abitarono, occupandosi di artigianato, commercio ed anch'essi della commercializzazione della seta siciliana tra le più richieste in tutta Europa ed anche in Asia, tanto da creare, per funzionalità e garanzia commerciale sulla qualità della merce, i cosiddetti "consolati della seta", per cui nella città esiste una via chiamata Consolato della Seta.

Quando l'11 gennaio del 1693 si verificò il terribile evento sismico, Ia città cinquecentesca murata lamentò tante vittime che ridusse di due terzi la popolazione di allora; ne restarono pochi di catanesi che si aggiravano tristemente tra le macerie di quanto era rimasto.

Nella fase di ricostruzione della città, con la scelta del fronte mare vicino al porto e la conferma dell'area del vecchio sito, ripartendo dalla storica Platea Magna collegata al porto ed il recupero della Cattedrale non completamente distrutta, la Civita venne confermata residenza del ceto abbiente e nobile. Previsioni urbanistiche principali che, comprendendo il lungomare, si orientavano a nord verso il vulcano Etna e ad ovest verso l'altopiano di Montevergine, con possibìlità di espansione lungo l'ovest di via Garibaldi.

Sgombrate le macerie, vennero disegnati ampi isolati, edificati magnifici edifici residenziali della nobiltà del tempo, pur frammisti a numerose zone interne di modeste abitazioni tra viuzze e cortiletti. Per le fondazioni di grandi realizzazioni edificatorie, si utilizzarono tratti di mura di fortificazione e baluardi (città Vescovile, palazzo Biscari, Collegio Cutelli, Teatro Bellini, Casa Vaccarini).

Il Piano di S. Agata, dove venivano localizzati il potere religioso, politico, commerciale ed amministrativo, avrebbe continuato a svolgere il ruolo di guida centrale della nuova città. Considerate, dalla apposita commissione speciale costituita, quelle aree del quartiere di "posizione ambientale pregiata", venne stabilito per esse, un prezzo triplo rispetto alle altre; in verità, in modo tale che restasse zona residenziale riservata ad aristocratici, ricchi e potentati.

Certamente nel processo di ricostruzione, insieme alla via Etnea, la Civita rappresentò una importante componente della risorgente città, la cui gran parte delle costruzioni barocche lungo le vie principali, hanno dato lustro all'intera città, tali da risultare determinanti, per essere il Centro Storico catanese, riconosciuto dall'Unesco patrimonio dell'umanità da tutelare.

Fra le più apprezzate costruzioni della Civita vanno citate quella dei Biscari, Valle, Boccadifuoco, Rapisardi di S. Antonio, Platamone, Bonajuto, Reburdone, Polino Alfano, Serravalle, Vaccarini oltre la cittadella Arcivescovile, la Chiesa della Badia di S. Agata, il Convento di S. Caterina (oggi Archivio storico), il Collegio Cutelli, la Chiesa di S. Placido.

Non c'è dubbio che il ruolo trainante della Civita è stato, in tutte le epoche, determinante perché numerose iniziative, che avevano origine dagli illustri cittadini della avita, si discutevano e si decidevano nelle sedi istituzionali della piazza grande della città: la Platea Magna, Biscari, Platamone, Cutelli, Vaccarini, Alonzo Di Benedetto, S. Alfano, Di Sangiuliano, Manganelli, Gioeni, Carcaci, Casalotto, Cilestri, Paternò Castello, anche se non tutti risiedevano da quelle parti, lì si concentravano e decidevano gli interessi della città.

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1867 I'Amministrazione Casalotto costituì l'Ufficio Tecnico Comunale e, nel 1879, per concorso pubblico, assunse gli ingegneri Filadelfio Fichera e Bernardo Gentile Cusa. Quest'ultimo ebbe l'incarico di studiare il risanamento urbanistico di alcuni quartieri della città e tra questi quello della Civita. Gentile Cusa , fra l'altro, lungo la via della Marina (oggi Cardinale Dusmet) propose, seguendo lo schema "camastriano", la ristrutturazione della zona a sud della piazza Cutelli, precedentemente abitata dagli arabi, prevedendo alcune nuove vie "larghe ed ortogonali fra di loro". Le via Calì, Porta di Ferro, S. Gaetano, Partenope e Cristoforo Colombo, in modo da eliminare un aggrovigliamento di viuzze e vicoli di percorso mistilineo, ed all'interno di tali nuove vie realizzare la vasta piazza Rattazzi che. formando due grandi monoblocchi rettangolari, avrebbe collegato la via S. Gaetano con la via Porta di Ferro e la piazza Cutelli. La via Partenope, così pure la piazza Rattazzi, non vennero realizzate e neanche quella parte di via Cristoforo Colombo in sostituzione della via Vecchio Bastione.

Subito dopo la costituzione dell'Ufficio Tecnico Comunale, vennero studiate varie proposte di risanamento dei quartieri in degrado. Per quanto riguarda la Civita riscontriamo lo studio urbanistico di un quartiere destinato ad essere abitato anche dalla gente di mare. Era stata infatti prevista, sul lato mare, una sistemazione con tale obietto nell'allora contrada di  S. Francesco Di Paola. Così pure per il Largo della Statua veniva programmata una ristrutturazione urbana, tra la fine della via quattro Cantoni (Di Sangiuliano) ed il collegamento viario con il Largo della Statua, in cui si prevedeva un vasto giardino ed una via indirizzata verso Ognina, più larga dell'attuale via VI Aprile Mentre dal Gentile, che fu il primo professionista dell'Ufficio tecnico a guardare il problema urbanistico di Catania, sia nella direzione del risanamento che delle previsioni di ampliamento, viene riportata un'ipotesi dì risanamento della parte degradata che va dalla Piazza Cutelli fino alla via della Marina, iniziatasi ma non conclusasi.

Nella zona Porto della Civita il Gentile Cusa, che aveva studiato tante ipotesi per risanare quella parte di quartiere, lamentava che, malgrado la vecchia avita fosse stata "sventrata dalle tre grandi vie S. Gaetano, Porta di Ferro e Cali, proseguendo su questa scelta urbanistica, il risultato non sarebbe stato pienamente raggiunto. Il marcio ed il luridume sarebbe rimasto, bisognava pertanto non soltanto sventrare caseggiati per aprire strade e piazze, ma continuare la distruzione del caseggiato insalubre fin a raggiungere lo scopo completo". Diceva bene ma I'Amministrazione non aveva i mezzi sufficienti per operare in tal senso.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

 

 

 

 

E' uno dei più antichi palazzi della città, preziosa testimonianza di barocco siciliano. I suoi saloni affrescati mantengono ancor oggi intatti fascino ed eleganza, ponendosi come splendido scenario per occasioni importanti quali concerti, meeting, ricevimenti, serate di gala, sfilate di moda e altro.  Palazzo Biscari è nel cuore della città, nelle sue immediate vicinanze si trovano tutti gli altri tesori di Catania storica 

 

 

 

 

All'interno, si trova il "salone delle feste", di stile rococò dalla complessa decorazione fatta di specchi stucchi e affreschi dipinti da Matteo Desiderato e Sebastiano Lo Monaco. Il cupolino centrale era usato come alloggiamento dell'orchestra, ed è coperto da un affresco raffigurante la gloria della famiglia Paternò Castello di Biscari.

 

Palazzo Biscari, il più sontuoso edificio privato di Catania, rappresenta un caso unico, per la struttura, la pianta e le decorazioni. Dopo il terremoto che nel 1693 distrusse quasi interamente la città, Ignazio Paternò Castello III Principe di Biscari ottenne dal Luogotenente Generale Giuseppe Lanza, Duca di Camastra, artefice della ricostruzione catanese, il permesso di edificare il nuovo palazzo sul terrapieno delle mura cinquecentesche di Carlo V. Ignazio muore nel 1700, il figlio Vincenzo, IV principe di Biscari, inizia lavori organici e continuativi che dureranno più di un secolo e a cui parteciperanno i più grandi architetti catanesi dell'epoca: Alonzo di Benedetto, Girolamo Palazzotto, Francesco Battaglia e suo figlio Antonino.
All'inizio del Settecento l'edificio si presentava come un vasto trapezio, accentrato sul grande cortile a cui si aveva accesso attraverso un portale riccamente ornato e sormontato dallo stemma con i quattro quarti di nobiltà. Nei primi decenni del secolo Antonino Amato completò la decorazione della facciata alla marina.

 

 

Per chi allora arrivava dal mare, l'incontro con il palazzo offriva, grazie al totale dispiegarsi del paramento decorativo, la snella visione dei balconi e delle lesene con decorazioni a fiori, putti e telamoni che emergevano dal fondo nero della base lavica. E' il trionfo non solamente di un gusto e di uno stile, ma anche delle capacità tecniche degli intagliatori e dei decoratori che si erano formati nel grande cantiere della Catania del XVIII sec.
La terrazza si prolunga in una linea ideale, la stessa che collega l'ultima parte del Palazzo Episcopale e che doveva far parte di quel "Teatro alla Marina" a cui pensavano i nobili e il senato catanese alla fine del dodicesimo secolo.
Guardando il palazzo dal mare si distingue la parte verso est, più austera e maestosa, realizzata dopo il 1750, caratterizzata dal gioco di colonne e dai profondi balconi. Qui Battaglia discosta senza boria la sua opera dalla decorazione degli Amato, accanto ai quali aveva svolto la sua attività giovanile. L'ariosa galleria, pacatamente ripartita tra larghi binati di semicolonne, s'imposta sul cordone delle mura, distendendo piane superfici e fusti levigati: strutture limpide, articolate in funzione del ritmo e del paesaggio. Senza forzare verso una fredda compostezza formale, Francesco Battaglia mostra la genuinità, se non il vigore, delle sue inclinazioni classicistiche.
Il palazzo raggiunse il massimo splendore con l'intervento di Ignazio V Principe di Biscari, uomo eclettico, appassionato d'arte, di letteratura e di archeologia una delle figure delle più significative nella vita culturale di Catania nella metà del Settecento. Committente non comune, il principe non si limita a manifestare all'architetto le proprie esigenze, ma suggerisce e propone modelli e soluzioni che gli vengono ispirate da tutto ciò che vede durante i suoi numerosi viaggi.

 


Interessato al progresso culturale della sua città fece edificare un teatro privato con due ordini di palchi e con un accesso esterno per il pubblico che concede per l'Opera in attesa che quello cittadino sia completato e in cui paga i palchi che si è riservato.
Ma forse è come archeologo che è il benemerito di Catania. Riedesel e Brydone hanno assistito di persona ai lavori che, sotto la sua direzione, hanno portato alla luce l'anfiteatro antico. Incaricato della intendenza per gli scavi archeologici nella Val Demone e Val di Noto (l'attuale Sicilia Orientale), dedicò un particolare impegno alla costruzione e alla sistemazione di un museo che volle come degna cornice per le sue raccolte archeologiche provenienti dagli scavi che lui stesso dirigeva (1746).

 

Le ampie sale ornate di colonne, disposte intorno a due cortili racchiudevano una collezione scelta con competenza, lodata ed elogiata nei diari dei numerosi eruditi di tutta Europa che nel Settecento vennero a visitarlo. La raccolta non comprende soltanto oggetti antichi (medaglie, vasi, cammei, statue) ma anche un museo storico siciliano (armi, abiti, giocattoli) e un gabinetto di fisica e storia naturale (strumenti e minerali). Vi si trovano in particolare, sotto la denominazione di "frutti dell'Etna" dei campioni di lava, di zolfo ecc.

Oggi il cortile centrale del palazzo si presenta attorniato da costruzioni di epoche diverse e dominato dalla scalinata centrale a tenaglia che introduce nella parte più preziosa dell'edificio.
La visita dell'interno si rivela di non comune interesse. Legata alla personalità di Ignazio, si sviluppa una coerente distribuzione degli spazi, specchio di una misura di vita, che si deve svolgere in una casa confortevole per lo spirito e per il corpo, nell'ordine e in armonia con ideali che non restano limitati nella contemplazione del passato.

 


Dopo la sala d'ingresso che contiene grandi tele raffiguranti le piante dei possedimenti dei Biscari, superate le successive stanze, si entra nel grande salone, che riunisce molti artifici dello stile rococò. Tutto è luce: le specchiere, le bianche porte e il rilucente pavimento di mattonelle ceramicate napoletane. Posti sopra i camini,inseriti in eleganti nicchie, gli specchi con la loro luce riflessa, nel mondo allusivo del rococò, evocano simbolicamente il fuoco. Il cui dio, Vulcano, ritroviamo nel "Consiglio degli Dei" riuniti a celebrare il trionfo del casato dei Paternò Castello nell'affresco del soffitto di Sebastiano lo Monaco. Qui si trova una realizzazione quasi unica: il cupolino si apre in un ballatoio su cui si disponevano tutt'intorno i musicisti. La grande cupola è decorata con otto ovali con figure allegoriche contrapposte: Purezza e Vanità, Forza e Giustizia, Giorno e Notte, Amore e Morte.

 


Le porte sono sormontate da sette grandi tele che mostrano vedute di Napoli, di ottima fattura e piene di particolari della vita di ogni giorno e di riferimenti topografici ed architettonici. Sono opere di Eustachio Pesci (1771) autore anche delle vedute presenti nel Palazzo Reale di Portici.
Nell'ingresso dell'alcova di fondo le colonne vengono capovolte, quasi con finalità anticostruttive per scioglierle da ogni rapporto con i canoni architettonici e per inserirle nella predominante ricerca dell'asimmetria. Ma è nella galleria che si coglie il frutto più sorprendente del "nuovo stile" introdotto nell'Isola. La scala riceve con esatta tangenza la luce che entra dalle larghe vetrate, gli stucchi accompagnano il dispiegarsi del ritmo, quasi la descrizione nello spazio di una vaporosa piroetta. Opera che supera i risultati dell'attività degli artigiani locali, e che potrebbe essere nata dalla collaborazione dell'esperienza tecnica di Francesco Battaglia con i decoratori (pensiamo ad Antonio Pepe), stimolati dai disegni che il principe Ignazio raccoglieva per la casa e per la biblioteca. Sulla porta della galleria gli affreschi aggiungono un elemento ricorrente della decorazione rococò: scene galanti alla Watteau sulle quali scorciano prosperosi putti, gemelli di quelli che nel soffitto del salone allargano la corona di fiori e frutta.

 


Boiseries, intarsi, specchi, affreschi, porcellane, cineserie si ritrovano nelle stanze dell'appartamento del primo piano, una suite di tre piccole camere, l'ultima delle quali è di grande interesse. In essa il pavimento a commesso di marmi antichi, è simile a quello della stanza di Leda a Palazzo Rondinini a Roma ( 1760). Il gusto dei marmi antichi, sia come collezione che per reimpiego, conobbe grande favore nella seconda metà del '700 in seguito agli scavi di Ercolano. Trovare questo in Sicilia è di indubbio interesse poiché, mentre nella Città Eterna l'abbondanza di marmi antichi permetteva questi disegni con grandi lastre, ciò era molto più raro nelle città "periferiche". Le pareti sono rivestite da una boiserie in legno di rosa con intarsi che creano motivi "à berceau" con intrecci di rami e pagode "en chinoiserie" eseguiti con notevole maestria.

Il palazzo è ancora oggi in gran parte abitato dai discendenti della famiglia e i suoi saloni principali sono spesso usati per manifestazioni di prestigio di carattere mondano e culturale.
Gran parte delle collezioni raccolte nel museo del principe di Biscari sono state donate al comune e trasferite al Museo Civico di Castello Ursino.

 

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Nicoletta Moncada Paternò - Castello 
Via Museo Biscari, 10-16 95131 Catania - Italy Tel. 095 7152508 - 095 321818 -

329 4145955 Fax: 095 32 1818 e-mail: info@palazzobiscari.com

 

Urbanisticamente la città è un guazzabuglio di stili perché tutti quelli che son passati da queste parti hanno lasciato una traccia. Greci, romani, arabi… Nonostante ciò, a parte qualche vicolo superstite, la pianta della città è molto nordica, con vie che s’incrociano ad angolo retto, grazie alla ricostruzione dopo il terremoto del 1693, opera dell’architetto Gian Battista Vaccarini.Lo stile predominante è il Barocco: un tripudio di curve, bombature, decorazioni leziose, fronzoli dorati. La summa di quest’universo architettonico è Palazzo Biscari, un vero e proprio trionfo di putti, sculture, cariatidi e balconi incorniciati da cartocci. Oggi, con la sua famiglia, un enorme cane e un gatto, ci vive Ruggero Moncada. Le origini del suo casato si perdono nel tempo. È il 1059 quando Roberto, figlio morganatico del conte di Embrun, congiunto con i principi normanni, viene mandato dal padre in Sicilia e partecipa alla sua conquista dimostrando grande valore. La leggenda dice che al termine di una feroce battaglia mostrò al conte Ruggero il proprio scudo dorato privo di insegne e questi, con le dita insanguinate, tracciò le quattro canne rosse su campo oro che da allora caratterizzano lo stemma del casato. «La mancanza dei quattro quarti di nobiltà - ci racconta il Moncada, accompagnandoci nelle stanze del palazzo - venne marcata da un cingolo blu che in quella posizione voleva dire gentiluomo di spada sì, ma bastardo». Oltre alle insegne a Roberto fu fatto dono anche di terre, casali e soprattutto di un bivio che portava al paese di Dernò, l'odierna Adrano. Divenne quindi signore del bivio “Per Dernò”. Probabilmente il suono di queste parole piacque a Roberto, che decise di chiamarsi Paternò. Da tre secoli tra i possedimenti dei discendenti dei Paternò, che dal 1632 si fregiano del titolo di Principi di Biscari, c'è l'omonimo palazzo. Trecento anni di incessanti lavori che hanno partorito un caotico labirinto a sei livelli sfalsati, che copre un’area di circa ottomila metri quadrati, con oltre seicento stanze, sette cortili, un giardino pensile, un giardino giapponese, le vestigia di un teatro, i sotterranei. «Il massimo della spettacolarità è offerto dal grande salone da ballo a pianta ottagonale» - ci spiega il padrone di casa introducendoci in uno splendido spazio che ospita un vasto campionario dei molti artifici tipici dello stile rococò -. Qui è stato ricavato il primo campo da tennis indoor di Catania». Quando gli alti comandi delle truppe inglesi sbarcarono in Sicilia nel secondo conflitto mondiale, dopo aver preso possesso di Palazzo Biscari, stupiti dalla grandezza del salone da ballo tracciarono delle righe sul pavimento (realizzato con splendide maioliche di Vietri) e decisero di utilizzarlo come campo da tennis. Probabilmente il più elegante campo da tennis della storia.

 

 

 

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Intervista con il Gattopardo catanese: l'educazione, le vacanze da ragazzino a Forte dei Marmi, la fuga d'amore, l'esistenza sotto un vulcano dall'Etna a Stromboli

Di Ombretta Grasso - 24 Settembre 2023

 

Sotto un vulcano, sempre. Con lo sguardo sull’Etna o all’ombra dello Stromboli, immerso in quel flusso di energia. Ruggero Moncada Paternò Castello, gattopardo ironico e racé, è il signore di Palazzo Biscari, un magnifico frammento della storia universale della Sicilia. Una favolosa dimora aristocratica che conta 600 stanze. Troppe? Forse, ma «una casa di cui si conoscono tutte le stanze non è degna di essere abitata» (“Il Gattopardo”).

«Provengo da una famiglia con delle tradizioni, ma sane. Ho avuto un’educazione severa, rigida. Da bambino ero schifiltoso con il cibo e ho preso tante di quelle botte… Mia madre non cucinava “per” qualcuno ma “contro”: il sale lo metteva il lunedì ed era a posto per la settimana! Quando nasci in una famiglia con dei valori, a vent’anni sei un po’ rigidino però ti alzi in piedi quando entra una signora, apri lo sportello, baci la mano, hai delle regole. A volte inutili, altre volte fanno la differenza. Piaci moltissimo a mamme e nonne, alle ragazze no. Sei un “citrolo” di 14-15 anni, e loro preferiscono quelli malandrini, non i damerini. Poi, crescendo, vieni apprezzato. Sai dire bene le parolacce… puoi dire cose politicamente scorrette… E a me diverte, ma spero con garbo e autoironia. Fa parte dal modo di essere che la gente si aspetta, il turista che visita Palazzo Biscari cerca un principe, un Tancredi».

Una vita di privilegi?

 «Mia madre era una borghese, c’è un misto di valori nell’educazione. Poi, ho avuto un maestro di sinistra che mi ha fatto capire che ero particolarmente fortunato. E che non tutti lo erano. Mi è entrato un sentimento di partecipazione, di condivisione, e anche un prendere in giro queste famiglie che hanno i loro difetti. Tomasi di Lampedusa li racconta benissimo perché li conosce, De Roberto, borghese, non salva nulla dell’aristocrazia».

 Nei saloni di Palazzo Biscari hanno girato alcune scene della serie tv Netflix sul Gattopardo.

 «Una specie di “Downton Abbey” siciliana. Nei nostri saloni rococò hanno girato il ballo dell’Unità d’Italia, non quello celebre del fidanzamento di Angelica. Può essere un ulteriore lancio, se gli aeroporti saranno in funzione, se la città sarà pulita. Parliamo tanto di turismo ma siamo indietro, non si può trascurare così Catania, non si può trascurare la Sicilia».

 Tanti gli ospiti famosi del Palazzo.

 «Dalla Regina madre d’Inghilterra a Mick Jagger. Con lui è stato fantastico perché gli ho potuto raccontare un episodio di vent’anni fa quando Marta Marzotto venne per Sant’Agata e pubblicò su “Chi” una mia foto. Nelle didascalie c’era Bianca Jagger a New York e, nell’altra foto, Ruggero Moncada a Catania per Sant’Agata. Gli ho detto: sono stato con tua moglie Bianca: lei sopra e io sotto… Lui mi ha guardato un po’ storto».

 Vive nella grande bellezza.

 «Sono nato e cresciuto qui. Ma la bellezza si può trovare anche in una conchiglia».

 Dove trascorreva le vacanze?

 «Al Forte, in quello che ora è il regno della Santanchè. Mia madre era lombardo veneta, il nonno un famosissimo dermatologo. Dal 1955 al 1975 ho passato a Forte dei Marmi tutte le mie estati. Vacanze da “Sapore di mare”, un’atmosfera abbastanza simile ai film, con quella sfilza di personaggi. Io ero il meridionale ed anche il nobile in mezzo ai ricconi milanesi con villona e motocicletta».

 C’erano feste, balli, occasioni mondane?

 «C’era già un gruppo più intellettuale, di nicchia. Frequentavamo Carlo Carrà, suo figlio, i nipoti. Fiammetta Carrà era una cara amica. Passavano la Bellonci, Giuseppe Berto, scrittori premi Strega e Campiello. L’ambiente in cui noi ragazzini vivevamo».

 Com’erano le giornate?

 «Si faceva vita di pineta, si andava al cinema. Si viveva del gelato, delle passeggiate. Il nonno piazzava moglie, due figlie, i generi, cinque nipoti, i camerieri, un’infermiera per la nonna diabetica, una cuoca, insomma un popolo, in questa casa al mare. Noi ragazzi stavamo nelle stanze con i letti a castello. I due più grandi avevano una vita notturna, andavano alle Capannine. Io non l’ho mai fatta. Ero un ragazzino magretto, un barone rampante sugli alberi. A 20 anni, sono andato all’università a Padova perché mi piaceva una ragazza che è diventata mia moglie, Nicoletta. Siamo insieme da 48 anni».

 Vacanze in Sicilia?

 «Da bambino ci mettevano vicino all’hotel Airone. La casa veniva affittata con i Castorina e i Serrano, quelli dei cinema. Stavamo lì con le bambinaie e ogni tanto ci venivano a trovare. Io nehttps://www.mimmorapisarda.it/2023/409.jpg avevo una bellissima, Teresa. Le persone di servizio che lavoravano per mia madre si sposavano entro l’anno dal loro arrivo. E bei matrimoni. C’era un’amica zitella che ci chiedeva ridendo di passare da noi un paio di settimane. Più grandi, finite le scuole si andava al mare all’Excelsior, poi ai Ciclopi, quindi si partiva per la villeggiatura al Forte. Vacanze infinite».

 E dopo i 20 anni?

 «Lunghi e meravigliosi viaggi con mia moglie. Nel ’76 andammo in auto in Spagna per un mese. Poi, un viaggio indimenticabile in Grecia, nel 1978-79. Il mio migliore amico, Mario Castorina, arrivò con un pezzo per la barca di Pino Sivieri, l’ingegnere che aveva costruito l’Atlantis Bay e il Palacongressi a Taormina. Giravamo il Peloponneso su questa barca d’altri tempi, vela latina a penna, per polena una sirena azzurra, usata per il contrabbando del sale. A bordo Steve Caramazza, Maria Francesca Natoli, Elena Cutrona. Non andavo più al Forte, mia madre era divertentissima, ma possessiva».

 E il papà Vincenzo?

 «Fantastico, un uomo di grande rettitudine. Ha preservato tutto questo. Era bravissimo in campagna, un imprenditore adorato da tutti. Mia mamma, Annalisa Flarer, era una scrittrice, nella cinquina del Premio Strega con “L’anno venturo al di là del mare”. Ha scritto un libro sui San Giuliano. Una grande famiglia».

 Adesso dove trascorre l’estate?

 «Le mie vacanze erano le villeggiature con i nonni, poi più niente. La casa al Forte è diventata quella dei ricordi delle mie figlie, che la amano tantissimo. Da sette anni abbiamo casa a Stromboli. C’è un gruppo letterario fantastico, Paola Mastrocola, Lidia Ravera, Daria Bignardi, tanti attori e alcuni amici napoletani. Io sono molto casalingo».

 Cos’è Stromboli per lei?

«Io ho un senso del dovere che mi massacra. Mi carico sulle spalle il mondo ogni mattina, penso che se non ci fossi io crollerebbe. Stromboli riesce a rilassarmi, mi permette di vuotare il cervello dalle preoccupazioni, ma anche lì non sto fermo: cucino, pulisco la spiaggia, costruisco lampade con pietre e legni. L’isola ha un grande fascino. E’ un buon modo vivere e morire sotto un vulcano».

 

https://www.lasicilia.it/sicilians/ruggero-moncada-paterno-castello-il-signore-di-palazzo-biscari-parliamo-tanto-di-turismo-ma-siamo-indietro-non-si-puo-trascurare-cosi-catania-1898992/

(Foto Renato Zacchia)

 

http://www.missionline.it/riviste/mission/dettaglio.aspx?i=922&n=938

Nella stanza si apre una piccola alcova affrescata con motivi "rocailles", su un lato della quale è posta una grande e profonda vasca di marmo dalle alte pareti, che non parrebbe destinata per le semplici abluzioni. Fungeva forse da fontana interna, creando, insieme alla boiserie, una sorta di fresco angolo di Arcadia, consacrato a guisa dei luoghi ombrosi di un giardino, a conversazioni di cui possiamo ancora percepire l'eco.
In queste stanze eleganti vetrine mostravano porcellane e preziosi oggetti.

 

http://craigandjeri-sicily.blogspot.it/2011/10/day-9-taormina-to-siracusa.html

 

“Fummo introdotti dal Principe il quale ci fece vedere la sua collezione di monete per un atto di deferenza speciale... Dopo aver dedicato a quest'esame un certo tempo, sempre troppo poco tuttavia, stavamo per congedarci, quando egli volle presentarci alla madre, nel cui appartamento erano esposti altri oggetti d'arte di più piccola dimensione...Ci aprì ella stessa la vetrina, in cui erano custoditi gli oggetti d'ambra lavorata... Questi oggetti come pure le conchiglie incise, che vengono lavorate a Trapani e infine alcuni squisiti lavori in avorio formavano la compiacenza particolare della gentildonna, che trovava il modo di raccontare in proposito più di una piacevole storiella.

Il principe dal canto suo ci intrattenne intorno a cose più serie e così trascorsero alcune ore dilettevoli ed istruttive. Nel frattempo, la principessa aveva appreso che eravamo tedeschi, per cui ci domandò notizie dei signori von Riedesel, Bartels, Munter, tutti da lei conosciuti e dei quali aveva anche saputo discernere ed apprezzare egregiamente il carattere e il costume. Ci siamo congedati a malincuore da lei, ed ella stessa parve ci lasciasse andar via di malincuore.”

J. W. Goethe - Viaggio in Italia

 

 

 

 

 

 

La scala a forma di “fiocco di nuvola”.

 Si tratta di una scala a chiocciola definita da molti come un vero e proprio gioiello del rococò siciliano.

La scala, decorata interamente con stucco bianco, è ubicata in una grande galleria che si affaccia sulla marina, uno dei luoghi più suggestivi del capoluogo etneo, e conduce nella cupola della loggia della musica posta sul soffitto del “salone delle Feste”.

Il cupolino centrale della sala fungeva dunque da alloggiamento per l’orchestra.

I musicisti che allietavano le feste celebrate nel prezioso edificio percorrevano dunque questa magnifica scala.

Non a caso essa era conosciuta al tempo anche con il nome di “scala dei musici” di Palazzo Biscari.

La denominazione “Fiocco di Nuvola”  venne data, invece, dal Principe Ignazio di Biscari per esaltarne le forme leggiadre e vaporose che accompagnano il visitatore all’ascesa al piano superiore.

Anche questo appuntamento settimanale con Sicilia in Arte termina qui. Vi invito a seguirmi anche mercoledì prossimo per scoprire insieme un nuovo capitolo di questo affascinante percorso che ci farà conoscere le testimonianze più emblematiche della creatività siciliana.

 

 

 

Salvatore Rocca

http://www.vivict.it/sicilia-in-arte/sicilia-arte-la-scala-fiocco-nuvola-palazzo-biscari/

 

 

 

 

 

BISCARI PHOTOGALLERY

 

 

 

 

Chi era Ignazio Paternò Castello e perché il suo mecenatismo ha cambiato il volto di Catania

 «Spesso sembra che noi Italiani dimentichiamo quale straordinario strumento abbiamo ereditato dai nostri antenati: abbiamo delegato ad altri popoli il compito di formulare nuove lingue e strumenti in grado di connettere il mondo, perdendo la consapevolezza della nostra identità, fondata sulla bellezza».

Costantino D’Orazio, lo storico dell’arte che conduce la rubrica culturale AR su RaiNews24 e autore di svariati saggi, introduce così il suo il suo nuovo testo intitolato “Mercanti di Bellezza”, edito da Rai-Eri. D'Orazio affronta una tematica tanto vicina alla nostra identità culturale: il mecenatismo. Viene messo in evidenza, infatti, come tanti personaggi, più o meno celebri, nel corso dei secoli abbiano mutato il volto dell’Italia grazie alla loro passione per l’arte e la cultura. Adesso domandiamoci: anche la Sicilia ha avuto la sua parte in questo processo di ricerca del bello?

 MECENATISMO. Tra i capitoli più significativi del saggio “Mercanti di Bellezza”, quanto meno per noi Siciliani, spicca senza dubbio quello dedicato ad Ignazio Paternò Castello. Tuttavia, prima di addentrarci nei meandri della vita di un uomo tanto straordinario cerchiamo di comprendere il significato del termine “mecenatismo”. Detto in poche parole, non è altro che il sostegno rivolto ad attività artistiche e culturali ed, in particolare, ai loro esponenti. Sia che fosse per fini di prestigio, o solo per mero edonismo, fatto sta che questa tendenza, che caratterizza la nostra Penisola da secoli, ha influenzato notevolmente il nostro modo di essere e ci ha permesso di ricevere in eredità tesori preziosissimi provenienti dalle menti più fini che il genere umano abbia mai concepito. Come dicevamo, anche la Sicilia non fu da meno e possiamo affermare con orgoglio che anche in questo caso la vera protagonista è la nostra Catania.

 DAL PALAZZO AL TEATRO ROMANO. «[…] l’esterno di Palazzo Biscari è solamente un invito, la promessa che al suo interno saranno ancora più numerose le opere degne del più sincero stupore». Tutto ha inizio lì, nel palazzo di famiglia, il più elevato esempio del Barocco catanese tra le dimore nobiliari. Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari, fu un uomo delle prospettive evolute. Rese la residenza ereditata dal padre un gioiello agli occhi dei concittadini e degli ospiti stranieri e, cosa ancora più grande, esternò la sua passione per l’archeologia e per la sua città, la nostra Catania, in un’opera davvero straordinaria. Costantino D’Orazio ci ricorda, infatti, che: «La massima soddisfazione giunge nel 1770, quando Ignazio Paternò Biscari ottiene finalmente l’autorizzazione per scavare nel capoluogo etneo. La campagna archeologica si conclude con un successo: la scoperta di parte del teatro romano che, insieme all’anfiteatro e agli stabilimenti termali, rappresenta il tesoro principale del patrimonio archeologico catanese. Un evento eccezionale, che si deve totalmente all’intraprendenza, alla cura e alla determinazione del principe».

 UN UOMO ILLUMINATO. Il Principe di Biscari non si fermò di certo a rendere la città di Catania un cantiere. Raccolse il frutto delle sue ricerche nel primo Museo delle Antichità che il capoluogo etneo abbia mai avuto, da lui stesso fondato. In seguito, si dedicò alla trasformazione in orto botanico di Villa Labirinto, meglio conosciuta al giorno d’oggi come Villa Bellini, fece parlare di sé in ambito editoriale per alcune sue pubblicazioni dedicate alle tecniche agricole siciliane, e sugli allevamenti dei bachi da seta, e «fu intensa, inoltre, la sua attività di studioso e benefattore, a cominciare dai moltissimi artisti coinvolti nella lunga gestazione di casa sua, che qui trovano un ambiente favorevole per esprimere il proprio talento, oltre che un lavoro sicuro e durevole e un committente coltissimo, rispettoso e pieno di idee». In definitiva, un personaggio eclettico, amante del bello e desideroso di offrire ai suoi concittadini un esempio di virtù. A noi che ancora oggi godiamo della sua opera, non resta che ringraziare Costantino D’Orazio per questo prezioso viaggio nel tempo alla scoperta delle nostre origini.

 Simone Centamore

http://www.lasicilia.it/news/sicilia-segreta/151893/chi-era-ignazio-paterno-castello-e-perche-il-suo-mecenatismo-ha-cambiato-il-volto-di-catania.html

 

 

 

 

Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari, offerse, nella Catania feudale dei suoi tempi, un esempio piuttosto unico che raro. La città fu bensì, allora, — «un fonte inesausto della più fiorita nobiltà, ed una scaturiggine del sangue più illustre» — a detta del nostro spagnolesco Muglielgini, il quale è tutto felice di poter citare uno Spagnuolo puro sangue, don Sebastiano Cabarruvias Orosio, secondo il quale «en Italia llaman Catanes, y Valvasores, a los que en España llaman Infanzones», essendo Infanzones «termino antiguo, y vocablo que aora no se usa», il quale «vale tanto come caballero noble hijo de Algo señor de vassallo, pero no de tanta autoridad, come el titulado, o Señor de titulo».

Ma l'Accademico Infecondo, se porta al cielo la nobiltà cittadina, non va fino a sostenere che i signori catanesi si distinguessero nell'età sua per un eccessivo amore alle lettere ed alle arti. Tanto più notevole fu quindi che un gran signore come il principe di Biscari le onorasse e ne facesse lo scopo e la passione della sua vita. Tutte le persone di riguardo che passarono per questo estremo lembo d'Italia ebbero onesta ed intelligente accoglienza nel suo palazzo, costruito verso la fine del Seicento sulla cortina delle vecchie mura, alla Marina; e non dovettero provare poca meraviglia trovando nella piccola e povera Catania di quella età una dimora tanto magnifica, ricca di sale sontuose e d'un salone che per architettura e decorazione è anche oggi mirabile.

 Con una profusione di lacche, di ori, di stucchi e di affreschi rappresentanti la storia di don Chisciotte — opera del catanese Pastore — , il cielo d'una cupola impostata sul centro della vôlta e illuminata da finestre invisibili gli dà una luce ed una elevazione straordinaria; nella loggia coperta sulla quale esso si apre a mezzodì, una leggiadrissima scala a giorno, leggiera e rabescata come un merletto, dalla quale par che debba discendere una incipriata marchesa, porta al quartiere superiore.

Nell'ornamentazione esterna delle finestre il barocco imperante in città è d'una ricchezza straordinaria: le cariatidi, i puttini, i festoni, tutti i motivi decorativi vi sono profusi. Il principe aveva anche costruito in casa sua un teatro che fino ai principii del secolo scorso fu, con la sala degli spettacoli dell'Università, il solo della città; ma il maggior titolo di questo signore al rispetto dei posteri fu lo zelo col quale fece scavare a proprie spese il sottosuolo di Catania e di altri luoghi dell'isola e del continente, ed il gusto che lo spinse ad acquistare molte opere d'arte: con gli oggetti ritrovati e comprati egli mise insieme, in un edifizio appositamente costruito accanto al suo palazzo, un museo ad uso dell'Accademia degli Etnei e di tutti gli studiosi. Una bella medaglia fu coniata nell'occasione della solenne cerimonia inaugurale, avvenuta nella primavera del 1758, ed il principe stesso recitò allora, dinanzi a una dotta adunanza, una sua canzone:

Per secondar talun l'innato sdegno

D'irato Re si fa ministro all'ira,

Marte seguendo sanguinoso e fero.

Per serbar d'altri il Regno

Anelante si mira

Sotto il grave cimiero;

Ma da nemica man pugnando offeso,

O vinto, o al suol disteso

Estinto, o prigioniero

Rimane alfin dopo l'altrui vittoria

Senza onore di tomba, e senza gloria.

Io non così; di Giove infra le figlie

Meno di vita lieti i giorni, e l'ore

In bella pace alla virtute amica....

La qual cosa non impedì che uno scultore lo rappresentasse vestito all'eroica, con corazza e lorica, proprio nell'atrio di quel museo dove

In mirar tra chiusi vetri quanto

Offerse prisco tempo, arte e natura

Trovo larga mercede al sudor mio

e quando espressamente egli disse:

Sarà mia gloria e vanto

Appo l'età futura,

Che seppi il suol natìo

Ornar così di pregio illustre; e a Voi

Ben degni figli suoi,

A scorno dell'oblio

Per coltivar le belle Muse, ameno

Campo vi apersi, ed ubertoso appieno.

Non era millanteria: Volfango Goethe, qui venuto il 3 maggio del 1787, scrisse sul suo Diario: «Le statue, i busti di marmo e di bronzo, i vasi e le altre antichità raccolte in questo museo, hanno molto slargato il cerchio delle nostre cognizioni artistiche...».

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

LAVORI DI SISTEMAZIONE PER PALAZZO BISCARI (1920-1925)

(articolo di Albarosa D'Arrigo da "Archivio di architettura tra '800 e '900")

 

Ventuno disegni, tutti studi preparatori ed un disegno al vero per spolvero ,costituiscono il corpus dei materiali relativi al progetto di ristrutturazione di una porzione dell'ala di Ovest del Palazzo Biscari alla Marina, redatto dall'ingegnere Salvatore Sciuto Patti a partire dal marzo del 1920.

Seppur in maniera frammentaria, l'insieme di questi disegni descrive alcune opere eseguite nella "Casa del Principe di Biscari ",finalizzate a ricavare un nuovo appartamento autonomo, nell'ala di ponente del palazzo. Utilizzando come accesso il cortile maggiore, l'ingegnere Salvatore Sciuto Patti progetta in un vano ,a sinistra del monumentale scalone esterno, una scala con stucchi e decorazioni che conduce ai piani superiori.

Lì verranno ricavati, attraverso una nuova distribuzione interna,una camera da letto con sala da bagno adiacente al salone, una cucina, nuove porte delle quali si conserva il disegno, infissi ed un camino. In un vano rettangolare, collaterale alla nuova scala maggiore dell'appartamento, viene progettata una seconda scala che attraverso pianerottoli arrotondati assume planimetricamente un impianto ellittico.

La scala, progettata in ferro con travi a doppia T,pomice e gesso e rivestita in lastre di marmo,mostra da parte del progettista un attento studio dell'apparato estetico e decorativo mirato di certo a rappresentare la ricchezza e preziosità della famiglia e del contesto;infatti è ritenuta l'opera di maggiore rappresentatività di Salvatore Sciuto Patti all'interno di Palazzo Biscari.

I lavori, documentati dalle carte del Fondo,si susseguono dal marzo 1920 sino al 14 maggio del 1925,quando viene corrisposto il compenso per i lavori di falegnameria.

Le maestranze che hanno eseguito le opere sono per i lavori in legno Rosario Conti,per quelli in pietra calcarea di Priolo Rosario Vinciguerra, per i lavori in marmo Domenico Spampinato, per la fornitura dei ferro Francesco Fichera Sapuppo .

La preziosa balaustra che caratterizzava la loggia interna dell'appartamento è stata rimossa:gli originari pilastrini sono oggi collocati nei cortili del Palazzo.

 

grazie a Milena Palermo per Obiettivo Catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 


 

 

 

 

 

 

Nel Quattrocento, la famiglia Platamone era a Catania tra le più prestigiose, vale a dire tra quelle che riuscirono ad ottenere un buon numero di incarichi; infatti i suoi membri affiancarono al commercio, attività alla quale erano dediti, la gestione di numerose cariche pubbliche.

Annoverò vari esponenti di spicco, tra cui Michele Platamone (figlio di Baldassare, duca di Belmurgo per eredità Cannizzaro), che fu investito il 16 marzo 1803 dei titoli di principe di Larderia, principe di Rosolini, conte di Sant'Antonio, barone di Roccapalumba, barone di Cipolla, barone dell'Imposa, barone di Longarini, signore di Buscaglia, Ritibillini e Almidara, Sannini.

Un Francesco Platamone acquisì per matrimonio con una Corvino il marchesato di Mezzojuso e Platamone[4]. La famiglia annovera numerosi cavalieri dell'ordine gerosolimitano.

Uno dei personaggi di maggior rilievo di tale famiglia fu comunque Giovanni Battista Platamone laureato in legge all'università di Padova, dal 1420 egli occupò diverse cariche di natura fiscale ed amministrativa, tra cui quella di viceré, e ambasciatore presso Alfonso d'Aragona e papa Eugenio IV, accumulando tra l'altro molti titoli nobiliari e feudi tra cui la città di Jaci e Rosolini, a tal punto da essere in grado di prestare danaro alla Corona.

Il suo nome, così come quello di un altro importante giurista dell'epoca, Adamo Asmundo, è legato, insieme a quello di Alfonso il Magnanimo, alla nascita della prima Università siciliana, appunto quella di Catania (1434).

CORTILE PLATAMONE PHOTOGALLERY

Scrive il Di Blasi su di lui:

« ...costando dagli archivii di questa famiglia che ei fu cavaliere catanese, e nacque in detta città da Bernardo Platamone; ed ebbe inoltre due fratelli: Pietro, che fu cavaliere dell'ordine di S. Giovanni Gerosolimitano, e Antonio, che fu vescovo di Malta fin dall'anno 1412, ed era monaco benedettino. Battista da ragazzo cadde in mare, e corse risico di sommergersi. Fu di poi mandato dal padre a Bologna ad oggetto di apprendervi la giurisprudenza, dove ricevé la laurea dottorale nell'una, e nell'altra legge. Ritornato in Sicilia ricco di legali cognizioni esercitò con molta riputazione il mestiere di avvocato; in guisa che arrivate al re Alfonso le notizie della di lui dottrina in giure, lo promosse l'anno 1420 al rispettabile grado di avvocato fiscale della gran corte, che esercitò per sei anni fino all'anno 1426, in cui rinunciò questa carica per volere del medesimo re, che lo chiamò presso di sé, come consigliere intimo, e segretario. L'elogio che ne fa questo principe, è il più certo argomento del conto in cui lo avea, imperciocché vien da lui detto consiliarius, et secretarius noster, et nostri cordis interiora sciendo, et conservando. Non fa perciò meraviglia che sia stato da questo sovrano adoprato nelle più scabrose commissioni. Noi sappiamo che fu mandato ambasciadore a varî pontefici, alla regina Giovanna di Napoli, e ad altri principi dell'Europa, e che sempre ottenne quanto il suo re bramava. Questi servigi resi alla corona gli fecero meritare, che fosse fatto giudice perpetuo della gran corte: cosa che finora è stata senza esempio, e inoltre la carica di presidente del regno, e poi quella di viceré proprietario, come in appresso diremo. Rammentasi con lode di questo cavaliere, che ritrovandosi il re Alfonso esausto in denari per le spese esorbitanti che gli conveniva di fare a cagione della guerra nel regno di Napoli, egli generosamente vendé il castello e il territorio di Aci suoi proprî per la somma di once novemila, che corrispondono a ventiduemila e cinquecento scudi, e soccorse così il suo sovrano. Fissano gli scrittori catanesi la morte di questo cavaliere intorno all'anno 1448. »

A Trapani la famiglia Platamone fu molto influente ed ebbe notevoli rappresentanti. Con decreto reale dell'undici agosto 1897 susseguito da Regie Lettere Patenti del 15 maggio 1898 venne concesso al signor Enrico Platamone, figlio di Giuseppe, nato in Trapani il 3 gennaio 1841, il titolo di marchese. Giuseppe Platamone fu uno dei discendenti di spicco.

I palazzi Platamone

Nel XV secolo i Platamone eressero un vistoso palazzo a Catania, che contendeva a palazzo Biscari la fama di palazzo più lussuoso e rappresentativo della città. Il palazzo poco dopo fu donato ai religiosi, e per questo, dopo il terremoto del Val di Noto del 1693 che distrusse in gran parte il Monastero di San Placido, durante ricostruzione di quest'ultimo vennero annesse le testimonianze più antiche del palazzo Platamone. Oggi non rimane che un loggiato, sormontato da un balcone, custodito nel cortile del Monastero.

 A Trapani a inizio novecento il marchese Enrico Platamone, fece costruire palazzo Platamone al di fuori della cinta muraria originaria della città vecchia ad angolo tra via Regina Margherita e piazza Vittorio Emanuele, in stile neoclassico, tipico dell'architettura gentilizia del tardo ottocento.

https://it.wikipedia.org/wiki/Platamone

Tradizione tramandata vuole che S Agata sia nata da quelle parti, dove attualmente esiste a casa Platamone, per cui nel suo muro esterno sul lato della via Biscari è stato posto un busto marmoreo della Santa.

Molti ancora affermano che la parte sud della via Vittorio Emanuele, per le linee architettoniche e la unicità degli edifici, resta migliore della via Etnea, pur restando quella il salotto della città.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

Palazzo Valle, gioiello del barocco siciliano

Archetipo dei palazzi signorili catanesi, Palazzo Valle è il più bello tra gli edifici civili progettati dal grande architetto Giovanni Battista Vaccarini (Palermo, 1702-1768).

Progettato nella prima metà del ‘700, occupa l’isolato compreso tra le vie Vittorio Emanuele, Landolina, Valle e Leopardi. Fu Pietro La Valle a commissionarne l’edificazione, che si svolse in tre tempi e si concluse nella seconda metà dell’800.

La facciata esprime in pieno la creatività del Vaccarini: mensole smussate e addolcite agli angoli, campi geometrici riquadrati, l’aggraziato balcone nel cui timpano circolare spicca lo scudo della casa Valle-Gravina, la pietra calcarea posta su intonaco scuro, i particolari e le rifiniture, l’imponente portone, conferiscono al prospetto principale una grande eleganza.

Il restauro

Dopo una serie di atti di successione, iniziata alla fine del ‘700, e molteplici destinazioni d’uso, Palazzo Valle era caduto in uno stato di abbandono e di deterioramento.

Acquistato l’immobile nel 2001 dagli Asmundo Zappalà di Gisira, Alfio Puglisi Casentino lo ha riportato al suo antico fasto e lo ha ridonato alla città.

Gli interventi di recupero, realizzati tra il 2004 e il 2008 grazie al contributo della Finsole e a finanziamenti regionali, sono stati condotti con rigore progettuale ed esecutivo e in accordo con la Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali di Catania.

http://www.fondazionepuglisicosentino.it/PalazzoValle.aspx

 

 

 

 

Palazzo Pedagaggi  sorge in Via Vittorio Emanuele all'incrocio con Piazza Cutelli occupando l'intero isolato fra queste e le vie Sorrentino e Pedagaggi.
Fu edificato a partire dal 1803 dal barone di Pedagaggi su progetto dell'ingegnere Salvatore Zahra Buda, mentre l'ingegnere Mario Musumeci si occupò di seguirne i lavori fino al completamento definitivo nel 1809. Don Vincenzo Guttadauro, barone di Pedagaggi, aveva ricevuto in eredità dal padre, Don Enrico, I Principe di Emmanuel un'ala a sua scelta del vicino Palazzo Reburdone ma venuto in conflitto col fratello Luigi, II principe di Emmanuel, scelse di costruirsi una sua casa indipendente. Morto senza figli nel 1819, il barone lasciò alla pronipote Eleonora Guttadauro tutti i suoi beni compreso il palazzo che passò, per il matrimonio di Eleonora, ai Paternò Castello di Carcaci fino alla vendita nel 1859 al Barone Calì, la cui famiglia lo tenne fino al 1889 quando fu venduto al Banco di Sicilia per poi passare in parte all'Università di Catania che vi ha installato la Facoltà di Scienze Politiche.

Il progetto del palazzo prende ad esempio quella del Palazzo Reburdone, non tanto per i legami parentali fra i proprietari quanto per la struttura in se, la più moderna in quel momento disponibile in città. Così l'architetto adegua le caratteristiche essenziali di Palazzo Reburdone (la serie portale-androne-corte-scalone-loggia in prospettiva e l'infilata di stanze col salone angolare in fondo) allo spazio più contenuto di Palazzo Pedagaggi. Al Piano nobile il salone principale, ora aula magna di Scienze Politiche, presenta le proporzioni del diapente cioè di 2/3, al posto del diapason del modello avito e viene affrescata dal trapanese Giuseppe Errante che si occupa anche delle tele delle sovrapporte, con scene mitologiche e monocromi.

 

 

Palazzo Pedagaggi si trova in Via Vittorio Emanuele, all’incrocio con Piazza Cutelli, dove un tempo (intorno alla metà del Settecento) esistevano soltanto alcune case terrane e piccoli lotti di terreni privati. Morto senza lasciare figli nel 1819, il barone lasciò in eredità il palazzo alla pronipote Eleonora Guttadauro, insieme a tutti i suoi beni; la costruzione passò in seguito alla famiglia dei Paternò Castello di Carcaci e, nel 1859, al Barone Calì; trent’anni dopo venne venduto al Banco di Sicilia per poi passare, solo in parte, all’Università degli Studi di Catania che ne fece sede della Facoltà di Scienze Politiche.

Università di Catania - Dipartimento di Scienze politiche e sociali

 

 

 

Progettato da Francesco Battaglia per la famiglia Guttadauro, Palazzo Reburdone fu costruito tra il 1776 e il 1785, anno in cui fu montato in  facciata lo "scudo dell'Armi" dei Guttadauro ma i lavori di completamento del palazzo si protrassero per molti anni ancora. Voluto da una famiglia che cercava in quello scorcio di fine settecento di entrare a far parte della più alta aristocrazia isolana e insieme dell'elite patrizia catanese, Palazzo Reburdone doveva essere il simbolo più evidente della ricchezza e del prestigio della famiglia Guttadauro, originaria di Mineo, dunque provinciale e che in quel periodo stava rapidamente salendo i gradini della nobiltà siciliana (ascesa coronata nel 1787 con l'acquisizione del titolo principesco di Emmanuel). Il risultato fu uno dei più imponenti e nobili palazzi della città. Inponenza dovuta anche a ragioni dinastiche oltre che di prestigio; doveva infatti accogliere, secondo il volere del committente il Principe Enrico, le famiglie dei due figli maschi, il primogenito, erede del principato, e il secondogenito, Barone di Pedagaggi. Per contrasti insorti fra i due fratelli alla morte del padre il Pedagaggi non andò mai a vivere nel quarto che gli era destinato ma si fece costruire un altro palazzo, il vicino Palazzo Pedagaggi appunto. Estintasi la linea maschile dei Guttadauro nel 1820 il palazzo passò tramite Eleonora , ultima principessa di Emmanuel di casa Guttadauro, ai Paternò Castello ed ora è sede, in parte, del Dipartimento di Sociologia (al primo piano) e del Dipartimento di Analisi dei Processi Politici, Sociali e delle Istituzioni - DAPPSI (al secondo piano), entrambi della facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli studi di Catania; nonché della prestigiosa Accademia Gioenia.
Palazzo Reburdone presenta in alzato lo schema tipico dei palazzi patrizi catanesi: piano terra con botteghe su prospetti esterni e magazzini e locali di servizio su quelli interni; primo piano, o ammezzato per l'amnistrazione o dato in affitto a famiglie di basso ceto che gravitavano intorno alla famiglia Guttadauro per motivi economici o sociali; secondo piano o piano nobile, dove abitavano il padrone e la famiglia; terzo piano o piano cadetto, per la servitù e i cadetti. Tutti questi locali si distribuivano intorno alla grande corte d'onore, una delle più grandi di Catania, conclusa dal grande scalone a tenaglia dentro un corpo a duplice portico (un tempo attribuito al Vaccarini ma restitutito al Battaglia tanto per motivi stilistici quanto per motivi cronologici). Un secondo cortile sul lato ovest, serviva la cavallerizza e gli altri locali di servizio. Il piano nobile si raggiunge salendo il grande scalone da cui si dipartono le due ali del palazzo, con le due infilate di stanze che si concludono nei due grandi saloni, a rinserrare l'appartamento del principe con la sua alcova "alla turca" al centro della facciata, aperto sulla tribuna d'onore sopra il portone, luogo simbolico per eccellenza della continuità dinastica della famiglia. I due saloni gemelli seguono la proporzione del diapason, cioè due cubi perfetti posti uno accanto all'altro e sfondano con le loro volte il solaio del piano cadetto, i cui balconi in corrispondenza non sono per questo praticabili; le due volte presentano poi affreschi del sortinese Sebastiano Lo Monaco (salone est) e neoclassici (salone ovest).

 

 

 

 

Dopo il catastrofico terremoto del 1693, nella Catania risorta si annovera il Convitto Cutelli, Collegio voluto dal Conte Mario Cutelli.
La sua realizzazione può collocarsi attorno al 1760 e costituisce, dal punto di vista architettonico, un gioiello dell'arte settecentesca. L'opera dell'Abate Giovan Battista Vaccarini non poteva non essere presente nella progettazione di un edificio monumentale che, appunto, il gran
de architetto preparò, anche se si avvalse dell' aiuto di Francesco Battaglia. Il prospetto neoclassico sulla via Vittorio Emanuele è opera del Battaglia e continua sul lato di via Monsignor Ventimiglia e su quello di via Teatro Massimo. La parte attribuita al Vaccarini, che sappiamo alunno del Vanvitelli, è quella del circolare cortile monumentale che, per la purezza e l'armonia delle forme, si ammira entrando nell'edificio. La bella corte circolare è caratterizzata da un pavimento centrale in bianco e nero. All'interno, sotto il quadrante del grande orologio da torre, situato tra le statue del Tempo e della Fama, vi è un'iscrizione: "Ut praeesset diei et nocti anno MDCCLXXIX" (Questo orologio fu costruito affinché presiedesse al giorno e alla notte). Le statue del tempo e della fama simboleggiano la rivalità tra le due forze. 

Degno di menzione è lo scalone di marmo che porta al piano superiore dove si apre l'Aula Magna. In essa sono affrescate le figure delle glorie siciliane appartenenti al mondo scientifico e giuridico (Caronda, Empedocle, Teocrito, Stesicoro, Recupero, Ingrassia, Gioieni) e dove, nel 1837, furono condannati gli insorti contro la tirannia dei Borboni, come ricorda la lapide affissa alla facciata esterna inaugurata il 4 novembre 1926.
Lungo il percorso della Via Vittorio Emanuele, incastonato nel centro storico barocco della città, s’erige la sede dell' istituzione scolastica superiore più antica di Catania. Il conte Cutelli nel suo testamento manifestò l’esplicita volontà di destinare una parte dei suoi averi alla fondazione di un collegio. Il progetto iniziale del conte prevedeva la creazione di un istituto scolastico per soli nobili; era suo obiettivo la formazione di un vivaio di giovani patrizi in grado d’occupare le alte cariche presso la grande corte e l’amministrazione della città. Furono gli echi della rivoluzione francese a schiudere l’ingresso del convitto ai giovani privi di origine nobile. In un secondo momento a seguito di autorizzazione papale nel convitto oltre all’insegnamento del diritto civile e canonico s’iniziarono ad impartire lezioni di scienze e di lettere. Oggi il convitto si presenta nel suo aspetto architettonico originario ed ospita una scuola elementare, una scuola media e il liceo classico europeo. Assai pregevole è la struttura che, però, necessita di tempestivi interventi al fine di preservare quest’esempio di edilizia scolastica settecentesca.
http://xoomer.virgilio.it/convittocutelli  

 

 

CONVITTO CUTELLI 

Tra le vie Porta di Ferro e Calì, lungo la via Vittorio Emanuele, prospettante su una vasta piazza dall'omonimo toponimo, si trova il Collegio dei nobili. Il fondatore di tale istituzione fu il Conte Mario Cutelli che, per testamento rese nota la volontà di destinare parte dei suoi averi alla realizzazione di un collegio, simile a quello che esisteva a Palermo ed in diversi luoghi della Spagna. Esso doveva ospitare i discendenti di uomini nobili che a quel tempo erano avviati più alla spada che alla cultura, tranne i destinati ai seminari cattolici.

Il Real Collegio venne realizzato, intorno al 1760, sull'area di sedime del Baluardo di S. Giuliano, facente parte delle mura cinquecentesche della città.

 

 

Mario Cutelli nato a Catania, nobile di nascita era un laico alla Cavour: libera Chiesa in libero Stato (dichiarazione che poteva portare alla scomunica come avvenne per il Cavour).

Riconosciuto in tutta Europa per essere eminente giurista, venne chiamato dal Re di Spagna per dirimere la controversia, con la Chiesa, sull'attribuzione della "preminenza" tra i Tribunali dell'lnquisizione e quelli Ordinari degli Stati. Egli, dissertando giuridicamente, chiarì una volta per tutte (veniva ancora ricordato

il caso della sofferta abiura del Galilei) che, in uno Stato la prevalenza giuridica non può essere quella dei Tribunali Ecclesiastici (vedi Santa lnquisizione), ma quella dei Tribunali Ordinari che i singoli Stati ritengono di darsi, dove vanno previste religioni diversificate, raccogliendo consensi e stima in tutta Europa.

 

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

 

 

 

 

Costruita nei primi anni cinquanta su progetto di Domenico Cannizzaro, la fontana delle Conchiglie è costituita da una vasca circolare con al centro un obelisco a sezione quadrata alla cui base si trovano quattro valve di conchiglia che danno il nome alla fontana.

Prese il posto di una fontana precedente (metà del XIX secolo) che aveva anch'essa un obelisco al centro della vasca.

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche questo palazzo è sito in via Vittorio Emanuele. La facciata, nella fascia bassa, è animata da tre filari di aperture coronate da archi ribassati; in quella mediana da cornici sporgenti. La parte superiore, invece, ove si mostra il semplice telaio della finestra, non presenta alcuna cornice. Anche qui le lesene hanno in cima papitelli con pieducci floreali.

Si trova al numero 37 di via Vittorio Emanuele; l'architetto Francesco Fichera lo attribuì al Vaccarini. In tono più modesto si trovano molti motivi usuali vaccariniani. Risale ai primi anni della ricostruzione successiva al terremoto del 1693. In esso sono presenti gli elementi caratteristici della tipologia del palazzo baronale settecentesco; in particolare troviamo al piano terra le finestre con alti davanzali, invece delle botteghe, elemento questo della più coerente e originaria tipologia: infatti nei palazzi di costruzione successiva il piano terra, per ragioni di utilità commerciale, sarà quasi sempre destinato a bottega. A proposito del partito centrale Fichera scrive: "La bella porta così grandiosa nella sua piccolezza: con la mostra incassata tra le larghe lesene lisce, e la cornice raggiunta all'altezza della chiave da un rigiro della sagoma della mostra, in sostituzione della vieta mensola romana. Anche qui le lesene hanno in cima i capitelli, con appendice e pieduccio, per preparare il timpano che sta al di sopra, posato su un largo pennello e dal cui sommo si bipartisce un grosso pendaglio intagliato, affidato ad una mensola centrale".

 

 

 

 

 

La cappella Bonajuto o del Salvaterello è un edificio religioso d'epoca bizantina di Catania, eretto tra il VI e il IX secolo d. C. 

Unico manufatto di rilievo superstite dell'epoca bizantina a Catania, la cappella è collocata all'interno del barocco palazzo Bonajuto in via Bonajuto 7, nel popolare quartiere catanese della Civita. Si presenta a croce greca con pianta quadrata, cupola e tre absidi («cellae trichorae» o «chiesa a trifoglio») in forma simile alla cuba bizantina presente in Sicilia. Oggi rispetto al piano della strada si trova interrato di circa 2 metri. L'edificio, che è inoltre arricchito di testimonianze medioevali e quattrocentesche, è scampato ai diversi terremoti che hanno colpito la città, fra cui quello devastante del 1693 (Terremoto del Val di Noto).

La famiglia Bonajuto prese possesso della cappella a partire dal quattrocento e nel secolo successivo vi edificò la propria residenza. Sino all'insediamento dei Bonajuto la cappella era dedicata al SS.Salvatore, denominazione che mantenne probabilmente sino al XVIII secolo [2]. Nel XVIII secolo quando la cappella fu oggetto di restauri e ristrutturazione dell'ingresso, questa fu meta del viaggio del pittore francese Jean Houel.

La cappella è stata restaurata da Paolo Orsi e Sebastiano Agati negli anni trenta. Cliccare sotto per ulteriori informazioni e visite guidate

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"un tempo Chiesa del Salvatorello o del SS.Salvatore,si trova nel quartiere Civita a Catania,e' uno degli edifici sopravvissuti al terremoto del 1693,gia' nel '400 era stata inglobata nel palazzo della famiglia Bonajuto, nel '700 venne adibita a oratorio privato fino agli inizi del XX secolo,quando vennero eseguiti i primi restauri,la Cappella si presenta con un'aula quadrata sulla quale si aprono tre absidi semicircolari,sormontata da una volta emisferica sorretta da quattro archi ciechi,sull'apice della calotta si apre un Oculus di 1,10 m. di diametro,forse non originale,e rappresenta l'unico punto luce,l'abside venne mutilata per dar spazio alle costruzioni del '400 e del '500,cosi' come la nicchia mediana mutilata nel '700...l'accesso originario si trovava sulla parete sud-orientale in corrispondenza dell'ampia apertura arcuata oggi chiusa...il primitivo pavimento era nascosto dalle celle funerarie,che nell'800 erano state predisposte dalla famiglia Bonajuto,fu con il successivo sgombro che si porto' al rinvenimento del piano settecentesco,e circa un metro piu' in basso venne ritrovato un nuovo livello di eta' basso-medievale,dove erano state inserite diverse tombe.

(Il principe di Biscari commissiono'degli schizzi a Jean Houel che avvalendosi del suo disegnatore,Luigi Mayer, ne disegno' la pianta e la sezione del monumento,rappresentando la scena del ritrovamento dei loculi avvenuto nel 1761,quando il barone Vincenzo Bonajuto dispose lo scavo di alcune tombe per la sua famiglia)"

(da Celle tricore di G.Margani)

 

 

VIA SAN TOMMASO

E se sul lato sud il quartiere si fermava all'altezza della pescheria, per le vaste paludi che si verificavano nei periodi piovosi, create dallo scolo delle acque piovane del territorio catanese, geograficamente a quota più alta, sulle altre direzioni si trovavano spazi ed orti che invitavano a nuove possibili espansioni urbane. Dalla irregolarità delle strade strette e curve ritrovate in alcune parti di quel territorio si evince che, nel tempo dell'invasione araba, esso si identificasse con il quartiere musulmano, la cui attività primaria degli abitanti era quella del commercio con vari popoli mediterranei, e soprattutto l'esportazione della seta e di prodotti alimentari. lnfatti pnma del millennio d.C. venne fondata nel centro del quartiere una moschea in un cortile rettangolare circondato da portici, in cui una nicchia indicava I'orientamento della Mecca.

Nel periodo dei normanni, con la cacciata degli arabi, per richiesta dei seguaci inglesi rifugiatisi nella Civita, dopo I'assassinio nella Cattedrale di Canterbury del loro Arcivescovo Tommaso Becket, nel sito venne edificata una chiesa a lui intestata.

Mutato poi il titolo in S. Tommaso Apostolo che venne successivamente demolita. Alla Civita restò in ricordo la via S Tommaso, mentre la chiesa oggi, dedicata a S. Tommaso Becket e SS. Martiri inglesi, affidata ai padri Gesuiti, si trova presso la Villa Sangiuliano, a Sant'Agata Li Battiati.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

Palazzo Hernandez, 60 anni di abbandono tra nobili spiriti, dicerie e false attribuzioni

Luisa Santangelo | 6 maggio 2014

 

A vederlo da piazza Duca di Genova sembra uno stabile vecchio e sporco nel centro di Catania. Eppure, nonostante sia incompiuto, conserva al suo interno un «portico rampante» attribuito – lui solo – a Giovanni Battista Vaccarini. Oggi quel doppio scalone di gran pregio è coperto da un garage e diviso a metà da una alta parete, mentre buona parte della struttura è lasciata al totale degrado.

«Ah, questo palazzo ha una storia incredibile: era bellissimo, doveva essere bellissimo». Gianfranco Costanzo guarda la facciata di Palazzo Hernandez che dà su via San Tommaso e fa una smorfia. Lui, avvocato, vive nella palazzina di fronte, di proprietà della sua famiglia da generazioni: «La vede l’incisione nel muro? 1746, noi siamo qui dal 1746 e qui, dove adesso c’è il cortiletto, c’era la cappella dedicata a Santo Masi al Porto… La gente marinara l’aveva chiamato così». E mentre la famiglia Costanzo costruiva casa sua, i più celebri dirimpettai mettevano in piedi un nobile palazzotto.

La targa marrone delle indicazioni turistiche – che si trova di fronte all’ingresso di via San Lorenzo – fa risalire Palazzo Hernandez all’inizio del XVIII secolo e attribuisce la paternità architettonica al più illustre dei progettisti a cui Catania abbia dato ospitalità: Giovanni Battista Vaccarini. «Fu fatto costruire per la famiglia Hernandez (spagnoli trasferitisi in Sicilia nel XVI secolo, ndr) – spiega Costanzo – poi passò alla famiglia Francica-Nava (stirpe siracusana che inizia nel XVII secolo, ndr) e infine all’avvocato Torrisi, che sposò una nobildonna e se ne appropriò. Ma lui dilapidò il patrimonio, la famiglia e il palazzo caddero in rovina».

 

Di fantasie e leggende su Palazzo Hernandez se ne sono raccontate tante: «Quando ero bambino si diceva che c’erano i fantasmi, che la buonanima dell’avvocato Torrisi in disgrazia vagasse per le stanze del complesso». «Si sa – conclude l’uomo, ridendo – sono tutte dicerie: del resto, la Civita era un quartiere sia di grandi famiglie istruite, sia di poveri cittadini senza scuola».

Con Palazzo Biscari alle spalle e Palazzo Platamone alla sua sinistra, il Palazzo Hernandez rientra nel novero degli edifici storici catanesi di grande valore. Eppure, a differenza dei due noti vicini, non può dirsi altrettanto fortunato. In parte abitato e in parte adibito a uffici per l’università degli studi etnea, «l’abbandono risale al minimo agli anni ’50». In realtà, oltre alle fantasiose storie sui fantasmi, altrettanto fasulla è l’attribuzione dell’intero stabile a Vaccarini: «La famiglia Hernandez acquisì, verosimilmente nei primi anni dal terremoto del 1693, alcuni casolari del quartiere Civita e a partire dagli anni ’40 del Settecento affidò a Gian Battista Vaccarini la realizzazione di un sontuoso palazzo, di cui la coorte poligonale (condizionata forse dalle strutture pre-sismiche) avrebbe costituito l’attrattiva maggiore», spiega Iorga Prato, tecnico archeologo. Nei fatti, però, l’unico elemento di paternità vaccariniana è il «portico rampante del cortile», un doppio scalone «oggi vergognosamente coperto da un garage e da una alta parete che lo taglia in due».

Palazzo Hernandez doveva essere probabilmente «una casa di comodo, con uso residenziale relativo al periodo di permanenza nella città etnea per affari», e già nei primi dell’Ottocento è stato diviso in vari ambienti «assai diversificati per stile e gusto». L’ultimo tentativo – rimasto incompiuto – di dare uniformità a ciò che non l’aveva risale al Novecento. Però, spiega Prato, l’edificio era passato in mano a ricchi borghesi «disinteressati all’architettura nobiliare». Tra questi, anche i signori Patti, genitori dello scrittore Ercole. Lo spezzettamento ha fatto sì che alcuni vani venissero «affittati, venduti o lasciati all’abbandono». Il risultato, secondo il tecnico archeologo, è devastante: «Le architetture si sovrappongono senza armonia e il cortile originario è spaventosamente modificato, al punto da non essere più leggibile il progetto di Vaccarini».

Le guerre hanno fatto il resto. «Nell’immediato dopoguerra, l’intero quartiere Civita venne spopolato e affittato a nuclei di famiglie povere – prosegue Iorga Prato – Alcuni occuparono abusivamente parti dell’edificio abbandonato e negli anni ’60 e ’70 vi si nascondevano droga e armi». Archiviata la fase deposito illecito, rimangono le botteghe fatiscenti e le stanze inaccessibili e devastate. A denunciare lo stato di Palazzo Hernandez ci pensa l’opera di uno street artist: accanto a un balcone del primo piano con vista su piazza Duca di Genova un anonimo creativo ha attaccato un grosso adesivo: ritrae un ratto.

http://ctzen.it/2014/05/06/palazzo-hernandez-60-anni-di-abbandono-tra-nobili-spiriti-dicerie-e-false-attribuzioni/

 

 

SAN FRANCESCO DI PAOLA 

La Chiesa di San Francesco di Paola, che dà il nome all'antistante piazza, nel 1894 venne distrutta da un incendio, sviluppatosi in un locale attiguo. Riedificata nel 1907 per volontà del Cardinale Francica Nava in prossimità del porto, venne riconosciuta parrocchia nel 1950

ln effetti, malgrado le difficoltà conseguenti dalla carenza di spazi esterni, la parrocchia più frequentata dalle famiglie della Civita oggi è quella di S Francesco di Paola che la lega all'ambiente portuale oltre che al personale militare di mare e della Guardia di Finanza marittima, in quanto S. Francesco è venerato in quell'ambiente marinaro.

 

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

http://www.sanfrancescodipaola.ct.it/

 

 

adesso Piazza Cardinale Pappalardo

Palazzo Boccadifuoco

 

IL TEATRO COPPOLA

Il teatro di via Vecchio Bastione, abbandonato per un lungo periodo, nel 1895 viene concesso al Circolo Catanese Filodrammatico che, dopo averlo rimesso a nuovo a sue spese, lo riapre a tempo di record. Successivamente esso, viene intestato al compositore e maestro orchestratore Antonio Coppola.

Durante il secondo conflitto mondiale, fortemente danneggiato da bombardamenti, viene abbandonato riducendosi a deposito per i pescatori della zona. Era intenzione, da parte delle amministrazioni comunali di ricostruirlo ma si rinunciò a favore di opere ritenute più urgenti, fino a diventare, per decenni, laboratorio scenografico e deposito del Teatro Massimo Vincenzo Bellini.

Oggi l'amministrazione Comunale ha tollerato la occupazione bonaria di un gruppo di giovani intellettuali che stanno eseguendo, con sacrifici economici personali, i lavori di adattamento indispensabili per riattivarlo, in attesa che l'Amministrazione lo restituisca, con gli antichi splendori alla città, perché fa parte della sua storia Culturale.

 

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

 

 

 

 

S. GAETANO ALLA MARINA

Sulla chiesa di S. Gaetano nell'omonima via, le notizie stonche partono dal 1727 per la presenza di un famoso predicatore Teatino vissuto nei locali dell'antico monastero di S. Giuliano. Distrutto il monastero, la chiesa ricostruita venne affidata al Vescovo del tempo. Nel 1952 diventò parrocchia autonoma, assai carente di adeguata area di servizio al suo intorno, che ne limitava l'attività associativa ma non quella religiosa.

Volendo caratterizzare alcuni angoli storici della Civita, prima e durante il terremoto, che oggj hanno rriferimento toponomastico e religioso, non si può non menzionare l'area del S. Placido che fin dai tempi pre-cristiani fungeva da Agorà, fulcro della vita cittadina.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/cine/padrino1.gif

scene girate a Paternò, Villa Curia, Ognina, piazza Duca di Genova,  Porto (molo di Levante e via Dusmet),  via XX Settembre, Via G. D’Annunzio, via Gemmellaro, viale Artale Alagona, via San Giuseppe Alla Rena, piazza dei Martiri,  Piazza Europa.

 


Il faro Biscari

Piazza Giovanni XXIII

Il porto

 La Civita ai primi del '900

Via Dusmet 

Villa Pacini

 

 

Ex CONVENTO DI SANTA CATERINA O DEI DOMENICANI (oggi sede dell'Archivio di Stato)

(Testo dell'architetto Franca Restuccia e dell'ingegnere Gaetano Palumbo)

 

- Il complesso occupa attualmente l'area dell'intero isolato circondato dalla via Vittorio Emanuele a sud, dalla via Sant'Agata a ovest, dalla via Pulvirenti a nord e dalla via Mazza ad est.

Le vicende del convento sono riassunte in un documento, conservato presso la Curia Arcivescovile di Catania, redatto da Padre Aloisio Mercadante, nei primi anni del '700 Priore del convento. Esso viene fondato nel 1600 ,con decreto pontificio in esecuzione della volontà dei defunti don Vincenzo e donna Margarita d'Arcangelo e Paternò, che avevano disposto che nella contrada della Civita, al posto di "tenimenti di case"di loro proprietà, si costruisse un monastero di donne "moniche "sotto il titolo di Santa Caterina da Siena, per 4 zitelle e 13 vergini alle quali non doveva essere imposto di portare la dote.

Successivamente per ampliare il complesso vengono comprate altre case contigue e,prima del terremoto del 1693,il convento aveva un chiostro con colonne di marmo, il dormitorio, "reposti ", magazzini, la dispensa, il refettorio, la cucina, le congregazioni, l'aromataria e botteghe. La chiesa era adorna di stucco reale e finissime pitture, decorata tutta in oro,con "magnificenza così grande, che si rendea la più bella, grande, e sontuosa chiesa e tempio di questa suddetta città ".

Tutto fu distrutto dal terremoto e la ricostruzione, certamente per motivi economici, si protrasse per lungo tempo se in un documento del 29 gennaio 1761 denunciando la povertà del convento il Priore afferma che i religiosi vivono in una capanna e che la nuova chiesa è ridotta " a fabrica quasi più della metà ".

Solo nel 1855 si appaltano ad Onofrio Finocchiaro, Salvatore Spina e Alfio Maugeri le opere per portare a compimento il convento e cioè:

1)"Il prospetto ossia la facciata della chiesa del ....convento giusta il disegno eseguito dal S.Architetto D.Gaspare Nicotra Amico.

2)Imbiancare a latte lucido carmelitano l'interno tutto della chiesa con i risarcimenti che si richiedono al totale perfezionamento.

3)Sfondare le due cappelle laterali alla porta maggiore di detta chiesa e portarli a compimento tale da potere servire all'uso come sono le altre di detta chiesa meno degli altari.

4)Costruire le quattro stanze rimpetto a ponente e due rimpetto a mezzogiorno onde completare l'intiero Chiostro di esso convento da consegnarsi al detto Padre Priore atte a potersi abitare con tutte le opere di muratore falegname e ferro.

5)Finalmente eseguire tutti quei restauri e risarcimenti bisognevoli al restauro ed intonaco del muro di prospetto a ponente del convento suddetto che dà nella strada pubblica e propriamente nel Vico S.Agata e di quello della chiesa a tramontana del piano dei Morti ....."

Nel contratto d'appalto si precisa che i lavori, dai quali erano esclusi lo scavo "delli pedamenti "della facciata ed il loro riempimento a cui avrebbe provveduto il Padre Priore in economia, dovevano essere eseguiti sotto la direzione del Nicotra Amico, cui competeva anche la scelta degli scultori che dovevano eseguire le statue da collocare nella facciata, e che le stesse statue dovevano essere di gradimento del Padre Priore. Nello stesso contratto si prescrivono anche alcune modalità costruttive come ad esempio l'obbligo di eseguire la malta con ghiaia vulcanica o rossa e di utilizzare per le murature in pietra composta tutta,tranne le schegge e le zeppe per necessarie per gli assetti,da "cannarozzoni e balatoni " con l'espresso divieto di usare la pietra cosiddetta "fucilara".

L' organismo conventuale si sviluppa attorno ad una corte quadrangolare, in origine circondata, secondo la soluzione canonica, da portici sui quattro lati,situata in asse all'ingresso principale che è sulla via V.Emanuele, la strada ritenuta di maggiore importanza. In un impianto distributivo piuttosto rigido che avvicina l'organismo monastico ad uno schema assimilabile a quello del palazzo nobiliare, le celle sono disposte sui prospetti esterni ed il collegamento tra gli spazi comunitari di riunione e di relazione (chiostro, refettorio, chiesa)è assicurato, dal corridoio che avvolge il perimetro della corte.

L' impianto figurativo del prospetto, le cui proporzioni oggi appaiono alterate a causa dei lavori eseguiti per il piano di livellamento delle superfici stradali eseguito nella città nel 1869,sulla via Vittorio Emanuele è scandito da lesene in pietra bianca che insieme alla modanatura che denuncia il livello del pavimento del piano corrispondente alle celle del cenobio,ed a quella di coronamento sulla quale è poggiato il tetto , anch'esse in pietra bianca, aggettano leggermente dall'intonaco grigio scuro della massa muraria formando una trama regolare di riquadri nei quali sono inserite le finestre. Quest'ultime sono contornate da sobrie mostre in pietra di andamento curvilineo, che collegando verticalmente le aperture corrispondenti ai diversi livelli esaltano la verticalizzazione dell'intera facciata. La sequenza modulare delle finestre è interrotta in corrispondenza dell'ingresso principale al chiostro che viene denunciato, come l'atrio dei palazzi nobiliari ,dal grande portale che insieme alla tribuna sovrastante, alla quale viene collegato con un'unica cornice, può essere considerato il semantema costante e più diffuso che accomuna il linguaggio dell'architettura religiosa a quello dell'architettura civile.

La chiesa, che in genere veniva disposta con il prospetto sulla strada più importante e con l'asse principale parallelo all'asse dell'atrio d'ingresso al chiostro, in questo caso è situata nell'angolo nord-ovest dell'isolato nello stesso sito che occupava prima del terremoto ed aveva una tipologia basilicale a tre navate.

Completamente distrutta dai bombardamenti nel 1943,è stata ricostruita modificando completamente lo spazio interno, attualmente adibito ad uffici del Comune di Catania,(sede Archivio di Stato)e restituendo la facciata in "stile"

il sito ufficiale dell'Archivio di Stato

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Ed ecco, a destra, com'era la Chiesa di Santa Caterina da Siena dell'omonimo convento prima che venisse distrutta completamente dai bombardamenti del 17 luglio 1943

Fu successivamente ricostruita ma in modo totalmente diverso, persino negli spazi interni tanto che oggi ,chi non conosce la storia, non crede che l'edificio di via Sant'Agata col prospetto in fondo a via Santa Caterina al Rosario, sia stato una chiesa.....anche perché fu ricostruita per uso uffici comunali

La chiesa era nata nel 1600 insieme al convento monastico, ma distrutta dal terremoto del 1693 ,fu ricostruita nello stesso sito fino a morire definitivamente nel 1943

Documenti di fondazione la descrivono come tra le chiese più sontuose di Catania

 

foto di Antonio Trovato

 

 

grazie a Milena Palermo per Obiettivo catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

 

 

 

 

Di fronte al Palazzo Biscari è situato il Convento di San Placido. Sul lato meridionale sono visibili il Portone seicentesco di pietra ed un' edicola della stessa epoca che incornicia un rilievo di Sant'Agata.
Esso sorse sul Tempio di Bacco. Nel XV secolo vi risiedettero i Platamoni, nobile famiglia catanese oggi spenta, che qui aveva il proprio palazzo, in seguito donato al monastero. Della casa della famiglia rimane, nel giardino della Badìa, un terrazzo decorato da chevron.
La facciata barocca della Chiesa di San Placido è di Stefano Ittar, che la realizzò nel 1769. L'interno è a navata unica e custodisce affreschi di G.B. Piparo e dipinti di M. Rapisardi.

All'interno del monastero di S. Placido sono incastonate alcune strutture murarie, nonché le case, che appartenevano all'antico palazzo "alla marina" della famiglia Platamone; di fatto, già nel XV secolo la famiglia le aveva donate ai religiosi. Uno dei privilegi concessi a tale famiglia fu l'autorizzazione ad aprire nelle mura del palazzo una "posterna", in altri termini un passaggio che avrebbe condotto direttamente al porto. A causa dei nefasti avvenimenti che colpirono la città alla fine del Seicento, oggi rimangono poche testimonianze di tale edificio. Tuttavia, dopo il terremoto del 1693, che distrusse in gran parte il monastero, nella ricostruzione di questo ultimo vennero annesse le testimonianze più antiche del palazzo.

www.cormorano.net

 

La prima fondazione risalirebbe, secondo il Rasà, al 1409, anno in cui la regina Bianca, figlia del re di Navarra, sposa di re Martino, alle sue seconde nozze, e vicaria del regno di Sicilia, donò preziosi arredi sacri al monastero delle suore benedettine, ancora da erigere, forse rimanendo a lungo ospite delle consorelle.

Inoltre, nel XV secolo anche Ximene e Paola di Lerida - "coniugi di gran pietà e di nobile e ricco casato catanese"[1] - contribuirono finanziarianente alla costruzione del monastero di San Placido, anche se l’atto di fondazione, datato 4 dicembre 1420, dimostra che fu donna Paola, ormai vedova, la sola ispiratrice della fondazione della casa religiosa.

L'edificazione avvenne sulle rovine di un antico tempio pagano dedicato al dio Bacco, luogo di culto per la tradizione religiosa catanese, poiché si diceva che un tempo vi sorgesse la casa natale di sant’Agata, patrona della città.

La chiesa venne rasa al suolo dal catastrofico terremoto del Val di Noto del 1693, che distrusse Catania.

Su iniziativa delle uniche tre suore che scamparono alla morte, dalle macerie del sisma, venne avviata la ricostruzione, affidata all'architetto Stefano Ittar, e la nuova chiesa venne consacrata nel 1723.

Nel 1976 venne chiusa a seguito del riscontro di problemi alla struttura e, dopo circa tre anni di lavori di consolidamento, venne riaperta al culto nel 1979.

San Placido

 

 

 

 

Il Cuore della Catania barocca, racchiude nel suo seno una perla di prelibate dolcezze, "I Dolci di Nonna Vincenza".L'esperienza di tutta una vita, la passione e l'amore per le tradizioni della nostra terra, il desiderio di non disperdere un vero e proprio patrimonio culturale, sono gli ingredienti base che Nonna Vincenza e i suoi figli hanno utilizzato per intraprendere la propria attivit?. E' un'aria di casa quella che si respira entrando nella bottega di "Nonna Vincenza", interamente arredata con mobili di fine ottocento, sita nella barocca piazza San Placido, distante pochi metri da piazza Duomo e dal Teatro Bellini.

 

 

Tra i palazzi della Catania barocca si consuma il dramma di un uomo. Antonio Magnano, giovane di famiglia alto borghese, affascinante e corteggiato, non riesce a consumare il matrimonio con la bella moglie Barbara Puglisi della quale è profondamente innamorato.

L' impotenza di un Magnano, sulla cui mascolinità nessuno aveva mai osato dubitare, distrugge le certezze del padre Alfio (Pierre Brasseur), federale ai tempi del fascismo, frequentatore di bordelli e sedicente «sciupafemmine». Una fine drammatica come drammatico è il film, "Il bell' Antonio" (sceneggiato da Pier Paolo Pasolini e Gino Visentini) attraversato da una venatura di sottile ironia che mette in ridicolo il mito dell'uomo forte e le incrostazioni culturali di certa borghesia siciliana.

Il regista Mauro Bolognini affida la parte dei protagonisti ai «bellissimi» del cinema italiano, Marcello Mastroianni, allora trentacinquenne, e Claudia Cardinale, all'inizio della carriera. Rispetto al romanzo di Vitaliano Brancati (scritto nel 1949 e ambientato nella Catania fascista), Bolognini sposta la storia (rimaneggiata in più parti) nel periodo a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, tempi in cui il mito del maschio resiste ancora, soprattutto nella capitale del «gallismo» siciliano. Per l'ambientazione sceglie gli angoli più suggestivi del centro storico. Basta affacciarsi dalla terrazza del palazzo settecentesco di via Vittorio Emanuele, che nel film appartiene ai Magnano, per capire come la scelta di Catania si riveli felice. Un «giardino di pietra» costruito dopo il terremoto del 1693, ammantato dalle atmosfere magiche della pellicola in bianco e nero: la sagoma dell'Etna, le cupole delle chiese, i tetti delle case, il duomo che si affaccia sulla piazza dove spiccano i palazzi progettati dall' architetto palermitano Giovan Battista Vaccarini, l' obelisco con l' elefante e la via Etnea, quattro chilometri di raffinato barocco. La storia inizia alla stazione di Catania.

Antonio Magnano proveniente da Roma, dove ha vissuto per qualche anno, torna nella sua città. Antonio si incammina verso la casa di famiglia costeggiando la marina, il palazzo dei principi Biscari, fino a porta Uzeda, dal nome dei viceré spagnoli che governarono la città. Poco dopo arriva a piazza Palestro dove si erge porta Garibaldi, un arco di pietra nera inframezzato da blocchi di pietra bianca eretto nel 1768. Siamo nel popolare quartiere Fortino. Cammina ancora. Adesso la macchina da presa inquadra la chiesa della Madonna del Carmelo in piazza Carlo Alberto, nel film completamente vuota, nella realtà sede del pittoresco mercato della «Fera 'o luni». Tra sporadiche Seicento e qualche tram in lontananza, giunge nella casa di famiglia.

La dimora dei Magnano è al secondo di un palazzetto di tre piani. A pianterreno si intravedono la pasticceria Reale, un negozio di mobili e di ciclomotori (ormai scomparsi). Sullo sfondo una scritta, "Vespa". Dal balcone accanto si affaccia la moglie dell'avvocato Ardizzone: «Signor Alfio, ho saputo che suo figlio è tornato dalla capitale». Poco dopo ecco anche la figlia (l'attrice Fulvia Mammi), da sempre desiderosa di sposare Antonio. E poi dal piano di sotto il senatore. Tre balconi che nel film hanno un ruolo importante.

All' epoca proprietari dell'abitazione erano i Gemma, benestanti catanesi concessionari della Piaggio. Alberto Gemma aveva 18 anni: «Un giorno si presentarono a casa il regista Mauro Bolognini e il produttore Alfredo Bini, patron della casa Cino Del Duca, che chiesero il permesso di utilizzare l'appartamento per gli esterni. Evidentemente il nostro edificio, all'angolo fra la chiesa di San Placido e i palazzi di via Vittorio Emanuele, faceva al caso loro. "Inutile dire", spiegò Bini, "che la produzione pagherà il disturbo". "Non vogliamo soldi", disse mia madre. "Chiediamo soltanto la presenza di Mastroianni e della Cardinale nel negozio: vorremmo fotografarli a bordo delle Vespe". Il produttore rimase di stucco, l'affitto di una casa per girare un film veniva pagato profumatamente.

 Dopo mezz'ora mandò cinquanta rose gialle. Nella sede centrale della Piaggio quando videro le foto non credettero ai loro occhi. Le pubblicarono sulla loro rivista, anche in copertina. Il cast stette una settimana e mia madre non faceva mancare i cannoli. La Cardinale era molto riservata, ma anche molto simpatica. L' amicizia durò anche dopo: per tanti anni, in occasione delle feste, ci fu un intenso scambio di biglietti di auguri. A Mastroianni andò la mia stanza per i riposini pomeridiani. A Pierre Brasseur, simpaticissimo e bravissimo attore, faceva trovare una bottiglia di vino che lui tracannava in pochissimo tempo. Ogni tanto veniva anche Tomas Milian, che interpretava il cugino di Antonio».

Ma torniamo al film. Dopo il fidanzamento fra Antonio e Barbara, muore il nonno della ragazza. Tre i luoghi scelti per il funerale: piazza Duomo, via Etnea, piazza Università. In una atmosfera crepuscolare si scorge il bar Duomo, l'antica gioielleria Avolio e la sede dell' Ateneo catanese. Il corteo procede lentamente, le donne affacciate ai balconi osservano Antonio: «Quant' è bello». Barbara nasconde il volto con il velo nero. Improvvisamente la bara scivola per terra e Bolognini è costretto a ripetere la scena. A ricordare questo particolare sono due comparse, Roberto e Aldo Pistorio, allora di 16 e 8 anni: «Nostro padre ci portava sempre a fare le comparse. Faceva il cuoco ma partecipava a tutti i film che venivano girati a Catania».

Dopo il funerale Antonio e Barbara si sposano. La scena viene realizzata fra le colonne incompiute della solenne chiesa di San Nicola, in piazza Dante. Quando Goethe la visitò restò incantato dall' organo di Donato Del Piano: «Non vi è cosa più solenne, più profonda, più maestosa di questa». Oggi l'organo non esiste più. Saccheggiato negli anni. Un' immensa luce bianca penetra dagli ampi finestroni e si espande fra le tre navate della chiesa. Il dramma fra Antonio e Barbara si consuma in una bellissima villa dove la coppia va a vivere. è nella parte alta della città, era dell'ex sindaco di Catania, Papale: allora era circondata da aranceti, oggi è soffocata dal cemento. Fra Antonio e Barbara un anno di carezze, di baci, di parole d' amore. Nient' altro.

La notizia arriva all' orecchio del notaio Puglisi, padre della ragazza, che mediante lo zio monsignore riesce a fare annullare il matrimonio e a combinare le nuove nozze con il duca di Bronte. La madre di Antonio, in un disperato tentativo di riconciliazione, parla con Barbara. Il colloquio avviene nella sagrestia della chiesa di San Giuliano, in via Crociferi. Il fallimento della discussione sancisce la rottura definitiva fra le due famiglie. Ad attendere Rina Morelli sul sagrato c' è il marito infuriato: «So io come parlare ai Puglisi». Attende il monsignore ed entra con lui nel convento dei gesuiti che si trova di fronte. L'ex federale accusa la Chiesa di ipocrisia. Il battibecco si svolge nel suggestivo chiostro, con il pavimento di ciottoli bianchi e neri.

 

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scene girate in Via Etnea, Via Vittorio Emanuele II, San Nicolò l'Arena in Piazza Dante, Piazza Asmundo, Via Alessi, Via delle Finanze, Via de Marco, ex Piazza Nicosia, S. Agata Li Battiati (casa degli sposi)  https://catania.italiani.it/il-bellantonio-pellicola-tra-le-sontuosita-di-catania/

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La via Crociferi è l' angolo più incantevole del centro storico. Piena di chiese, di monasteri, di palazzi nobiliari, ha ispirato grandi scrittori come Verga, De Roberto e Brancati. Tutto è immerso in un' atmosfera irreale fatta di putti, di mascheroni, di cariatidi, di ricami pietrificati.

Stefano Valastro ha 72 anni e fa il ciabattino. Si siede sui gradini della bottega e comincia a parlare: «Quando fu girato il film il responsabile della chiesa di San Giuliano era padre Consoli, un frate che faceva anche l'esorcista. Qui per gli esorcismi venivano anche dalla Calabria. Un paio di persone nerborute accompagnavano i posseduti dal diavolo, venivano chiuse le porte e dopo un po' si sentivano grida disumane. Succedeva quando Satana veniva cacciato dal corpo».

Poi Barbara si sposa con il duca di Bronte. Dopo la cerimonia gli sposi salgono in macchina. Tutto si svolge con il magnifico sfondo del palazzo aristocratico degli Asmundo. La macchina costeggia i manufatti della via Crociferi. Improvvisamente appare Marcello Mastroianni, statuario, bellissimo, triste. Che attende il passaggio di Barbara in una via Alessi lastricata con le strisce di basalto lavico (poi trasformate in scalinata). Lo sguardo di lui incrocia quello di lei. è la scena più struggente del film. Lui innamorato e disarmato, lei ineffabile e corrucciata. Antonio accompagna con lo sguardo la macchina, poi percorre la via con la morte nel cuore, mentre centinaia di curiosi osservano la scena.

Antonio Di Grado, oggi docente di Lettere all' Università di Catania, nel '59 ha dieci anni ed è affacciato al balcone con lo zio. Sta lì dalla mattina alla sera: «Il film consolidò la cultura interclassista del centro storico: nei piani bassi gli artigiani, in quelli medi la borghesia, in quelli alti i nobili. Tutti assistevano alle riprese. Affacciato al balcone c' era anche un barbiere. Aveva una storia incredibile: essendosi ammalato da giovane, aveva promesso a Sant' Agata che se fosse guarito avrebbe sposato una prostituta. E così fece».

Ormai sono le ultime scene del film. Il vecchio federale smaltisce la vergogna in un bordello. Va al vecchio San Berillo, il quartiere delle prostitute, da sempre ritrovo di militari, ragazzini, anziani e gente sposata. La scena viene girata dal vivo. Pierre Brasseur attraversa le stradine sconnesse, via delle Finanze, via Maddem, via Di Prima, sale le scale, va da Mariuccia, una vecchia conoscenza. Muore dopo «l' adempimento del proprio dovere» fra le braccia della donna, mentre pronuncia l' ultima frase della sua vita terrena: «Tutti dovranno sapere che a sessant' anni suonati Alfio Magnano andava ancora a donne».

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LUCIANO MIRONE from "Mastroianni e Cardinale a Catania il centro storico diventa magico - Repubblica, 28.1.2005"

 

La targa è stata piazzata, fotografata e lasciata a Catania in via Vittorio Emanuele II al 133, nel preciso palazzo dove nel film abitano i genitori del bell'Antonio, in barba alla telecamera della BNL. Poi fu rimossa.

 

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Mettetela come volete: la musica del Padrino, i berretti neri, il Bell’Antonio, i baffi, i fichi d’India, i cannoli, beddamatri, mizzica… ma i matrimoni in Sicilia hanno un fascino tutto particolare.

E’ uno spettacolo. Come per incanto, tutto è fermo in attesa di essere dipinto, girato, scritto. Già la sposa fa parte del capolavoro appena esce fuori dalle chiese barocche di tufo e pietra lavica, coi suoi neri capelli e gli occhi come olive. Aggiungiamoci alcune pennellate di cavalli, il cocchiere, le musiche, gli invitati (soprattutto gli invitati), il selciato, i colori, i paggetti e i testimoni, il tragitto, i curiosi, il rinfresco, il posto.... e l'opera è completa.

E poi ditemi perchè qui, anche in quel particolare giorno, tutto diventa un film di Maestri del cinema come Visconti, Bolognini, Germi, Wertmuller, Zeffirelli, ecc. ecc. ecc. Forse perchè solo qui in Sicilia, questi geni dell'arte hanno sempre saputo individuare l'interruttore per accendere ….. la luce!

(Mimmo Rapisarda)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Impropriamente attribuito alla residenza di Micio Tempio.

Inserito insieme con altri edifici nell'isolato compreso tra le vie Vittorio Emanuele, Leonardi ,Pulvirenti e Mazza è un organismo complesso dove l'irregolarità della maglia della struttura muraria contraddice l'ortogonalità della maglia del piano camastriano, il che induce a ritenere che nelle nuove fabbriche siano state utilizzate le fondazioni degli edifici esistenti prima del terremoto(del 1693).

L' edificio attuale è il risultato dell'aggregazione di tre blocchi:Il primo in angolo tra la via Mazza e la via V.Emanuele, il secondo tra quest'ultima strada e la via Leonardi, il terzo sulla via Leonardi.

Nella distribuzione planimetrica, nell'intento di migliorare l'organizzazione distributiva degli ambienti, l'edificio ha subito nel tempo diverse modifiche, come l'inserimento e la sostituzione di collegamenti verticali e la realizzazione di trasmezzature interne,che certamente non contribuiscono alla chiarezza dell'organismo.

Fra le modifiche subite dal complesso vanno inoltre segnalate le superfetazioni di notevole entità realizzate al livello della copertura e l'inserimento nel cortile di due corpi di fabbrica:uno con un solo piano ed uno di due piani.

Gli elementi architettonici e decorativi, per i quali viene sempre in qualche modo ripreso lo stesso disegno, unificano percettivamente i prospetti dei 3 edifici e denunciano chiaramente la successione nel tempo della realizzazione delle fabbriche. Anche in mancanza di notizie certe supportate da documentazione, la cui ricerca non ha dato esiti positivi, si può pensare che il primo blocco ad essere costruito sia stato quello in angolo tra le vie V.Emanuele e Mazza e l'ultimo quello prospiciente sulla via Leonardi.

Il blocco situato in angolo tra le vie V.Emanuele e Mazza ha un piano terra destinato a botteghe e tre piani di cui il secondo assimilabile al "piano nobile "ed il terzo non del tutto realizzato originariamente per l'ala prospiciente la via V.Emanuele e successivamente completato con l'inserimento di un volume arretrato che non si raccorda in alcun modo all'edificio originario.

L' ingresso,posto sulla via V.Emanuele, è sottolineato da un portale in pietra con bugne a diamante, le cui proporzioni risultano chiaramente alterate dal livellamento della via V.Emanuele effettuato nel 1869,ed immette nell'atrio dal quale si accede al cortile ed alla scala che conduce ai piani. Ai vari piani i vani posti in corrispondenza del portale d'ingresso hanno il pavimento ad una quota diversa da quella degli altri ambienti il che fa pensare che, pur senza modificare la candela architettonica costituita dal portale e dal balcone soprastante, l'impianto originario abbia subito nel tempo sostanziali modifiche e rimaneggiamenti, ipotesi confortata anche dalla soluzione adottata per i ballatoi che sulla via Mazza al primo e secondo piano unificano due aperture con un disegno che non si riscontra in nessuno degli edifici settecenteschi.

Il blocco posto in angolo tra la via V.Emanuele e la via Leonardi oltre al piano terra, destinato a botteghe, ha in elevazione tre piani ai quali in corrispondenza dell'angolo è stata aggiunta, eliminando la copertura a tetto,una notevole superfetazione che può essere considerata un quarto piano.

Il grande portale esistente sulla via V.Emanuele secondo i canoni consueti introduceva ad un atrio che sfociava nel cortile e dal quale probabilmente si accedeva anche alla scala che conduceva ai piani superiori. Oggi nello spazio dell'atrio è stata ricavata una bottega con ammezzato e fra le paraste che concludono lateralmente il portale sono inseriti la porta d'ingresso alla bottega ed il balcone del piano ammezzato.

Attualmente i piani sono serviti da una scala il cui ingresso, situato sulla via Leonardi, è evidenziato da una mostra conclusa in sommità con un arco a tutto sesto che non ripete il disegno delle mostre che contornano le aperture delle botteghe trattate più semplicemente e concluse con archi ribassati.

La facciata è organizzata canonicamente ed è sottolineata dal ritmo delle aperture, fino al secondo piano unificate dalla continuità delle mostre e contromostre che le contornano, dalle mostre orizzontali, dall'elemento portale e dai balconi angolari.

Il terzo blocco ,interamente prospiciente sulla via Leonardi, ha il piano terra destinato a botteghe e tre piani in elevazione serviti da una scala cui si accede dalla via Leonardi. Gli elementi architettonici, ripresi in "stile",e il taglio delle aperture denunciano chiaramente la sua costruzione in data successiva a quella del blocchi già descritti .

(Ing. Gaetano Palumbo)

 grazie a Milena Palermo per Obiettivo Catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

VIA VITTORIO EMANUELE

Saverio Fiducia nel suo "Passeggiate sentimentali" considera la via Vittorio Emanuele sorella della via Etnea perché esse rappresentano i maggiori rettifili tracciati dal Camastra, nate nello stesso periodo e programmate dagli stessi progettisti in perfetta unità di stile; l'una partendo dalla piazza Duomo consente di ammirare l'intero percorso che ha "per fondale l'iridato dorso della Montagna" , essendo l'altra, bella da qualunque sia il punto dove ci si fermi per guardarla suo percorso che ha per fondale la colonna e la statua votiva stagliarsi nel mare del più tenero azzurro" .

Non aveva infatti torto Saverio Fiducia nel giudicare il livello della bellezza architettonica degli edifici della Civita rispetto a quelli della sorella via Etnea, se teniamo conto della preziosità che essi dimostrano, malgrado molti di loro necessitano di opere di rigenerazione.

Recentemente lungo la via Vittorio Emanuele ad angolo con la piazza Cutelli è stato utilizzato dall'Ateneo catanese il palazzo Pedagaggi per destinarvi la Facoltà di Scienze politiche, dove già esisteva una importante rappresentanza del Banco di Sicilia, così pure un' altra antica nobile residenza di via Dusmet a poca distanza dalla piazza dei Martiri. Rivitalizzato da un gruppo privato anche il grandioso edificìo della Vecchia Dogana del porto, primo luogo di accoglienza dei croceristi.

Mentre il palazzo dei principi Biscari continua la sua attività culturale quale sede di club teatri, atelier e manifestazioni varie di alto livello nei suoi secolari accoglienti locali.

Sono iniziative che indicano la volontà della città di riportare il quartiere della Civita alle sue originarie radici.

 

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

 

 

 

La Civita, antico quartiere marinaro, era ai tempi di Gian Battista Vaccarini il cuore della città che risorgeva dopo il disastroso terremoto del 1693. Proprio in questo quartiere, che lo aveva visto maggiormente impegnato coi lavori di ricostruzione e che più amava, l'abate architetto costruì la sua casa. A due passi dal mare, nei pressi dell'antico convento dei frati di S.Francesco da Paola, i quali gli avevano offerto, in cambio dei servigi resi, una striscia della loro vigna. La piccola costruzione, che nell'esiguità della sua mole è un esempio di raffinata eleganza, è stretta a Nord tra la via Sorrentino, ad Est via Serravalle e via Colapesce a Sud.

 

 

Sorta in periodo tra barocco e rococò, è invece decisamente classicheggiante e rinascimentale, anche se la presenza di alcuni elementi decorativi la pone di estrazione barocca. È piana e riposante. A pianta quasi quadrata, si articola su due piani: dieci stanzette e un saloncino al piano nobile e quattro vani al piano terra. La facciata in via Colapesce era una volta in vista del mare. In pietra calcarea bianca, è ritmata da quattro arcate che sorreggono una terrazza delimitata da una balaustrata con il caratteristico motivo a «trafori ovali» di invenzione vaccariniana.La costruzione gira l'angolo in via Serravalle, dove presenta una altra apertura ad arco, chiuso in origine da una chiave di volta decorata e sormontato da un altorilievo rappresentante il busto di S. Agata, protettrice della città.

L’apertura è formata da uno scalino in pietra lavica; oggi molto rialzato, ma una volta a livello stradale; si suppone che questo fosse l'ingresso principale della città. La facciata in via Sorrentino sembra essere rimasta incompleta: un semplice portone di ingresso ad arco di pietra bianca, sormontato da una finestra quasi rinascimentale affiancata da altre due a cornice piana; due semplici aperture in basso fiancheggiano il portone. Quattro occhialoni delimitati da una cornice circolare in pietra bianca, ritmano le superfici piane della facciata, dando luce alle scale interne. La casa, alla morte del maestro, passò in eredità alla sorella. Fu in seguito acquistata da una certa famiglia Piazza e divenne negli anni a venire abitazione di nuclei di pescatori e abitanti della zona. Solo nel 1941, già malridotta e cadente, fu dichiarata «monumento nazionale».

 Nel giugno del 1988, ultimati tutti i lavori a seguito di un devastante degrado, la Domus Magistris ha finalmente potuto riacquistare la sua vera fisionomia. Lunica licenza riguarda il busto di S. Agata. Originariamente posto come chiave di volta nell'arco di ingresso, il busto è stato restituito alla devozione dei catanesi. Ma per la riapertura al pubblico della storica casa, occorreva altro tempo. Certo che il gioco altalenante delle pubbliche amministrazioni ha indubbiamente influito su tale ritardo, ma è proprio uno strano caso che la riapertura della dimora del massimo artefice della rinascita di Catania sia avvenuta quest'anno, nel 1993, a trecento anni giusti di distanza da quella terribile data: 1693, quando la città scempiata e stravolta, poté riacquistare corpo e anima grazie all'opera di Gian Battista Vaccarini, grande architetto e abate di Milazzo.

(Marilena Torrisi)

 

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Archi della Marina
Materiale pietra: roccia lavica e roccia calcarea Progettista ing. Petit Costruzione 1864-1869
In siciliano Archi dâ Marina, è il nome di largo uso tradizionale e popolare con cui è chiamato il lungo viadotto ottocentesco in muratura, della ferrovia Catania-Siracusa, che collega la stazione di Catania Centrale all'imbocco della galleria dell'Acquicella.
Il progetto del viadotto nacque in seguito ai programmi di costruzioni ferroviarie della Società Vittorio Emanuele. Questa, costituita con capitale interamente francese e presieduta da Carlo Laffitte, era subentrata nella costruzione e nell'esercizio delle linee ferroviarie calabro-sicule quasi d'autorità sostituendo la Società livornese Adami e Lemmi che, con decreto dittatoriale del governo provvisorio di Garibaldi del 25 settembre 1860 ne aveva ottenuta la concessione.

La Società Vittorio Emanuele subentrò facilmente alla Società Adami e Lemmi anche perché aveva fatto acquisto di una consistente partecipazione azionaria in quest'ultima. Il 27 agosto 1863 vi fu l'atto di affidamento per la costruzione delle nuove linee alla società Parent, Schaken e C. e Salamanca che, il 25 settembre successivo, la subconcessero alla società in accomandita Vitali, Picard, Charles e C. già preventivamente costituita a Parigi il 24 agosto 1862 (i cui soci accomandanti erano Parent, Schaken e C. e gli accomandatari Vitali, Picard, Charles ed Oscar Stevens). Quest'ultima società appaltò ulteriormente la costruzione dei tronchi ferroviari Alcantara-Catania, Catania-Siracusa, ed i lavori della Stazione di Catania Centrale all'impresa Beltrami Gallone e C.

Frattanto in seguito all'emanazione, il 14 maggio del 1865 di un'apposita legge, la n. 2279 si costituiva la Società per le Strade Ferrate Calabro-Sicule e si affidava alla suddetta società la concessione per la costruzione e l'esercizio delle future ferrovie di Calabria e Sicilia. Nel 1866 non riuscendo a portare avanti i lavori per motivi finanziari, la Società per le Strade Ferrate Calabro-Sicule (ex Società Vittorio Emanuele) metteva in liquidazione la Vitali, Picard, Charles e C e il 29 novembre dello stesso anno stipulava una nuova convenzione con l'Impresa Generale per la costruzione delle strade ferrate calabro-sicule per continuare i lavori della Messina-Siracusa.
In questi frangenti, tra diatribe e dibattiti interminabili, si inseriva la questione degli Archi della Marina; era infatti opinione dell'amministrazione comunale e della Camera di Commercio cittadina della città di Catania che il tracciato presentato nel marzo del 1864 dall'ingegnere Petit, della Vittorio Emanuele, fosse penalizzante per la città in quanto creava una cintura di ferro che penalizzava pesantemente il movimento mercantile del porto e cancellava la Passeggiata a mare cittadina costituita dal viale esterno alle Mura di Catania che conduceva al piazzale posto al termine della via Vittorio Emanuele.
Veniva quindi proposto, dalla commissione di ingegneri incaricati dal comune, un percorso alternativo a monte della città che passasse per il piano del Borgo e con diramazione a Cibali per Siracusa e Palermo che avrebbe allacciato il porto da sud nell'area detta di Villa Scabrosa evitando anche la costruzione della galleria dell'Acquicella. Il dibattito parlamentare sembrò accogliere il progetto ma con un vero e proprio atto di forza, con decreto del 6 agosto 1864, il Ministero dei Lavori Pubblici approvava il progetto di massima presentato il 12 giugno 1864 dalla Società Vittorio Emanuele, prescrivendo alla stessa il tracciato a sud con il lungo viadotto e la galleria di 1 km sotto la città.
Nonostante ciò da parte delle numerose istanze cittadine si tentava di ottenere dal Ministero l'approvazione delle varianti proposte fino all'anno successivo.
Il 3 gennaio 1867 veniva aperta all'esercizio la Stazione Centrale costruita sulla scogliera dell'Armisi, luogo che era stato oggetto di contestazione, con la inevitabile costruzione del viadotto che venne aperto al traffico ferroviario il 1º luglio del 1869 contemporaneamente alla galleria dell'Acquicella, al collegamento dei binari del porto e alla prima sezione della linea per Siracusa.
Negli anni trenta con i lavori di ampliamento del Porto di Catania anche il viadotto venne inglobato nel tessuto urbano dato che venne realizzato l'ampio piazzale artificiale del Molo Crispi.

 

A metà degli anni sessanta nel corso dei lavori di ammodernamento della ferrovia Catania-Siracusa venne raddoppiato il viadotto dal lato sud, verso il porto, costruendone una seconda sezione affiancata dal lato mare, esteticamente uguale a quella antica.
Nel corso dei primi anni duemila il viadotto è stato al centro di polemiche, tra l'amministrazione comunale e vari ambienti culturali cittadini, in seguito al progetto di un suo abbattimento in seguito ai lavori di costruzione del passante ferroviario di Catania di RFI. In seguito a ciò e, soprattutto, dato l'elevatissimo costo necessario a tale operazione il progetto è stato successivamente modificato prevedendo l'interramento della sola Stazione Centrale che si dovrebbe collegare con una rampa in ascesa al viadotto.

 

 

GLI ARCHI E LA FERROVIA

Se l'attività portuale crea inevitabili situazioni di degrado in un quartiere fortemente antropizzato, ancora di più la strada ferrata le cui locomotive, a quei tempi a carbone, ne rendevano l'ambiente malsano. Ambedue fattori tali da rendere degradata l'intera area abitativa, per cui la nobiltà, che nel periodo della ricostruzione aveva pagato il valore di quelle aree il triplo di altre perché, al confine con il lungomare, vennero considerate di posizione ambientale pregiata, negli anni del novecento, cominciò ad abbandonare il quartiere. lnfatti con la perdita del paesaggio e lo sconfinamento con il mare dovuto all'attraversamento ferroviario, l'ambiente iniziale venne stravolto, con conseguente abbassamento dei valori patrimoniali degli immobili.

La costruzione del ponte ferroviario (archi della marina) e della Stazione Centrale, portarono alla distruzione di quella parte di mura di Carlo V non crollate a causa del fenomeno sismico, interessando le porte del Porticciolo e di Ferro, ma soprattutto tolsero il mare alla città del tempo ed a quella del futuro.

Addirittura nell'infausto giorno dell'inaugurazione dell'ecomostruosità venne distribuita una cartolina che ricorda lo storico misfatto ambientale, di cui, ancora oggi molti professano I'ambientalismo senza chiederne l'abbattimento.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

 

Caratteristiche

Il viadotto venne realizzato, a semplice binario, mediante una successione ininterrotta di archi in muratura poggianti su pile anch'esse in muratura. Nella scelta dei materiali di decorazione venne utilizzata la tipica alternanza di colori, grigio Basalto e Avorio, che caratterizza molte delle costruzioni cittadine. Il percorso del viadotto assume la forma di una S coricata che inizia da un contrafforte artificiale all'altezza del molo foraneo del porto e termina poco oltre la porta Uzeda, in corrispondenza della pescheria. Il percorso contorna all'esterno il vecchio perimetro della città allargandosi sul mare all'incirca a metà del suo percorso.

http://it.wikipedia.org/wiki/Archi_della_Marina

 

 

 

Archi della Marina, li abbattiamo o li valorizziamo?

Archi della Marina: un storico simbolo o uno storico "sfregio" al waterfront barocco? Se lo chiede la prima municipalità di Catania, quella che fa riferimento al "cuore" storico della città, dove sorgono appunto gli archi, con una raccolta firme. Come a dire "se il Consiglio comunale non è capace di decidere, chiediamolo ai cittadini". Di abbattere o di valorizzare questi, comunque li si considerino - belli brutti inutili romantici inquietanti - "storici" simboli di Catania se ne parla da anni, più o meno da quando si parla di "piano regolatore nuovo". Vale a dire da almeno 20 anni (l'ultimo PRG è del '69, il "Piano Piccinato"). Abbatterli vorrebbe dire recuperare il "Water front" storico della Catania barocca, con il Palazzo Biscari, l'arcivescovado e tutti gli altri edifici storici della via Dusmet che riacquisterebbero il loro ruolo di "biglietto da visita" per i turisti che vengono dal mare, dal porto, lì a due passi. Ma la prospettiva di trasformare gli archi, ora ponte ferroviario, in una pista ciclabile all'interno della città non è per nulla una cattiva idea, tanto più che sarebbe economica e di facile realizzazione, mentre l'abbattimento degli archi richiederebbe anche la completa riprogettazione dell'intera area portuale, riportando il mare a pochi metri dal centro storico.

 

 

Un'impresa titanica, ma visti i tempi che corrono a Catania - dissesto finanziario alle porte, crisi economica, crisi ambientale, crisi occupazionale, crisi universitaria, crisi in ogni sua forma - forse è meglio volare basso e realizzare il realizzabile. I catanesi poi sono affezionati agli archi, che sono anche il centro di molti detti popolari, e la loro presenza è rassicurante. Il presidente dell'autorità portuale Castiglione (ex assessore comunale ai tempi di Scapagnini) assicura che resteranno dove sono, ma l'ultima parola non spetta a lui, ma al Consiglio Comunale.
Voi cosa ne fareste? Li valorizzereste restaurandoli e integrandoli nel contesto urbano, o li abbattereste per far spazio al "waterfront" che tanta ammirazione ispirò ai viaggiatori del Grand Tour?

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Lanfranco Zappalà*- Se chiedessi a tutti i catanesi cosa sono gli “Archi della marina” sono sicuro che ciascuno di essi saprebbe rispondermi. Un tempo il nostro bel mare arrivava fin là sotto, proprio sotto i nostri grandi Archi e credo che debba essere stato uno spettacolo meraviglioso osservare le onde infrangersi contro di essi.

 

 

Oggi il mare è ben lontano dagli Archi e certamente guardandoli adesso non credo che sia tanto spettacolare come una volta. Ritengo che gli “Archi della marina”, oltre a rappresentare un importante testimonianza del passato di Catania, possano anche divenire un vero e proprio simbolo della città. Piuttosto che lasciarli al degrado o vederli trasformati in bancarelle o ancora peggio in selvaggio deposito di auto e furgoni, gli “Archi della marina” potrebbero divenire un vero e proprio “Museo”.
Questa è la mia idea!

“Il Museo a cielo aperto”, così ho chiamato il mio progetto, vuole essere un tributo alla sicilianità e rappresentare quelle magnifiche tradizioni legate alla terra , al mare, all’arte, alla cultura di Catania e della Sicilia in genere. L’Etna e i suoi preziosi frutti, il mare, la pesca, l’arte dei pupi, l’artigianato in tutte le sue manifestazioni, dal carretto siciliano alle ceramiche.

 

 

 

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L' ERRATA UBICAZIONE DELLA STAZIONE FERROVIARIA CHE HA DETERMINATO LA SOTTRAZIONE DEL MARE ALLA CITTÀ

-Con l'errata scelta dei luoghi di attraversamento della strada ferrata,i cui archi di sostegno dopo breve tempo si ritrovarono all'interno della città e la presenza del porto e della stazione ferroviaria sempre più impattati sull'ambiente urbano per il tipo di traffico che causava il trasporto e la spedizione delle merci ed in particolare dello zolfo,cominciò la fase discendente del quartiere.

Al danno prodotto dall'attraversamento della ferrovia si aggiunge la costante penetrazione del degradato quartiere del San Berillo nella Civita,per cui si comprende la causa dei decadimento del più nobile ed antico quartiere della città ed il trasferimento altrove dell'interesse residenziale dell'aristocrazia.

Fu realizzata una "cintura di ferro",come venne chiamata dal prof.Francesco Fichera in un convegno:"nel 1860 allorché fu costruita quella serie di orribili cassepanche in muratura che hanno ricevuto l'appellativo di archi della marina (per cui gli archi purtroppo ci sono, ma la marina non c'è piu), nonostante il disperato intervento di alcuni illuminati. "

Il Consiglio Comunale del tempo commise l'enorme errore di respingere la proposta avanzata dall'impresa costruttrice che, contro il compenso di lire centomila, avrebbe spostato a monte la linea ferroviaria.

Esempio eclatante di amministratori dalla vista corta nei confronti degli interessi pubblici le cui indecisioni graveranno negativamente per secoli.

 

 

Ed era quello che Ignazio Landolina aveva suggerito al Consiglio Comunale, con una relazione che riguardava lo spostamento del percorso nella parte alta della città che, se accolta,avrebbe evitato quella disastrosa "cintura di ferro ",archi per primi.

Tali "cassoni"hanno rappresentato per Catania, il più grave misfatto paesaggistico che sia stato mai perpetrato in suo danno, con l'aggiunta di avere creato un serio permanente impedimento alla mobilità viaria della più preziosa area cittadina:a quel tempo, ed ancora oggi. Dalle figure....si può facilmente verificare il danno che essi permanentemente creano alla città e come potrebbe essere senza l'impedimento degli archi.

Con essi vennero "accecate "tutte le residenze che avevano la vista su quel lungomare, oggi via Dusmet con una conseguente devalorizzazione patrimoniale degli edifici coinvolti.

E non solo per gravissimo danno ambientale o per la mobilità veicolare che non consente il necessario scorrimento, ma perché impedisce il collegamento diretto tra il Templum ed il Castello Ursino che doveva avvenire lungo la via San Calogero.

Infatti ad ovest, con la soppressione della via San Calogero occupata dalla ferrovia, si venne ad accentuare una discontinuità urbana, tra la parte est della città (Civita)e la parte ovest che portava al Castello Ursino, marcandone il diverso tipo di sviluppo. La Civita, col tempo, non costituì più la parte culturale e nobiliare della comunità.

Non solo non era più in condizioni di dare positività ambientale e culturale alle aree circostanti ma veniva coinvolta dalle negatività del loro degrado, tenuto conto che esse erano cresciute disordinatamente, senza avere osservato le regole dettate dal Camastra. Molti cittadini, per una questione di affettività, derivante da un fenomeno di quotidiana abitualità ,ritengono tuttavia oggi che questi archi vadano tutelati.

A questi rispettabili affezionati del passato (seppur negativo),va proposto l'esempio dell'acquedotto dei Benedettini:come per lo storico acquedotto si potrebbero salvare alcuni archi della marina, lasciando di loro una consistente testimonianza storica che attraversa il verde -(Gaetano D'Emilio)

 

Foto e testo tratti da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio

 

 

 

Tutto ciò e molto altro racchiuso sotto gli archi ma a “Cielo aperto”, un museo appunto aperto a tutti coloro che costeggiano gli Archi della marina e possono ammirare le raffigurazioni delle nostre meraviglie.
Il mio obiettivo è non solo la valorizzazione di un angolo di città molto caratteristico, attraverso l’esaltazione delle nostre tradizioni, ma anche un’opera artistico-culturale da offrire ai catanesi stessi e al turismo.
Gli “Archi della marina” trovandosi alle porte della città per chi ci raggiunge dall’aeroporto, dal porto e dalla stazione, potrebbero divenire per i turisti un’opera di benvenuto rendendo gradevole, e soprattutto originale, l’ingresso nella nostra bella Catania.
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LA VILLA PACINI

Alle spalle del Piano di S.Agata, attraversato dal percorso finale del fiume Amenano, tra il mare e la cittadella del clero, successivamente venne programmata la elegante villetta pubblica Pacini, in convinta attesa che fosse l'inizio, come in altre città marinare, di un ampio ininterrotto lungomare cittadino.

Il quartiere venne arricchito da tale zona verde alle spalle della piazza Duomo, ricavata da una vasta area liberata dalle ricorrenti inondazioni delle acque di scorrimento piovane e del fiume Amenano che la rendevano melmosa. Di quella area, sopraelevata, si ricavò invece un luogo di passeggio e di incontri con vista sul mare, adornata da alberi d'alto fusto e verdi aiuole segnate da eleganti bordure di verde, con un laghetto alimentato da una delle tre ramificazioni regolamentata del fiume. Frequentata da signore e signori eleganti desiderosi di rilassarsi o apparire, di incontri amorosi o affaristici, di anziani dediti alla lettura dei giornali quotidiani, di bambini che per gioco si rincorrevano seguiti da genitori e nurses. Nel pomeriggio delle serate estive erano molto frequentati i concerti della banda cittadina che nei giorni festivi si raddoppiavano: uno nella tarda mattinata e I'altro nella serata.

 

 

La villetta era anche luogo in cui bravi cantastorie di professione , nei pomeriggi ma anche nelle mattinate raccontavano ai cittadini di tutte le età, che accorrevano numerosi, fantasiose quanto affascinanti storie medievali di lotte tra Crocìati e Saraceni, ma anche di argomenti popolari quali la storia della Baronessa di Carini, accompagnati da cartelloni a colori precedentemente preparati, con ammesso dibattito, riscuotendo successo e simpatia vivendo più di passione teatrale che dei pochi spiccioli che racimolavano alla fine di ogni esibizione.

Successivamente, nel 1879, l'Amministrazione Comunale volle onorare il valoroso musicista catanese Giovanni Pacini, messo in ombra dalla fama di Bellini, intestandogli la villetta con relativo monumento marmoreo; per cui la villetta alla Marina venne ribattezzata Villa Pacini.

Quando venne costruito il viadotto ferroviario che coinvolse anche la villetta, si discusse a lungo, anche in Consiglio Comunale, se quei tozzi archi dovessero essere trasferiti altrove, ma come da sempre, essendo i vertici delle ferrovie italiane, uno Stato a parte rispetto a quello ltaliano, non se ne fece niente, imbruttendo insieme alla città anche la deliziosa villetta, unico verde pubblico in quella importante area, trasformando il laghetto in vasca d'acqua ed eliminando i concerti Cessarono infatti i pomeriggi musicali diretti dal famoso maestro Pennacchio, a causa della ferrovia con i suoi rumorosi passaggi provocati dalle locomotive a carbone per cui l'ambiente non era più salubre; i bambini non continuarono ad inseguirsi essendo diventata l'aria insalubre, vennero dirottati altrove gli incontri amorosi o affaristici, accolti nei numerosi eleganti locali della vicina via Etnea, per cui per l'arguto popolano catanese diventerà solo "a villa e varagghi".

Nelle serate dal mite clima, adesso che le locomotive non sono più alimentate a carbone, i pescatori anziani, per tradizione tramandata da padre in figlio, continuano ad incontrarsi per una partitina a carte o per avere fresche notizie "radiovoce " di quartiere, ma anche per "rimediare" qualche opportunità di lavoro.

Negli anni ottanta si è riusciti a collocarvi qualche statua acefala dei re Borbone, giacente nei depositi comunali fin dal 1860, a testimonianza storica.

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da "Catania dal blasonato barocco della ricostruzione al vivace liberty dei viali" di Gaetano D'Emilio - Editore Media Libri - 2009

 

 

 

LA VILLETTA PACINI

(Testo di Lucio Sciacca, da "Catania com'era",1974)

-Prima dell'eruzione del 1669,la PLAIA si estendeva dalla punta del Faro all'attuale darsena interna del porto, e i terreni che la delimitavano a occidente,tra i più fertili dell'intera zona, erano coltivati a ortaggi e, in parte, destinati a ville patrizie. Un vero <<luogo di delizie >>,come allora veniva indicato tutto il litorale meridionale catanese.

Per le passeggiate estive,i catanesi, dunque, potevano spingere i loro passi dal PORTICELLO SARACENO,  brulicante di velieri colmi di derrate,al vivaio Biscari che, per le sue serre favolose e la dovizia delle sue colture, veniva considerato fra i più assortiti d'Europa.

Una passeggiata davvero lunga, a ben pensarci.

Finché, un giorno di quell'infausto 1669,la Montagna ci mise la coda (di fuoco),e gran parte di quei terreni,le ville,il vivaio Biscari, la passeggiata stessa dei catanesi andarono in fumo in men che non si dica.

L' eruzione di quell'anno,insomma, modificò la topografia del litorale, e dov'erano stati alberi frondosi, morbide arene e aiuole fiorite, s'allargarono, d'un colpo,le durissime lave dell'Etna.

<<......Prima di raggiungere il mare - scrive il Recupero - il fuoco si dilatò quasi in due miglia di larghezza, il cui sinistro corno camminando rasente il Castello Ursino e le Mura della Marina, sopravvanzò la loro altezza.....venendo a seppellire i 36 canali che adacquano la città et erano ornamento impareggiabile della marina. Il destro corno si diresse verso mezzogiorno dove incendiò ville et giardini, orti e case e palazzi che adornavano quella riviera. E ugualmente precipitando nel mare tutta quella gran mole di fuoco, si avanzò quasi un miglio per entro a quello.....>>

(Si avanzò tanto, quella <<gran mole di fuoco >>,da indurre i catanesi a sperare che l'Etna, dopo le troppe rovine, avesse almeno dato loro il Porto,un porto naturale.....)

La spiaggia, divenuta costa dall'oggi al domani, obbligò i catanesi a rivedere i loro itinerari festivi, costringendoli a limitarne l'ampiezza.

Com'era quindi da prevedersi, col passar del tempo essi rivolsero le loro cure allo spazio prospiciente il Palazzo Vescovile, attiguo al Porticello Saraceno, ch'era stato risparmiato dalla lava.Poiché in fatto di opere pubbliche, il tempo è misurato col metrò dei decenni, ed essendo ormai trascorso più di un secolo senza che alcun provvedimento fosse stato preso per dotare la città d'una conveniente passeggiata, la gente cominciò a protestare. E dinanzi alle proteste popolari, anche i sordi odono, talchè l'Intendente del tempo, duca di Sammartino, dichiara solennemente che non si darà pace finché non avrà sistemato la Marina. Nel 1825 ebbero inizio, infatti, quei lavori che dovevano ridare ai catanesi la loro ambita passeggiata e allo stesso Intendente la soddisfazione d'un canto di gratitudine indirizzatogli dal popolo, questa volta plaudente:

<<Ch'è beddu lu 'Ntinnenti di Catania

ca fici l'arvuliddi a la marina,

li lampiuneddi fici a la rumana,

li pisuleddi di marmura fina......>>

 

 

Così,il vasto piazzale che si allargava dall'attuale via Porticello alla Pescheria, venne livellato,alberato, dotato di sedili. Vi si snodava la cosiddetta PASSEGGIATA ALBERATA,quella che <<lungo il mare rigirando, va ad incontrare per la porta Uzeda la strada Stesicorea, ed è ornata di sedili e provvista di abbellimenti lungo la cortina non fuori lontana. Essa quantunque piccola per la numerosa popolazione di Catania, non lascia pure di essere bella, utile ed elegante. La sera viene tutta illuminata da spessi fanali e da parecchi lanternini, e nei mesi canicolari e caldi,alfin di trattenere divertito il pubblico, ito là a godere del fresco, si fanno armoniosi concerti di musica.....>>

Benché piccola  - come giustamente apparve al Cordaro Clarenza  - la passeggiata alla Marina rappresentò,in quel tempo, l'unico luogo di svago e di distrazione di cui potessero disporre i nostri concittadini (ch'erano allora si e no centomila) i quali, poco alla volta, riuscirono a trasformarla in vera e propria villa.Negli anni 1860 e successivi,infatti, si pose mano ad impegnativi lavori di abbellimento. Venne rialzato il livello dei viali alberati;chiusa in un canale coperto la foce dell'Amenano che impantanava la zona; demoliti gli avanzi della Porta del Porticello che ingombravano la via omonima;ingrandita la pescheria fino all'androne dell'ex Seminario;ripristinata la fonte dei canali (ridotti da 36 a 7);innalzata una monumentale fontana all'ingresso alto della stessa pescheria (quella dell'acqua a lenzuolo, dello scultore Tito Angelini);costruito e messo in opera il cancello di ferro-battuto, imponente coronamento della ringhiera del giardino.

All'interno poi,si crearono motivi pittoreschi con i due <<fiumicelli>> dell'Amenano, il ponticello di legno che li scavalcava, i sedili a sofà,il palchetto della banda, le siepi di bosso,le bellissime aiuole.

Insomma, in quegli anni, il giardino della marina era....lasciamolo dire a Giovanni Verga:<<.....I viali erano affollatissimi;la musica eseguiva le più appassionate melodie di Bellini e di Verdi;un bel lume di luna si mischiava alle vivide fiammelle dei lampioncini sospesi agli alberi.....>>

Un angolo di paradiso, un incanto.

Annota il Cristadoro che, nei giorni festivi, vi si tenevano due concerti, uno a mezzogiorno, l'altro di sera;e che, quello diurno, venne poi ritardato di mezz'ora per aderire alla richiesta di un gruppo di dame che avevano bisogno di più tempo per <<essere compìte nella toletta >>

Il gentil sesso catanese non perdeva occasione per correre ai concerti della marina, anche di sera e anche d'inverno, malgrado la scarsezza della illuminazione e l'inclemenza del tempo.

Il 10 febbraio 1878 - scrive il Cristadoro nel suo diario  - mentre la banda teneva il serotino concerto, particolarmente affollato da signore e signorine  elegantemente vestite,ecco giungere alla villa una torma minacciosa di scalmanati. (Si protestava contro il governo che, per la morte di Pio IX, aveva vietato quell'anno il giro delle candelore in città).I dimostranti si dividono in due gruppi, di cui uno s'avvia verso il teatro. L' altro ,<<formato da un gran popolo che dava timore, a cui si uniscono persone di tutti i ceti portando delle torce a vento>>,attraverso la porta Uzeda si riversa nella villa, e qui,con grida e schiamazzi, interrompe il concerto.

Lo sbigottimento è generale.

Chi può si sottrae prontamente alla stretta;il maestro non sa che pesci pigliare e resta con la bacchetta a mezz'aria;le <<dame atterrite, vanno in convulsioni >>.

Mentre il <<popolaccio scatenato sta per violentare i carabinieri >>nel frattempo intervenuti, arriva il Prefetto, promette che la festa si farà e,lentamente, torna la calma nella turbata villetta.

Nel frattempo, fatti ben più gravi erano maturati a danno della Marina.

Già nel 1865 era stata presa l'irrevocabile decisione di costruire il viadotto ferroviario lungo il litorale;e sul finire dello stesso anno <<si sono cominciate le fossate per piantare i pilastri delli piloni per la costruzione del ponte della strada ferrata. La Marina tutta è stata rovinata. Il pubblico borbotta.....>>

Gli ARCHI,secondo le temute previsioni, invadono anche la villetta. È un rospo che i catanesi stentarono a inghiottire se,ancora nel 1908,si discuteva in Municipio intorno ai mezzi più adatti per liberare la Marina <<dallo sfregio degli archi tozzi e antiestetici, spostando la linea ferroviaria verso il nord e l'ovest della città, in modo da congiungersi la stazione centrale con la stazione Acquicella, senza che la linea di congiungimento passi per la Marina.....>>

Parole.

Gli ARCHI restarono al loro posto, e i catanesi, che nel frattempo avevano cominciato a farci l'occhio, continuarono ad affollare la loro villa, ormai intitolata a Pacini, il cui mezzo-busto, trasferito dall'ex giardino biscariano, aveva trovato ivi decorosa sistemazione.Qualche anno dopo, nel cielo di Catania sorgerà l'astro della nuova villa,di quella intitolata al Cigno,che i

catanesi avevano lungamente atteso;e, inevitabilmente, comincerà il declino del giardino Pacini.

Così, giorno dopo l'altro scompaiono i <<fiumicelli >>e il ponte di legno, il palco dei concerti, il sediaio, il venditore di gelati e tutto quel campionario di umanità che l'animava. Per far posto al nuovo mercato ortofrutticolo, scompaiono platani, aiuole, palmizi. Da tempo sono state abolite le deliziose passeggiate;e le dame brillano per la loro assenza.

A pagarla un tesoro, non s'incontra più una gonna, alla villa Pacini. Tutti uomini, ormai. E sulle ultime battute del secolo che se ne va,un cronista annota:<<.....la parte elegante delle nostre signore non ama più la villa Pacini, dove conviene un gran numero di uomini. È una specie di convegno unisessuale. Che malinconia!>>

Ignorata dal bel mondo, presa nella morsa di due rumorosi mercati, con l'inizio del nuovo secolo anche il mare,poco alla volta, se ne allontana.

Ormai, alla villa Pacini si va per sbadigliare.

Che malinconia.

(LUCIO SCIACCA)

grazie a Milena Palermo

 

VEDI ANCHE QUI

 

 

 

 

VIA VECCHIA DOGANA

IL PORTO

 

 

 

APPRODI CATANESI

Com'è facile immaginare il problema degli approdi catanesi in età preistorica e pro¬tostorica è complesso e di non facile definizione per più motivi, quasi tutta la fascia costiera che ci interessa ai fini di questa ricerca, cioè quella che va a Nord fino a Ognina e a Sud fino all'attuale porto, è stata sommersa da colate di età storica che, oltre ad avere ricoperto gli stessi abitati che vi dovevano essere sorti in età preceden¬te, hanno anche radicalmente mutato la linea di costa. Per le ipotesi ricostruttive sui mutamenti della costa catanese si rimanda al lavoro di E. Tortorici in questo stesso volume. In Sicilia la facies culturale diffusa su quasi tutta l'isola, eccezion fatta per il messinese e la fascia costiera tirrenica, è quella di Castelluccio, databile approssimativamente tra i 2300 e 1400 a. C.

 

I numerosi insediamenti pertinenti a questa facies ci consentono di avere a disposizione una maggior quantità di dati rispetto ad altri periodi e di conseguenza una interpretazione più agevole di essi. Come conseguenza le testimonianze indirette dell'esistenza di approdi nell'area di Catania si fanno più esplicite. Infatti all'assenza di dati provenienti direttamente dalla fascia costiera, fanno da contraltare la ricchezza di quelli provenienti dalla zona alta della città, soprattutto nella fascia che va da Barriera del Bosco a Canalicchio. Anche se per il momento nella zona di Catania sono assenti materiali di provenienza egea, negli ultimi anni il progredire della ricerca ha permesso l'individuazione di ceramiche provenienti dalla penisola italiana, soprattutto dalla Calabria.

 

 

Questi abitati, situati in posizione piuttosto interna, dovettero comunque gravitare su un centro costiero oggi scomparso sia esso sorto intorno al Golfo di Ognina, come penso, o a quello di San Giovanni Li Cuti. Infatti la quantità e la varietà di tali materiali rispetto a quanto finora noto da altri abitati coevi in altre regioni della Sicilia si può spiegare soltanto con la presenza di un vicino scalo marittimo. Anche se nella fascia pedemontana di Catania, soprattutto in quella che gravita verso l'insenatura di Ognina, gli abitati di questa età sono presenti, finora non ci è giunto alcun manufatto di produzione extra-isolana.

La sola indicazione che ci conferma come gli scali catanesi, e segnatamente quello di Ognina, fossero comunque attivi, ci viene da una pubblicazione oavim che presenta in una foto, un'olla panciuta biansata a breve collo rinvenuta in mare poco a Nord di Ognina, in un tratto di costa detta, significativamente, Quartarara. Si tratta di una forma il cui solo confronto è con un vaso proveniente appunto dalla Grotta Basile a Barriera, databile appunto alla facies di Thapsos.

 

II tipo di vaso è assegnabile alla classe dei contenitori, adatto sia alla conservazione sia al trasporto, che forse testimonia la presenza di uno dei più antichi relitti tra quelli segnalati all'imboccatura del Porto d'Ulisse. I dati riguardanti l'età del Bronzo recente e finale e la prima età del Ferro a Catania e nella zona circostante sono piuttosto scarsi, ma in costante aumento grazie alle ricerche più recenti. Essi sono tali da indurci a ritenere che esistessero almeno due insediamenti, uno nell'area del Monastero dei Benedettini e un secondo a Monte San Paolillo a Canalicchio, gravitanti ancora una volta, rispettivamente, sull'insenatura presso cui sarebbe sorto il Castello Ursino e sul porto di Ognina.

(Gli approdi catanesi nella preistoria e protostoria -  Enrico Procelli)

 

 

 

Il porto Saraceno era il Porto Ulisse?

Il porto di Catania, chiamato Il porto saraceno potrebbe essere escluso perché la lava lo avrebbe raggiunto solo dopo aver causato gravi danni danni e distruzioni nell'area urbana; quindi, questa distruzione sarebbe ancora ricordato nei resoconti contemporanei. A quel tempo, infatti, il porto saraceno era di discrete dimensioni ormeggio per dimensioni ed importanza, situato a il molo naturale dalle mura esterne di fortificazione al Cittadella vescovile (la cosiddetta Civita), nell'area oggi occupata da Via Porticello e Piazza Borsellino. L'eruzione del 1224 durò 15 giorni. La Continuazione Fucensis paragona probabilmente questa eruzione a falangi armate riferendosi alle nuvole di cenere, o al fumo denso causato dal incendio di boschi invasi da colate laviche o da altre colate vulcaniche materiali.

Al-Idrisi (1100–1165, 1880) descrive la città di Catania senza specificare l’ubicazione del porto: ‘Bello questa Catania, conosciuta come la città dell'Elefante famoso. Si trova sul mare e ha dei mercatini, magnifici palazzi, moschee, chiese, terme, hotel e un bellissimo porto. I viaggiatori vengono a Catania da tutte le parti; esporta tutto tipi di merci. Catania ha molti giardini e vasti terreni agricoli. Attinge l'acqua dai fiumi vicini ed è dotata di abbondanti fontane.

Il suo fiume principale è l'Amenano, che da alcuni anni lo è così pieno d'acqua che funzionano i mulini, negli altri anni è così secco che non c’è nemmeno una goccia d’acqua da bere’. Probabilmente corrispondeva solo a un approdo non eccezionale all'area oggi occupata da Villa Pacini. Le fonti menzionavano il porto di Catania come punto di carico per il grano.

 

Fonte “L'antico porto di Catania (Sicilia, Italia meridionale) fu sepolto dalle colate laviche medievali?” Ottobre 2018 Scienze Archeologiche e Antropologiche

Autori:

Dott.ssa Carla Bottari, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania

Prof.ssa Maria Serafina Barbano, docente dell’Università di Catania

https://www.researchgate.net/publication/316362758_Was_the_ancient_harbour_of_Catania_Sicily_southern_Italy_buried_by_medieval_lava_flows

 

 

 

 

 

 

Il porto di Catania è un porto artificiale prospiciente la città di Catania nell'omonimo golfo. La sua attuale struttura risale al XX secolo.
Il primo porto a Catania venne costruito su iniziativa del re Alfonso d'Aragona, nel sito in cui era stato costruito, nel X secolo, il porto da parte dei saraceni. Il porto venne dotato di attrezzature adeguate all'attracco di grossi vascelli da trasporto, ma le violente mareggiate del golfo di Catania distrussero più volte i moli artificiali che venivano costruiti. L'evento più drammatico si verificò nel 1601, quando una mareggiata di inaudita violenza cancellò ogni struttura lasciando soltanto un mucchio di pietre.
All'inizio del XVIII secolo, si realizzò, da parte dei Borbone, quello che possiamo vedere ancora oggi. Il porto venne realizzato con tecniche moderne e la diga foranea fu realizzata con grande attenzione alla robustezza del manufatto, facendo attenzione a quanto avvenuto nei secoli precedenti. Nel corso del secolo vennero apportati miglioramenti ed agli inizi del XIX secolo, sempre dietro l'impulso borbonico, il porto migliorò le sue strutture.
Dopo la costruzione della Ferrovia Messina-Catania, il 1º luglio 1869 la Stazione di Catania Centrale venne collegata al porto mediante un raccordo in discesa lungo 914 metri costruendovi inoltre un fascio di binari e la Stazione di Catania Marittima. Intorno al 1898 anche la Ferrovia Circumetnea raggiunge il porto costruendovi una stazione di testa.
Intorno agli anni trenta del XX secolo, il regime fascista decise di ristrutturare il porto apportandovi notevoli modifiche; venne eseguito l'interramento e la costruzione delle banchine, denominate Molo Crispi, ad est degli Archi della Marina che vennero attrezzate per l'attracco delle navi. Fino ad allora il mare lambiva le mura della città in prossimità della Porta Uzeda. Ciò gli fece raggiungere la struttura attuale e lo rese uno dei porti più moderni del sud Italia. Venne prolungata la diga foranea di altri 600 metri ed irrobustite le difese dei moli; sulla diga foranea venne inoltre costruita una grandissima gru a sbalzo per le operazioni di carico e scarico.
Durante il secolo la struttura è stata sensibilmente modificata tanto da spostare le banchine di circa 100 metri verso il mare guadagnando così degli spazi per l'ampliamento delle banchine stesse e della viabilità interna al porto. Alla metà del secolo scorso gran parte della diga foranea venne fortemente danneggiata da una mareggiata di grandi proporzioni e poi ricostruita.
Il porto è essenzialmente di tipo mercantile, anche se da alcuni decenni sono state attivate delle linee di traghettamento di veicoli industriali verso porti del centro e nord Italia, consentendo così ai TIR di evitare l'autostrada Salerno - Reggio Calabria non adeguata ad un traffico snello con il nord Italia.
Esiste anche un traffico passeggeri anche se limitato a navi da crociera e di alcuni traghetti con Genova, Civitavecchia e Napoli. Altri servizi collegano, a mezzo catamarano, Malta.
http://it.wikipedia.org/wiki/Porto_di_Catania

 

Fin dall’antichità il tratto di costa compreso tra Catania e Naxos ebbe un ruolo fondamentale per gli scambi commerciali tra le popolazioni costiere per la presenza di molti punti di approdo che già i coloni greci, partiti dalla città di Calcide, utilizzarono nella loro avanzata da Messina (la Zancle greca) verso Catania.
L’importanza del porto antico della città di Catania è ricordata dagli scrittori latini che attribuivano allo scalo di Catina romana un ruolo non indifferente nei commerci del vino e del grano.
Ma sulla localizzazione dell’antico porto ancora oggi si discute per la scarsità e frammentarietà dei dati archeologici a disposizione, per le interpretazioni spesso fantasiose ma soprattutto per le profonde trasformazioni subite dalla linea di costa in seguito alle colate laviche dell’Etna.

 

 

 

Il tratto di costa compreso tra Catania e la baia di Capo Mulini fu oggetto di interesse da parte degli eruditi del XVI e XVII secolo che, dando seguito a tradizioni leggendarie, collocavano nell’area di Acitrezza e di Capomulini le imprese di Ulisse e Polifemo e l’approdo di Enea nel territorio etneo, mentre nella baia di Ognina riconoscevano il luogo del Portus Ulixis di cui parlano le fonti antiche.
Ma al di là delle suggestioni date dai nomi di alcune località come Le isole dei Ciclopi o il Porto di Ulisse che ricordano le avventure narrate nell’Odissea resta il problema della collocazione esatta delle strutture portuali di cui si interessarono più concretamente gli studiosi moderni a partire dal 1800.
Alla fine del XIX secolo lo Sciuto Patti diede notizia dell’esistenza presso via Zappalà Gemelli, cioè non lontano dal Duomo, di un muro romano che attribuiva all’impianto portuale e nel 1927 i palombari recuperarono nell’area del porto moderno, durante lavori di ampliamento del molo occidentale, un gruppo scultoreo ellenistico raffigurante Eracle ed Anteo.

 

Sulla base di questo ritrovamento datato tra il VI ed il V secolo a.C., di altri reperti rinvenuti in seguito e dei recenti studi topografici e geologici si ritiene oggi probabile che il porto antico fosse nell’area dell’attuale Villa Pacini, non lontano dunque dal moderno mercato della Pescheria e presso la foce del fiume Amenano lungo il cui corso sorgeva la città antica.

Le carte geologiche mostrano il progressivo interramento ed avanzamento della linea di costa in questo tratto dall’età greca arcaica al medio evo, finchè la terribile colata del 1669, colmando i fossati del castello Ursino, entrò ampiamente in mare modificando in modo definitivo il litorale.
Un altro ampio golfo risulta inoltre in tutti gli studi geologici riguardanti la linea di costa nell’antichità: l’area tra le attuali piazza Europa e piazza Nettuno. Esso venne riempito dalle lave della poderosa colata del 1381 che colmò anche una parte dell’altra insenatura dove è il porto di Ognina che ospitava probabilmente un altro scalo antico.
La stessa colata del 1381 diede la conformazione attuale al tratto di costa in corrispondenza del porticciolo di S.Giovanni Li Cuti che secondo gli studiosi doveva ospitare un altro scalo di età classica scomparso a causa di quella eruzione.
Catania antica, avrebbe avuto quindi non un solo porto ma un sistema di scali forse differenziati a seconda della destinazione d’uso (commerciale, militare), per rispondere alle complesse esigenze di quella che fu nell’antichità una grande ed importante città.
Dalle fonti ricaviamo la notizia che in età repubblicana il porto ospitasse un ufficio del "portorium".

https://wikiporto.wikispaces.com/Porto+di+Catania

 

Catania, splendida città della Sicilia Orientale, è situata alle pendici dell’ Etna ed è bagnata dal mare Jonio , la sua costa frastagliata si caratterizza per la presenza di roccia vulcanica ed oltre alle coste rocciose che si estendono dal porto di Catania a Riposto troviamo una lunga spiaggia a bassa energia tra il porto e la curva di Agnone Bagni (SR) . All’importante porto commerciale catanese si aggiungono una serie di approdi e porticcioli turistici sfruttati dai pescatori di "mestiere" locali e durante il periodo estivo anche dai diportisti , e sono :il porticciolo nautico di Rossi S.G.Licuti ,Ognina ,Acicastello ,Acitrezza ,Capomolini ,S.Maria La Scala ,S.Tecla ,Stazzo , Pozzillo ed infine il porto di Riposto ormai diventato un simbolo della nautica da diporto della Sicilia orientale.

Spostandoci verso la zona sud ci accorgiamo che il golfo di Catania bagna un arenile lungo circa 18km che si estende dal porto di Catania alla curva di Agnone , ove la spiaggia si presenta a grana fine ed a bassa energia ,i venti regnanti sono l’ W e il NW e i dominanti l’ E e il SE , è possibile sfruttare la spiaggia con svariate tecniche di pesca ma la più favorevole è il surfcasting da praticare durante le mareggiate di scirocco e levante, i pesci insidiabili sono le onnipresenti mormore , spigole anche di grossa taglia e nel periodo estivo e autunnale lecce amia e serra nei pressi del porto commerciale e alle foci del fiume Simeto e S.Leonardo da insidiare con il vivo e trancioni di cefalo , una delle tecniche che primeggia in queste spiagge è la traina a piedi con il barchino (vedi sezione Traina), infatti in molti si dilettano a fare avanti e indietro per la spiaggia durante le scadute di scirocco tirando fuori spigole da capogiro , vi sconsiglio vivamente di andare a pesca dopo le grandi piogge autunnali, l’acqua a causa dei fiumi Simeto e S. Leonardo diventa colore cioccolata , altro consiglio non andate a pesca da soli in notturna, la zona è frequentata da persone poco raccomandabili.

 

 

Percorrendo tutta la spiaggia verso nord troviamo il cosiddetto "molo degli scecchi" , lungo circa 120-130m con dei frangiflutti sparsi per tutta la lunghezza del molo come difesa di se stesso, le tecniche che si possono praticare in questo spot sono tante , pesca all’inglese ,alla bolognese e canna fissa con bigattino o gambero vivo reperibile in loco oppure la pesca con il vivo alle lecce amia , serra e spigole con le alacce sempre da reperire in loco con una filosa a più ami oppure a strappo con le ancorette , la maggior parte di chi pratica questa pesca utilizza sistemi molto rudimentali ma funzionanti , lenza a mano dello 0,40 e ancorotto stagnato , ma riuscire a trovare un piccolo spazio libero sul molo è un problema, qui vige la legge mafiosa del tipo "kiddu è u scoghiu miu", altra tecnica da non tralasciare è lo spinning che vi consiglio di praticare con grossi popper alla ricerca di qualche serra o leccia.

Accanto a questo molo troviamo il porto commerciale di Catania anche qui possono essere applicate le stesse tecniche di pesca appena descritte, tecniche utilizzabili sia all’interno che all’esterno del porto con qualche variante , nella parte esterna ( sui frangiflutti di difesa e precisamente sotto la grande gru in disuso) possiamo insidiare qualche ricciola con la teleferica e l’aguglia viva nei mesi che vanno da giugno a ottobre, state ben attenti alle barche perché quando si sparge la voce che sono entrate le ricciole il mare diventa un va e vieni di barche continuo causano il taglio di qualche lenza.

Emanuele Lisi da Catania

 

Proseguendo per il molo di levante andiamo a finire sotto il famoso muro della stazione e da li inizia la prima parte di scogliera catanese caratterizzata dalla pietra vulcanica scura , un ottimo spot è la curva tra il muro della stazione e l’inizio della diga frangiflutti, ne vale la pena tentare 2 lanci a spinning per qualche spigola nel periodo invernale.

Proseguendo più avanti troviamo il lido della stazione e subito la prima punta di roccia, da dove è possibile insidiare aguglie e occhiate all’inglese con il bigattino nel periodo estivo e durante le scadute di scirocco, tra questa punta e il porto turistico di rossi si prendono saraghi e spigole all’inglese con il bigattino, nella stagione autunnale scorsa ho visto pescate da "panico", mi raccomando di non tralasciare lo spinning con raglou o siliconi vari per tentare la "cavagnola " alle prime luci dell’alba tra il bunker e l’entrata del porto di rossi .

 

 

Proseguendo più a nord troviamo il porto di Ognina , lo spot si presenta con un primo molo esposto a levante con una serie di frangiflutti sparsi per tutto il lato esterno e un secondo molo interno(il molo vecchio di ognina) .

Sul lato esterno del primo molo durante il periodo invernale possiamo praticare la pesca a calamari con il gamberone finto o con la gabbietta innescata con il sugarello , proprio in inverno il molo è affollato, un’altra tecnica praticabile è la pesca all’inglese per le occhiate e le aguglie nei mesi primaverili ed estivi e quasi tutto l’anno si prendono le ope con il galleggiante e la bolognese , vale la pena fare qualche tentativo a rockfishing con il vivo e la teleferica, e a fondo con la sarda, 9 catture su 10 saranno gronghi e murene ma ci può scappare qualche bella cernia . Per gli amanti delle mormore i frangiflutti del molo cadono su una distesa di sabbia bella fonda a non più di 50 -60m da riva preferiscono abbondanti inneschi di arenicola e le ore notturne.Tra il molo interno e la spiaggetta sotto il ristorante La Costa Azzurra vive un branco di spigole molto sospettose e difficile da insidiare che a volte disdegnano anche lo 0,08 e ami piccolissimi. Nella speranza che questo spot vi invogli a venirmi a trovare nella mia città per una bella pescata tutti insieme vi porgo cordiali saluti , restate in onda !!!!!!!!!!!!

http://www.pescareinsicilia.it/index2.php?path=itinerari&id=0&tema=porti

 

 

Si incrementano la navigazione e il commercio con l'estero: il 25 giugno 1845 a Napoli si decreta che vi sarà libertà di navigazione e commercio. Dal 1845 al 1851 si stipulano trattati di navigazione e commer­cio con diverse nazioni (Stati Uniti, Impero austriaco, Impero russo, Gran Bretagna, Prussia, Impero musulmano, etc.) e sono regolamentati i giorni di contumacia dei legni (imbarcazioni) che provengono dall'estero.

Continua a svilupparsi il riconoscimento di Catania come città dedita al commercio e alla navigazione: il 5 agosto 1846 Sua Maestà approva l'istituzione della Scuola Nautica a Catania.

Dopo le insurrezioni del 1848, il governo borbonico concede la Costituzione liberale e in seguito per gestire meglio la Sicilia divide il potere. Il 27 settembre del 1849 il re Ferdinando II con due reali decreti riordina l'amministrazione pubblica in Sicilia: l'ammini­strazione civile, giudiziaria e finanziaria di Sicilia [al di là del Faro] si dichiara distinta e separata da quella di Napoli [al di qua del Faro] e il potere è assunto dal Luogotenente Generale.

 

Avviene l'istituzione della Consulta in Sicilia, che di­scuterà, anche sulla concessione del placito regio per la celebrazione delle fiere e dei mercati e sulla concessione delle privative e delle patenti d'invenzio­ni, o di qualunque genere d'industria. Con un Real Decreto del 18 novembre 1849 è istituito il Gran Libro del Debito pubblico in Sicilia. É istituita a Palermo sotto la dipendenza del Ministero di Stato presso il Luogotenente Generale di Sicilia una Commessione de' lavori pubblici e delle acque e foreste.

Il 13 giugno del 1850 è approvato il Regolamento dei Porti di Sicilia: oltre la Commessione Centrale dei Porti istituita col rescritto del 9 luglio 1844, s'istituisce la Commessione locale dei porti. La provvidenza col Sovrano rescritto del 6 febbraio 1847 si estende a tutti i porti dell'isola; si stabilisce che il commercio marittimo da un punto all'altro del regno è riservato solo alla marina mercantile nazionale. Allo scopo di migliorare il commercio con l'estero, il re esaudisce il voto della città di Catania per essere in parte alleviata dalla spesa necessaria per il compimento del Molo, di ducati 125,718: una terza parte sarà contribuita in due anni dalla Tesoreria di Sicilia, una terza parte dai comuni della provincia, il residuo a carico del Comune di Catania;

 

A PUNTA O MOLU

 

 

Nel 1859 s'istituisce il Tribunale di Commercio di Catania, si avvia la Cassa di corte e di sconto che è volano del commercio locale, si preparano i condotti per l'irrigazione dei campi, si stipula l'appalto dei la­vori del compimento del Molo, si lavora alla realizzazione della villa pubblica, si avvia la costruzione dell'ospedale, della Torre del Faro, della piazza dei Commestibili e della passeggiata alla Marina. Vengono presentati vari progetti per la Pescheria che prevedevano un eventuale spostamento del luogo. Giuseppe Lo Turco pubblica nel 1859 Idee preliminari su progetto di una Piazza Pubblica per vendita del pesce in Catania, in cui rimarca la necessità di non spostare il vecchio sito accanto a piazza del Duomo. Nel 1860 il patrizio Pietro Andronico Finocchiaro nel suo rapporto al patrizio titolare Pisani Ciancio dichiara che: "ha proposto e fatto approvare la for­mazione della nuova piazza della vendita del pesce, per la quale trovansi già presentati molti progetti arti­stici a concorso".

Ha fatto costruire la nuova passeggiata alla Marina, dalla Porta del Seminario al piano della Statua (piazza dei Martiri) demolendo il forte S. Agata, come aveva già proposto Francesco Moncada Paterno Castello nel 1856.

In questi anni vi è un grosso fermento nell'attività amministrativa della città di Catania: nel 1860 Ignazio Landolina è direttore incaricato dei lavori pubblici; dal 1861 al 1862, il cav. Giacomo Gravina, designato regio delegato straordinario al comune dal gover­natore Tedeschi, inizia un vasto programma d'opere pubbliche che in poco tempo cambieranno il volto di Catania.

 

durante la costruzione della Dogana - secolo scorso

 

Dopo aver allargato la strada della Marina, nel consiglio comunale si discute sul progetto di formare una villetta pubblica lungo il mare, un lavatoio pubblico e l'allargamento della banchina per la passeggiata alla Marina. S'ingrandisce il mercato del pesce, che viene esteso dalle vie adiacenti fino alla parte coperta sottostante al refettorio del Seminario dei Chierici precedentemente adibita a pubblico passeggio. Il 12 dicembre 1861, il cav. Giacomo Gravina chiede al Sig. Direttore del Giornale di Catania di pubblicare un comunicato ufficiale riguardante la possibilità di migliorare il porto di Catania:

Signore e signori, il compimento del nostro Molo è stato sempre il vivo dei desideri di questo Popolo, ed ora più che mai pel celere incre­mento del commercio di questa piazza. Non potendosi colle co­munali risorse a tanta spesa sopperire, la civica rappresentanza con apposita deliberazione del dì 1 maggio scorso presenta­va un voto al Real Governo perché l'opera dichiarata venisse Nazionale. E gli onorandi Professori di questa nostra Università degli Studi sig. D. Giovanni Ardizzone e sig. Ignazio Landolina, che formavano parte del Consiglio Comunale, trovandosi ora in Torino in missione per affari della Università istessa, animati dall'amor patrio di che son caldi, e con cortese di loro lettera del dì 3 stante mi hanno significato tocche segue: Trovandoti in Torino per lo adempimento della onorevole missione riguar­dante la nostra antica e cospicua Università, abbiamo creduto nostro dovere prendere conoscenza dello affare del Porto tanto interessante a Catania. A qual'uopo siamo stati dall'Ispettore dei Porti, e Fari Sig. Biancheri per sentire ciò che avea egli riferito al Ministro dei lavori pubblici in risultamento dello esame locale dell'opera, e con molta cortesia e gentilezza ci ha manifestato le sue idee per dichiararsi il nostro Porto di seconda categoria, la cui spesa in forzo della nuova legge de 1859, deve gravitare metà a carico dello Stato, e metà a peso del Comune. Sì, è, inoltre proposto di stanziarsi nel progetto del Bilancio Nazionale del 1862 una somma perla continuazione della scogliera, perla costruzione del Faro, pel casamento del Porto, banchina, e due galleggianti all'entrata per assicurare i legni in tempo di traver­sia. Per le opere poi d'ingrandimento del Porto si va alla giusta idea di farsi compilare un progetto tenendo presente le circo­stanze topografiche del sito, ed il progressivo e celere aumento del commercio di Catania.

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Roberta Urso - da DOCUMENTI E IMMAGINI DELLA PESCHERIA DI CATANIA - di N.F. Neri e M.L. Giangrande

Soprintendenza beni culturali e ambientali di Catania - Regione Siciliana - Assessorato Beni culturali - 2012

 

 

 

Presso Museo dei Pupi Siciliani - Marionettistica F.lli Napoli di Catania c/o Vecchia Dogana (porto di Catania) Via Beato Cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, Catania

Pupi che sembrano avere un'anima. A Catania, nei locali della Vecchia Dogana, insieme al cineteatro dedicato a Francesco Alliata è stato inaugurato il museo e teatro dei pupi della compagnia marionettistica dei Fratelli Napoli, la celebre famiglia di pupari catanesi che dal 1921 e da quattro generazioni ha incantato e fatto sognare il popolo catanese.

"L'Opira catanese" si distingue per altezza e dimensioni: un metro e trenta di altezza, con un peso di circa 35 chili e per il diverso sistema di manovra. I pupi catanesi vengono animati dall'alto di un ponte posto dietro i fondali, chiamato "'u scannappoggiu", con i "pruituri d'a ritta e d'a manca", da destra e da sinistra, che porgono i pupi ai "manianti" per metterli in scena, poggiando i piedi su una spessa tavola di legno sospesa a circa un metro da terra "'a faddacca".

Nella tradizione catanese è inoltre d'obbligo la voce femminile, "a parratrici" che i Fratelli Napoli affidano alla signora Italia Chiesa Napoli. Un'arte esclusiva che oggi ha anche un museo con oltre sessanta pupi, teste di ricambio, cartelli, animali di scena, sipari dei primi anni del Novecento e un boccascena che venne esposto nel 1931 al teatro Massimo Bellini.

 

INFO: Ingresso INTERO euro 4 ; RIDOTTO euro 3

Orari di apertura: da Martedì a Domenica 10.00/13.00 - 16.00/20.00 - Lunedì 16.00/20.00

DOVE SIAMO: Vecchia Dogana, via Beato Cardinale G. B. Dusmet, 2 - 95121 Catania

Tel. Museo: +39 095 7678888

 

 

 

Catania aspetta il Waterfront


Roberto Nanfitò - In Viaggio - supplemento a La Sicilia
Catania, "città sul mare, ma non di mare". Una città portuale atipica la nostra che, diversamente dalle grandi città medievali italiane, che grazie i loro porti svilupparono un forte sistema ecomomico-finanziario, subì per lungo tempo un declino commerciale dopo aver perso il primato mondiale del traffico marittimo dello zolfo. Solamente alla fine del secondo conflitto mondiale il porto etneo riprese i suoi interscambi commerciali. Le crisi nel settore marittimo-portuale, peraltro, sono cicliche e sono causate dalle improvvise congiunture economiche che possono essere superate, accettando la sfida competitiva imposta dalla globalizzazione dei mercati. Ma la nuova tecnologia dei trasporti marittimi ha fortemente influenzato non solo i porti, ma anche le loro città.

 

 

 

L'introduzione del "container", che dall'aprile del 1956 ha rivoluzionato il ciclo trasportistico e logistico dell'intera economia mondiale, ha provocato infatti la fine irreversibile di quei porti che non si sono adeguati ai mercati, poiché le nuovi navi-container avevano bisogno di porti dotati di infrastrutture più moderne, con pescaggi più profondi, e di grosse aree per lo stoccaggio e la ovimentazione delle merci. Per recuperare le vecchie aree portuali dismesse, posizionate storicamente all'interno delle città portuali, il cui mantenimento comportava ingenti oneri per evitare il loro degrado anche ambientale, si pensò di intervenire con una politica innovativa di riqualificazione delle suddette aree.

 


Nasce il "Water-front", un movimento culturale che ha origini in Canada e nel Nord America agli inizi degli Anni 60 e 70, e arrivato nella vecchia Europa. Con il termine "Water-front", letteralmente fronte d'acqua, si intende l'interfaccia porto-città, un fenomeno universalmente riconosciuto ed identificato dalla letteratura anglosassone riguardante l'architettura, ed in particolare la progettazione urbana di aree portuali dismesse che vengono rivitalizzate per diventare contenitori culturali e sociali in grado di produrre forte redditività economica. Di conseguenza capannoni, depositi, manufatti portuali abbandonati vengono ristrutturati e trasformati in centri museali, contenitori sociali come il Sea South di New York, il Bay Side di Miami, il Peers 39 di San Francisco, Cape Town, Barcellona, Amburgo, Londra.

 

 

Grande interprete, culturale e tecnico, in Italia e nel mondo, del Water-front, è il nostro Renzo Piano, che a Genova, anticipando qualificati urbanisti europei, ha inventato il "porto antico", trasformando un'area portuale malsana e pericolosa in un centro espositivo e culturale, dotandolo di un acquario fra i più belli del mondo, di una marina da diporto, di un albergo raffinato e di locali alla moda. La politica del Water-front tende a riqualificare i quartieri dei marinai delle città d'acqua, che vengono trasformati in centri residenziali e culturali per generare una forte ricchezza economica ed occupazionale, migliorando così la qualità della vita dei suoi cittadini. Anche il porto di Catania ha finalmente il suo "Water-front", recuperando con il supporto di capitali pubblici e privati la sua "vecchia Dogana", un manufatto demaniale realizzato alla fine del 1800 dall'ingegnere Filadelfo Fichera e destinato a deposito per le merci in attesa di essere sdoganate. Dopo un'accurata opera di recupero e di riqualificazione è stato inaugurato di recente per diventare un "living-port" dove passare una serata per rilassarsi in un contesto vivace dal sapore antico.

 

 


Un altro importante passo potrebbe essere il recupero dell'antico quartiere marinaro della Civita, che ha bisogno di essere riqualificato ed illuminato sapientemente per conservare il suo antico fascino. Catania per diventare polo culturale euro-mediterraneo del terzo millennio ha bisogno dell'opera di un grande architetto, che come il Vaccarini la ridisegnò nel '700 trasformandola in una splendida città barocca.
Oggi le "trasformazioni urbane" rappresentano un'occasione unica per il rilancio della competitività locale, per prevenire il rischio di declino urbanistico e sociale derivante dalla mancata programmazione territoriale a sostegno del progetto di sviluppo della città. Il Water-front di Catania si presta a un intervento di rigenerazione urbana, utilizzando gli strumenti del partenariato pubblico-privato immobiliare, ovvero sviluppando i nuovi percorsi autorizzativi di diritto privato, prioritari sulle tradizionali procedure di diritto pubblico. Il nuovo "passaggio a nord-ovest" è già stato tracciato dall'Unione Europea. Spetta agli Amministratori pubblici, ai loro staff e alle Imprese, cambiare radicalmente i modelli organizzativi e amministrativi per affinare insieme una nuova cultura di ingegneria economica, l'unica in grado di presidiare il progetto e l'intero ciclo realizzativo utilizzando metodologie di " project-management accompagnate da una forte visione strategica

'U SGABELLU (il mercato ittico all'ingrosso)

 

 

 

Parrocchie

 

S. FRANCESCO DI PAOLA Piazza S.Franc. Di Paola - 95131 Catania tel: 095 534515
S. GAETANO ALLA MARINA Via San Gaetano 13 - 95131 Catania (CT) tel: 095 320509
SS SACRAMENTO RITROVATO Via Tezzano 1- 95131 Catania (CT) |tel: 095 532042
SS. CROCIFISSO DELLA BUONA MORTE Piazza Falcone 1- Catania  tel: 095 535077
 

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  • CINEMA

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  • Achab- Catania (ct) - viale Africa, 31 - 095 536515

  • King- Catania (ct) - via A. De Curtis, 14 - 095 530218

  • Tiffany - Catania (ct) - via Agnini, 20 - 095 325851

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  • FARMACIE

  • CUTELLI V. Vittorio Emanuele II, 54 095-531400

  • DE GAETANI ANTONIO V. Vittorio Emanuele II, 114 095-326962

  • FINOCCHIARO GIUSEPPA V. San Giovanni Battista, 74 095-420602

  • ROMA C.so Martiri della Liberta', 16 095-530003

  • SANGIORGIO CARMELA V. Sangiuliano, 109 095-316906

Croce Rossa - tel. 7312601 - Croce Verde - tel. 373333 - 493263 - Guardia Medica - tel. 377122 - 382113