Adagiata sull'antica collina chiamata di Montevergine, la splendida via Crociferi è da considerarsi la più alta espressione del tardivo barocco catanese ed esprime una forza suggestiva di notevole impatto. Fu ricavata a metà altezza del pendio collinare sul quale poggiano anche il Teatro e l'Odeon romani e aveva lo scopo di collegare la Porta del Re (sopra piazza Stesicoro) con il piano di S. Filippo (la piazza Mazzini). Nel primo tratto della strada quello che parte dall'arco di San Benedetto all'attuale Via di San Giuliano, quest'ultima teatro della spettacolare salita delle cannalore durante i festeggiamenti di Sant'Agata patrona della città, si possono ammirare la chiesa di San Benedetto e la chiesa di San Francesco Borgia o dei Gesuiti.

Via Crociferi fu tracciata dopo il terremoto del 1693 e deve il suo nome ai padri Crociferi, che vi avevano la Chiesa di San Camillo. Adagiata su quella che si chiamava la collina di Montevergine, Via Crociferi godette di grande rinomanza nei tempi antichi: arricchita da edifici e chiese che le famiglie più influenti vi avevano edificato, essa divenne ben presto il centro della vita cittadina. Nel Medio Evo, dove oggi si eleva la chiesa di San Francesco, vi era il palazzo fatto costruire da don Bartolomeo Altavilla, attigua ad esso era stata eretta, nel 1396, una chiesa in perfetta simmetria con la grandiosità delle strutture architettoniche del palazzo, queste costruzioni furono distrutte dal gran terremoto. Successivamente l'edilizia civile vi ebbe scarso peso e la strada divenne il monumento simbolo della potenza degli ordini monastici del Settecento. Su di essa, infatti, si concentrarono una serie di edifici religiosi, racchiusi all'estremità da due grandiosi archi: a sud quello, fatto costruire dal vescovo Riggio per collegare due parti del Monastero delle Benedettine, a nord il portale di villa Cerami. Nel primo tratto, che va dall'arco di San Benedetto alla Via Lanza, oggi via di San Giuliano, dopo il collegio San Benedetto, si affacciano sulla sinistra, senza rispettare l'allineamento della strada, la chiesa di San Benedetto, iniziata a costruire (1704-1707) sotto il governo della Badessa Ignazia Asmundo, il cui palazzo di famiglia sorge alle spalle della chiesa, la chiesa di San Francesco Borgia, o dei Gesuiti, il cui autore è incerto: si fanno i nomi di fra’Angelo Italia, di Giuseppe Pozzi. A questa chiesa è annesso l'ospizio di beneficenza, ex convento, dal superbo cortile con colonnato, ora sede dell'istituto statale d'arte. Sul lato opposto, il destro di Via Crociferi, si incontrano il Palazzo Zappalà e subito dopo la chiesa di San Giuliano, a unica navata ellittica, opera del Vaccarini, con facciata curvilinea, sottolineata e accompagnata dalla straordinaria cancellata di affascinante movimento. All'interno dell'adiacente convento uno straordinario cortile, con la tradizionale alternanza del bianco e nero. 

 

 

Oltrepassata la via di San Giuliano, ancora a destra c'è il Palazzo Villaruel, tipico esempio di edilizia civile borghese. Sul lato opposto, pressoché di fronte, la giù citata chiesa dei Crociferi. In posizione arretrata rispetto alla linea stradale per via dell'ampio sagrato, fu costruita dal vescovo mons. Pietro Galletti dal 1735 al 1737, su disegno del padre crocifero Domenico Antonio La Barbera, messinese, che diresse la prima parte dei lavori, poi ultimati dal padre Vincenzo Caffarelli. Questa strada è uno dei più splendidi esempi del barocco catanese e gli artisti che collaborarono a conferirle sfarzo e bellezza sono l'Amato, i Battaglia, Alonzo Di Benedetto, Vaccarini e Italia. In essa trovarono il loro scenario le più solenni feste e cerimonie religiose cittadine: le feste natalizie, la processione del Cristo morto, nella ricorrenza della Pasqua e tutte le altre feste religiose di ogni chiesa che su di essa si affacciava, compresa la festa di Sant’Agata (5 febbraio e quello che il popolo chiama festino d'estate, (17 agosto). Nel 1795, con la chiusura della Cattedrale al culto per opere di restauro le funzioni religiose furono trasferite nella chiesa di San Francesco Borgia, e fu per questo che vi fu battezzato Vincenzo Bellini, la cui casa natale, oggi trasformata in museo, si trova nella piazza antistante l'arco di San Benedetto. L'aspetto scenografico della strada, resa omogenea dai colori delle facciate degli edifici e dalle ampie ringhiere che raccordano le scalinate delle chiese al piano stradale, ha, in tempi recenti, attratto l'attenzione di artisti e urbanisti, che hanno progettato varie soluzioni che la riportassero all'originale splendore, ma che non hanno trovato attuazione.

http://library.thinkquest.org/27892/data/crocif.htm

 

Autoritratto di via dei Crociferi

da Passeggiate sentimentali di Saverio Fiducia

Oggi che quasi tutte le ferite fatte sul volto augusto de' miei monumenti sono rimarginate, voi che mi vedete così bella e serena e raccolta nella fastosa maestà delle mie basiliche e dei miei palazzi, sappiatelo, malgrado sull'antichissimo sentiero tracciato sui fianchi del monte dagli aborigeni si fossero venuti allineando templi e ville patrizie, tanto bella non fui ne' miei primordi o lo fui d'una diversa bellezza; e non sempre mi si chiamò dei Crociferi; ma altri nomi ebbi, che si perdettero nei secoli. Tali nomi non me li chiederete, che non li ricordo neppure; ricordo, però, che i nativi allorchè scorgevano un pericolo profilarsi sul mare, veniveno a rifugiarsi con le loro donne i loro vecchi e i bamini, dietro i massi e i dirupi delle remotissime lave tra le quali pianeggiavo, e apprestarsi a difesa.

 

 Poi venne d'oltremare un popolo di scultori e di poeti che ornò di statue e di altorilievi marmorei e patinò di stucchi policromi la casta tessitura de' miei templi; e poi ancora un popolo carico di destino che aveva ismisurati potenza e orgoglio, ed io divenni una strada lastricata nel mezzo come cadesta gente usava, sebbene sempre tra orti, ville, giardini. Chiaro: alludo ai greci e ai romani. Non crediate perciò ch'io fossi una strada di campagna. Di faccia al mare lontano e al sole nascente, tre templi aprivano la teoria delle loro colonne: di Castore e Polluce, di Esculapio e di Ercole, iddii dimenticati. La vita dell'operosa e spirituale città mi ferveva d'attorno, e nelle mie immediate vicinanze v'era un Teatro sulla cui scena s'era udito l'urto del coturno di Eschilo, e un'Odeo al quale accorrevano i musicisti di Trinacria, che non ne possedevano altri. I tre templi occupavano l'area delle basiliche attuali ed erano edificati nel divino stile che nato in Sicilia chiamano dorico, fatto per l'eternità; ma i terremoti, le guerre e gli incendi, lungh'essi i secoli li cancellarono per sempre dal volto di Catania e di essi non è rimasto che il nome e nemmeno sicuro.

E ne ho visti in tre o quattro millenni di vita, lutti e rovine attorno a me; ne ho viste strane torme di guerrieri d'oltreterra e d'oltremare premere baldanzose i conci del mio selciato, penetrare avide di rapine nei templi e nelle ville, contendersi tra gli intercolunni e i peristili il bottino predato, e litigare con l'arme in pugno, e scannarsi. I Greci prima e poi i Siracusani, i Cartaginesi, i Romani, i Bizantini, i Mussulmani, i Normanni, i Tedeschi, i Francesi, gli Spagnoli: gente bramosa di violenza e di strage, rubatori e assassini a man salva; facce pallide d'Asia e nere d'Africa, bionde capellature di Normandia e di Svevia, torbi di ceffi di Provenza, mulatti di Castiglia e di Aragona, mediterranei e nordici, piombare simili ad avvoltoi in veste di colombe e impossessarsi delle ricchezze accumulate in decenni di paziente lavoro, e cupidi, cercare le nostre donne, le nostre bellissime donne.- Ah le nostre donne, invisibili, custodite, selvaggiamente difese! Fu per esse che in un maggio lontano udii anch'io echeggiare il grido scoppiato a Palermo Mora, mora! e assistere a zuffe feroci e a una caccia senza pietà, e vidi cataste di cadaveri, che non uno si salvò dal castigo.

 

Tra gli ultimi lutti, un terremoto, quello del 1693: la città rasa al suolo, in pochi secondi un carnaio dolorante, un cimitero. Nel fatale e tragico pomeriggio, il destino, per Catania, parve concluso. Non fu e non sarà mai così: sette volte sette, essa rinascerà dalle rovine ed anch'io difatti, rinacqui, più bella di prima, quale oggi sono, per opera di costruttori che sapevano quel che facevano, committenti che guardavano in cielo e architetti che non pietre elevavano l'una all'altra conteste, ma melodia di pietra. Sciolto il velo della modestia mi si consenta di cantare la mia bellezza.

Dall'una e dall'altra parte due archi mi chiudono, quasi ganci di un prezioso monile: l'Arco di San Benedetto, imposto al miope governo secolare dell'impetuoso Vescovo Riggio, per unire le due ali d'un medesimo fabbricato; il portale di Casa Cerami, campito nel più azzurro dei cieli. Quattro chiese allineano i loro fronti fastosi: S. Benedetto, S. Francesco Borgia, S. Giuliano, S. Camillo; quattro monasteri regali, con chiostri monumentali e ombrosi giardini, e fonti mormoranti e poi vasti palazzi di signori dai nomi sonanti, e giardini pensili allietati d'oleandri e di rose, profumati di gelsomino e di zagara, e anche oggi, nel secolo dello strepito e della vita intensamente vissuta, una grande pace e dolci silenzi.

 


Grande pace diffusa, dolci silenzi! Voi siete in me, siete l'essenza di me stessa; per voi io fui pezzo per pezzo edificata. (....) Or sono vent'anni si sono accorti ch'io sono quasi parallela della via di maggior traffico della città, ed ecco violati, per alleggerir questo, la mia pace, i miei diffusi silenzi: viavai incessanti di veicoli, strombettanti. Ma si fossero limitati solo a questo! Si sono accorti altresì che la mia singolare e suggestiva bellezza meritava di essere ammiarata anche di notte, ed ecco: al calar della sera, brutti aggeggi sospesi in aria come l'anima degli impiccati accendersi di falsa luce solare, e frugando le modanature le statue i frontoni, annullare le ombre ed uccidere in me il mistero della mia pace notturna, un mistero che era forse l'unico al mondo. Ed hanno infine creduto, ahimè con quanta poca intelligenza, che la maestà dei miei monumenti poteva loro servire ad avallare certe spettacolari visioni di un mestiere duro a morire che spesso e volentieri si illude di raggiungere i fastigi dell'arte, ( il cinematografo ), ed ecco ancora una volta la mia bellezza violata da ridicole rievocazioni di costumanze ottocentesche, che diffamando l'ottocento, tentarono diffamare anche me.
Catania - scrisse per me qualcuno che se ne intende - è città aperta a tutti gli orizzonti con le sue strade dritte, ed ha una sola strada appartata, via Crociferi, che è il suo cuore, ed è anche una delle più belle strade del mondo. Chi salverà la mia bellezza?

 

 

 

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scene girate in Via Crociferi, Piazza Duomo, Ognina, la Pescheria, Via Cardinale Dusmet e Monastero dei Benedettini, Monti Iblei zona Canalicchio, Via Vincenzo Giuffrida

 

 

I numerosi cittadini e i turisti - oltre 300 le adesioni raccolte dal personale incaricato dalla Soprintendenza che ha patrocinato l'evento nazionale "Invasioni digitali", organizzato da Soa -"Spazio oltre l'Architettura", hanno potuto ammirare la chiesa di S. Francesco Borgia, di proprietà del demanio culturale della Regione siciliana, i chiostri del Collegio dei Gesuiti e l'interno del sito monumentale che conserva i dipinti di Luciano Foti, di Giovanni Tuccari, del Guarnaccia, di Daniele Monteleone (S. Agata in carcere visitata da San Pietro), per la realizzazione di scatti fotografici con qualsiasi strumento (cellulare, tablet, eccetera) e la loro divulgazione sul web e sui social network.
«L'elevata preparazione del personale della Soprintendenza prescelto per assistere la cittadinanza - afferma la sovrintendente ai Beni culturali, arch. Fulvia Caffo - è risultata la carta vincente in questa manifestazione. E' obiettivo primario mettere a valore il patrimonio culturale per la diffusione della conoscenza e per la valorizzazione attraverso l'uso dei nuovi strumenti di comunicazione come i tablet, i social network».

 

 

Fondale perfetto della via Crociferi è l’arco che collega la badia grande di San Benedetto a quella piccola attribuita al Vaccarini: si tratta dell’unico arco esistente a Catania, detto anche della passerella di San Benedetto, che si dice costruito in una sola notte per volontà del vescovo della città e completato in tre anni.
Altra leggenda è legata all’arco, quella del cavallo senza testa, un fantasma che si aggirava per la via, ma che, come dicevano le malelingue, si vedeva in giro solamente quando, nel cuore della notte, dai conventi uscivano personaggi avvolti in mantelli o scialli che tenevano fra le braccia ben celato qualche neonato.
La chiesa di San Benedetto, ricostruita sopra le macerie della vecchia chiesa crollata interamente durante il terremoto del 1693 e costata la vita a ben 55 suore delle 60 presenti nella badia, ha una facciata di autore ignoto in pietra calcarea, composta nel primo ordine da semicolonne con capitello composito che reggono una trabeazione dentellata sulla quale si staglia il frontone spezzato che regge le allegorie della Fortezza e della Temperanza.
La piccola scalinata è chiusa da un’ampia cancellata (su cui sono posti i simboli della pax benedettina) dalla quale si affacciano le suore all’alba del 6 febbraio, per rendere omaggio a Sant’Agata con le loro angeliche voci e consegnare un mazzo di rose bianche alla Santa che viene scambiato con un altro mazzo di rose che proviene dal simulacro. Finito l’omaggio l’imponente portone ligneo raffigurante scene della vita di S. Benedetto, viene chiuso per essere riaperto solo l’anno dopo nella stessa data.
L’interno è costituito da un’unica navata con pavimento di marmi policromi, mentre l’altare maggiore è decorato con pietre preziose ed argento. Degna di nota la cantoria che si staglia con grazia ed armonia per celare i volti delle monache di clausura.
Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com

 

L'attuale aspetto della Chiesa di San Benedetto, risale alla ricostruzione dopo il terremoto avvenuto nel 1693 che ne aveva distrutto l’antico tempio adorno di pitture, sculture, marmi e arredi preziosi. La facciata, ricca di statue e decorazioni, è divisa in due ordini: in quello inferiore sta il magnifico portale d’ingresso, attribuito al Vaccarini. Al centro del prospetto è un timpano spezzato con le statue allegoriche della Temperanza e della Fortezza. La porta  d'ingresso è in legno e sulle formelle sono riportate scene della vita di San Benedetto.

L'interno è preceduto da un vestibolo con pavimento di marmi policromi; le doppie gradinate a tenaglia sono sottolineate da una balaustrata sinuosa su cui poggiano Otto figure di angeli. Alla fine della scalinata si trova una bussola a vetri incisi realizzata nel nostro secolo. La chiesa, a unica navata, è illuminata dalla luce che penetra dai sei finestroni sulla volta e dai raffinati candelieri a triplice voluta che poggiano sulla trabeazione. Stupendo il pavimento in marmi policromi, che fu recuperato dalle rovine del terremoto; prezioso è l'altare maggiore in pietre dure, argento e oro, eseguito fra il 1792 e il 1795.

La calotta dell’abside è affrescata con l’Incoronazione della Vergine, opera del messinese Giovanni Tuccari. Pure del Tuccari è la decorazione della volta a botte, con scene della vita e dell’opera di San Benedetto.Tra le opere d’arte della chiesa una Immacolata di S. Lo Monaco (fine Settecento), un S. Benedetto di M. Rapisardi (1822-1886), l’altare del SS. Crocefisso con il fondo di marmo scuro, il Martirio di S. Agata affresco di autore ignoto datato al 1726.

http://www.siciliacreativa.it/it/arte-e-cultura/arte-e-cultura-news/architettura/468-chiesa-di-san-benedetto-catania-

 

 

VIRTUAL TOUR

 

Per tre secoli, questo trionfo di affreschi e giochi prospettici è stato occultato agli occhi del mondo, essendo parte del Monastero di San Benedetto, luogo di preghiera claustrale perpetua, luogo in cui il silenzio è la presenza costante, insieme al canto delle religiose di clausura, udibile nelle ore pomeridiane, quando si affacciano, mai viste, dalle gelosie ai fianchi della chiesa e ai lati dell’altare.

 L’edificio è stato restaurato nel 1948 sotto la direzione dell’architetto Armando Dillon, pochi anni dopo che gli affreschi che decorano la volta e parte dei fianchi tornassero alla luce grazie all’esplosione di un ordigno che, durante la seconda guerra mondiale, colpì la chiesa creando uno squarcio nella volta che ruppe quella patina di intonaco bianco che, durante tutto il XIX secolo aveva nascosto gli affreschi agli occhi dei fedeli. Tre sono gli ordini di affresco che decorano la volta. Nel primo, rappresentato dagli affreschi che si trovano sulle lunette, sono raffigurate le virtù teologali e le virtù cardinali, intervallate da immagini che rappresentano episodi della vita di San Benedetto, fondatore dell’ordine benedettino - cui la chiesa appartiene - e patrono d’Europa.

 Proprio a questo ultimo tratto fanno riferimento gli affreschi raffigurati, che evidenziano non soltanto la fondazione del Monastero di Montecassino, ma anche il tentativo, compiuto da Benedetto, di far dialogare la componente gotica e quella latina presente in Europa dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Ma la magnificenza del barocco della chiesa si sviluppa in tutta la sua pienezza nella parte centrale della volta, dove sono rappresentati il Trionfo ed il Viatico di San Benedetto; entrambi gli affreschi sono un raro esempio di mirabile prospettiva e teatralità barocca, grazie ad un sapiente contrasto di colori scuri ed accesi, che esplode in tutta la sua forza espressiva negli affreschi del presbiterio, al di sopra dell’altare, punto focale dell’intera chiesa, che attira l’attenzione dell’osservatore sin dal suo ingresso in chiesa.

http://www.benedettineviacrociferi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9&Itemid=117&lang=it

 

 

Sant'Agata - Il dolce Canto delle Monache Benedettine
In una soave atmosfera dove il tempo sembra quasi non trascorrere, dove la luce della serenità e l'adorazione con le preghiere sembrano aleggiare nello spazio circostante, ammiriamo la dolce e tanto gentile Madre Giovanna, Priora del Monastero dei Benedettini a Catania.

Ci incontriamo nel parlatorio; una piccola stanza in cui le monache di clausura accolgono alcuni parenti ed amici. Le fredde sbarre di ferro color crema tentano di dividerci ma svaniscono immediatamente appena le nostre mani si avvolgono stringendosi.

Silenziosamente ci accomodiamo e con cortesia e tanta affabilità, Madre Giovanna inizia a rispondere alle nostre discrete domande.

Madre Giovanna, il sentimento d'amore che ha accolto con devozione Dio nel suo cuore, Le ha concesso una scelta importante per la sua vita. Come inizia la sua vocazione?
«Ero ancora giovanissima, avevo 16 anni e frequentavo il magistrale; quando entravo in Chiesa ed ascoltavo con profonda partecipazione le messe, il mio cuore si riempiva di gioia, di serenità anche se ancora non capivo di che cosa si trattasse. La vocazione, per Grazia del Signore, si manifestò in occasione del Precetto Pasquale a scuola: fu un momento di grande emozione, di grazia ed amore per Dio e senza troppo pensare e ragionare mi sono avvicinata alle Monache Benedettine. Da quel momento sono piena di gioia e felice nella Grazia del Signore».

 

 

 

 

Pronunciato il suo "si", la sua vita ha subito una svolta significativa e per sempre. Cosa ha lasciato e cos'ha adesso.

«In 60 anni di assoluta devozione ed adorazione per il Signore non ho mai avuto un momento di ripensamento, sembra di essere entrata ieri in questo Monastero, quando nella realtà sono trascorsi tanti anni.

La gratitudine per il Signore nella Grazia e nella perseveranza mi regala il desiderio di fare sempre di più e, alle volte, ho il timore santo di fare poco per il Signore perché anche noi siamo esseri umani, non siamo sante e possiamo anche sbagliare».

Rispetto alle altre suore che vivono attivamente nel sociale, le Monache di Clausura come si differenziano?

«Tante suore hanno la soddisfazione di vedere il bene che fanno; porto l'esempio di tante missionarie che aiutano con le loro forze e con il loro coraggio i poveri dei paesi africani.

La funzione delle Monache Benedettine del SS Sacramento e di tutte le contemplative la paragono a quella della radice di una rigogliosa pianta che si nutre e si alimenta dalle sue profonde radici. Dalle retrovie, l'adorazione per Gesù attraverso le nostre costanti preghiere, danno ossigeno ed alimentano le folti chiome della pianta».

Tra pochi giorni la nostra città ricorderà Sant'Agata, Martire, Santa, Protettrice di Catania. Quali emozioni, quali sentimenti si accendono la mattina del 6 febbraio quando il feretro di Sant'Agata si soffermerà davanti al vostro Monastero?

 

«Nutriamo un grande sentimento di gratitudine nei confronti della Santa anche perché siamo concittadine e sin da piccole, tra le braccia dei nostri genitori, ammiravamo e pregavamo Sant'Agata in processione.

Ci rivolgiamo a Lei con la speranza di provare ancor di più amore e devozione per Nostro Signore Gesù Cristo e Le chiediamo di ottenere anche una sola parte del suo spirito di sacrificio.

Preghiamo per tutta la gente che si trova davanti a noi e per tutti quei giovani che tirano il fercolo.

 

La Scalinata Alessi ha origine Medioevale e conduce alla "Via Sacra" (via Crociferi). Vi si affacciano diversi edifici Barocchi, tra cui il Convento delle Benedettine e il Palazzo Zappalà, nonché lo storico Nievski Pub, rinomato locale. Al di sotto negli anni '80 del Novecento si rinvennero i resti della città Romana: resti di edifici domestici con splendidi mosaici e affreschi parietali.

 

Le ultime generazioni di catanesi non sanno e non hanno vissuto la via Alessi senza la famosa scalinata!

Tra gli anni '60 e '70 molte strade e vicoli della città cambiarono pavimentazione ,fu eliminato il basolato e sostituto con l'asfalto. Molte vie,come nel caso della via Alessi,erano troppo ripide e quindi fu realizzata, per maggiore praticità, una lunga scalinata!La prima rampa di scale fu realizzata negli anni Sessanta, ma la pendenza risultava sempre pericolosa,quindi si aggiunsero via via altri scalini fino a quando, nel 1976,non fu costruita l'ultima rampa di scale!https://www.mimmorapisarda.it/CINE/13.JPG

 Ancora oggi qualche stradina ,che i catanesi chiamavano "strada 'nticchi 'ntacchi " ,è rimasta,come ad esempio la vicina via San Francesco ( a sinistra superando l'arco delle benedettine)!

Nella prima foto (fine anni '50)  in bianco e nero potete ammirare la via Alessi com'era prima ,mentre nella seconda la scalinata Alessi che noi tutti conosciamo.

A testimonianza della via Alessi senza scalinata ci sono le scene di ben due film che vedono due grandi attori come Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini percorrere via Crociferi ed imboccare poi via Alessi !

Grazie alla pagina Facebook @Il cinema intorno all'Etna ho la possibilità di mostrarvi le scene dei due film : il primo è del 1960 "Il bell'Antonio" con Mastroianni ed il secondo è del 1974 "Paolo il caldo" con Giannini

Milena Palermo

 

 

 

Preghiamo per la nostra città affinché sia una città cristiana, una città che non soffra per la mancanza di lavoro ed, inoltre, preghiamo per tutti i sacrifici che i nostri concittadini sono costretti a sopportare».

È più una preghiera rivolta alla Santa o un canto d'amore?

«In un profondo silenzio preghiamo e cantiamo e, seppur ci troviamo dietro la grata della Chiesa, ci sentiamo molto vicine alla gente».

Il "canto delle Monache Benedettine" per Sant'Agata è un dolcissimo momento in cui uscite in pubblico. In quali altre circostanze avete contatto con la gente?

«Usciamo per l'Immacolata, l'8 dicembre e per il Cristo morto, il Venerdì Santo; sempre dietro la grata della chiesa, preghiamo e cantiamo. Inoltre, usciamo per motivi essenziali o di studio o per andare in ospedale per visite ed esami medici».

Madre Giovanna, insieme alle altre Monache guardate la televisione, avete internet, leggete i giornali?

«Abbiamo una televisione ed ascoltiamo il telegiornale e le Sante Messe del Papa. Le tragiche notizie che apprendiamo dai telegiornali sono il contenuto della nostra preghiera per l'indomani. Noi Monache Benedettine siamo nel mondo ma non siamo del mondo: le gioie ed i dolori della società sono anche le nostre. Leggiamo i giornali l'Avvenire, Prospettive e abbiamo il computer per ricevere ed inviare mail».

Come si svolge una giornata in clausura?

 

San Benedetto

 

«Il nostro motto per noi Benedettine è ora et labora. Ci svegliamo alle 5.00 del mattino; intorno alle 5.30 siamo pronte per l'ufficio divino, salmi e letture della Parola di Dio, per le lodi e per la messa; concludiamo dopo circa due ore di preghiera. Facciamo la colazione e poi ognuno va al proprio lavoro: in cucina, in lavanderia, in portineria, alcune, ma sono poche perché vogliono stare nel Monastero, vanno a scuola per insegnare. Verso le 12.45 ci incontriamo per pregare insieme un'altra parte dell'ufficio divino e dopo si pranza. Il pomeriggio si riprende a lavorare e verso le cinque c'è un altro momento di preghiera e di meditazione (i Vespri), segue la formazione permanente della Madre. La cena e subito dopo un momento di ricreazione: stiamo tutte insieme, ci raccontiamo quello che abbiamo fatto durante il giorno, ascoltiamo il telegiornale. Infine la Compièta, l'ultima preghiera del giorno e si va a letto. L'adorazione continua anche di notte: a turno le monache si chiamano per pregare il Nostro Signore Gesù Cristo sino al mattino».

Quante Suore Benedettine sono presenti nel Monastero?

«Adesso siamo 28; quando sono entrata io eravamo 75. Sono davvero poche le ragazze che rispondono alla chiamata di Dio; c'è troppa distrazione pertanto il numero tende a diminuire infatti si nota una crisi vocazionale nella Chiesa».

Con tanta emozione Oggimedia si congeda da Madre Giovanna, ringraziandola di cuore per la sua dolcissima gentilezza.

Melania Costantino

http://www.oggimedia.it/special/158-sant-agata-patrona-di-catania/2179-santagata-il-dolce-canto-delle-monache-benedettine.html

 

 

 

L'ingresso della chiesa, detto La scalinata degli Angeli

 

Vestibolo della Chiesa di San Benedetto, la scalinata degli angeli, realizzata nel corso del XVIII secolo, è un grande ambiente con portali e decorazioni in stile rococò illuminato da ampie finestre, con pavimentazione a tarsie marmoree policrome e decorazioni in stucco.

Tra questi, risaltano le iscrizioni dedicatorie posate nel 1764. L’armonioso ambiente ospita una scalinata monumentale delimitata da una balaustrata sui cui piedistalli troneggiano otto statue alate, rivestite da Nicolò Mignemi in stucco marmoreo nel 1763. La scalinata consente di raggiungere il piano della chiesa attraverso un maestoso portone in legno con una vetrata artistica, realizzata da Carmelo Abate nel 1950 e raffigurante San Benedetto e Santa Scolastica.

http://www.benedettineviacrociferi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=18&Itemid=154&lang=it

 

La sala del parlatorio delle monache di clausura.

Da notare i divanetti all'incontrario di fronte alle grate dietro alle quali si aprirà una finestra per far comunicare la religiosa con i parenti. La sala ispirò Giovanni Verga alla scrittura della novella "Storia di una capinera", ripresa poi nell'omonimo film di Franco Zeffirelli. 

VIRTUAL TOUR

 

Luogo di preghiera, luogo di bellezza e spazio museale
 

 

 

Il Monastero delle Benedettine di Catania si apre da domani al pubblico. «Da sempre la nostra chiesa è meta di turisti» dice la Priora Madre Giovanna
La Sicilia, Sabato 06 Aprile 2013 - Grazia Calanna


«Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio», il pensiero di Hesse si coniuga perfettamente con la nascita, a Catania, di una singolare realtà artistica e culturale. Parliamo del «MacS», Museo di Arte Contemporanea Sicilia, accolto dalla Badia Piccola del Monastero delle Benedettine di Via Crociferi. L'anteprima del MacS è fissata per domani alle 17.30, con l'inaugurazione della mostra del maestro Gesualdo Prestipino, ennese classe '33, stimato demiurgo della materia. «Il mio cammino - dichiara Prestipino - è stato lungo ma lo ritengo ancora in fase di partenza e questi ultimi lavori, grovigli semplici lineari e chiari, sia visibilmente che scultoreamente, mi esaltano. Ogni elemento rappresentato è la vita di un uomo, il suo vissuto con alti e bassi. Usare il bronzo o il ferro per raccontare è fantastico, si prestano felicemente al martellamento e al travaglio». La nascita del MacS permetterà ai visitatori di varcare la soglia del Convento delle Benedettine, ammirare il settecentesco Parlatorio e la sontuosità della Chiesa di San Benedetto. «È proprio vero che quando il Signore vuole qualcosa, lui stesso apre la strada e ispira i progetti - spiega Madre Giovanna, Priora del Monastero di San Benedetto -. Da sempre la nostra chiesa, vero gioiello dell'arte barocca, è meta di turisti che hanno interesse per l'arte. Vengono non solo per questo ma anche per la pace e il silenzio che conciliano la preghiera. Papa Giovanni Paolo II, il 4 aprile 1999, nella sua lettera agli artisti scriveva: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell'Arte.

 Essa deve, infatti, rendere percepibile, e anzi per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell'invisibile, di Dio". Ci siamo chieste come poter rendere più fruibile questo bene patrimonio dell'Unesco. Abbiamo contattato un nostro carissimo amico, nonché Ingegnere Sebastiano Di Prima, che ha condiviso la nostra idea e ci ha guidati alla realizzazione di questo progetto che, a giorni, darà l'opportunità, a chi lo desidera, di visitare la Chiesa e il parlatorio monastico». L'apertura ufficiale del MacS avverrà in giugno, per allora il museo accoglierà anche una collezione permanente di dipinti di odierni artisti figurativi come, solo per citarne alcuni, Andrea Martinelli, Giuseppe Guindani, Santiago Ydanez, Alex Kanevsky, e di dispositivi tecnologici d'avanguardia. «Il progetto MacS - dichiara la direttrice Giuseppina Napoli -, è legato alle istanze tendenti alla valorizzazione dei beni culturali del patrimonio siciliano e alla promozione dell'arte contemporanea. La filosofia è quella di instaurare un dialogo tra l'arte del passato e l'arte contemporanea. Il luogo che ospita il museo è un contenitore così prezioso da essere uno dei contesti più importanti della città di Catania e dell'intera Sicilia. È nella scelta del Monastero delle Benedettine come sede che c'è l'essenza stessa del MacS. Anche se la particolarità del contenitore architettonico ci concede poche sale espositive, contiamo di potenziare lo spazio museale».

a sinistra una scena del film "Storia di una capinera" di Franzo Zeffirelli (1993)

 

- Chi è il curatore del MacS?
«Alberto Agazzani, critico d'arte di chiara fama, col quale da subito ho intrecciato una rara sintonia etica ed estetica. Siamo convinti che l'Arte è Bellezza. Agazzani ha maturato tutta la sua esistenza nel segno dell'Arte, possiede il dono di avvicinare chiunque all'arte contemporanea e riesce, senza imporre mai la sua visione, a condurre e porre, attraverso la sua indagine storica e poetica, ciascuno nella condizione di svelare e comprendere un'opera d'arte. Sarà assistito dalla giovanissima e preparatissima catanese Laura Cavallaro».
I visitatori del MacS potranno varcare la soglia del Monastero delle Benedettine. Decisamente un «passo storico». «Madre Giovanna Caracciolo, cui rivolgo la mia gratitudine, la mia stima e il mio affetto profondo, ma anche tutta la meravigliosa comunità delle Benedettine, hanno accolto con slancio la nostra proposta, consapevoli dell'immenso valore del bene culturale che custodiscono, disponibili a consentirne la fruibilità per fini di promozione culturale del territorio, perché, al contrario di quello che si può pensare di una comunità religiosa di clausura, le Benedettine di Via Crociferi sono invece, seppur raccolte nella preghiera tra le mura claustrali, una comunità intensamente viva, attenta e disponibile alle istanze finalizzate al bene comune e alla sua valorizzazione».
 

 

 

Fra la badia e la chiesa di San Francesco Borgia la via S. Benedetto conduce al Palazzo Asmundo, dalla facciata di pietra lavica con decorazioni in pietra calcarea e balcone unico incorniciato da un’inferriata panciuta.
La chiesa di San Francesco Borgia (cosidetta dei Gesuiti), dedicata al pronipote di Alessandro VI, eletto nel 1554 Generale della Compagnia di Gesù e in tutto diverso dal suo antenato tanto da essere dichiarato santo, fu ricostruita fra il 1698 ed il 1736 sulle fondamenta di una progettata da fra’ Angelo Italia precedentemente distrutta dal terremoto.

In essa, che si eleva su un’alta scalinata in pietra lavica a due braccia che la unisce al piano stradale, è avvenuto il battesimo di Vincenzo Bellini. Il prospetto bianco comprende due ordini: nel primo si inserisce il portone centrale, sul quale si adagia un timpano spezzato sorretto da due coppie di colonne scanalate con capitello composito, mentre ai lati si elevano verso l’altro altre due coppie di colonne tuscaniche, mentre nel secondo si può notare un’ampia finestra al centro, con timpano sorretto da lesene con capitello composito, e altre due coppie di colonne tuscaniche laterali, poste sopra le sottostanti, che sorreggono un’ampia trabeazione spezzata.


L’interno, a tre navate, contiene altari marmorei con pale di pittori catanesi del XVIII secolo, mentre la cupola è affrescata da Olivio Sozzi, che vi raffigurò temi legati all’ordine dei gesuiti.

 

Presso la chiesa dei gesuiti si svolsero le funzioni religiose allorché la cattedrale fu chiusa per i lavori di restauro del 1795. Questo evento infuse un alone di sacralità e di suggestione a tutta la via che si percepisce ancora oggi.

Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La storia

Il  grande palazzo settecentesco era il più bell’edificio della Compagnia di Gesù in tutta la Sicilia. Il prospetto è in stile barocco siciliano e vi si accede mediante una scalinata. L’edificio ha quattro cortili fra cui un chiostro con loggiato sormontato da colonne. Il pavimento del cortile è a ciottoli bianchi e neri, sistemati a strisce, alla maniera del Borromini.

La costruzione dell’edificio si svolse in parallelo con il processo di ricostruzione della città dopo il terremoto del 1693. La ricostruzione dopo il sisma non è avvenuta in tempi brevi, adiacente alla chiesa di San Francesco Borgia e il collegio sono stati completati nell’arco di quarant’anni. Questo significa che al programma costruttivo hanno preso parte varie figure di capomastri e di architetti, ciascuno con il proprio linguaggio architettonico.

Tra le varie figure che hanno dato il loro contributo ai lavori spiccano alcuni nomi già noti nella storiografia locale: Angelo Italia, Alonzo di Benedetto, Francesco Battaglia e altri fino ad oggi sconosciuti come l’architetto Francescano, lo scultore G.B. Marino con il ruolo di architetto.

La scelta del sito, l’impianto tipologico della chiesa e del collegio, sono il risultato di una complessa fusione fra parti di costruzioni risparmiate dal sisma, modelli spaziali della tradizione seicentesca e regole della vita comunitaria dei gesuiti. Fino al 2009 è stato sede dell’Istituto d’arte di Catania.

 

L'edilizia Gesuita a Catania, in concorrenza con i Benedettini.

I gesuiti sono presenti in Sicilia fin dal 1547 quando il Senato della città di Messina chiede loro di fondare il collegio pubblico d’istruzione. Dopo Messina essi fondano collegi nelle principali città dell’isola, prima lungo la costa per poi insediarsi gradualmente nell’entroterra. A Catania giungono nel 1556 chiamati dal vescovo riformatore Nicola Maria Caracciolo che gli affida il compito di insegnare la dottrina cristiana in 14 chiese.

Con un accordo, stipulato il 9 febbraio 1556, fra i Giurati della città, il vescovo e la compagnia di Gesù, ai padri dell’ordine religioso viene ceduta l’antica chiesa della Santissima Ascensione ed alcuni locali di un annesso ospedale rimasto vuoto dopo la sua fusione con quello di San Marco. La chiesa si trovava in prossimità della chiesa e monastero di San Nicolò l'Arena popolarmente chiamato monastero dei Benedettini.

Nel 1565 l’architetto gesuita Giovanni Tristano avevano predisposto il disegno per il progetto di ampliamento della chiesa della SS. Ascensione e per la costruzione di un piccolo collegio e di una casa di probazione. In seguito il collegio viene destinato a sede universitaria e ampliato grazie al sussidio del re. L’edificio viene completato attorno al 1578, su probabile disegno dell’architetto gesuita Francesco Schena.

 

In una veduta di Catania di Pierre Mortier, che riproduce una precedente incisione edita a Colonia nel 1575, la città è racchiusa da mura bastionate e con un sistema di strade di origine medioevale, prevalentemente orientato in direzione est-ovest; soltanto due, più ampie e fra loro parallele, attraversano tutta la città in direzione nord-sud: una la strada della Luminaria (via Etnea), collega la porta Acis (piazza Stesicoro) con la Platea Magna (piazza Duomo), l’altra collega la porta Regis (in prossimità della chiesa di S. Agata la Vetere) con il Piano de l’herba (piazza S. Francesco). La seconda strada coincide in buona parte con l’attuale via dei Crociferi. In entrambe le strade si trovavano numerose chiese: lungo la via della Luminaria le chiese di S. Anna dei Triscini, della SS. Trinità, della collegiata, di S. Martino; lungo l’attuale via dei Crociferi le chiese di S. Maria della Dagala, della SS. Ascensione, di S. Benedetto, di S. Francesco, di S. Giovanni li Barillari. Dalla veduta del Mortier si deduce che il luogo più importante della città si trova all’estremo sud della via Luminaria in cui sorgono sulla piazza Grande (piazza Duomo), la cattedrale e la loggia dei Giurati. I gesuiti, pur avendo chiesa e collegio localizzati in un sito non periferico nella struttura urbana cinquecentesca, ambiscono a guadagnare un ruolo primario nella scena urbana. È presumibile che lungo la via Luminaria, asse principale della città, sorgessero gli edifici dei nobili, mentre invece nel sito del collegio dei Gesuiti sorgessero solo modeste case; da qui il desiderio di trasferirsi. Il rettore inoltre motiva la richiesta di trasferimento dal vecchio sito al nuovo con il fatto che i cittadini o i forestieri, venuti da lontano, faticano ad affrontare la salita che porta al vecchio collegio.

Il 14 novembre 1621 il generale della Compagnia di Gesù autorizza il mutamento di sito, e i padri gesuiti si mettono subito all’opera acquistando la casa degli Orfani, appartenente al monastero della Santissima Trinità, costruendo il nuovo collegio in via Luminaria o Strada Maggiore (Via Etnea).

Il nuovo collegio inizia il 3 agosto 1623 con la costruzione della chiesa dedicata a S. Ignazio, i tempi di costruzione sono molto lunghi, in parte a causa della mancanza di proventi, e in parte per via della crisi economica che interessò la Sicilia nella metà del XVII secolo.

Fra il 1666 e il 1682, il nuovo collegio risulta ancora in costruzione. La chiesa invece è praticamente completa quando viene colpita dal terremoto dell'11 gennaio 1693. Nel 1694 i Gesuiti chiedono di continuare la costruzione del collegio danneggiato dal sisma.

Il rettore del collegio, padre Ferdinando Gioieni in data 14 febbraio 1694, chiede al Vescovo Andrea Riggio il consenso per ricostruire la chiesa, in parte rovinata dal terremoto e in parte demolita per costruire la strada principale chiamata Osseda.

In attesa della licenza del Vescovo, il rettore del collegio inizia ugualmente la ricostruzione nel piano della fera nova, suscitando l’opposizione dei vicini padri del convento di S. Caterina che temevano ampliamenti edilizi in loro danni e quelli delle monache del monastero S.Agata che temevano di essere viste dalle finestre del collegio in costruzione. Sulla costruzione sorgono forti contrasti e conflitti da parte di privati cittadini che rivendicano la proprietà di case utilizzate come sede della chiesa e del collegio in costruzione. Pertanto i Gesuiti sono costretti, ad abbandonare il piano della fera nova sito da loro prediletto in quanto nel cuore della città. Trascorso qualche anno di incertezza sul a farsi, i padri gesuiti ritornano nel loro antico collegio abbandonato dopo il sisma. Per la ricostruzione della chiesa e del collegio, è stato riutilizzato tutto ciò che è stato risparmiato dal sisma.

 

La ricostruzione

Le prime notizie sulla ricostruzione del collegio di Catania risalgono al 1698: il vicedirettore del collegio, padre Francesco Maria Bonincontro, chiede al vescovo il permesso di vendere parte di case, situate nel piano della Fera Nova (piazza dell'Università) nella contrada Pozzo Bianco. Queste case erano state acquistate, prima del terremoto, dai padri gesuiti che intendevano ricostruire il proprio collegio nel piano della fiera. Poiché essi non poterono raggiungere l’obiettivo, tornarono nel collegio antico di nuovo riedificato, che corrisponde all’attuale complesso edilizio. Qui il portale di acceso al terzo cortile porta incisa sull’arco la data 1697 e il motivo a grottesca delle mensole del balcone sono ancora di foggia manierista.

 

 

Nel 1699 vengono sterrate le strade pubbliche a carico dell’ordine gesuitico: la strada di San Benedetto, quella davanti alla chiesa (via dei Crociferi) e quella di tramontana (via Gesuiti).

Alle opere di fondazione della chiesa sovrintende, verso il 1701, il capomastro Alonzo di Benedetto. La planimetria della struttura della chiesa fa presupporre l’ipotesi che quest’ultimo si sia servito del disegno, in possesso dei padri gesuiti, eseguito dal padre Tommaso Blandino verso il 1623 per la costruzione della chiesa nel piano della Fera Nova. La pianta dell’attuale chiesa corrisponde difatti a quel progetto, che comprendeva le navate inscritte in un rettangolo. Alonzo di Benedetto da un lato rispetta un impianto tipologico dato dall’ordine religioso, dall’altro esprime il linguaggio architettonico che più gli è congeniale, attuando mutamenti di gusto del suo tempo. Il disegno della facciata della chiesa è invece da attribuire all’architetto Angelo Italia, anche per la ricostruzione del collegio si può pensare che abbia impostato uno schema tipologico poi interpretato dal di Benedetto. Il disegno di questo collegio, a differenza degli altri più modesti diffusi nell’isola, svolge il tema delle tre corti in successione lineare e parallela all’asse longitudinale della chiesa. Questo tema è insolito nel modo nostro di costruzione dei collegi siciliani, in cui le corti si sviluppano lungo un asse ortogonale a quello longitudinale della chiesa.

 

 

Nel 1713 sotto la sorveglianza dell’architetto Stefano Masuccio, iniziano i lavori di demolizione di vecchi muri, e di livellamento per impostare i pilastri del cappellone della chiesa. Agli inizi del 1718 risultano già eseguite le sette finestre del piano terra del prospetto di levante e parte del portale d’ingresso del collegio. Alla fine del 1719 sono state affrontate le spese per fabbricare la scuola (il corpo di ponente dell’area scholarum) nel sito della chiesa vecchia, per spianare la strada di San Benedetto.

Negli anni compresi tra il 1726-1740 i lavori procedono con opere di finitura all’interno della chiesa e con l’impostazione delle volte lungo il portico della corte dell’area scholarum. Agli inizi del 1745 ad Alonzo di Benedetto segue la direzione dei cantieri l’architetto Stefano Battaglia. Probabilmente è opera sua il disegno del secondo ordine del portico dell’area scholarum, molto diverso dalla concezione figurativa del primo ordine, dalla cui costruzione sono passati più di 20 anni. Così agli archi a tutto sesto del primo ordine, egli contrappone un loggiato fatto di pilastri più familiari al linguaggio barocco.

Le notizie relative al completamento del collegio si fermano al 1757.

(fonte: Wikipedia)

 

 

L'europeo concetto architettonico del Collegio universitario.

 Le regole dell’organizzazione distributiva e spaziale delle chiese e collegi a cui si ispirano i padri gesuiti erano stabilite nel canone 34 (De rationae aedificiorum), in base a tali regole il disegno di ogni nuova fabbrica doveva essere inviato a Roma per l’approvazione del generale (praepositus generalis) che si avvale, per gli aspetti di ordine pratico e tecnico, di un Consiliarius aedilicius , che a partire dalla metà del XVII sarà il “matematico” del collegio romano.

L’insieme delle indicazioni tipologiche e delle caratteristiche, che deve essere rispettato nella costruzione dei collegi per soddisfare i bisogni dell’Ordine, viene chiamato "modo nostro", questo stabilisce che gli edifici della comunità religiosa – area collegii- organizzati attorno a una corte, siano ben distinti da quelli scolastici e delle congregazioni – area scholarum- anch’essi distribuiti attorno ad una corte.

La chiesa, generalmente affiancata all’area collegii, deve legarsi agli edifici della comunità ed essere al contempo accessibile sia ai padri dell’Ordine, agli scolari e ai fedeli. In fine un’altra corte contenente i servizi generali – corte di carri o rustica- deve essere connessa ai fabbricati del collegio ma avere un accesso autonomo per i carri. Queste regole nella realtà subivano alcune variazioni in base al contributo personale dell’architetto che le metteva in pratica.

Il collegio di Catania, contrariamente alle regole del modo nostro che prevedono generalmente una sola corte di carri o rustica accanto all’aera collegii, viene costruita una seconda corte di carri . I collegi gesuitici con più di tre corti sono rari, tuttavia in questo caso la presenza di una quarta corte è attribuibile alla ricostruzione dell’edificio che utilizza il sito della chiesa della SS. Ascensione e parti del primitivo collegio risparmiato dal sisma.

 

Il suo utilizzo nel tempo.

Rispetto al disegno originario, l’ex collegio ha subito molte modifiche a seconda dei suoi usi nel tempo, tanto da renderne illeggibile il ruolo primitivo nella scena urbana.

1767 - lo Stato borbonico decide di espellere i gesuiti dalla Sicilia. Il governo borbonico entra in possesso dei beni dei gesuiti, e decide di concedere il loro patrimonio fondiario in enfiteusi ai contadini privi di terra e di trasformare i loro collegi in scuole pubbliche di Stato o in ospizi per l’assistenza ai poveri.

1779 - Il collegio dei gesuiti viene trasformato in “casa di educazione della bassa gente” o secondo un appellativo più nobile “collegio delle Arti”, esso ospita sia lavoratori artigiani (di panni, sete, ceramiche, manifatture d’acciaio) che alloggi per alunni. Con questo nuovo riuso avvengono alcune modifiche per adeguare la struttura alle nuove funzioni: demolizione dei muri divisori delle celle dei padri per trasformarle in dormitori o officine.

1834 - Con il decreto del 7 agosto 1834 il re Ferdinando II delle Due Sicilie dichiarava chiuso il “Collegio delle Arti” per sostituirlo con il “Reale ospizio di Beneficenza per le province di Catania e Noto”. Iniziano una serie di lavori di adeguamento dell’impianto distributivo originario per ospitare un numero sempre crescente di alunni e mendicanti. Originariamente al piano superiore del collegio si trovavano: 12 camere per i padri, poi ridotte a 10 dall’apertura dei corridoi superiori di tramontana e meridionale ed in seguito distrutte per creare un unico salone per l’ospizio, la scala e verso ponente l’appartamento del rettore costituito da tre vani.

1854 - Sopraelevazioni vengono eseguite sull’area scholarum e sul primo corpo di ponente dell’area collegii. A partire da 1854 l’area scholarum diventa sede del tribunale.

1968 - 2009 - Il collegio è stgto sede dell’Istituto statale d’arte, il quale ha proseguito la pratica di microtrasformazioni interne per rispondere alle esigenze degli allievi.

(fonte: Wikipedia)

 

Il futuro del Collegio dei gesuiti fra abbandono e grandi progetti
di Antonio Borzì

Gli interventi per la messa in sicurezza procedono a rilento, come testimoniano le immagini. L’ex Istituto d’arte dovrebbe diventare sede di un’importante Biblioteca regionale

CATANIA – Nell’ottobre del 2009 è stata messa la parola fine alle vicissitudini dei ragazzi dell’Istituto d’arte che, dopo essere stati costretti ad abbandonare il Collegio dei gesuiti - edificio storico di via Crociferi - per motivi di sicurezza, hanno trovato una nuova “casa” nell’attuale sede di viale Vittorio Veneto. Prima del definitivo “trasloco”, tante discussioni, tanti proclami e tentativi più o meno fortunati di trovare una soluzione.

Così la scuola finalmente iniziò e venne l’inverno, e con esso il solitosilenzio che avvolge i fatti catanesi colpì anche la situazione relativa ai lavori di restauro nel palazzo di via Crociferi. Ovviamente la fine dell’emergenza giustificava la fine del clamore, ma è sembrato quasi che la questione non importasse più.

Un edificio dalla grande valenza storica che è sembrato quasi abbandonato a se stesso. Oggi, poco o nulla sembra essere cambiato nel corso dei lavori. Interventi che, a dire il vero, stanno proseguendo con un ritmo che, apparentemente, appare lento e senza fretta.

Le immagini interne ed esterne dell’edificio sono eloquenti. Le finestre sono in gran parte rotte consentendo, soprattutto in questa stagione invernale, l’ingresso degli agenti atmosferici, gli stessi che, entrando dal famoso buco sul tetto, hanno causato ingenti danni alla pavimentazione dell’ex palestra che rischia tuttora il crollo. All’interno, invece, si assiste a immagini d’autentico abbandono con un dominio totale di calcinacci a terra e erbacce.

Percorrendo il perimetro della struttura si può notare come, mentre in via dei Gesuiti i lavori, seppur senza fretta, proseguono, la parte che si affaccia sulla zona non aperta al traffico e adibita a parcheggio (abusivo) sia rimasta totalmente all’abbandono. Il rischio appare evidente anche per eventuali crolli di materiali dalla facciata che andrebbero a finire sulle auto in sosta o, peggio ancora, su qualche sventurato pedone.

I progetti vorrebbero quest’edificio futura sede di una grande Biblioteca regionale. Ma, vedendo queste immagini, ci si può rendere conto come i tempi di realizzazione appaiano ancora molto lunghi. Dovrebbero essere fatti prima di tutto degli interventi strutturali per rafforzare la resistenza di un edificio che sta letteralmente crollando a pezzi.
Ha suscitato anche un pizzico di ironia la vista, fino a poche settimane fa, dei camion delle ditte dei trasporti, ancora impegnati a lavorare alacremente per completare il trasferimento nella nuova sede. Quasi il simbolo del fare siciliano, un modus operandi che tiene poco conto di programmazione e controlli, cercando di far defluire le cose. Senza dimenticare quella spinta entusiastica verso progetti esaltanti che difficilmente verranno realizzati.

 

 

 

TRIBUNA D'ONORE DEL COLLEGIO DEI GESUITI IN VIA CROCIFERI

(Testo descrittivo di Franca Restuccia, dal libro "Catania del '700 dai segni al linguaggio nella ricostruzione ")

- L' insieme del portale con tribuna si presenta alquanto "monumentale "sull'alta scalinata, frutto del piano del Landolina che nel 1869 impose l'abbassamento del livello stradale (solo i primi quattro scalini appartengono all'originale e semplice portale, senza balcone superiore, di Alonzo di Benedetto).

Esempio di "ricostruzione in stile"attuato nel 1848 dall'ingegnere Mario Di Stefano (impegnato per la sopraelevazione dell'intero collegio)che,"......con faticose imitazioni di un indistinto linguaggio barocco... con abbondanza di volute e cartocci alla maniera dei lapicidi della prima ricostruzione "(G.Pagnano), reinventa la tribuna e tenta di completare in un'unica configurazione il portale esistente.

La parte originale è infatti quella al di sotto dell'estradosso dell'arco sostenuto da piedritti,con piccole bugne diamantate che si ripetono nelle paraste e nelle controparaste del telaio di fondo, con sovrapposte colonne,che viene maldestramente "allungata"dal Di Stefano. Variando le proporzioni degli elementi che entrano in gioco nell'unificazione, con l'aggiunta di fusti di colonne che reggono una "non canonica"e molto alta trabeazione, sulla quale poggia le mensole a sostegno della tribuna, il progettista commette ".....scorrettezze grammaticali inspiegabili in un autore di formazione accademica.......",riproduce mimeticamente l'esistente e non riesce ad interpretare un cammino indicato e tracciato - (Franca Restuccia) 

 

 

Sul lato opposto, il destro di Via Crociferi, si incontrano il Palazzo Zappalà e subito dopo la chiesa di San Giuliano, attribuita al Vaccarini e datata fra il 1739 e il 1751, presenta una cancellata panciuta, che segue l’andamento della facciata convessa, sulla quale domina la scritta “DOM ET S. IULIANO SACRUM 1832” sorretta da due putti altezzosi che reggono i simboli ecclesiastici, la mitria ed il pastorale. Il breve sagrato è decorato da un tappeto di arabeschi in bianco e nero.

  Anche le finestre sono chiuse da grate panciute, rifatte dopo il ventennio, durante il quale, le grate originarie finirono addirittura in California per ornare le ville di nababbi e dive del cinema. L’interno, con pianta ottagonale, riccamente decorato, contiene “La Madonna delle Grazie”, realizzata da Olivio Sozzi.

Da alcuni punti della strada e dal chiostro dell’ex monastero si può ammirare la cupola con la loggia esterna di coronamento dalla quale un tempo le monache di clausura seguivano il passaggio delle processioni sacre.

 

 

 

Il monastero è composto solo da due ordini, senza balcone centrale, contenente solo finestre. Il portone con arco a tutto sesto, sostenuto da due lesene con capitello tuscanico, è inquadrato in un rettangolo ai lati del quale si possono scorgere due fiori. Sopra la chiave dell’arco si nota uno stemma illeggibile sormontato da una corona, con sotto una maschera grottesca e ai lati delle foglie di acanto. All’interno il chiostro è circondato da un loggiato con archi a tutto sesto al centro del quale si presume ci fosse una fontana, oggi sostituita da un’aiuola di forma ottagonale.

 


 

Di fronte all’ex monastero sorgeva un giardino pensile, sostituito, in seguito, da un palazzotto. Alcuni ritengono che proprio all’angolo fra via Crociferi e via Sangiuliano sorgesse il tempio di Esculapio, mentre altri lo collocano all’angolo fra via Crociferi e via Vittorio Emanuele.

Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com

Catania, via Crociferi tra degrado e incuria.  Nel 1998 la Protezione Civile aveva stanziato 5 milioni di euro, finora ne sono stati spesi 800 mila

Via Crociferi, una delle vie più belle del barocco siciliano, nel 2002 dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, versa in uno stato di degrado e incuria.

Quattro chiese in 200 metri. La prima è quella di San Benedetto collegata al convento delle suore benedettine dall’arco omonimo che sovrappassa la via e collega la Badia grande alla Badia piccola. Ad essa si accede a mezzo di una scalinata ed è contornata da una  cancellata in ferro battuto. Proseguendo si incontra la chiesa di San Francesco Borgia alla quale si accede tramite due scaloni. A seguire l’edificio settecentesco del collegio dei Gesuiti, dal 1960 al 2009, sede dell’Istituto d’Arte.

Per la messa in sicurezza dell’edificio, che è di proprietà della Regione, già nel 1998 la Protezione Civile aveva stanziato 5 milioni di euro, ad oggi ne sono stati spesi 800 mila: se tutto va bene i lavori proseguiranno a partire dalla prossima primavera.

Di fronte al Collegio è ubicata la Chiesa di San Giuliano considerata uno degli esempi più belli del barocco catanese. L’edificio è stato attribuito all’architetto Giovan Battista Vaccarini.

 

 

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Proseguendo ed oltrepassando la via Antonino di San Giuliano, si può ammirare il Convento dei Crociferi e quindi la Chiesa di San Camillo.

Lo scorso novembre sono partiti i lavori di pulizia dei muri dai graffiti, grazie ad un accordo siglato dal Comune e l’Ance, associazione nazionali costruttori edili. “Facciamo un appello ai nostri giovani perchè siano rispettosi di questo patrimonio. Ne godano la bellezza ma lo custodiscano gelosamente”, così ha commentato il sindaco Raffaele Stancanelli.

http://www.universy.it/2011/12/catania-via-crociferi-tra-degrado-e-incuria/

 

 

 

 

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scene girate al Monastero dei Benedettini, Piazza Duomo, Via Crociferi

 

 

Palazzo Zappalà

 

 

 

 

Via Crociferi, un set all'aperto.

 

 

Sabato 25 Giugno (La Sicilia) Mario Bruno

La rinascita di una città dipende anche dallo sviluppo della cultura e dell'arte, che contribuiscono a incrementare il turismo. Catania è una città dove fervono costantemente vivaci iniziative  teatrali, musicali, cinematografiche e letterarie. Qui arrivano molti registi, conquistati dal barocco, sedotti dalle chiese di vie Crociferi, dai prospetti dei palazzi di via Etnea, dal pittoresco, variopinto microcosmo della pescheria con la sua umanità vociante, dall'azzurro luminoso del mare, dagli abbaglianti colori caraibici delle spiagge della Plaia.
Non a caso il capoluogo etneo è stato, è tutt'oggi, e sarà sempre set ideale di un cospicuo manipolo di registi, alcuni dei quali - per esempio Peppuccio Tornatore, Maurizio Zaccaro, Franco Zeffirelli - sono tornati un'altra volta con le loro Arriflex per riprendere gli scorci più seducenti, come piazza Duomo, l'arco di San Benedetto, via Alessi, Villa Cerami, piazza Dante, il monastero di San Nicolò l'Arena, l'Antico Corso, San Cristoforo, palazzo Biscari e anche Librino, quartiere dal fascino quasi spettrale in cui Roberta Torre ha ambientato il suo ultimo film "I
baci mai dati". Mauro Bolognini, nel 1960, si innamorò talmente della "bomboniera barocca" alle falde dell'Etna, da ambientarvi "Il bell'Antonio", impeccabile film tratto dall'omonimo romanzo di Vitaliano Brancati e con un cast di rilievo che vedeva in primo piano Marcello Mastroianni (Antonio Magnano), una magnifica Claudia Cardinale (Barbara) e inoltre Tomas Milian, Rina Morelli e Pierre Brasseur. Quarantaquattro anni dopo, il milanese Maurizio Zaccaro, infatuato anche lui di Catania, gira una sorta di remake del "Bell'Antonio", con Daniele Liotti e Nicole Grimaudo protagonisti. Zaccaro ripercorre per buona parte gli itinerari descritti con maestria da Brancati e trasferiti nel grande schermo da Bolognini, indugiando, come l'illustre predecessore, anche sui sudici ma comunque "attraenti" budelli del quartiere del vizio, il  vecchio San Berillo, la  strada delle "lucciole", dove Alfio Magnano, stremato dal dolore per aver appreso dell'impotenza sessuale dell'amato figlio, va a morire mentre fa l'amore con una prostituta, noncurante delle bombe sganciate dagli aerei americani che sorvolano la città, in pieno conflitto mondiale. Va a morire fiero, per salvare l'onore e la virilità del suo casato.
Anche Lina Wertmuller girò oltre metà del suo "Mimì metallurgico ferito nell'onore" nei luoghi-simbolo del capoluogo etneo, irrompendo con la macchina da presa all'interno della pescheria, tra i banconi e i recipienti colmi di guizzanti masculini, sauri, cefali e luvari. Girò pure a Ognina, sotto il secolare baobab del giardino Bellini, in via Vincenzo Giuffrida, davanti alla Cattedrale, nella regale via Crociferi, nel suggestivo chiostro del monastero dei Benedettini e poi, in un gabbiotto della Plaia, tra una zoomata sul mare e un'altra sulla dorata distesa di sabbia, realizzò l'indimenticabile scena d'amore "forzato" organizzato per sfregio, tra Giancarlo Giannini e la brutta, grassa consorte (l'attrice Elena Fiore) del carabiniere che aveva cornificato il bel Mimì con "la di lui" moglie (Agostina Belli)

 

 

Via Crociferi, un set tra i più ricercati dai registi di cinema
Un ruolo di primo piano per la bellissima strada. Nel breve spazio  hanno girato Bolognini, Zeffirelli,Vicario, Wertmuller, Samperi, Zaccaro

(La Sicilia 12.5.2012) di Mario Bruno
Catania possiede un sito di inestimabile valore, un gioiello architettonico che si chiama via Crociferi, uno dei più ambìti set cinematografici del mondo, come Manhattan, il Central park e le spettacolari street di New York; come Santa Monica di Los Angeles, come Philadelphia, Miami, come la piazza Duomo di Milano, la torre Eiffel di Parigi e come il cuore di Roma.
In via Crociferi, nel breve spazio di 200 metri, sono ubicate ben quattro chiese e questa realtà, oltre al prezioso barocco che rende l'arteria davvero unica, ha affascinato una moltitudi
ne di registi.  
Già nel 1960 Mauro Bolognini diede più di un ciak nella strada d'impronta settecentesca per «Il bell'Antonio» e stessa cosa fece Maurizio Zaccaro nel 2004 per il remake televisivo dell'opera letteraria di Vitaliano Brancati. Nel primo film, via Crociferi è ritratta in bianco e nero, nel secondo a colori e nella sua inalterata maestosità. Marco Vicario azionò poi la Arriflex tra le storiche mura, per il suo «Paolo il caldo» tratto dal romanzo postumo di Brancati e stessa cosa fece Franco Zeffirelli per lo struggente «Storia di una capinera» dove si vedono splendidi scorci notturni della via, con la luce argentata della luna
che rimbalza sulle basole laviche.

Indimenticabili, va certamente sottolineato, le inquadrature realizzate da Lina Wertmuller nel suo lungometraggio, divenuto un cult, «Mimì metallurgico ferito nell'onore». La regista - era il 1972 - si dichiarò «innamorata persa di Catania e soprattutto di via Crociferi», dove la macchina da presa riprende un giovane Giancarlo Giannini intento a seguire Elena Fiore, donna giunonica e impettita che l'esile ma agguerrito Mimì dovrà sedurre «per questioni d'onore».
La Wertmuller, assieme a molti autorevoli colleghi non esitò a definire via Crociferi «una
delle strade più affascinanti del mondo, che seduce per la ricchezza del suo patrimonio monumentale».
La serie di film non è terminata. Anche Diego Ronsisvalle fu attirato dal fascino di quella gemma barocca dove girò «Gli astronomi», mentre anni prima il regista e sceneggiatore catanese poi trapiantato a Roma, Rino Di Silvestro, portò Guia Jelo, Tuccio Musumeci e Philippe Leroy a villa Cerami per una scena del malriuscito film «Bello di mamma».
Ben altra sorte, cioè un clamoroso successo, ebbe invece l'indimenticato «Malizia» di Salvatore Samperi, e sottolineiamo indimenticato sia per la presenza del grande Turi Ferro sia per quella di una strepitosa, bellissima Laura Antonelli all'apice della sua carriera e del suo fascino. Altro film dove si vede via Crociferi è «Giovannino» di Paolo Nuzzi interpretato da un giovanissimo Christian De Sica e dalla brava e graziosa attrice catanese Sara Rapisarda prediletta da Lina Wertmuller che le aveva dato una parte pure in «Mimì metallurgico».
La preziosa strada si vede non soltanto in film, ma anche in fiction televisive, tra cui nella citata «Il bell'Antonio» di Zaccaro e nella romantica «Posso chiamarti amore» del regista Paolo Bianchini con Debora Caprioglio ed Enrico Lo Verso.

 

 

 

 

 

VIA CROCIFERI E IL CAVALLO SENZA TESTA
di Daniela Monaco

La leggenda del cavallo senza testa è ambientata in Via Crociferi nella Catania del 1700. Via famosissima per le sue Chiese, un tempo era il luogo in cui i nobili avevano le residenze per incontri notturni, intrallazzi amorosi e cospirazioni private da tenere al nascosto. Proprio per questi intrighi notturni gli stessi nobili, per evitare intromissioni della plebe nella Via, fecero spargere la voce che di notte vagasse senza meta un cavallo senza testa. Durante la notte nessuno osava entrare in Via Crociferi.

Solo un giovane catanese impavido e poco avvezzo alle leggende scommise con i suoi amici che sarebbe andato nel cuore della notte sotto l’Arco delle suore Benedettine (che la storia narra come costruito in una sola notte nel 1704), per smentire tale diceria. A prova del suo passaggio in quel luogo doveva affiggere un chiodo. Gli amici accettarono la scommessa.

Il giovane a mezzanotte in punto piantò il chiodo alla parete dell’arco, ma non si accorse che insieme al chiodo attaccò anche il suo mantello, che gli impediva i movimenti non potendo scendere dalle scala. Il ragazzo allora pensò di essere stato preso dal cavallo senza testa e per il terrore morì, vincendo la scommessa e confermando la leggenda.

 

Via Crociferi amatissima, dunque, non soltanto dagli uomini del cinema ma pure da documentaristi, da studiosi di storia, da fotografi rinomati provenienti da tutto il mondo per ritrarre i prospetti delle chiese, l'arco di San Benedetto, il cancello di ferro battuto dell'omonima chiesa, la prima delle quattro che si incontrano salendo dalla piazza San Francesco d'Assisi, che ospita la casa natale di Vincenzo Bellini «il Cigno» e il monumento al cardinale Dusmet. Proseguendo si incontra la chiesa di San Francesco Borgia e, a seguire, il Collegio dei gesuiti, vecchia sede dell'Istituto d'arte, che ha al suo interno un bel chiostro con portici su colonne e arcate sulle quali si soffermò l'obiettivo di Diego Ronsisvalle per «Gli astronomi».

 

 Di fronte al Collegio spicca la chiesa di San Giuliano un tempo definita «patrizia» perché vi si celebravano cerimonie religiose per i nobili e considerata uno degli esempi più eleganti del barocco catanese. E' proprio all'interno e all'esterno di questo tempio che il regista Zaccaro ambientò la scena del matrimonio fra Barbara (l'attrice Nicole Grimaudo) e Antonio Magnano (Daniele Liotti) soprannominato il bell'Antonio, uomo attraente ma affetto da impotenza: un'onta per i «masculi siculi» con in testa il padre di Antonio, Alfio Magnano, il quale andrà a morire in una casa di tolleranza pur di dimostrare a tutti l'indiscussa virilità del suo «casato».

 


 

Nelle scene corali di quello che poi si rivelerà uno sfortunato matrimonio, quello fra Barbara e Antonio, si vedono noti attori, primi fra tutti Leo Gullotta (nel ruolo del saggio zio Ermenegildo) e Luigi Maria Burruano (Alfio Magnano), e poi Vitalba Andrea, Marcello Perracchio e Anna Malvica. La scena in questione (noi eravamo presenti) fu girata più volte, nel corso di ben due mattinate, perché uno dei cavalli che trainavano la carrozza nuziale si imbizzarriva facilmente, facendo sobbalzare i poveri sposi, cioè gli attori Nicole Grimaudo e Daniele Liotti, sballottati qua e là, con effetto decisamente comico, dall'irrequieto equino. E ciò per la disperazione del director Zaccaro e della troupe, costretta a ripetere la medesima scena, peraltro con il rischio che il cavallo prendesse a galoppare pericolosamente lungo la discesa.
In fondo alla strada, oltrepassata la via di San Giuliano, si staglia Villa Cerami (sede della facoltà di Giurisprudenza dell'ateneo catanese) altro sito che, a cominciare dalla stilizzata fontanella che spicca all'ingresso, costituisce un'altra perla settecentesca di via Crociferi, strada che appartiene alla Storia e al cinema. E per l'appunto in una delle sale di villa Cerami, Rino Di Silvestro girò l'esilarante scena che vede un'imbruttita e baffuta Guia Jelo indaffaratissima a sedurre Tuccio Musumeci, qui magro come un grissino e nei panni del "Bello di mamma", film che risale al 1980 e che vede nel cast pure il menzionato Philippe Leroy e poi Carmen Scarpitta, Carole Andrè (la mitica perla di Labuan degli sceneggiati tv di Sandokan), Pippo Pattavina e il compianto Gianni Creati.
In "Mimì metallurgico" la Wertmuller indugiò a lungo con la macchina da presa, in via Crociferi, percorrendola per quasi tutta la sua lunghezza, finché Giannini ricompare in piazza Duomo entrando poi da piazza Alonzo Di Benedetto, nella vociante e pittoresca «piscaria». Per «Capinera», Zeffirelli invece ambientò la sua raffinata scena in notturna, con un sapiente utilizzo di luci che rendono ancor più attraente la strada.
Altre scene furono girate su balconate e terrazzi di chiese e conventi della via, con primi piani delle grate dalle quali si affacciavano le monache di clausura che da lì respiravano un po' di libertà.
Uno degli «affreschi» migliori resta comunque quello in bianco e nero di Mauro Bolognini, che amò a tal punto Catania e via Crociferi da girarvi pure «Un bellissimo novembre» con una stupenda Gina Lollobrigida. Ma il precedente «Il bell'Antonio» resta un pietra miliare della cinematografia, sia dal punto di vista drammaturgico, sia da quello tecnico. Un film con un cast stellare (Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Tomas Milian, Pierre Brasseur) dove via Crociferi ha un ruolo di primo piano e dunque può senz'altro definirsi «protagonista» a tutti gli effetti.

 

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scene girate in Piazza Duomo, Via Crociferi

 

 

LA STRADA DEI CROCIFERI

(Testo del giornalista Lucio Sciacca da "I catanesi com'erano",1975)

 

-In un limpido mattino del dicembre 1937,mentre attraversavo lo sperone del Penninello per recarmi a scuola, come facevo ormai da qualche tempo, la strada dei Crociferi entrò di colpo nella mia vita. E non già in virtù del suo bel barocco che,finalmente, fosse riuscito ad imporsi alla mia coscienza di adolescente trasognato e spilungone alle prese con i primi testi di storia dell'arte.Spiacemi doverlo confessare, non fu per questo.

Vi entrò per i begli occhi -due splendidi occhi color nocciola-d'una ragazzina che, incrociandomi, frugò intenzionalmente nei miei,e che a me parvero più espressivi e più avvincenti di tutto il barocco del mondo.

Un lampo, un tuffo nel cuore.

Poi,la ragazzina s'infilò,svelta e leggera,dentro al portone del palazzo Cerami (che allora ospitava le scuole magistrali femminili)ed io restai piacevolmente stordito, con lo sguardo alle decorazioni del settecentesco portale che mi si ergeva dinanzi, e col pensiero altrove.

La rividi nei giorni successivi, sempre sullo sfondo del principesco palazzo, finché mi accorsi di essere innamorato d'una bella ragazza casualmente incontrata in via Crociferi. E la via Crociferi da quel momento mi apparve come la strada più interessante della città.

Se quell'incontro si fosse esaurito in un sentimento effimero, non lo avrei ora rievocato, e probabilmente non me ne sarei neppure ricordato. Quell'incontro, invece, diede vita ad un sentimento che dura ancora oggi. La ragazzina dagli occhi color nocciola, dopo alcuni anni divenne mia moglie, e la strada dei Crociferi la meta preferita delle mie passeggiate prima, il soggetto più ambito del mio obiettivo fotografico poi.

Ma il fascino segreto di cui è permeata via Crociferi lo colsi in seguito, accompagnandomi ad alcuni maestri (e amici)che questa strada predilessero ed ebbero assai cara.Tuttora-malgrado l'incidenza del traffico e dei rumori- se mi si offre l'occasione di percorrerla a piedi, specie nei giorni festivi quando la piena delle macchine sembra per un attimo perdere l'abituale portata, non trascuro di soffermarmi sull'ampio sagrato della chiesa di San Giuliano, a guardare e a ricordare.

Risento allora la voce inconfondibile di Enzo Maganuco che in via Crociferi tenne gli alunni prediletti le più colorite lezioni sul barocco catanese ;riodo Saverio Fiducia parlarmi di Salvatore Desi e del suo obiettivo fotografico che qui colse significative immagini;rivedo gli occhi impenetrabili di Vitaliano Brancati ammiccare verso l'arco di San Benedetto allorché, in compagnia di Raffaele Leone, s'indugiava a discutere della furbizia (e della pigrizia)dei catanesi.

E vado sempre più convincendomi che certo modo di pensare e di vedere le cose, certi atteggiamenti che oggi possono sembrare superati e anacronistici, aiutavano a vivere e a crescere. Vado sempre più constatando che questa strada ,oggi mortificata dal generale disinteresse, non è pietanza per palati grossolani.

Penetrare il significato dell'architettura che la impreziosisce, cogliere l'afflato che promana dalle sue chiese ,avvertire la sinfonia delle luci che indorano i suoi ornati, gustare l'opulenza dei suoi edifici significa guardare al di là del parabrezza della propria vettura, entrare in sintonia con la strada stessa, sentirne il mistico respiro.

Passati -e lontani-sembrano i tempi in cui qualcuno scriveva:"....Essa rappresenta la spina dorsale del barocco catanese,la naturale galleria di esposizione dei suoi capolavori, chiusa com'è, agli estremi, dal portale grottesco del palazzo del Principe Cerami e dall'arco teso dalla violenza di mons.Riggio ; irrobustita di chiese, di conventi e di palazzi;con tutta la sua lunghezza e la sua poca ampiezza, che sembrano così fatte per lasciar giganteggiare le moli-ora gentili ora possenti -che vi si affacciano, superbe o frivole;con i chiusi nidi delle gelosie ventrute o con le labbra tumide dei ballatoi;con le taglienti lame luminose delle colonne o con il formicolio degli intagli preziosi ;con gli svelti, torniti lanternini o con i grossi tamburi merlati, con le pedane laboriosamente tramate in nero e bianco o con le ampie onde concentriche delle scalee"(Francesco Fichera).

 

 

Si,perché uno degli aspetti più singolari della strada dei Crociferi è questa sua funzione di "galleria naturale "entro i cui pur modesti confini si raccolgono monumenti che altri ci invidiano.

E vien da chiedersi:perché furono così concentrate codeste opere d'arte?

La risposta presuppone uno sguardo al passato.

Tracciata in un punto nevralgico dell'antica città, questa strada ebbe diversi toponimi (strada Sacra, strada Nuova, strada del Corso e chissà quanti altri)tutti indicativi della sua importanza e della alta considerazione nella quale era tenuta.

Già nel Medioevo, essa si snodava in mezzo a chiese e palazzi, forse di non grandi dimensioni, e tuttavia sufficienti a qualificare non soltanto la strada ma un intero rione.

Il palazzo, infatti, di don Bartolomeo Altavilla, costruito nell'area dove oggi si eleva la chiesa di San Francesco Borgia, non fu così modesto come si potrebbe credere;e la chiesa attigua, del 1396,anch'essa d'ampio respiro come, del resto, l'ospedale dell'Ascensione, poi assorbito dal San Marco, e prospiciente sulla via Ascensione (area dell'attuale via Gesuiti)furono anch'esse opere di vasto impegno.

Nella seconda metà del Cinquecento, l'attività dei PP.Gesuiti ,di fresco giunti a Catania, arricchì questa zona di altri edifici, scuole, collegi,chiese;e "le opere d'arte che vi erano contenute, i tesori di oro,d'argento e di pietre preziose attirarono in quel sito tutta la nobiltà di Catania "(F.Verzì)

Tantissimi anni prima-non sappiamo quale fosse allora il suo nome-essa già esisteva pressappoco nello stesso posto d'oggi .".....Di faccia al mare lontano e al sole nascente...la vita dell'operosa città le ferveva d'attorno ,e nelle sue immediate vicinanze v'era un teatro sulla cui scena s'era udito l'urto del coturno di Eschilo e un Odeo al quale accorrevano i musici di Trinacria....."(Saverio Fiducia)

Dunque, il fascino dell'antichissimo blasone servì a richiamare su di essa l'attenzione dei ricostruttori, dopo il terremoto del 1693.

Non appena il Camastra e il Riggio trovarono una base d'intesa ,e gli ordini religiosi ebbero l'autorizzazione a riedificare le loro chiese con gli annessi conventi, i primi cantieri furono impiantati lungo la strada dei Crociferi.

La chiesa e la badia di San Benedetto, che aprono la monumentale rassegna e ne costituiscono le quinte d'accesso ,nascono nel 1704 (e,naturalmente, crescono negli anni successivi).Seguono,a ritmo serrato, la chiesa di San Camillo dei PP.Crociferi (da cui prese il nome la strada),la chiesa e il collegio dei Gesuiti, la chiesa di San Giuliano "uno dei monumenti più illustri del barocco catanese ";il palazzo Asmundo, gioiello dell'architettura settecentesca;il palazzo Villaruel e quello dei Cerami il cui magnifico portale, facendo da sfondo all'arco del Riggio ,conclude in bellezza la suggestiva sfilata. Non è compito nostro addentrarci negli aspetti architettonici di una siffatta parata di monumenti ,già ampiamente illustrati da egregi studiosi di storia dell'arte. Diremo soltanto che i più bei nomi degli artefici del barocco catanese sono qui presenti:gli Amato,i Battaglia,Alonzo Di Benedetto, Angelo Italia, Paolo Flaumeni,il Palazzotto e, dulcis in fundo, il Vaccarini.

Dalle mani,dalle idee,dal talento, di questi uomini prese forma la settecentesca strada, con le sue finestre piaciute,le aeree nicchie, le grate cenobiali, i monumentali sagrati, le frastagliate decorazioni, i fastosi prospetti;dai loro mezzi espressivi vennero fuori portali,volute,intagli raffinati;dall'opera di questi artisti, insomma, scaturì quel "bel sentiero che Catania adorna " nel quale "le fontane della corte dei Gesuiti, il portale in marmo della chiesa di San Benedetto con quella sua minutezza di sagome, quel suo frontone liscio tra i forti tronconi del timpano.....lo splendido palazzo Nava ,alto sul fondale della stretta viuzza, le bugne alterne decorate a lumachelle, i timpani flessi e cuspidati della chiesa dei Crociferi, il bel palazzo Villaruel, l'armoniosa ,equilibrata mole della chiesa di San Giuliano, il palazzo-giardino dei Cerami...."(V. Cordaro Clarenza) rappresentano le più vistose gemme della fioritura barocca della nostra città.

Dentro a questa cornice si svolsero -specialmente sul finire del Settecento e nella prima metà dell'Ottocento- le cerimonie religiose più cospicue che si fossero mai viste a Catania.

Le feste natalizie e pasquali, comuni a tutte le chiese, venivano sfarzosamente celebrate dai PP.Gesuiti; "la processione che accompagnava il Cristo morto, si partiva dalla Chiesa dell'Aiuto e,lungo la strada del Corso, passando sotto l'arco di San Benedetto, entrava nella chiesa di San Giuliano....";altre feste religiose, cui erano interessati i diversi monasteri, trovarono nella Strada dei Crociferi il più grandioso dei palcoscenici naturali, "mentre la gente accorreva in folla da tutta la città e dai borghi lontani, e si pigiava a ridosso delle cancellate barocche, e gremiva le scalee di pietra giugiolena ".

Nel 1795 poi,essendo stata chiusa al culto la Cattedrale per lavori di restauro che durarono nove anni, le funzioni vescovili e capitolari furono trasferite nella chiesa di San Francesco Borgia, già dei Gesuiti.

Anche la festa di Sant'Agata, quindi, ebbe il suo fulcro in quel tempio."Il giorno 5 febbraio, la gloriosa Santa uscendo dalla sua cameretta veniva posta sul fercolo d'argento e portata ai Gesuiti dove si esponeva sull'altare maggiore, nella custodia di argento propria della chiesa. Il vescovo celebrava il pontificale con la consueta solennità, e la Santa restava esposta alla venerazione dei cittadini finché, nelle ore pomeridiane, si riponeva sul fercolo e faceva il giro interno...."(Verzì).

Sant'Agata tornava in via Crociferi il 17 agosto, per il "festino d'estate "che con tanta solennità si celebrò fino agli inizi del corrente secolo.

Il fascino dell'arte ,la sinfonia delle luci fra le antiche cancellate, le ombre lunghe sui teneri intagli, i monasteri ovattati di silenzi, il discreto suono delle campanelle, crearono attorno a questa strada un alone di magia.

"Dolcissima sensazione si prova penetrando in questa via dei Crociferi, in cui sono rimaste ,oltre al suggello dell'appellativo monastico, una certa perplessità misteriosa e non so quale sentore d'incenso e di cipria, che non vuole sparire perché qui sta bene, meglio che in qualunque altro posto. C'è per di più un clima silenzioso che concede la visione e induce al sogno. Tutta la vita cittadina se n'è andata, a grado a grado, verso via Etnea e verso il mare. E specialmente nelle prime ore del mattino, o in pieno meriggio, o meglio ancora nelle ore crepuscolari, è facile che tu possa restartene solo e sognare ".

Così si esprimeva Francesco Fichera agli inizi degli anni Trenta.

Oggi tutto questo può apparire ironico o folle o beffardo, forse anche provocatorio.

La magica atmosfera si è ormai dissolta nel nulla, ai fantasmi non crede più nessuno, il fascino dell'arte ha perso credibilità:la strada più nobile di Catania- la silenziosa suggestiva mistica via Crociferi-oggi altro non è che un congestionato deposito d'automobili.

E l'incauto pedone che volesse,non diciamo "restarsene solo e sognare ",come nei tempi andati, ma soltanto spingere lo sguardo verso i frontali barocchi del Battaglia o del Vaccarini, correrebbe il rischio d'essere arrotato

 

 

grazie a Milena Palermo per Obiettivo Catania

https://www.facebook.com/ObiettivoCatania/

 

 

 


Sulla sinistra di Via Crociferi, camminando verso Villa Cerami, sorge il convento dei padri Crociferi e la
chiesa di San Camillo.
I padri crociferi giunsero a Catania dopo il terremoto, stanziandosi nella via che ne prese in seguito il nome e nella quale cominciarono a costruire il monastero e la chiesa sin dai primi anni del Settecento, costruzione che si protrasse fino alla fine del secolo e vide l’opera di Domenico La Barbera a partire al 1723 e di Francesco Battaglia dal 1771 al 1788.
L’ingresso del convento è delimitato da due colonne tuscaniche che, poste sopra un alto basamento, sorreggono l’unico balcone presente nella facciata decorato da due lesene con capitello con volute avvolte verso l’interno e lo stemma raffigurante una croce dalla quale si sprigionano raggi di luce.
La chiesa ha una facciata concava con portone contornato da lesene. Nel secondo ordine una statua di San Camillo che guarda al cielo con un libro nella mano destra, mentre la sinistra si eleva nell’atto di invocare lo Spirito Santo. Ai suoi piedi un putto, grassoccio, accovacciato con la sinistra alzata e la destra fra la spalla sinistra ed il collo. In alto lo stesso stemma che si trova nel convento, ma con i raggi più sottili.
L’interno è di forma ovale e presenta numerosi dipinti fra i quali spicca al centro, una grande icona dai tratti bizantini raffigurante la Santa Vergine con il Bambino.

Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com

 

Palazzo Villaruel

Superato l’incrocio, a destra due palazzi signorili: il palazzo Villaruel del Battaglia seguito dal palazzo Sturzo, che il proprietario blasonato, perse in una notte giocando a carte con il Duca di Misterbianco. Il palazzo fu ampliato fino al 1929 allorquando il duca di Misterbianco, chiese ed ottenne dal podestà l’autorizzazione per la “costruzione del 4° a secondo piano prospettante nella corte interna del palazzo di via Crociferi 56 consistenti essi lavori nella costruzione di n. 3 stanzette ed accessori”, come si legge nella richiesta approvata con parere favorevole della commissione edilizia n. 60 in seduta del 26/03/1929. In seguito, negli anni Cinquanta la residenza gentilizia è stata smembrata in più parti vendute singolarmente nuovo proprietario il quale aveva il vizio di non pagare i propri dipendenti.

 

 

 

Chiude la via, in perfetta simmetria con l’arco di San Benedetto, il portale di villa Cerami, realizzato dal Vaccarini, con arco a tutto sesto bordato da due lesene con capitello ionico con volute verso l’interno e decorazioni fogliacee. La chiave dell’arco è accentuata da un capitello con conchiglia e rosa mentre sopra due galli, altezzosi, paralleli, si guardano. L’architrave ospita tre faccioni grotteschi con bocche spalancate, lo sguardo cupo e le sopracciglia aggrottate. Lo stemma dei Rosso di Cerami è sorretto da due putti e sormontato da una corona.
Dal portale si accede ad un vasto giardino con una scalinata marmorea che conduce all’ampia terrazza ed un piccola fontana ancora funzionante legata ad una leggenda metropolitana secondo la quale chi ne beve l’acqua non conseguirebbe la laurea.
L’interno della villa, sede della facoltà di Giurisprudenza, presenta una parte antica, le stanze di rappresentanza, della principessa, e la cappella, ed una parte moderna, i cui primi progetti furono realizzati dall’Ing. Prof. catanese Salvatore Boscarino.

 

 

Merita menzione la fontanella all’ingresso, appena fuori il portale: essa porta la scritta “PVBLICO NON A PVBLICO HIC PVBLICUS”, che indica che l’acqua veniva offerta dal principe Cerami ai cittadini attraverso un’opera realizzata in assenza di soldi pubblici.
Angela Allegria - 13 ottobre 2009, in www.2duerighe.com

 

 

Oggi sede della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania, Villa Cerami è l'ennesimo capolavoro del notevole stile barocco siciliano ed opera di quello che forse fu il suo maggior rappresentante a Catania, l'abate Gian Battista Vaccarini.

 Il Palazzo fu voluto dalla Famiglia principesca dei Rosso di Cerami, che ivi risiedette fino agli anni '60, quando la Villa venne acquistata e fu creata sede universitaria.
Attraverso il notevolissimo portale si accede ad un cortile interno, molto ampio, sul quale si apre uno scalone monumentale alla cui prima versione probabilmente lavorò anche il Vaccarini, ora nella versione ottocentesca opera del'architetto Sada.
Il cortile è adornato da una fontana.
L'impianto della Villa è settecentesco (venne costruita dopo il celeberrimo terremoto del 1693), ma vi sono state addizioni ottocentesche al complesso.
L'interno contiene ancora gli arredi originali e le ricche decorazioni barocche d'epoca.

 

Il famoso portale d'ingresso al giardino, sormontato dallo stemma di famiglia, è opera preziosa del Vaccarini appunto. Il grande architetto palermitano, attivissimo a Catania, tra l'altro nella Fontana dell'Elefante, nel Palazzo del Municipio, nel Duomo, nelle Chiese di Santa Chiara e San Giuliano, nella Badia di Sant'Agata e in numerose altre opere d'arte, era stato allievo di Carlo Fontana, a Roma. Fu fortemente influenzato dal barocco romano, in particolare dal Bernini, anche se conobbe ed ammirò anche Vanvitelli: uno stile quindi più misurato di quello siciliano, nelle cui zone operava, più classico.

Il Principe di Cerami, Giovanni Rosso (mandatario della costruzione della Villa) fu uomo di cultura e mecenate, amico tra l'altro del grande Principe Ignazio di Biscari.

Attiva è la vita che si svolge al suo interno. Migliaia di giuristi la percorrono e la vivono. Frequentate le aule per le lezioni, come pure le biblioteche e le aule studio dei piani superiori dove gli studenti tra una lezione e l'altra 

ricavano tempo per studiare. Usati anche il giardino e la piazzetta come punto di incontro e di studio.

http://www.flickr.com/photos/-bandw-/3170832446/

 

 

 

VISITA A VILLA CERAMI 

(a cura della Facoltà di Giurisprudenza)

 

 

 

 

 

 

Il Palazzo Asmundo Francica-Nava, eretto nella prima metà del Settecento, venne realizzato con il prospetto sulla stradina che portava alla Via dei Crociferi, in modo da essere visibile dall'antica Via Sacra. L'edificio rispetta il suo impianto originario con poche superfatazioni che non ne deturpano comunque il linguaggio architettonico, perfettamente leggibile. Sulla piazza si apre la magnifica facciata a due piani con due settori, uno relativo alla facciata nobile, visibile dalla stradella, l'altro a tre piani nascosto prospetticamente al di là della chiesa di San Francesco Borgia. 

  La facciata principale apre con un'ampio portale chiuso da colonne su cui porgia l'ampio balcone centrale. Sul finestrone campeggia lo scudo di famiglia. A nord una torretta fungeva da terrazzo per il sorbetto estivo, mentre a sud è l'ampio giardino pensile, il secondo per estenzione in città, in cui si ammirano palme, pini e altra vegetazione arborea. Il lato ovest è mosso da una sequenza di porte e finestre piuttosto regolari caratterizzati da bei balconi.

 

- La costruzione è un bell'esempio di solenne architettura civile dello splendido barocco catanese, fiorito dopo la ricostruzione settecentesca della città risorta dalla catastrofe del 1693.

Sorge nell'omonima e silenziosa piazzetta tra la Badia Grande di San Benedetto ai Crociferi e la parte di ponente della mole dell'ex collegio dei PP.Gesuiti e della chiesa "San Francesco Borgia ".

Il palazzo fa da fondale o da sfondo scenografico alla stretta via San Benedetto fiancheggiata dalla chiesa monastica delle benedettine dell'Adorazione Eucaristica Perpetua e dall'austero tempio della Compagnia di Gesù.

Alla famiglia Asmundo appartiene il poeta catanese Bartolomeo (1461-1536),che è considerato il padre della poesia colta in lingua siciliana.

L' immobile è chiamato pure palazzo Nava perché oggi appartiene ai baroni Francica Nava di Bontifè; nel 1928 vi morì il cardinale Giuseppe Francica Nava, nunzio apostolico ed arcivescovo di Catania.

La parte centrale è attribuita all'architetto della città settecentesca, il canonico don Giovan Battista Vaccarini di Palermo, cittadino onorario di Catania, professore dell'Almo Studio e sovrintendente delle costruzioni ecclesiastiche e civili della città.

Caratteristico è il rinserramento delle luci verso l'asse centrale del magnifico prospetto. È un barocco, quello vaccariniano, più contenuto e meno ampolloso, romano e colto,sobrio e fiammeggiante, mediato dalla grande erudizione dello scienziato e matematico che risente della formazione avuta in campo artistico presso l'Accademia pontificia di San Luca e il salotto letterario e musicale del cardinale nepote Ottoboni ,a Roma.

La composizione del prospetto presenta il caratteristico rinserrarsi delle luci al centro, in modo che il ballatoio possa collegare tre balconi. Il sostegno del ballatoio è assicurato da una trabeazione e dalle colonne del portone principale nonché dalle mensole generate dall'arco del portico d'ingresso. Il risultato architettonico è assai elegante, anche se turbato dallo squilibrio tra il labbro del ballatoio e i poderosi sostegni laterali. Ammirabili sono gli interni e il caratteristico giardino pensile che impreziosiva i più raffinati palazzi aristocratici della Catania del sec. XVIII -

 http://www.edizionincontri.it

Il recupero del Conservatorio delle Verginelle di Catania nel libro di Lo Faro
La casa delle fanciulle orfane e indigenti

La Sicilia, Giovedì 16 Maggio 2013

Patrizia Briguglio
 

L'ex Conservatorio delle Verginelle in Catania è stato di recente oggetto di un complesso restauro per diventare sede didattica. L'edificio, da anni quasi abbandonato o sotto utilizzato, è stato individuato nel 2000 dall'Amministrazione universitaria cittadina come immobile da riutilizzare e destinare all'insegnamento nell'area della collina di Montevergine, per la sua posizione privilegiata di fronte al polo umanistico già insediato presso il Monastero dei Benedettini di S. Nicolò l'Arena. Questa scelta si è rivelata in linea con gli obiettivi di «rigenerazione urbana integrata» previsti dalla strategia «Europa 2020», contenuti in documenti quali la Carta di Lipsia del 2007, la Dichiarazione di Toledo del 2010, o «Città del futuro» pubblicato a fine 2011 dall'Unione Europea, in cui l'espansione urbana incontrollata viene individuata come una delle principali minacce allo sviluppo territoriale sostenibile. Ne consegue la necessità di strategie per il riciclo dei terreni attraverso il risanamento urbano, la riconversione o riutilizzo di zone abbandonate in declino o non utilizzate.
La storia del restauro è raccontata nel libro di Alessandro Lo Faro, «Il Conservatorio delle Verginelle in Catania. Indagini preliminari e progetto di riuso di una fabbrica tradizionale», pubblicato da Aracne Editrice nella collana «Esempi di architettura».
La conoscenza del bene da trasformare è il momento fondante negli interventi che hanno per oggetto le fabbriche tradizionali. L'indagine storica è oggetto del primo capitolo del libro. Si apprende che la Casa, dedicata a Sant'Agata e destinata all'assistenza di fanciulle orfane o indigenti, fu fondata nella seconda metà del XVI secolo per volontà del patrizio catanese Giovanni La Rocca. Il Senato di Catania individuò la sede e pose l'Istituto sotto il controllo di un patrizio con la qualifica di rettore. Il Conservatorio era posto anche sotto il controllo vescovile. Una relazione del vescovo Marco Antonio Gussio tramanda che nel 1655 vi erano ospitate 23 giovani.
La sorte del Conservatorio è legata al nome di un altro patrizio catanese, Giuseppe Asmundo Mendicino, regio milite e dottore utriusque iuris, rettore in carica già dal 1669. Dopo il terremoto del 1693, che distrusse in gran parte l'edificio, Asmundo devolse alle Verginelle, con atto notarile del 1706, numerose proprietà immobiliari, alcune in corso di costruzione, impegnando se stesso ed i suoi eredi a completarle: sua volontà che «la Venerabile Casa delle fanciulle Vergini debba possedere tutto integralmente e nel migliore dei modi». Lo stesso Asmundo, dopo il terremoto del 1693, fu commissario generale per la ricostruzione di Noto, e venne riconosciuto come uno degli artefici del Barocco siciliano.

 

 

STORIA DELL’OSPEDALE SANTA MARTA

L'Ospedale dei Santi Marta, Maddalena e Lazzaro fu fondato nel 1755 per opera dei sacerdoti don Pietro Finocchiaro e don Domenico Rosso dei baroni di San Giorgio e sorse nell'abitazione del primo come lazzaretto per la cura dei malati incurabili, finanziandosi inizialmente con mezzi privati e con la questua. Nel 1759, su commissione del Rosso, fu fatta costruire a sue spese la nuova sede: secondo una fonte (e cioè “L’Ospedale di Santa Marta”, in “Bollettino della società medico-chirurgica di Catania”, 1940, pag. 66) il progetto dell’edificio è da attribuire all'architetto Antonio Battaglia (che collaborò anche nei cantieri della Cattedrale, di San Nicolò l’Arena e del Palazzo Biscari). Davanti la facciata settecentesca dell’ospedale si erge ancora oggi un busto in memoria di don Pietro Finocchiaro, in quanto fondatore dell’ospedale (visibile in una delle foto allegate).

Nel 1825 la reggenza dell'ospedale fu affidata a frà Cesare Borgia (1776-1837), commendatore dell'Ordine del Santo Sepolcro, fuggito da Malta a seguito dell'occupazione napoleonica dell'isola. Il Borgia fece ricostruire l'edificio dell'ospedale danneggiato dal terremoto del 1818 e vi costruì inoltre una sala anatomica per l'insegnamento libero di Euplio Reina. Essendo questi direttore dell'Accademia Gioenia, da allora iniziarono le collaborazioni con quest'ultimo ente e dal 1840 all'interno dell'ospedale si svolgevano lezioni di clinica chirurgica dell'Università di Catania.

Nel 1931 fu stabilita la fusione tra l'Ospedale di Santa Marta e l'Ospedale Villermosa, dando così origine ad un unico ente ospedaliero denominato “Ospedali riuniti di Santa Marta e Villermosa”. L'Ospedale Villermosa era stato fondato nel 1858, per volontà testamentaria rilasciata da Emilio Tedeschi, barone di Villermosa, che lasciava all’ospedale una rendita annua di onze 600 elevabili a 800. Durante il boom edilizio catanese del dopoguerra, fu costruito l’edificio che è stato attualmente abbattuto.

In origine l’ospedale di Santa Marta era dunque il palazzo settecentesco che è oggi ammirabile dopo i lavori di abbattimento dell’edificio novecentesco. Il nome dell’ospedale deriva dalla cappella di Santa Marta, che si trova in Via Montevergine, cioè esattamente dietro l’ospedale.

STORIA DELLA CAPPELLA DI SANTA MARTA (fonte: FAI)

L’ospedale e la cappella furono edificati quale voto di una nobildonna della famiglia Villermosa che, guarita dalla cecità, volle donare a Catania questa indispensabile struttura ospedaliera. Nella cappella di Santa Marta (edificata nel 1754) si celebravano le messe solenni per i benefattori, la festa di Santa Marta e le Quarantore. L'interno, ad aula unica, presenta un altare centrale sul quale è posto il dipinto “Resurrezione di Lazzaro” del pittore palermitano Francesco Gramignani Arezzo. Gli altari laterali sono due e sono decorati da statue di santi tra i quali spicca quella di Santa Marta. Gli affreschi della volta rappresentano i quattro evangelisti e un coro di angeli che circondano l'Agnello divino. Nella sacrestia della chiesa si trovavano 119 ex voto dipinti offerti dai fedeli che avevano ricevuto una grazia da Santa Marta. Nello specifico, gli ex voto della Cappella del Santa Marta rappresentano tematiche quali grazie ricevute per interventi chirurgici, malattie, incidenti con mezzi di trasporto, incidenti sul lavoro, incidenti domestici, incidenti con animali, incidenti riguardanti l'infanzia, incidenti al mare, liti, accoltellamenti e atti criminali.

Fonti informazioni: wikipedia e FAI;

 

 

 

Anticamente chiamata "Chianu/Laggu re' Benedittini" ("Piazza/Largo dei Benedettini" in dialetto), "Chianu ra Cipriana" ("Piazza della Cipriana", dal nome del quartiere limitrofo) o "Chianu ri San Nicolò" ("Piazza di San Nicolò", dal nome della chiesa) la piazza è sorta probabilmente sui resti di un isolato Greco-Romano, ed ha una grande esedra sul lato nord-est, realizzata da Stefano Ittar verso il 1768 in un elegante Tardo-Barocco, proprio di fronte la Chiesa di San Nicolò l'Arena, ricostruita più volte dopo vari cataclismi.

Sul lato sud si trovano invece i Ruderi delle Terme dell'Acropoli, forse bagni pubblici.

 

 

 

 

 

 

 

La grande chiesa di San Nicola, che si ispira ai modelli architettonici romani, fu iniziata nel 1687 su disegno di G.B. Contini. Dopo il terremoto del 1693 i lavori furono portati avanti da diversi architetti, tra cui Francesco Battaglia e Stefano Ittar; quest’ultimo realizzò la cupola alta 62 metri: il prospetto, come si può vedere dalle coppie di colonne non finite, rimase incompiuto (1796); tra le cause principali dell’interruzione dei lavori vi furono le difficoltà di ordine tecnico e i gravi problemi economici. L’interno della chiesa è a tre navate e raggiunge una lunghezza di 105 metri; ciò che colpisce è la grandiosità delle partizioni architettoniche e la chiara luce diffusa che penetra dagli alti finestroni. Nella navata destra e sinistra si aprono le cappelle semicircolari precedute da eleganti balaustrate. A destra: cappella di S. Gregorio papa con una tela del Camuccini; cappella di S. Giovanni Battista con una tela del romano Tofanelli; cappella di S. Giuseppe con una tela del messinese Mariano Rossi. A sinistra: cappella di S. Andrea con tela di F. Boudard; cappella di S. Euplio con tela del Nocchi e cappella di S. Agata con grande tela di M. Rossi. Alle estremità del braccio orizzontale della croce latina sono due cappelle: a destra è quella dedicata a S. Nicolò di Bari e, a sinistra, quella di S. Benedetto. Al centro dell’area presbiteriale spicca il grande altare maggiore realizzato con materiali preziosi, tutt’intorno si dispongono gli stalli del coro ligneo scolpiti dal palermitano Nicolò Bagnasco. Ma l’opera che aveva, nel passato, dato più lustro alla chiesa era il celeberrimo organo di Donato del Piano.

Non vi è cosa più solenne, più profonda, più maestosa

 dei ripieni che la orchestra più perfetta non potrebbe produrre". Anche lo scrittore Wolfgang Goethe, in visita a Catania (1787), andò a vedere questa meraviglia: "Ci recammo nell’immensa chiesa - scrive - e il frate maneggiò il magnifico strumento, facendo sospirare del fiato più leggero gli angoli più reconditi o facendoli rintronare dei tuoni più potenti". Oggi questo capolavoro non esiste più perché tutte le sue parti sono state barbaramente saccheggiate. Degna di una particolare attenzione è anche la grande meridiana lunga 39 metri.

La facciata su piazza Dante fu cominciata su progetto di Carmelo Battaglia Santangelo, nipote e allievo di Francesco Battaglia, che aveva vinto il concorso bandito dal cenobio nel 1775. Il progetto, un ibrido tra il tardo barocco siciliano e il più lineare neoclassicismo che trovava sempre più largo consenso anche nell'élite isolana, appare piuttosto freddo, con le otto poderose colonne libere che scandiscono la facciata, i tre grandi portali con le finestre balaustrate soprastanti e il timpano centrale, tutto elaborato in una scala grandiosa che non ha eguali in città e che si adegua alle dimensioni altrettanto grandiose della stessa chiesa. Complici i problemi tecnici che la costruzione comportava e la precaria situazione finanziaria dei monaci, più inclini a render maggiormente comodi e sfarzosi gli ambienti del monastero e la vita che vi si conduceva, piuttosto che la loro chiesa, la facciata fu innalzata solo parzialmente lasciando le colonne a metà e il tutto privo della trabeazione di coronamento con un timpano al centro, prevista dal progetto. Nel 1796, l'architetto firmava il finestrone centrale, ma a quel punto i lavori venivano interrotti definitivamente.

 

Fu realizzata, nel 1841, dagli astronomi Wolfrang Sartorius barone di Waltershausen di Gottinga e dal prof. Cristiano Peters di Flensburgo. Lo spettro solare vi passa con un diametro maggiore in inverno di 938 millimetri e minore in estate di 28 millimetri, senza la penombra. L’altezza dello gnomone sopra la linea della meridiana è di metri 23 e 895 millimetri. Nei fianchi delle lastre di marmo con le figure delle Zodiaco si possono leggere varie informazioni relative alla meridiana.

http://www.siciliainfesta.com/da_visitare/chiese/chiesa_di_san_nicolo_l_arena_catania.htm

 

 

Altare maggiore e organo di Donato del Piano.

Il basamento del grandioso altare versus Deum forma con la figura dell'organo, della cantoria e dell'articolato baldacchino ligneo, una quinta scenica spettacolare. Il manufatto rivestito di pietre dure presenta numerosi inserti metallici patinati in oro o argento, realizzazioni dell'orafo romano Vincenzo Belli.

 Sui prospetti laterali sono riprodotti gli stemmi della Congregazione Cassinese e il distintivo abbaziale del monastero. Fra angeli, pilastri, cornici a foglie d'acanto, modanature, arabeschi risaltano i simboli degli Evangelisti. Sull'ultimo gradino al centro troneggia un tabernacolo a tempietto sormontato da cupolino.

 Lungo le pareti del catino è disposto il coro in noce formato da 97 stalli, opera di Nicolò Bagnasco e Francesco Regio. Gli stalli superiori presentano altorilievi di scene tratte dal Vangelo, nei prospetti laterali le raffigurazioni di San Gregorio Magno e San Nicolò. Nei pannelli centrali la figura di San Benedetto da Norcia delimitato dai discepoli San Placido e San Mauro.[28] Allo stesso stile si rifanno il coro del monastero e dell'aula del Capitolo.

 

 

RELIQUIARIO DEL SANTO CHIODO

Lo scorso anno ho avuto la rarissima occasione di vedere la Reliquia del Santo Chiodo presso la sacrestia della Cattedrale di Sant'Agata di piazza Duomo.

Innanzitutto la Reliquia è conservata in questo prezioso reliquiario in oro sbalzato e decorato con pietre preziose incastonate opera di Saverio Corallo del 1705.

Forse son pochi i catanesi che sanno quanto fosse importante il culto del Santo Chiodo a Catania in passato e molti sconoscono l'esistenza e la storia .Forse il culto è stato oscurato dalla grandezza e forte devozione a Sant'Agata così come è stato un po trascurato Sant'Euplio compatrono e quindi credo sia giusto diffondere questo antico culto.

La reliquia del Santo Chiodo apparteneva a re Martino I il quale nel 1393 la donò ai monaci benedettini di San Nicolò l'Arena.

Il Chiodo che,secondo un manoscritto della metà del XVIII secolo, redatto dal monaco benedettino Colonna,"trafisse la mano destra del Redentore del mondo",è così descritto dalla studiosa Naselli :..."è lungo 8 cm.circa,ha il capo ovato,sul quale si vedono segni di battiture,poi scende quadrato nel gambo".

L'insigne reliquia in antico era celebrata in occasione della festa dell'Invenzione della Santa Croce il 3 maggio, dal 1601 si celebrò per la festa dell'Esaltazione della Santa Croce il 14 settembre.

Il reliquiario è custodito in una cassettina lignea rivestita di seta color cremisi e decorata da bordure dorate.

Tra i miracoli che il Colonna narra,c'è quello che occorre all'abate benedettino Asmundo,il quale gravemente ammalato e ormai abbandonato dai medici,ricevette la grazia della guarigione. Per questo si adoperò per la commissione di questo reliquiario.

Nel 1669,in seguito ad una terribile eruzione dell'Etna, si proclamò il Santo Chiodo patrono della città :la colata lavica,grazie alla miracolosa intercessione della reliquia, arrivata in città, devio' il suo corso proprio lungo il muro del monastero e la città fu salva.

L'incremento del culto Santo Chiodo fu tale che nella seconda metà del XVII secolo, in cattedrale fu dedicato un altare a San Carlo Borromeo esponendovi una copia della tela romana di Carlo Saraceni, oggi esposta in sacrestia e che raffigura il Santo che porta in processione il Chiodo durante la peste che si abbatte' sulla città di Milano tra il 1576 e il 1577

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by Milena Palermo - Obiettivo Catania

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FRA LE NAVATE DELLA CHIESA

Navata destra

Prima campata: Cappella di San Gregorio Vincenzo Camuccini autore del quadro raffigurante San Gregorio invia Sant'Agostino in Inghilterra per convertire quel popolo.

Seconda campata: Cappella di San Giovanni Battista.[12] Decollazione del Battista dipinto opera di Stefano Tofanelli.

Terza campata: Cappella di San Giuseppe. Mariano Rossi autore del quadro raffigurante San Giuseppe e dell'Istituzione dell'Ordine dei Benedettini, entrambi i dipinti realizzati nel 1786, il secondo oggi custodito presso la Pinacoteca del Castello Ursino. Sul manufatto è incastonato il bassorilievo raffigurante la Fuga in Egitto.

Quarta campata: Cappella di San Placido. Placido Campolo autore del quadro raffigurante il Martirio di San Placido e Santa Flavia.

 Navata sinistra

 Martirio di Sant'Agata.

Prima campata: Cappella di Sant'Andrea. Ferdinando Boudard autore della tela raffigurante il Martirio di Sant'Andrea.

Seconda campata: Cappella di Sant'Euplio. Calvisiano giudica il diacono Euplio, dipinto di Bernardino Nocchi del 1802c.

Terza campata: Cappella di Sant'Agata. Martirio di Sant'Agata di Mariano Rossi del 1786, dipinto oggi custodito presso la Pinacoteca del Castello Ursino.

Quarta campata: Cappella della Madonna. Natività di Gesù dipinto opera di Stefano Tofanelli.

Transetto

Absidiola destra: Cappella del Santissimo Sacramento.

Braccio destro: Cappella di San Nicolò. L'ambiente fu pesantemente danneggiato dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Monumentale manufatto concavo contraddistinto da colonne e lesene sormontate da timpano triangolare, sulle cimase sono documentate le allegorie della Giustizia e Carità. Nell'edicola il quadro raffigurante San Nicola benedicente di Niccolò Lapiccola.[22] Ai lati sono documentati i dipinti di Giuseppe Cades e Stefano Tofanelli raffiguranti rispettivamente il San Nicola non gradisce l'elevazione ad arcivescovo di Mira e la Liberazione dello schiavo.

Absidiola sinistra: Cappella del Santissimo Crocifisso

Braccio sinistro: Cappella di San Benedetto da Norcia. Ambiente realizzato in due riprese fra il 1780 ed il 1790 per volere dell'abate Filippo Hernandez da Caltagirone. Monumentale manufatto concavo contraddistinto da colonne binate sormontate da timpano triangolare, sulle cimase sono collocate le allegorie della Fama e Penitenza. Nell'edicola è collocato il dipinto raffigurante la Presentazione a San Benedetto dei discepoli Placido e Mauro, realizzato nel 1789, opera di Antonio Cavallucci. Nei riquadri laterali sono collocati il San Benedetto nel deserto di Antonio Cavallucci e il San Germano e San Benedetto di Niccolò Lapiccola. Mensa, sopraelevazione e intarsi realizzati in libeccio trapanese, alabastro cotognino, giallo di Siena, verde di Calabria, marmo tessalico, arricchiti con altorilievi in marmo bianco di Carrara raffiguranti soggetti simbolici ed attributi relativi al patriarca: il Libro della Regola, la mitria, il bastone abbaziale, le verghe fiorite legate dal panisellus, due coppie di palme incrociate, simbolo cristiano dell'immortalità dell'anima.

 Wikipedia

 

 

 

 

 

 

Nella Chiesa di San Nicolò l’Arena, la seconda (per grandezza) delle cinque campane reca la data del 1683 mentre la maggiore, restaurata negli anni cinquanta, reca la data del 1708.

 

Dal lato sinistro del transetto si accede alla sacrestia, opera di Francesco Battaglia, e al Sacrario dei Caduti, ricavato in alcuni locali dietro l'abside maggiore e sotto alcune aule del monastero. Il sacrario ospita le lapidi a ricordo dei caduti della Prima guerra mondiale ed è ornato dagli affreschi di Alessandro Abate, fortemente degradati a causa dell'umidità, mentre la sacrestia, con gli stalli lignei settecenteschi e gli affreschi di Giovan Battista Piparo comunica col chiostro orientale da cui prende luce.

 

 

La Meridiana

 

All’interno della Basilica di San Nicolò La Rena in Piazza Dante a Catania, l’oggetto che desta più curiosità è la lunga meridiana (40 metri) che si snoda lungo il transetto della chiesa, proprio di fronte l’altare. In condizioni di cielo senza nuvole, un raggio solare a metà giornata entra ogni giorno da un foro gnomonico posto all’altezza di 23 metri sulla cupola che sovrasta la cappella di San Benedetto (verso sud), e forma un cerchio luminoso sul pavimento in prossimità delle transenne a protezione dei marmi che compongono il lungo strumento solare. Lentamente il disco luminoso si sposta poi all’interno della lunga striscia di marmo bianco posizionandosi al suo centro delimitato da una linea retta di colore scuro ad indicare il mezzogiorno vero. Poi prosegue fino ad illuminare il giorno del mese in cui ci si trova, inciso sempre nel marmo in prossimità del segno zodiacale corrispondente. Un fenomeno che, in chi lo osserva per la prima volta, non manca di provocare meraviglia e suggestione.

 

 

Costruita nel 1841 per volere dei monaci benedettini, a cui apparteneva la – incompiuta – chiesa di San Nicolò, anche la meridiana catanese fu il risultato del progresso degli studi di astronomia compiuti in Europa tra Sette e Ottocento, che condusse sin dall’inizio del XIX secolo alla creazione di molti altri orologi e calendari solari sia in Sicilia (Palermo, Acireale, Modica, Castiglione, ecc.) sia nel resto d’Italia (Roma, Milano, Bologna, e via dicendo).

I costruttori della meridiana di San Nicolò, gli astronomi Wolfgang Sartorius von Waltershausen e Christian Friedrich Peters, tedesco il primo, danese il secondo, si avvalsero di tutti gli strumenti e le conoscenze della loro epoca per realizzare un orologio solare quanto più preciso possibile. Lungo tutta la fascia marmorea della meridiana sono infatti indicati tutti i numerosi dati ricavati dalle attente osservazioni dei due studiosi: altezza sul livello del mare, latitudine, longitudine (non da Greenwich ma dalle isole Canarie, come si usava all’epoca), declinazione magnetica, misure del giorno più lungo e di quello più corto, e via dicendo. Tuttavia ai nostri giorni, sia la meridiana di Catania, sia tutte le altre presenti in Sicilia e nel resto d’Italia, solo pochi giorni l’anno presentano una coincidenza esatta fra il fenomeno solare al loro centro e le lancette dei nostri precisi orologi puntate al mezzogiorno. Quasi sempre infatti il cerchio luminoso sul pavimento raggiunge la linea centrale non alle 12 e zero zero, ma alcuni minuti prima o dopo, a seconda della stagione. I motivi sono diversi e quasi tutti dipendono non dalle meridiane ottocentesche ma dai nostri attuali sistemi di misurare il tempo.

Ovviamente il primo motivo, scontato, riguarda l’ora legale nel periodo estivo, che sposta di un’ora in avanti l’indicazione del mezzogiorno solare. Un altro importante motivo concerne gli attuali standard di riferimento orari come si sono imposti sin dal XIX secolo prima in Italia e poi in Europa. Al pari della meridiana di San Nicolò (del 1841), molte meridiane vennero costruite in un’epoca in cui i collegamenti erano lenti, le ferrovie quasi assenti, e dunque anche a causa della frammentazione politica dell’Italia pre-unitaria, non c’era ancora un orario unico di riferimento valido per tutta la penisola. Ogni località aveva il suo orario: gli orologi da salotto e quelli da taschino si sincronizzavano sugli orologi delle chiese che indicavano le ore con i rintocchi delle campane. E gli orologi delle chiese a loro volta regolavano le proprie lancette proprio sulla base delle meridiane: quando il cerchio solare era al centro di esse, significava che il Sole era nel punto più alto del cielo (in culminazione sul meridiano locale), cioè era mezzogiorno.

 

 

Immagine tecnica dell'Ing. Giorgio Coniglione, che ringrazio per l'omaggio al sito, volta a spiegare in modo chiaro il funzionamento della Meridiana nella Basilica di S, Nicolò..

https://www.mimmorapisarda.it/2023/meridiana.jpg

clicca sopra per una migliore risoluzione

 

Ma poiché la nostra Terra è rotonda e gira sia attorno al Sole sia attorno a se stessa, naturalmente il mezzogiorno esatto non cade allo stesso momento in ogni località d’Italia e del mondo: a Palermo ad esempio il fenomeno solare all’interno della meridiana della cattedrale avviene alcuni minuti dopo che a Catania, e nel Duomo di Milano ancora un po’ più tardi di Palermo, e via dicendo. Tuttavia a Catania, a Palermo, a Milano, e in un qualunque altro luogo, nell’Ottocento la gente si preoccupava di tenere sincronizzati i propri orologi meccanici solo con il proprio mezzogiorno, alla stessa maniera in cui a noi oggi di solito non interessa sapere che ora sia a New York, a Los Angeles o a Sidney (a meno che, ad esempio, non dobbiamo telefonare a qualcuno all’altro capo del mondo, ecc.). Ma dopo l’Unità d’Italia, soprattutto a motivo dello sviluppo delle ferrovie e dell’intensificazione di scambi e comunicazioni, si decise di introdurre un orario valido per tutta la nazione, con gli orologi di tutti sincronizzati non più sugli orologi delle chiese (e sulle meridiane) bensì su quelli delle stazioni. Logico quindi che gli orologi di Brindisi, Milano, Palermo, ecc. non potevano più essere sincronizzati con il mezzogiorno reale e locale, e quindi neppure con i relativi fenomeni solari nelle meridiane. Di qui dunque uno dei motivi per cui in ogni meridiana quasi mai il raggio solare coincide con le dodici dei nostri orologi.

Allorché nella seconda metà dell’Ottocento si fissò un’unica ora standard per tutta l’Italia si decise di prendere come riferimento, prima l’ora di Roma (dal 1866) e poi dal 1893 il meridiano passante per l’Etna (long. 15 est da Greenwich): dunque ancora oggi, ora legale a parte, quando il Sole si trova sopra il meridiano passante per il vulcano catanese, cioè al mezzogiorno vero, è mezzogiorno in tutti gli orologi italiani, a qualsiasi longitudine, dalla Puglia fino alla Sardegna. Ma non solo. Nel corso del XX secolo si prese il medesimo meridiano dell’Etna come riferimento anche per l’ora standard di molti altri paesi europei, dalla Spagna fino alla Polonia. Tornando alla meridiana della chiesa di S. Nicolò La Rena, ci si dovrebbe dunque attendere che ogni giorno il fenomeno luminoso sia perfettamente sincronizzato coi nostri orologi, alle 12 in punto (o alle 13 nel caso di ora legale), poiché l’Etna ed il suo meridiano non sono poi così lontani dalla chiesa e dal resto della città di Catania. Invece chi osserva il cerchio luminoso sul pavimento si accorge che esso quasi sempre incrocia la linea centrale alcuni minuti prima o alcuni minuti dopo le 12 (o le 13). Evidentemente ci dev’essere qualcos’altro.

 

 

Per scoprirlo facciamo ricorso alle osservazioni di un connazionale del Sartorius, il grande astronomo tedesco Johannes Kepler (1571-1630). Nel 1609 questi dimostrò che l’orbita del nostro pianeta attorno al Sole non è perfettamente circolare, bensì leggermente ellittica, cosicché vi sono periodi dell’anno in cui la Terra si trova più lontana dal Sole, altri in cui al contrario si trova più vicina. Nelle fasi in cui si trova più lontano (afelio, all’inizio di luglio) il nostro pianeta rallenta leggermente la sua velocità di rivoluzione, mentre allorché si trova più vicino al Sole (perielio, all’inizio di gennaio) esso al contrario accelera. La meridiana di San Nicolò La Rena(Nota: ovviamente il caldo afoso estivo e il freddo sottozero d’inverno non hanno niente a che vedere con la distanza del nostro pianeta dal Sole, poiché l’alternanza delle stagioni è determinata dall’inclinazione dell’asse terrestre e dalla maggiore o minore incidenza dei raggi solari sulla superficie di ogni emisfero). Ne risulta quindi che il tempo reale astronomico sarà leggermente più breve d’inverno e leggermente più lungo d’estate, e quindi è come se le ore invece di sessanta minuti avessero alcuni minuti in meno o in più. Ma come inflessibili cronografi svizzeri i nostri precisi orologi elettronici spaccano i loro secondi che costituiscono i minuti e le ore standard del nostro sistema orario universale. Quindi fregandosene delle leggi di Kepler le lancette lasciano che d’estate il cerchio luminoso proceda più lentamente verso il centro della meridiana facendo scoccare in anticipo il loro mezzogiorno (o le 13 con l’ora legale), e d’inverno al contrario non si curano che il riflesso solare, leggermente più veloce, raggiunga già il centro della meridiana mentre mancano ancora alcuni minuti alle 12 del quadrante o del display. Alla longitudine del meridiano dell’Etna – quindi nella meridiana di San Nicolò La Rena, ma anche ad es. in quelle presenti ad Acireale e a Castiglione – il mezzogiorno solare vero e il mezzogiorno dei nostri orologi (ora legale a parte) coincidono solo nel periodo degli equinozi, intorno al 21 marzo e al 21 settembre. Per tutte le altre meridiane esistenti a longitudini diverse si deve tener conto dello sfasamento provocato dai nostri sistemi orari standard artificiali.

 Direttamente collegato alla differente distanza della Terra dal Sole nel corso dell’anno, è poi un fenomeno che si può ammirare in forma molto appariscente proprio nella meridiana di San Nicolò, grazie alla sua estensione. All’inizio dell’estate, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, il cerchio luminoso sul pavimento della meridiana in prossimità del solstizio estivo (all’estremità sud della fascia marmorea, sotto la cappella di San Benedetto) misura un piccolo diametro, proprio perché il Sole è più lontano. Man mano che trascorrono i giorni e i mesi il cerchio luminoso che si va spostando lungo la striscia marmorea bianca si ingrandisce fino a raggiungere la sua massima estensione, nel periodo delle feste di fine d’anno, tra il solstizio d’inverno e l’Epifania: proprio all’estremità opposta della lunga meridiana, sotto la statua di San Nicola (l’archetipo del nordico Santa Klaus, o Babbo Natale american style). Il motivo ancora una volta è proprio la distanza minima tra il nostro pianeta ed il Sole che fa apparire più grande il suo riflesso sul pavimento della meridiana.

Indicazioni: La Basilica di San Nicolò La Rena si trova in Piazza Dante a Catania, accanto all’ex Monastero dei Benedettini, ora sede universitaria.

Ignazio Burgio.

http://siciliaturistica.altervista.org/luoghi-sicilia-turistica-insolita-sconosciuta/la-meridiana-di-san-nicolo-la-rena-a-catania/

 

 

https://www.mimmorapisarda.it/2023/MASTRO1.GIF

L’arte di arrangiarsi risale al 1954, la regia è di Luigi Zampa, il soggetto e la sceneggiatura sono di Vitaliano Brancati. La cinepresa attraversa diversi luoghi dell’anima di Catania, il cui fascino emerge col bianco e il nero. Piazza Duomo con il Liotru in primo piano, lo scorcio di via Crociferi con l’arco, piazza Dante con i Benedettini. E ancora l’ingresso di villa Cerami, il Fortino e tratti di via Sangiuliano. Un’immersione, attraverso questi reperti, su ciò che era la società catanese nei primi del Novecento. Fonte

 

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In una guida di Catania del 1899 leggiamo: "Basta questa sola meravigliosa macchina per la celebrità del monastero dei Benedettini di Catania. Fu opera dell’abate Donato del Piano e vi sono esattamente imitati tutti gli strumenti a corda ed a fiato: ha 72 registri, cinque ordini di tastiere, 2.916 canne. Si ode dall’ottavino al serpentone, dal violino al contrabbasso, dal tamburo rollante e battente alla pastorale zampogna.

 

Pur presentandosi incompiuto a nord della grande chiesa, il monastero di San Nicolò l'Arena, per la sua vastità è ritenuto secondo, in Europa, soltanto a quello portoghese di Mafra. Soprattutto nel '700 il suo immenso patrimonio, gli stretti legami con la nobiltà dalla quale provenivano la maggior parte dei suoi monaci, e un notevole prestigio culturale gli conferirono un ruolo di rilievo, non circoscritto al territorio catanese. Ammirato dai viaggiatori, che ne ricordano l'ospitalità, le raccolte librarie e il fasto dei monaci, dominava e condizionava la vita civile e religiosa della città. De Roberto, ne "I Vicerè", non si mostrò certo indulgente verso quanto accadeva dentro i chiostri del monastero che, "immenso, sontuoso, era agguagliato ai palazzi reali, a segno che c'erano le catene distese dinanzi al portone". I monaci vi abitarono sino al 1866; tre anni dopo esso venne assegnato al Comune e ospitò una caserma militare e vari istituti, ed ebbe così inizio un lungo periodo di guasti e di abbandono. Nel 1977 è stato ceduto all'università , che ne ha fatto la sede della facoltà di Lettere.

 

 

 

 I Benedettini a Catania fecero storia non solo per il loro potere, ma anche perchè vivevano nel più assoluto benessere. Nel '700 i frati erano odiati dalla popolazione, che provata dalla carestia assisteva all'abbondanza delle loro libagioni. Tanta gente della Catania povera attendeva la fine dei pranzi davanti al monastero per potersi sfamare con gli avanzi. Nel 1558, fu posta la prima pietra dell'edificio di forma quadrata. In questo stesso anno i monaci, con una solenne processione, presero possesso del monastero ancora incompleto. Sul finire del secolo si iniziò a costruire una piccola chiesa e un chiostro. Alla metà del '600 il monastero accoglieva 52 monaci e comprendeva molti altri religiosi e servi; era ricco di affreschi e quadri, di statue e dotato di un acquedotto.

 

Questo è, o per meglio dire era prima della soppressione, una delle singolarità di Catania: andati via i Padri per dar luogo ai soldati ed agli studenti, i lunghi corridoi furono divisi e suddivisi, il più antico ed elegante chiostro fu trasformato in palestra ginnastica, una strada fu aperta nei terreni che lo circondavano, un osservatorio ed un ospedale furono eretti nei suoi giardini.

Tutt'insieme, esso si sviluppava sopra un'area di circa centomila metri quadrati ed era il più grandioso edifizio monastico d'Europa, dopo quello di Mafra d'Estremadura in Portogallo. Il già citato Musumeci, nel rispondere all'Hittorf che glie ne chiedeva notizie, ne ricostruì la storia. Cominciato nel 1558 in presenza del vicerè La Cerda che ne pose solennemente la prima pietra, e finito venti anni dopo, il primitivo edifizio ideato dal cassinese Valeriano de Franchis comprendeva il chiostro più occidentale decorato di cinquanta colonne di marmo nel 1605, i corridoi e i dormitorii che lo fiancheggiavano e la vecchia chiesa. Le lave del 1669 sconquassarono quest'ultima e ricopersero i giardini; allora fu chiamato da Roma l'architetto Giovanni Contini, su disegno del quale, nel 1687, fu ricominciata la nuova chiesa e il nuovo monastero; ma, pochi anni dopo, il terremoto del 1693, rinnovando ed accrescendo le rovine e seppellendo trentadue monaci, fece riprendere il lavoro di Sisifo. Per colmo di disgrazia, non si trovava allora in Catania nessun architetto: il solo sopravvissuto al terremoto, Alonzo di Benedetto, era anch'egli morto di morte naturale.

 

 

Fu chiamato pertanto da Messina Tommaso Amato, il quale disegnò i dormitorii di levante e mezzogiorno; poi, su disegno del palermitano Vaccarini, che non rispettò l'antica grandiosa unità della iconografia ideata dal de Franchis e serbata dal Contini, si eressero i due refettorii e la biblioteca, imponenti per vastità e decorazione.

Francesco Battaglia Biondo ideò il portico del nuovo chiostro, e suo nipote, Francesco Battaglia Santangelo, lo scalone, che ha le pareti adorne di quadri a stucco bianco su fondo azzurrino, e la chiesa. Questa, la maggiore di tutta Sicilia, doveva avere una facciata tanto sontuosa, con colonne tanto gigantesche, che i Padri, nonostante il loro mezzo milione di rendite, la lasciarono incompiuta, come oggi si vede. Donato del Piano, abate calabrese, spese dodici anni della sua vita e dieci mila onze dei Padri — centoventisette mila e cinquecento lire — per costruirvi uno dei più celebri organi d'Europa, con settantadue registri, cinque ordini di tastiere e duemila novecento sedici canne. Il barone Sartorius di Waltershausen, l'insigne illustratore dell'Etna, vi tracciò, insieme col Peters, nel 1841, una meridiana, per la quale il Thorwaldsen disegnò le figure dello zodiaco.

Il Coro, situato dietro la tribuna, è composto di due centinaia di stalli, disposti in due ordini: le sculture di Niccolò Bagnasco, palermitano, vi rappresentano i fatti del Vecchio Testamento. Tra i sacri arredi si menzionano l'apparato di seta rossa trapunta d'oro donato ai monaci benedettini dalla regina Bianca, il reliquario d'oro gemmato dove i fedeli adorano il chiodo che trafisse la destra di Gesù, dono del re Martino, che portava sempre addosso quella reliquia; un ostensorio ed un calice d'oro gemmato, ed altre manifatture dei secoli XV e XVI. La biblioteca, passata al Comune, ha molte migliaia di volumi e parecchi codici, alcuni dei quali di molto pregio per il testo e le miniature; essa è accresciuta dall'archivio, di valore anche più grande, ricco di diplomi bizantini, normanni ed aragonesi, e di bolle papali; alcuni di questi documenti portano attaccati suggelli di squisito lavoro, come quelli della regina Eleonora e dei due re Martini e della regina Bianca, rispettivamente loro nuora e moglie.

I Padri Cassinesi avevano anche messo insieme un museo, che divenne municipale nel 1866 ed è stato ultimamente riordinato da Francesco di Bartolo. Qui sono adunati parte dei marmi, dei vasi, delle lapidi, dei mosaici trovati negli scavi cittadini e già menzionati; di alcuni altri conviene tenere qualche parola, segnatamente d'una stupenda terracotta siceliota rappresentante una danzatrice, che sarebbe veramente d'un valore impareggiabile se il corpo, tra il busto ed i piedi intatti, non fosse un brutto raffazzonamento di gesso; d'un bassorilievo rappresentante Ercole sul monte Oeta con molte figure intorno; dei frammenti di decorazione nei quali è intatta la figura della Vergine e del Bambino. Narra il di Marzo che Antonello Gagini scolpì per il convento del Carmine minore di Catania una porta, e poichè questi pezzi appartengono evidentemente alla decorazione d'una porta, della quale si vede disegnato parte dell'arco, giova supporre che siano stati ritrovati fra i rottami di quella casa religiosa, dopo il terremoto. Notevoli sono anche nel museo un Anfione ed un ratto d'Europa scolpiti a mezzo rilievo su pietra rossa; una Venere di porfido, parecchie urne cinerarie e ossarie, molte terrecotte, tra le quali diote, cratere, scifi, danarii, tessere, idrie, lucerne con iscrizioni nel manico, teste votive, vasi etruschi, tirreno-egizii, greco-siculi. Tra le manifatture dei tempi di mezzo e moderni, vi sono armi bianche e da sparo, arnesi sacri, lavori di porcellana, carte da giuoco, due bellissime tavole cinquecentesche di ebano intarsiato d'avorio nelle quali sono rappresentati i fatti della storia romana, un cofanetto d'avorio scolpito, lavoro egregio e squisito degli Imbriachi.

Le antiche descrizioni della importante raccolta fanno menzione di un medagliere, la parte più preziosa del quale, dopo il 1866, brilla, come si dice, per l'assenza. Accresciuto è invece il numero dei quadri, dei quali si dirà fra poco, dopo aver fatto menzione dell'altro museo catanese, più volte citato, appartenente a casa Biscari.

 

 

da "Catania" di Federico De Roberto                                 

ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE — EDITORE 1907

 

 

 

Monastero dei Benedettini

Piero Isgrò

Nel Seicento il monastero era abitato da un’ottantina di privilegiati coscritti che certo vi si muovevano solitari e impauriti e talvolta si perdevano nei lunghi corridoi che incrociano chiostri, dormitori, cortili, giardini, bibliote - che, foresterie. L’unica bussola a loro disposizione era l’olfatto che li dirigeva, con una certa precisione, alle cucine e ai refettori che avevano fama europea. Quando questo labirintico palazzo della solitudine venne costruito il motto dei padri fondatori fu quello del capitolo della cattedrale di Siviglia: “Innalziamo un monumento che faccia dire ai posteri che eravamo pazzi!”. Già, matti perpendicolari, secondo la definizione di Léon Daudet, da cima a fondo, matti che le cose non solo le dicono ma le fanno.

 

Quando fu posta la prima pietra correva l’anno 1558, e occorsero tre secoli per finirlo. Furono utilizzati i migliori ingegni dell’isola e de lla peniso la, compr eso l’abate Vaccarini che venne pagato dai committenti, come ricorda Saverio Fiducia, con grandi elogi e pochissime lire.

Lasciando l’incarico per il vescovado di Milazzo l’insigne artista dovette pure ringraziarli perché al suo posto, e per la medesima cifra, furono assunti due architetti. La ricchezza dei padri fondatori era leggendaria, inferiore soltanto alla loro cupidigia e di certo all’altezza della loro aristocrazia cadetta. A quei tempi Catania era una città splendente di passato e di povertà, come tutte del resto in Sicilia, ma si distese ai piedi del suo monumento con riconoscenza e orgoglio. La reggia divenne il centro della nobiltà del sangue e dello spirito, il faro che illuminava la vita del popolo ignorante, della plebe affamata di pane e ostie e che ogni giorno bussava alle sue porte per ottenere gli ossi della sua pantagruelica mensa.

 

Insomma, la reggia si comportava come un convento alla rovescia. Tecnicamente era un monastero, a dire la verità, ma i suoi frati non se n’andavano in giro come questuanti ma vivevano nelle loro stanze come principi e s’annoiavano come principi. Una testimonianza autorevole l’abbiamo da Federico De Roberto che nei “Viceré” paragonò l’immenso e sontuoso monastero “ai palazzi reali, a segno che c’eran le catene distese dinanzi al portone”. Le catene come segno di divisione e protezione, come luogo della coscienza e dell’incoscienza, dal momento che i muri dell’Escorial etneo proteggevano misteri insondabili ma facilmente immaginabili. Sotto le tonache di padri e novizi battevano cuori nobili e ribelli che avrebbero preferito le gioie della vita a quelle del convento ma che per dovere di maggiorasco furono condannati dai loro padri a servire il Signore. E lo servirono a loro modo, a volte pregando, a volte vendicandosi, a tavola e a letto.

Il costume, o malcostume, delle agapi fraterne, le ubriacature e le compagnie extraconventuali hanno segnato anche la storia di questo monastero immenso che domina la città, si sono riversati in storielle salaci.

 

 

 

Il capomastro che scoprì la "fontana dei Marmi" del "Monastero dei Bendettini” a Catania

31/12/2017 - di Giuseppe Tiralosi

Immaginate di trovarvi presso il cantiere del Monastero dei Benedettini di Catania, di dovervi recare lì ogni mattina per coordinare i lavori di recupero di una meravigliosa fontana andata perduta, e di dover percorrere grandi distanze da un punto all’altro del monastero. Immaginate di non essere poi così tanto agili, e che tutti quei chilometri sotto il sole cocente, con l’elmetto in testa e i pantaloni pesanti, siano per voi un peso insormontabile. Immaginate un giorno di svegliarvi con l’intuizione della vita: «In cantiere ci vado con il mio “Sì”, e da lì mi muovo per tutto il perimetro. Che trovata! Da oggi niente più fatica».

LA FONTANA DEI MARMI. Sono passati oltre trecento anni da quando i frati benedettini di Catania ultimarono i lavori di costruzione di una maestosa fontana, che capeggiasse nella parte ovest del loro monastero. Era il loro fiore all’occhiello: l’acqua veniva portata sin dai monti di Leucatia e i marmi bianchi che ne costituivano le tre vasche provenivano da Carrara.Era il 1692 e solo un anno dopo Catania e la Val di Noto si ritrovarono rase al suolo da un devastante terremoto. Insieme ad esse, anche il monastero subì danni ingenti ma “la fontana dei marmi” riuscì miracolosamente a salvarsi, continuando ad ornare la parte centrale del “Chiostro di ponente”. Quando i frati benedettini abbandonarono il monastero, in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose nel 1866, quel luogo troppo grande con una fontana “in mediocre stato di conservazione e senza acqua” fu adibito ai più disparati usi, tra i quali quello di palestra a cielo aperto per caserme e scuole. La fontana era troppo ingombrante, venne smembrata pezzo dopo pezzo, inserita all’interno di intercapedini dei cortili nord-ovest o ceduta, fino a perderne quasi del tutto le tracce.

 

TRA VERITÀ E LEGGENDA. «I lavori di recupero condotti dall’architetto Giancarlo De Carlo negli anni ’90 furono contraddistinti dalla figura di un “capomastro” piuttosto corpulento che veniva in cantiere con un “Sì”, e si muoveva all’interno del Monastero con questo mezzo», ci ha raccontato Claudia Cantale, membro del consiglio direttivo e tra i soci fondatori di “Officine Culturali”, associazione che da anni è impegnata a valorizzare le bellezze del monastero. L’aspetto più affascinante delle leggende è che non devono essere necessariamente vere, o non del tutto. Aiutano a tenere vivi i ricordi, romanzandoli un poco, conferendo alle storie quell’alone di mistero e di epicità che tanto ci piace. E allora non importa che la storia che il geometra Antonino Leonardi – responsabile dell’Ufficio Tecnico dei Benedettini – amava raccontare, coincida oggi perfettamente con la realtà. Immaginate di girare spensierati tra i pontili e i sacchi di cemento, con il vento che vi scompiglia i capelli, mentre dettate le ultime direttive agli operai, quando a un certo punto... Buio. Immaginate, provateci, di ritrovarvi a testa in giù in luogo sconosciuto ma che probabilmente riconoscete presto a causa di un non proprio incantevole olezzo, con una mano appoggiata alla prima cosa alla quale vi siete aggrappati. Bianca, bianchissima. È lei.  «Un giorno il capomastro cadde nelle fognature che si trovavano nella zona nord-ovest del monastero. Di lui non si seppe nulla per un paio d’ore, fino a quando non uscì trionfante con una porzione della fontana. Questo “incidente sul lavoro”, in cui il capomastro cadde “sul morbido”, fu determinante al ritrovamento – porzione dopo porzione – di circa il 60% della struttura che da quel momento fu rimontata come fosse un puzzle tridimensionale». Oggi, quella fontana costruita dai frati nel 1692, è tornata a risplendere al centro del “Chiostro di Ponente” e da circa un anno è di nuovo in funzione. Lo cantava David Bowie: “we can be heroes, just for one day” (anche se con un po’ di fortuna).

http://www.lasicilia.it/news/sicilia-segreta/130428/il-capomastro-che-scopri-la-fontana-dei-marmi-del-monastero-dei-bendettini-a-catania.html#.WsOX3k_TK7k.facebook

 

 

Qualcuno del Dipartimento di Scienze umanistiche mi ha detto che quando finì di girare nell’ex Convento dei Benedettini, Alberto Angela non se ne voleva più andare. Si è innamorato di Catania e infatti nella prossima puntata parlerà dell’Etna, e dopo ancora della maestosità della festa di S. Agata.

Io lo sapevo, ne ero certo della cotta. Come una bella donna, Catania ti ammalia e ti rapisce… ma solo quando decide lei.

Puntata Impeccabile, sabato scorso. Anche se un po’ generico, visto il tempo a disposizione, Angela ha fatto omaggio a Catania con uno straordinario servizio. Più di così non poteva fare, perchè l’ex Monastero dei Benedettini, Palazzo Biscari e Via Crociferi meriterebbero, da soli, un’intera puntata ciascuno. Per non parlare di quel che manca ancora: Anfiteatro, Teatro romano, Castello Ursino, ecc.

Angela ha fatto capire come questa città conservi all’interno del suo tessuto urbano (non si tratta di siti fuori porta!) gioielli inestimabili che il mondo dovrebbe conoscere di più. Basti pensare al sito dei Benedettini, fino a poco tempo fa adibito a caserma o ad aule per scolaresche e poi rivalutato dall’Università di Catania negli anni Ottanta grazie alla grandiosa opera dell’Arch. De Carlo, autentico artefice del suo recupero. Nel 1984 ero presente all’inaugurazione, che fecero coincidere con il 500° dell’Ateneo, e mi meravigliò lo stupore ancora impresso nei suoi occhi, quandò raccontò ai Presidi delle ex Facoltà le sue scoperte sotterranee, dalle cucine progettate dal Vaccarini ai refettori che uscivano fuori man mano. Un grande.

L’altra sera è stato spiegato ampiamente quanto è immenso, ed è vero quel che raccontava Angela in merito alla vita agiata di chi abitava il Monastero. Non si trattava di poveri prelati votati alla vita francescana, ma dei secondogeniti della Nobiltà catanese costretti ad andare in convento, a condizione di viverci a 5 stelle. Cioè servitù al seguito, agiatezze, prostitute durante le ore notturne, fumo, alcol e soprattutto, cibo tanto cibo. Niente a che vedere con la vita di un monaco.

Chi non ricorda in TV i Vicerè, tratto dal romanzo di Federico De Roberto, che li definì “Porci di Dio”? Avrete pure sentito Angela pronunciare la frase “Scacciu e michellassu”. Ecco che significa:

Questo il menù (così come lo scrivevano i monaci) di una cena in un giorno qualsiasi del 1800: Eccolo qui:

Comunque, una grandiosa puntata che rende omaggio ad un importante luogo del Mito, che meriterebbe altro e non il degrado, l’inciviltà, l’ignoranza (soprattutto) e il menefreghismo che regnano sovrani nelle sue strade. Buttafuoco disse “A Catania il provincialismo non ci fa vedere il bello che c'è”. E’ vero, Catania non è solo arancini, granite e cannoli. C'è dell'altro, meravigliosamente altro.

Assieme a poche altre città italiane, a Catania – come in tutta la Sicilia - ci si può permettere di toccare con mano la storia grazie alle dominazioni e ai popoli che l’hanno abitata e governata. Non ci siamo fatti mancare niente: Greci, Romani, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Borboni, Sabaudi. Per chi non la conosce, percorrendo certe strade la sua storia la si può annusare, si può respirarla. E poi non ci vuole tanto a partire carichi di informazioni prima di allacciare le scarpe, internet non è solo stupidaggini da condividere. Per esempio, su facebook la pagina Obiettivo Catania di Milena Palermo è una fonte inesauribile di notizie storiche per chi vuole divertirsi all’indomani, calpestando letteralmente il nostro passato e apprendere le proprie origini …. invece di perder tempo nei Centri commerciali.

Credetemi, scoprire certe cose e poi dire a se stessi “ma dai!… ma io vivevo qui?” è davvero un sollazzo. A Catania viviamo fra patrimoni UNESCO che nemmeno gli stessi cittadini sanno di possedere.

Grazie Prof. Angela, grazie anche per quelle frasi finali: “Catania è distesa tra il mare e l’Etna e riassume molto bene due termini da noi utilizzati: distruzione e rinascita. Catania è stata devastata da quel terribile terremoto di fine ‘600 trasformandosi in una sorta di fucina internazionale del barocco. Ha saputo rinascere e quello che ha saputo creare è qualcosa di straordinario. Piazze che sembrano palcoscenici, statue che sembrano parlare con ampi gesti. E’ una città che incanta e che ha tanto da insegnarci proprio per questa capacità di guardare al futuro con ottimismo. Questo spirito ci chiede di essere tutelato e protetto”.

Belle, ma qualcuno potrebbe pensare “ma se avete tutto questo ben di Dio, perché lo distruggete? Forse è colpa di chi lo abita? Forse senza i catanesi Catania sarebbe una città straordinaria ?”

No. Catania è così perché (nel bene e nel male, nonostante inciviltà, inefficienza e tante altre cose negative) è abitata proprio dai catanesi. Per assurdo, Catania non sarebbe stata così bella se non ci fossero stati i catanesi. Lo so, sono “malusangu”, malarazza, pronti a fottere il prossimo nell’arco di 10 nanosecondi, arroganti, imprevedibili, impulsivi, a volte violenti… ma hanno un cuore grande così, intraprendenza, ingegno, estro e generosità da vendere. Soprattutto vanno letteralmente pazzi per la scritta “Melior de cinere surgo” che hanno nel loro DNA, e cioè rinasco dalle mie ceneri ancora più bella.

Perché loro sono fatti così: si autodistruggono e poi ricostruiscono dalle ceneri la loro città più splendente di prima. Figli del loro vulcano, come a "Muntagna" sono incontentabili, piroclastici al loro passaggio e impetuosi come colate laviche al momento di incanalarsi negli ingrottamenti delle loro vite, per poi riemergere nelle nuove rinascite come sempre. Come disse Luigina Grasso: Essi stessi sono l'Etna, anche loro fremono, sbuffano, eruttano e mandano al cielo lapilli. E se nel loro sangue si guardasse bene, il coagulo è magma solidificato, è lava.

M.R.

 

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scene girate in Via Crociferi, Piazza Duomo, Ognina, la Pescheria, Via Cardinale Dusmet e Monastero dei Benedettini, Monti Iblei zona Canalicchio, Via Vincenzo Giuffrida

 

Tra gli spettatori di sabato c’era anche l’ingegner Salvatore Maria Calogero, autore del libro “Il monastero catanese di San Nicolò l’Arena, dalla posa della prima pietra alla confisca post-unitaria”, pubblicato nel 2014 dopo numerose ricerche. Proprio quest’ultimo, tramite il suo profilo Facebook, ha individuato e comunicato due errori che sarebbero presenti nella trasmissione.

“Bellissima puntata su Catania. Purtroppo, due inesattezze che potevano essere evitate per dare maggiore importanza al Monastero dei Benedettini – ha scritto Calogero -. La prima è che Antonino Amato progetta e realizza la decorazione lapidea dei prospetti sud ed est,svolgendo il ruolo di architetto limitatamente alla sua realizzazione. Il progetto dell’attuale monastero si deve al grande architetto romano Giovan Battista Contini che, dopo una prima stesura del 1686,condizionata dal chiostro di marmo realizzato su disegno dell’architetto Giulio Lasso,fornisce dopo il terremoto del 1693 un nuovo disegno realizzato dal capo mastro Giuseppe Longobardo. Contini sostituì Gian Lorenzo Bernini nel 1680 come architetto della camera apostolica e divenne principe dell’Accademia di San Luca. Per il progetto del monastero catanese gli furono date 280 onze (il progetto di una chiesa costava 12 onze) e per adattarlo alla nuova situazione nel 1704 gli furono date altre somme.

La seconda imprecisione riguarda l’autore del progetto della biblioteca che non fu Vaccarini, ma il grande architetto romano, di origine polacca,Stefano Ittar. Chiamato seriamente da Messina nel 1765 per completare la chiesa e fornire nuovi disegni per completare il monastero. Vaccarini aveva completato il noviziato,il refettorio grande e la cucina, morì a Palermo nel 1768 dopo essere andato via da Catania nel 1745. La biblioteca, invece, fu iniziata nel 1771 e ultimata nel 1773, quando Stefano Ittar era architetto del monastero”.

 

PHOTOGALLERY

 

 

 

 

 Nel 1669, la lava della grande eruzione dell’etna raggiunse il monastero e squassò la chiesa, e i benedettini, allora, si prodigarono a riparare i danni, riprendendo presto l'ambizioso progetto di una grande chiesa per raccogliere la folla dei catanesi. Da Roma chiamarono un famoso architetto Giambattista Contini, ma il terremoto del 1693 interruppe i lavori delle prime strutture della chiesa, distruggendo quasi del tutto il monastero e uccidendo trentadue monaci. I superstiti tentarono di ricostruire il monastero in altro luogo, ma poi ritornarono "in lo loco detto de la cipriana" e così furono utilizzati i resti delle fabbriche precedenti. Nel 1703 fu steso il primo contratto gli intagli delle facciate che in poco più di vent'anni furono completate e decorate con "scartocci, figure, mascaroni, pottini". Le due facciate vennero lavorate dai più esperti intagliatori catanesi, tra i quali Giovanni Nicolosi e i Battaglia, in società con i tanti immigrati dopo il terremoto, come i messinesi Amato e Palazzotto. Nominato architetto del monastero, Francesco Battaglia doveva occuparsi soprattutto del collegamento verso nord e del nuovo refettorio; invece sarebbe toccato a Vaccarini realizzare, a partire dal 1739, questo vasto ambiente e altri, che comprendono la biblioteca e il museo. All'armoniosa sacrestia e al ponte verso il vasto giardino, ricavato sulla lava del 1669, si dedicò Battaglia al suo rientro nel 1747: e diresse pure la costruzione delle strutture di sostegno della cupola della chiesa, che per il resto delle fabbriche venne quasi completato alla metà del secolo. Difatti nel 1755 i monaci richiesero a Donato Del Piano un organo, che fu inaugurato nel 1767 e che per oltre un secolo è stato l'opera più ammirata del monastero. 

 

Stefano Ittar progettò nel 1769 con una soluzione urbanistica l'esedra davanti al sagrato della chiesa, intesa a valorizzare il quartiere circostante, e diresse i lavori della cupola, ultimata nel 1780. Per la facciata della chiesa, iniziata dagli Amato e da tempo interrotta, nel 1775 si fece il concorso di un nuovo progetto, che ebbe sviluppi intricati. L'incarico venne poi affidato a Carmelo Battaglia Santangelo, che nel 1796 firmò, nel finestrone centrale, quest'opera ambiziosa e rigida, realizzata solo a metà per difficoltà tecniche. Allo stesso architetto, e al cugino Antonino Battaglia si rivolsero i benedettini per un nuovo portale d'ingresso allo scalone. Somme ingenti vennero profuse nel ricercare i marmi più pregiati per gli altari in modo da interrompere l’interno del vasto tempio: intieramente bianco. Le cappelle e le altre navate nel passato erano illuminate da grandi lampadari in cristallo. Altre opere notevoli dell'arredo della chiesa sono l'altare maggiore, di Vincenzo Belli, e la grande meridiana di Waltershausen e Peters, del 1841, lunga 39 metri. Nello stesso tempo si provvide a completare il primo chiostro già iniziato da Francesco Battaglia nella corsia meridionale inferiore con dinamico ritmo classicheggiante. L'incarico fu affidato a Mario Musumeci. 

 

 

Oggi, compatibilmente con le attività che si svolgono all'interno degli istituti universitari, è possibile visitarne una parte che consente, comunque, di farsi un'idea della grandiosità e della magnificenza dell'insieme. Entrando da piazza Dante si viene immediatamente conquistati dall'esuberanza decorativa delle facciate e dei balconi. Vito Librando ci spiega che: "Nel 1703 fu steso il primo contratto degli intagli delle facciate: queste, in poco più di vent'anni, furono completate e decorate con 'scartocci', figure, mascaroni (mascheroni), puttini', doviziosi frutti di un fantasioso repertorio ed esempio senza uguale di un gusto barocco ancora debitore della tradizione manieristica, diffuso e persistente nella fascia orientale dell'Isola". All'interno del monastero si possono visitare: i lunghi corridoi (dai quali è possibile ammirare i chiostri), il grande refettorio e le celle dei religiosi.

 

 

 

Monastero dei Benedettini 
Piazza Dante, 32 95124 Catania Tel. 095.7102767 / 334.9242464

SITO UFFICIALE

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Aperte per la prima volta le Stanze dell’Abate

14 aprile 2017 - Francesco Arcolaci

Il Monastero dei Benedettini, cuore del Dipartimento di Scienze umanistiche, ha molto altro da offrire al pubblico oltre alle lezioni e agli esami che vi si svolgono. In un calendario di iniziative volto a celebrare l’immenso complesso, arrivano nuovi percorsi guidati.

Da sette anni si svolge al Monastero dei Benedettini un percorso turistico guidato che si snoda all’interno dell’edificio e che adesso subirà una piccola ma importante variazione: per volontà della direttrice del Dipartimento di Scienze Umanistiche, la professoressa Marina Paino, verranno aperte per la prima volta al pubblico le Stanze dell’Abate, attualmente adibite a Direzione di Dipartimento.

 

La sala fu realizzata dall’architetto Musumeci e fu uno degli ultimi interventi effettuati dai monaci che vollero aprirla al pubblico per la celebrazione del Santo Chiodo. Anche e soprattutto per questo motivo la sala è stata affrescata e decorata in modo sfarzoso. Secondo i monaci di Ormonde, la sala assomigliava ad una grande sala da ballo vista alla luce del giorno. I decori si completano con la rappresentazione delle Tre Grazie sulla volta realizzate da Giuseppe Rapisarda nel 1827.

Insomma per i turisti e tutti coloro che vorranno fruire del percorso, si tratterà di un vero e proprio tuffo nel passato: lo scopo sarebbe quello di destare la medesima meraviglia e stupore che dovevano provare gli ospiti al cospetto di tanto sfarzo e ricchezza.

 

Il nuovo percorso così modificato sarà pertanto fruibile nei giorni di chiusura del dipartimento: le visite guidate partiranno ogni ora dalle 9:00 alle 17:00 anche sabato 15, domenica 16 e lunedì 17 aprile. Visto il numero limitato di posti è consigliata la prenotazione ai numeri 0957102767 – 3349242464.

Si tratta certamente di un’occasione unica nel suo genere che aiuterà a guardare al monastero non solo come luogo di studio e di ansie caratteristiche degli studenti, ma anche come il patrimonio culturale che rappresenta.

https://catania.liveuniversity.it/2017/04/14/monastero-aperte-prima-volta-stanze-dellabate/

 

 

 

Chiostro di Levante

Il Chiostro di Levante, così chiamato per la posizione geografica in cui si trova, è il chiostro più recente. Iniziato nel ‘700 e completato dall’architetto Mario Musumeci che nel 1842 introduce l’edicola centrale in stile eclettico, è caratterizzato dal portico in pietra bianca. L’edicola neogotica aveva funzione di Kaffee-haus è un pregevole esempio del sincretismo artistico tipico nell’800. Sembrerebbe, quindi, un chiostro monastico che dovrebbe indurre alla meditazione e alla preghiera, in realtà è semplicemente un giardino d’inverno dove si consumavano cioccolata, caffè, tè. Possiamo immaginare che all’interno del chiostro i monaci si intrattenessero e accogliessero gli intellettuali del Grand Tour, quali Goethe e Brydone: quest’ultimo paragonò il monastero alla regia di Versailles. Il primo piano del Monastero dei Benedettini, infatti, veniva utilizzato come foresteria dai viaggiatori europei.

Chiostro di Ponente

Il secondo chiostro, a ponente, è il più antico. Il monastero cinquecentesco si sviluppa attorno ad esso. Definito nel 1608 su disegno dell’architetto Giulio Lasso, è caratterizzato dalla presenza di una fontana in marmo bianco. Dello stesso marmo bianco sono costituiti il colonnato del portico e le balaustre. Con il terremoto del 1693 avviene il crollo del colonnato che pertanto verrà successivamente rialzato. Dopo l’unità d’Italia il monastero viene acquisito dallo Stato e ceduto al comune di Catania. Da questo momento in poi il monastero di S. Nicolò l’Arena dovrà accogliere diversi istituti scolastici, caserme, abitazioni di privati, palestre, uffici e depositi vari, un Osservatorio Astrofisico, un Laboratorio di Geodinamica: insediamenti che porteranno allo stravolgimento della struttura originaria. Il chiostro dei Marmi diventa palestra a cielo aperto a scapito della fontana che verrà distrutta. Proprio la fontana attuale è infatti una ricostruzione avvenuta in tempi recenti. Negli anni ‘70 un processo inarrestabile di degrado ha portato l’amministrazione comunale catanese ad assumere la decisione di donare all’Università quel che restava del glorioso monastero benedettino. Dopo un concorso nazionale di idee conclusosi con la mancata assegnazione del primo premio, l’Università ha assegnato all’architetto Giancarlo De Carlo l’incarico di redigere un progetto-guida per il recupero del monastero.

http://www.officineculturali.net/index.php?option=com_content&view=article&id=20&Itemid=33&lang=it

 

Il chiostro di Levante

 

Dalla “Libreria” Benedettina alle Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero"

Le Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero” (e questo il nome assunto dall’Ente nel 1931), occupano un ala del monumentale settecentesco ex-Monastero dei benedettini che accoglie anche il Sacrario dei caduti e la chiesa di San Nicolò. Il complesso monastico è sede anche del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università degli Studi di Catania. Occupano gli originali locali della Libreria benedettina, dell’ex-Museo, della Sala Guttadauro, del Refettorio piccolo o Sala "rotonda", del Corridoio dell’elefante, del Cellerario nella zona Nord del Monastero per complessivi mq. 1540 al netto delle muratura. Nascono dalla fusione della Biblioteca Civica (ex-Biblioteca dei Padri benedettini, Congregazioni religiose catanesi soppresse, e Biblioteca-Museo Mario Rapisardi) con la Biblioteca del Barone Antonio Ursino-Recupero, giusta suo testamento del 27 marzo 1924, comprendente circa 41.000 pezzi di carattere siciliano, nonchè con i libri e i fondi che perverranno all'Ente stesso in dono o per acquisto

Le due Biblioteche vennero costituite nel 1931[1], in Ente Morale, abrogato e sostituito dal nuovo Statuto con decreto del Presidente della Repubblica del 22 Maggio 1969 N. 594, e riunite di fatto sul finire del 1933. Il 28 ottobre 1934 ultimati i lavori di restauro degli ambienti, già sede del Museo benedettino appena trasferito al Castello Ursino, con la seconda e terza sala arredata da pregiate scaffalature bianche settecentesche, e il "Refettorio piccolo" o di Grasso si riunirono con il trasferimento della Ursino-Recupero presso la Comunale nel 1933, e la Biblioteca venne inaugurata nel 1934. La Biblioteca oggi raccoglie, prevalentemente, materiale bibliografico di interesse locale e siciliano, per oltre 270.000 volumi. Sono patrimonio della Biblioteca, inoltre, codici miniati, manoscritti, pergamene, incunaboli, cinquecentine, fogli volanti, disegni, giornali e periodici. La Biblioteca ubicata presso un edificio incluso tra i complessi monumentali della città, Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco oltre agli spazi dedicati alla lettura offre una vasta gamma di servizi tra i quali informazioni bibliografiche, visite guidate, tirocini e tirocini postlauream, manifestazioni culturali di vario genere, convegni, eventi espositivi, etc..

Biblioteche "Riunite Civica e A. Ursino Recupero" - Sala Vaccarini

Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero" - Sala Vaccarini, Mostra Arte e Scienza

Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero" - Sala Vaccarini, Affreschi

Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero" - Sala Vaccarini

Patrimonio librario

Fondo Mario Rapisardi – Biblioteche riunite civica ed Ursino Recupero

bibliotecario-agg. Federico De Robertohttps://www.mimmorapisarda.it/olimpo/07.jpg

Il patrimonio delle Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero" con oltre 270.000 volumi è particolarmente ricco e vario in quanto costituito da codici e libri che coprono i più svariati campi del sapere biblico, patristico, liturgico, giuridico, letterario, artistico, scientifico, musicale e con una notevole collezione di pergamene medievali, corali, incunaboli, cinquecentine, erbari secchi (Sabbato Liberato) e dipinti del ‘700, lettere e carteggi, stampe e fogli volanti, periodici e giornali,disegni, fotografie,etc. Il fondo più ricco e prezioso è tuttora quello dei PP. benedettini di San Nicolò l'Arena, basti ricordare la Bibbia miniata latina dei secoli XIII - XIV del Cavallini, l’Officium B.M.V. del XV secolo,il Salterio del XIII secolo, il Martirologio del XIII secolo, il Calendario in caratteri ebraici del Rabbino Emmanuel del XIII secolo, il De Priapea del XV secolo redatto in scrittura crittografica. Al Fondo Ursino-Recupero appartiene la Miscellanea di contenuto prevalentemente musicale, fra cui Boethius, De musica, Modarius iuxta regulas artis musicae secundum Guidonem, Marchettus de Padua, Lucidarium, Prosdocimus de Beldemandis, De musica, datata 1478.

 Possiede, inoltre, oltre 5.000 testate giornalistiche, in parte siciliane, e accoglie parecchi fondi privati, tra i quali, il Fondo Ursino-Recupero e quello della Biblioteca-Museo Mario Rapisardi, ricco di 3.565 volumi (manoscritti e a stampa), 3.800 lettere, cimeli, quadri, mobili (che erano nel suo studio). Dal 1931 ad oggi moltissimi altri fondi hanno arricchito le Biblioteche Riunite "Civica e A. Ursino Recupero": Vincenzo Giuffrida, Ursino Trombatore, Geraci, Saverio Fiducia, N. Fallico, U. Galante, Scammacca, Giuseppe Perrotta, G. Mirone, D'Alessandro Falzone, Lo Presti, Lorenzo Vigo-Fazio, Francesco Granata, Giacomini, F. Pezzino, il carteggio Casagrandi, i disegni di C. Sada, le carte rapisardiane di A. Tomaselli, C. Maugeri, E. Ferrante, il fondo musicale del maestro Santonocito, G. Di Marco, G. Benzoni, etc.

La Biblioteca Civica di Catania si era formata dalla Biblioteca benedettina o Libreria dei PP. cassinesi dell'Abbazia cassinese di San Niccolò l'Arena, un convento benedettino, dalle Librerie delle soppresse Congregazioni religiose catanesi e dalla Biblioteca-Museo Mario Rapisardi. La Biblioteca benedettina, ricostituita dopo il terremoto del 1693, era stata incamerata dal nuovo Regno d'Italia nel 1866, insieme a tutti i beni ecclesiastici. La struttura divenne comunale nel 1869[2]. Nel 1893 fu nominato "bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino, ancora custodito nella Guttadauro della Biblioteca, molte pagine del suo romanzo I Viceré. Nel 1925 Giuseppe Villaroel ebbe dal comune l'incarico di risistemazione del museo o "antiquarium comunale" e della Biblioteca.[3]

(foto aerea di Salvo Olimpo)

 

 

 

La Biblioteca Benedettina o "Libreria dei PP. cassinesi"

Il Fondo librario originario delle Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, appartenne all’ex-Monastero benedettino di S. Nicolò l’Arena e s’inquadra nel movimento di rinnovamento promosso a Catania da Giacomo De Soris, abate del suddetto convento nel secolo XIV. In seguito alle leggi eversive (1866) la Biblioteca benedettina divenne Biblioteca comunale e destinataria dei 20.000 volumi delle disciolte congregazioni religiose catanesi (1868). Sfrattati gli altimi 46 monaci (1867), i libri rimasero in preda all’umido ed ai vandali fino al 1872. Dal 1872 in poi ricomincia la rinascita della Biblioteca.

La Biblioteca–Museo Mario Rapisardi

Nel 1912, dopo la morte di Mario Rapisardi, il Consiglio direttivo della Seconda Esposizione Agricola Siciliana, acquisto dagli eredi, per donarli al Comune, libri e cimeli del poeta. In sintesi: 3.565 volumi ed opuscoli con le sei librerie a vetri che li contenevano (altre due saranno realizzate successivamente); 3.800 lettere costituenti un nutrito carteggio; i suoi manoscritti; lo scrittoio; una poltrona; mobili ed oggetti che formavano il suo studio, compresi alcuni quadri ad olio. La raccolta di Mario Rapisardi, fatta confluire, dall’Amministrazione Comunale, nella biblioteca Civica, riunisce armonicamente le opere più importanti non solo della letteratura italiana, delle letterature antiche e moderne ma anche le opere più notevoli relative agli studi filosofici, religiosi e politico-sociali che il poeta raccolse e custodì con amore, nonchè altre opere inviategli in omaggio dagli autori con dediche autografe - tra le quali si trovano quelli dei maggiori letterati e scienziati del tempo. Nella Biblioteca di Mario Rapisardi non figura alcun testo di diritto, pur essendo stato suo padre un uomo colto e preparato, che esercitò la professione di procuratore legale. Nel 1944, dal 25 al 27 febbraio, le Biblioteche Riunite “Civica e A.Ursino Recupero”, hanno esposto una parte del materiale “della Biblioteca-Museo di Mario Rapisardi” in una mostra dedicata al grande “Poeta”, nel primo centenario della sua nascita. Il Museo-Biblioteca Mario Rapisardi, ospitato nella sala fronteggiante l’ex-museo benedettino, oggi ingresso della Biblioteca, costituisce una importante sezione delle Biblioteche Riunite sia per il valore dei libri rari e pregevoli, sia per l'epistolario inedito, sia per le memorie di un nostro passato che essi custodiscono. Il cospicuo fondo della Biblioteca–Museo Mario Rapisardi e ricca di opere, per lo più letterarie e filosofiche, che il poeta raccolse e custodi con amore.

 

 Tra le edizioni rare, moderne e antiche, ricordiamo le Opere latine del Petrarca, stampate a Venezia nel 1503 da Simone da Pavia, detto Bevilacqua, e contenente infine il Bucolicum Carmen, impresso anche esso a Venezia da Marco Horigano, con la data errata 1416, che, probabilmente, va letta 1496. Del Petrarca, inoltre, vi sono tre pregevoli edizioni cinquecentine Sonetti e Canzoni, con la esposizione del Vellutello,Venezia 1563, le Opere stampate a Basilea nel 1581 e la bellissima edizione di Sonetti e Canzoni con la esposizione di G. A. Gesualdo, Venezia 1533. Delle altre rare edizioni segnaliamo le Opere di Machiavelli, stampate a Roma nel 1550, la Gerusalemme Liberata, del Tasso, nelle edizioni Napoli, 1582 e nell'altra di Genova del 1590 le Rime e le Satire dell Ariosto, stampate a Venezia da G. Giolitto de Ferrari nel 1567. L'Orlando Furioso, stampato pure a Venezia dal Valgrisi nel 1580,e la rarissima edizione del Pontano,stapata a Basilea nel 1530,in 3 volumi l Opus macaronium del Folengo, stampata ad Amstelodami nel 1768 e i due volumi Della Famosissima Compagnia della lesina, stampati a Venezia nel 1767. Tra i classici latini e greci spiccano tre incunaboli,stapati a Venezia le Opere di Ovidio per Cristoforo de Pensis, nel 1498, la Farsaglia, di Lucano, coi tipi del Bevilacqua, nel 1493, e le Opere di Orazio col commento di Cristoforo Landino, nel 1493. Tra le cinquecentine citiamo le opere di Cicerone, in caratteri aldini, l'Argonauta, di Valerio Flacco, edita a Venezia nel 1501, le Noctes Acticae, del Gallio, stampate da Sebastiano Grifo nel 1550, le Opere di Platone interpretate da Marsilio Ficino, Lugduni, 1557, e poi ancora Rerum gestarum libri di Ammiano Marcellino, nella edizione di Parigi del 1554, le Vite di Plutarco, impresse a Basilea nel 1549, le Opere di Giovenale, annotata dal Poliziano, Milano,1514, le Historiae di Tito Livio, uscite dai torchi dell'officina Frobenia di Basilea nel 1535 etc.

 

La Biblioteca "Ursino-Recupero"

La Biblioteca "Ursino-Recupero" rispecchia gli interessi politico-letterari del barone e conserva testi siciliani ed in particolare catanesi, dalla fine del XVIII secolo agli inizi del XIX. Molti di questi testi furono donati personalmente dal barohttps://www.mimmorapisarda.it/gif/05.gifne e quindi sono autografi. Il fondo del barone Antonio Ursino-Recupero e ricco di nove incunaboli e 316 cinquecentine, fra le quali ricordiamo De successione feudalium del Cumia, al quale si deve l'introduzione della stampa a Catania.

Tra le opere moderne ricordiamo Il Duomo di Monreale del Gravina con le sue meravigliose tavole a colori e I Carbonari della montagna di Giovanni Verga, stampati in quattro volumi a Catania, dalla Tipografia Galatola, nel 1861-62.

Oltre ai circa 19.000 opuscoli, alla raccolta di giornali catanesi e siciliani, ai fogli volanti, notevole importanza per la storia locale i 621 manoscritti inventariati dal Casagrandi e tra i quali figurano quelli di Alessandro Recupero, Vito Coco, Domenico Tempio, venerando Gangi, Giuseppe e Francesco Bertuccio, Vincenzo Bondice, Pasquale Castorina, Francesco Strano, Domenico Strano, Carlo Gemmellaro etc. Una collezione interessantissima di questa Biblioteca è costituita infine dalla raccolta dei libretti delle opere liriche italiane rappresentate a Catania nei primi decenni dell'800, nello scomparso Teatro Comunale G. Coppola.

 

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La Sala Vaccarini

 La Sala Vaccarini o Libreria dei PP. Cassinesi (Libreria dei monaci benedettini) progettata da Giovanni Battista Vaccarini, a pianta ovale, arricchita da un pavimento maiolicato, e da un soffitto affrescato, è completamente arredata con scaffali contenenti libri rari e di pregio dei secoli XVII-XIX. La sequenza degli spazi vaccariniani, dal corridoio del Noviziato alla grande Biblioteca, è uno dei pochi esempi dell’architettura del Settecento catanese in cui la libertà dalle rigide regole trattatistiche, dalla simmetria e dalla staticità, trovano espressione.

L'impianto originario, sia per esigenze funzionali che per modesti adattamenti dei committenti, si articolava in spazi segregati (cucina e museo) e in sequenze con cerniera nell'antirefettorio (antirefettorio-refettorio grande, ortogonale a questo capolino corridoio noviziato-antirefettorio-refettorio piccolo-gabinetto padre La Via-libreria). Le mutate destinazioni d'uso hanno portato ad una fruizione dinamica e articolata che coinvolge tutti gli spazi.

 La sala Vaccarini è l'unico ambiente del monastero che si conserva pressochè integro nella configurazione originaria (a parte la modesta modifica della scaffalatura dal lato nord e la trasformazione in finestre dei balconi a ovest). Oltre la conservazione degli elementi connotativi dello spazio si conserva ancora il ricco e raro patrimonio librario.

 Agli scaffali curvi nei quattro angoli della sala è affidato il compito di fare scivolare lo sguardo da una parete all'altra conferendo dinamicità a tutto l'impianto. La splendida libreria o Sala Vaccarini ci piace immaginare che sia stato F. Fichera, nel febbraio del 1915, nel celebrare il 147° della morte del Vaccarini oltre alla lapide e al busto abbia battezzato la vecchia libreria benedettina dedicandola all'amato architetto.

 

Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero
Via Biblioteca, 13, 95124 Catania (CT) tel: 095 316883 fax. 095 316883

 

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Biblioteca Ursino Recupero, la battaglia di Rita Angela Carbonaro. “Ci vuole amore e dedizione”

Rita Angela Carbonaro è decisamente una persona forte. Bisogna esserlo necessariamente se si vuole tenere viva una biblioteca che ha rischiato la chiusura. Animata da una grande passione per i libri e per la cultura in genere, la direttrice di una delle più grandi biblioteche catanesi, è riuscita a resistere da sola contro la crisi e un sistema andato in tilt. Dal 2009 la direttrice Carbonaro è rimasta l’unica dipendente, da quando gli ultimi due dipendenti sono andati via per i pagamenti radi. Senza aver percepito lo stipendio per anni, “Non ricordo più nemmeno per quanti anni” confessa la Dott.ssa Carbonaro, rimasta l’unica nelle grandi sale della Ursino Recupero, occupandosi pure delle pulizie della struttura, con dedizione e molta buona volontà sta portando avanti la sua battaglia per la salvaguardia della biblioteca. Mi mostra quasi con affetto materno lo stato dei lavori di restauro nella Sala Vaccarini, realizzati tramite i fondi europei POR che finiranno a dicembre 2015, in cui ha ideato una libreria-ponteggio che “senza spostare i libri dalla loro consueta collocazione permette ai ragazzi dell’azienda di Acireale, vincitrice del concorso per le opere di restauro, di svolgere tranquillamente il loro lavoro. Mi hanno chiesto se avevo brevettato questa libreria-ponteggio in modo da poterla usare in altre biblioteche”.

Ma come riesce ad andare avanti una biblioteca quasi senza fondi? “Intanto adesso si sta estinguendo il debito con le liquidazioni degli ex dipendenti (il trasferimento dei fondi era fermo dal 2008 e c’era un arretrato di pagamenti pari a 1,3 milioni), poi la Multiservizi ha mandato una persona per le pulizie delle sale. Anche se al momento sono ancora l’unica dipendente, vengo ogni mattina alle 06:45 ad aprire la biblioteca, ci vorrebbero almeno altri tre dipendenti a tempo indeterminato per i lavori di catalogazione e digitalizzazione. Ci sono sì i tirocinanti non solo della Facoltà di lettere e filosofia, ma anche di altre facoltà dell’ateneo, ma quando apprendono la meticolosità e l’impegno in questo lavoro hanno già finito le ore di tirocinio e bisogna ricominciare daccapo. Però non mi lamento, siamo riusciti con varie donazioni private, con le visite guidate e le mostre allestite ogni mese a rilegare e salvaguardare tanti volumi. Inoltre non avendo a disposizione fondi per l’acquisto di nuovi libri, molti autori ed editori ci stanno aiutando a restare aggiornati donandoci le loro nuove pubblicazioni. Quello che mi auguro è la digitalizzazione di tutto il catalogo della biblioteca, in modo che anche a distanza tutti possano sfogliarli”.

https://lurlo.news/biblioteca-ursino-recupero-la-battaglia-di-rita-angela-carbonaro-ci-vuole-amore-e-dedizione/

 

 

 

Il 3 maggio del 1787 lo scrittore tedesco J.Wolfgang Goethe, dopo essere stato ricevuto a Palazzo Biscari ed aver visitato il museo,viene condotto dall'abate al Monastero dei Benedettini. Nel diario di quel giorno,Goethe parla delle lave del 1669 e si informa come poter salire sull'Etna. Non so quali banchi lavici abbia visto in zona ma sicuramente avrà visto il banco lavico sul retro del monastero che nel 1669 rischiò di seppellire il cenobio .......ma leggiamo la sua cronaca

 -Dopo questa visita, l'abate ci condusse al Convento dei Benedettini, nella cella d'un monaco, la cui fisionomia, triste per l'età non avanzata e tutta chiusa in sé, non prometteva troppo gioconda conversazione. Ebbene, era costui l'uomo di multiforme ingegno,l'unico che sapesse domare l'organo immenso di quel duomo. Come ebbe indovinato, più che inteso,il nostro desiderio, lo volle soddisfare, in silenzio:ci siamo recati nella chiesa, che, pur essendo molto vasta, egli, trattando il mirabile strumento, seppe riempir tutta quanta fino agli angoli più remoti, facendovi ora spirare i singhiozzi più lievi,ora echeggiare i tuoni più possenti.

Chi non avesse già visto prima quell'ometto,avrebbe dovuto credere che solo un gigante fosse capace di tanto impeto;ma noi che già lo conoscevamo di persona, non potemmo meravigliare che d'una cosa:che non abbia dovuto soccombere già da tempo, in una simile lotta.

Poco dopo il nostro pranzo, è venuto a prenderci l'abate con una carrozza, per farci vedere il quartiere più eccentrico della città. Nel momento di salire in vettura, si è svolta una curiosa disputa d'etichetta. Io ero salito per primo e stavo per prender posto a sinistra quando egli, salendo alla sua volta, volle espressamente che mi scomodassi e che lasciassi la sinistra a lui.Lo pregai di lasciar da parte queste cerimonie. Ma:<<Scusate>> mi disse <<facciamo così, perché se io mi metto alla vostra destra, la gente crederà che io vada a spasso con voi;se invece mi metto alla sinistra, è convenuto che voi venite con me, e che io vi faccio veder la città in nome del principe >>.Non c'era da replicare e così fu.

Così salimmo per certe vie,dove la lava ,che nel 1669 distrusse gran parte della città, è ancora visibile ai giorni nostri. Il torrente igneo, irrigidito, è stato trattato come una roccia qualsiasi:vi hanno tracciato sopra la pianta delle vie, alcune in parte anche costruite.Ne ruppi un pezzo di indubbia fusione, ricordando che prima della mia partenza dalla Germania, la discussione circa la natura vulcanica del basalto s'era già accesa.E lo stesso feci in vari punti, per ottenere più d'una varietà.

Ma se gli indigeni stessi non amassero il loro paese e non si fossero dati la pena di raccogliere, o per guadagno o per amor della scienza, quel che v'è di notevole nella loro regione, il viaggiatore avrebbe un bel torturarsi il cervello. Già a Napoli, il mio negoziante di lava m'era stato di non poco aiuto;più ancora e in un senso più elevato, qui a Catania, il cavaliere Gioeni. Nella sua copiosa collezione, disposta con rara eleganza, ho visto le lave dell'Etna, i basalti che si trovano a pie' del vulcano e pietre di varia composizione più o meno facili ad essere identificate. Tutto mi è stato mostrato con la più grande amabilità .Quel che più destò la mia ammirazione furono certi zooliti provenienti dagli scogli dirupati che sorgono dal mare di Jaci.

Domandammo al cav. Gioeni quale fosse il modo migliore per accingersi a un'ascensione sull'Etna;ma egli non volle sentir parlare nemmeno d'un tentativo per raggiungere la vetta,specie in questa stagione.

<<I forestieri in generale >>così disse,non senza chiederci scusa, <<prendono la cosa troppo alla leggera; quanto a noi,nati al piede della montagna, ne abbiamo abbastanza se,approfittando della migliore occasione, riusciamo a toccar la cima due o tre volte in tutta la vita. Il Brydone istesso, che con la sua descrizione ha acceso per primo il desiderio di contemplar da vicino il cono infuocato, non l'ha raggiunto affatto;Il conte von Borch lascia in dubbio il lettore, ma anche lui non si è spinto che a una certa altezza; così potrei affermare di più d'uno.Per il momento, la neve è scesa troppo giù e presenta ostacoli insormontabili. Se volete seguire il mio consiglio, spingetevi domani di buon'ora, coi muli,fino alle falde dei Monti Rossi,e salitene poi la sommità;di lì godrete uno spettacolo superbo e osserverete nel tempo stesso la vecchia lava, che, scaturita in quel punto nel 1669,si è precipitata sciaguratamente sulla città. La veduta è magnifica e ben distinta .Quanto al resto, è meglio sentirlo raccontare>>.

(J.W.GOETHE)

Grazie a Milena Palermo.

 

Il Giardino dei Novizi

Il “Giardino dei novizi” è l’ala verde destinata allo svago dei giovani novizi che risiedevano nel corridoio adiacente. Costruito a partire dal 1739 dall’architetto Vaccarini, sorge sulla lava del 1693 così come tutta la seconda ala del monastero. Vaccarini, infatti, non potendo eliminare l’enorme banco lavico, che proprio in questa zona ha fatto rialzare il livello del suolo di circa 10- 15 metri, decide di sfruttarlo costruendo su di esso. In questo modo, realizzando un solo piano riesce addirittura a ricreare lo stesso ordine architettonico della prima ala del monastero costituita da un pianterreno, un primo piano e un secondo piano.
Dopo la confisca del monastero, il giardino dei novizi diventerà una palestra a cielo aperto utilizzata da diversi istituti scolastici.
Quando poi nel 1977 il monastero viene ceduto alla Facoltà di Lettere e Filosofia, il giardino verrà riprogettato dall’architetto Giancarlo De Carlo, il quale inserisce elementi nuovi, ovvero le ciminiere della centrale termica che si trova sotto il giardino e la fontana.
Alla fine del pergolato è presente una struttura che dall’aspetto sembra debba aver avuto funzione religiosa: in realtà è un semplice vespasiano esterno.

 

Le Cucine

Le cucine vengono costruite a partire dal 1739 dall’architetto Vaccarini.
Al centro dell’ambiente si trova una Tribuna contenente il grande fornello utilizzato per la cottura e alimentato dal vano sottostante.
Le pentole venivano fatte poggiare su una lastra di metallo e spostate attraverso un sostegno agganciato alla struttura posta all’interno della Tribuna stessa.

 

A PROPOSITO DI CUCINA......

La comunicazione tra la cucina e il grande refettorio avveniva attraverso il vano passavivande che si trova sulla parete sinistra della stanza.
Ai lati della stanza sono presenti quattro aperture nel pavimento, tre circolari,una rettangolare. Quest’ultima conserva la scala utilizzata per accedere al ventre delle cucine.
Le aperture circolari avevano la funzione di mettere in comunicazione le cucine con i magazzini delle derrate alimentari.
Le strisce di cemento che vedete per terra servono ad indicare cosa accade qui a partire dal 1890. Le cucine diventano sede del laboratorio di geodinamica, che si occuperà di controllare e studiare i movimenti della terra. Il laboratorio ha bisogno di spazi per creare degli uffici questo comporterà lo stravolgimento delle cucine: la copertura viene demolita e sostituita, a una quota più bassa di ben due metri, da volte portanti; il grande vano quadrato viene tagliato in quattro porzioni da una croce di muri ed archi; alcune finestre e porte sono murate; i vani adiacenti modificati così da potere accogliere le scale per scendere nello scantinato e per salire nella specola, la cupola contenente il grande equatoriale che consentiva l’osservazione astronomica.
Sul finire del secolo scorso, finalmente, ha inizio il recupero condotto dall’Architetto De Carlo con l’Ufficio Tecnico dell’Ateneo.

 

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Il giardino dei Novizi

 

 

 

IL BAROCCO A CATANIA

 

 

Fin dall'epoca normanna i monaci benedettini risiedevano nei cenobi di . Leone, di . Maria di Licodia e di S. Nicolò dell'Arena, situati nelle belle conuade boscose per cui si ascende al vulcano, e possedevano
anche una piccola residenza nella città di Catania. Nel 1536 furono obbligati a un forzato trasloco in città a causa dell'eruzione dell'Etna che aveva sommerso il cenobio di S. Leone e gravemente danneggiato quello di S.
S. Nicolò dell'Arena. Scelto quindi un luogo tra i più belli e salubri, per la vista mirabile che si godeva e l'aria marina che si respirava, si diedero a edificare nell'anno 1558 un nuovo grandioso monastero sull'acropoli di Catania, nella contrada allora denominata de la Cipriana e de lo Parco, un' area densa di vestigia di epoca greca e romana. Il convento fu dotato di acquedotto e arredato di affreschi e di quadri, di statue e di una monumentale fontana al centro del chiostro circondato da peristilio con 52 colonne di marmo. QueSto primo monastero fu parzialmente invaso dalla lava del 1669 e distrutto dal terremoto del 1693.
Per una visione complessiva dell'attuale monastero, ricostruiro e ampliato nel Settecento, conviene ascendere verso la cupola della chiesa di S. Nicolò. Il convento si distende sotto gli occhi come un'immensa mappa in plastico rilievo. Ecco il terro della chiesa, limitato verso la facciata dalle ciclopiche mura che avrebbero dovuto sostenere il maestoso frontone incompiuto. Ecco l'ininterrotta sequenza di fabbricati che furono magazzini, officine e scuderie. Ecco il chiostro di levante e quello di ponente. Più in là il giardino dei novizi e, in fondo, il refettorio, il museo e la biblioteca nuda e isolata.
Ma occorre scendere dalla cupola per ammirare da vicino il regale prospetto di mezzogiorno, modello del barocco catanese, che lo storico dell' arte ,Vito Librando cosÌ descrive: Scarto cci, figure, mascaroni e pottini, doviziosi frutti di un fantastico repertorio, mai stanchi anzi sanguigni e vitali, inferiori soltanto a quelli che si allargano scenograficamente nel palazzo Biscari, ma di esito architettonico più imponente e suggestivo, per le paraste dell'ordine gigante bugnate a punta di diamante e per il vigoroso cornicione, esempio senza uguale di un gusto barocco debitore della tradizione manieristica, cos" diffu50 e persistente nella fascia orientale dell'isola.
Guardando tanta estensione di fabbriche e camminando per i corridoi che attraversano le vaste ali dell'edificio, segnando con limpida geometria i percorsi interni fiancheggiati dai chiostri e dalle confortevoli celle allineate verso le facciate, viene tuttavia di pensare quanto solitario dovette essere l'immenso convento per i suoi ottanta residenti, tra padri, novizi e fratelli, quanto malinconici dovettero risuonare i loro passI nei lunghi corridoi. Erano nobili quei padri e quei novizi, cadetti delle famiglie aristocratiche siciliane. I costumi del tempo li avevano costretti a convenire in studio e meditazione una vita nata libera. E se la vocazione non c'era, e il più delle volte non c'era, quale soffocante gabbia quella dimora di principi!
Toccò all'architetto Giambattista Vaccarini realizzare nel 1739 1'espansione del monastero verso Nord, con il grande refettorio, la nuova cucina, il museo e la biblioteca. Lavori imponenti che documentano un modo diverso di ripartire gli spazi interni, anche tramite l'arredo che ancora si conserva nell' antirefettorio nobilitato da stucchi e nel salone affrescato della biblioteca. I preziosi armadi intagliati conservano importanti pergamene dell' epoca normanna, vari codici, una Bibbia del Trecento stupendamente miniata, manoscritti, incunaboli, cinquecentine e numerose opere rare e pregevoli, nonché una ricca collezione di giornali e periodici.
Toccò invece al Battaglia nel 1747 la costruzione del ponte che collegava il monastero con il vasto giardino, oggi occupato dagli edifici dell' ospedale Vittorio Emanuele. Don Francesco Paternò Castello, VII duca di Carcaci, cosÌ scriveva nel 1841: la villa occupa estensione di canne 2800 quadre di terreno e vi si trova tutto ciò che l'arte ha saputo ideare per rendere gai e variati simili luoghi, come fontane, viali, sedili, uccelliere e pergolati. Ma ciò che destar dee sorpresa maggiore si è appunto la posizione topografica del terreno. La lava del 1669 in questo punto si alza quasi a picco sopra base larghissima sino al livello del secondo piano dell'edificio; l'arte profittando della circostanza rafforzò con mura il contorno, appianò la superficie coprendola di terra vegetale, onde le piante vi potessero mettere liberamente, e così formare una specie di orto pensile simile a quei che leggiamo descritti nelle antiche storie, e che si noveravano fra le maraviglie dei tempi di allora.

 

Il chiostro di Levante

 

Nel 1755 i benedettini vollero arricchire la chiesa con un organo maximum et mirabile che il monaco Donato Del Piano realizzò in dodici anni di lavoro. Le sue note delicate o possenti, che imitavano esattamente i suoni di tutti gli strumenti a fiato, a corda e a percussione, penetrando negli angoli più remoti della chiesa, stupirono persino lo smaliziato Goethe. Oggi, privo delle 2916 canne, mostra solo la splendida cornice rococò.
Gli ultimi episodi dell'impegno costruttivo dei benedettini, durato, attraverso travagliate vicende, quasi tre secoli, furono la grande meridiana intarsiata sul pavimento marmoreo della chiesa, che misura il mezzogiorno astronomico di Catania con l'approssimazione di meno di un secondo, e l'arredamento del chiostro di levante con un tempietto in stile neo-gotico, forse estraneo all' ambie-nte classicheggiante ma certamente di gradevole effetto.
Ammirato dai visitatori il monastero dominava entro la cinta delle mura e condizionava la vita religiosa, culturale e civile della città. Era un Regio Palazzo, e come tale poteva fregiarsi del simbolo regale delle catene di ferro poste all'ingresso. I benedettini catanesi nel corso dei secoli hanno occupato posizioni di rilievo nella regia UniversitLeJlellcdott~socleJ~ europee, nelle curie e nelle corti. Tra loro, l'eminentissimo cardinale Giuseppe di Primo che svolse un ruolo decisivo nella fondazione del Siculorum Gymnasium, e il venerabile cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, che prima della nomina a vescovo di Catania fu l'ultimo abate del monastero. I monaci vi risiedettero fino al 1866, l'anno della soppressione dei benefici degli ordini religiosi. Tre anni dopo ospitava caserme e istituti scolastici, ed ebbe cosÌ inizio un lungo periodo di degrado. Quando nel 1894 Federico De Roberto pubblicò il romanzo I Vicerè, con la minuziosa descrizione dello stato di abbandono del monastero, il Municipio di Catania manifestò per la prima volta l'intento di donarlo all'Università, ma si dovrà giungere fino al 1977 per il trasferimento di proprietà.
Oggi l'antico monastero è sede della Facoltà di Lenere e Filosofia, destinazione culturale corrispondente alla dignità altissima del complesso monumentale. Grandi lavori di restauro sono stati avviati, e già restaurati sono la maestosa scalinata di accesso al piano nobile, il quartiere dell'abate, ora sede della Presidenza della Facoltà, e il grande refettorio trasformato in aula magna.
La fabbrica del monastero vedrà l'inizio del nuovo millennio con quel fervore di attività che fu caratteristico del Settecento.

Emanuele Maccarone - Catania in controluce - Lyons Club Catania Bellini - ed- Greco

A causa del terribile terremoto del 1693 (che colpì, soprattutto, la Val di Noto), della città di Catania rimaneva assai poco: il Castello Ursino, fortezza medievale, e tre navate della cattedrale (la leggenda narra che la città sia stata distrutta per ben sette volte dai terremoti nel corso della sua storia). Il resto se non fu distrutto dal terremoto lo fu dalla ricostruzione successiva (chiese e conventi, monumenti, palazzi pubblici e privati). Con la riedificazione si operò sull’assetto urbanistico della città. Furono allargate le strade che si incrociavano con un gioco di vaste piazze, utilizzate a scopo monumentale e come eventuali aree antisismiche. Il costo diverso dei terreni, a secondo la zona, portò alla creazione di due grandi quartieri, uno nobile, l’altro più popolare, divisi tra loro dalle attuali vie Vittorio Emanuele II a sud e Santa Maddalena a est.
La ricostruzione di Catania, supervisionata dal Vescovo della città, fu portata avanti dall’unico architetto rimasto vivo dal terremoto, Alonzo di Benedetto, insieme ad altri tecnici provenienti da Messina. Tra le diverse aree importanti della città, ci si dedicò, soprattutto, sulla Piazza del Duomo. Tre edifici la delineavano: il Palazzo Vescovile e il Seminario dei Chierici a sud, il Palazzo degli Elefanti a nord (che sostituisce l'antica Loggia medioevale) e ad ovest il Palazzo Pardo Sammartino. Lo stile architettonico utilizzato si ispirava allo stile siciliano del XVII secolo, forse troppo scontato e superficialenell’esecuzione, anche se nel Convento dei PP. Gesuiti, si ha un influsso neoclassico, ripreso dall’architettura europea del periodo.


 

Tutto ciò fino al 1730, quando viene nominato architetto della città Giovan Battista Vaccarini, che con il suo arrivo dà un’impostazione più ardita e personale. Egli si rifà al Barocco romano: I pilastri reggono cornicioni del tipo romano ed un fiorire di timpani tradizionali e curvilinei, trabeazioni, e colonne a tutto tondo che sostengono balconi più mossi. Il materiale lavico proveniente dalla zona, pur utilizzato nella costruzione precedente, inizia a colloquiare con altri materiali come elemento decorativo. Davanti al nuovo Palazzo di Città viene eretto l’obelisco posto sul dorso dell'Elefante, ispirato alle fontane romane del Bernini, che diverrà il simbolo di Catania. La stessa Cattedrale di Sant’Agata acquisisce una facciata in uno stile proprio del Barocco siciliano, proprio del XVIII secolo nell’Isola. La stessa ispirazione si coglie nella Chiesa della Collegiata, costruita intorno al 1768 dall’architetto Stefano Ittar.
Tra gli architetti che hanno aiutato la città a risorgere dalla distruzione, dandogli una rara impronta barocca, possiamo citare, oltre i già citati Alonzo di Benedetto e Giovan Battista Vaccarini, anche Francesco Battaglia, Stefano Ittar e Girolamo Palazzotto.

http://www.celeste-ots.it/celeste_files/catania/catania_6.htm

 

 

La salita di Via Antonino di Sangiuliano

 

 

 LA PASSEGGIATA
tratto da "Un bellissimo novembre " di Ercole Patti


-Quando, dopo di aver richiuso con molti giri di chiave la porta, averci messo il grosso catenaccio, uscirono mancava ancora molto tempo all'inizio dello spettacolo al Teatro Massimo.
Attraversarono piazza del Carmine ingombra delle foglie di cavolo e di altre verdure del mercato che c'era stato la mattina, imboccarono la via Pacini le cui lastre di lava erano ancora tiepide del sole della giornata. Sebbene si fosse quasi a metà novembre a Catania faceva ancora caldo come in estate, si incontrava gente in maniche di camicia.
Per ingannare il tempo lo zio li condusse a prendere un gelato alla Birraria Svizzera.
Seduti a un tavolino sul marciapiedi prendendo il gelato stettero a guardare la gente che passava per via Etnea:giovanotti in maglietta e signori anziani con tremolanti e trasparenti giacchette di alpagas nero come se l'estate fosse cominciata allora.
....Poi si avviarono a piedi verso il teatro. Percorsero la via Etnea già affollata, attraversarono la Porta di Aci col monumento a Bellini seduto su una Savonarola, con due piccioni sulle braccia e uno sulla testa.
La zia e la madre si fermavano alle vetrine mentre Nino e lo zio le aspettavano un po' più in là.
Passarono accanto allo sbocco di via Montesano davanti alla chiesa dei Minoriti. Nino si ricordò di quel pomeriggio nel salottino di quella casa quando lei gli si era strofinata sul ginocchio. Adesso dopo quello che era accaduto aveva la prova definitiva che quella volta lei era veramente eccitata e si era abbandonata di proposito su di lui ; questo pensiero gli acuì un pensiero retrospettivo e gli fece ancora pensare a lei che andava avanti con la madre camminando con mollezza, fermandosi alle vetrine, come cosa sua,come scopo che gli apparteneva con cui avrebbe fatto ancora all'amore tante volte, per tutta la vita.
Ai Quattro Canti imboccarono la via Lincoln (odierna Sangiuliano).Al negozio d'angolo la madre si fermò davanti a una mostra di camiciole da ragazzo a prezzi di liquidazione. Nino interpellato ne trovò una a strisce bianche e blu di suo gusto.
Alla zia Cettina quella maglietta piacque molto. Entrarono tutti a comprarla mentre lo zio faceva premura perché ormai l'ora dello spettacolo era vicina.
Percorsero via Lincoln un po' desolata in quella luce pomeridiana, costeggiarono il terrapieno del giardino pensile del palazzo Manganelli, voltarono per via Michele Rapisardi e finalmente arrivarono davanti al Teatro Massimo. -
 

 

 

 

UN CARCERE DIMENTICATO AI MINORETELLI

 

Siamo in via G.Clementi ,quasi di fronte l'ospedale Santa Marta ,nella zona un tempo denominata di "San Cataldo"poiché vi sorgeva una chiesa preesistente al terremoto del 1693 dedicata all'omonimo Santo e a Santa Barbara dei Casalenis .La chiesa andò distrutta dal devastante terremoto ma nello stesso sito ne fu subito ricostruita un'altra dai fedeli sopravvissuti anche se fu completata quando fu affidata ai Chierici regolari Minori di San Francesco Caracciolo o Minoriti già presenti in San Michele Arcangelo. Da quel momento la chiesa prese il nome di Immacolata Concezione ai Minoritelli.

Ma questa struttura religiosa conserva al suo interno un sito ben più antico e di estrema importanza seppur caduto nell'oblio del disinteresse generale. Ma le "pietre " raccontano e così un osservatore attento può già intuire la radice storica e religiosa del sito dai pochi indizi ben visibili attorno all'edificio.

È quindi ben visibile all'esterno accanto alla chiesa un arco a sesto acuto probabilmente di epoca medievale, a ricordare il sito di San Cataldo mentre sulla facciata laterale della chiesa è possibile leggere la storia che si nasconde al suo interno attraverso la segnalazione di un carcere dove furono tenuti prigionieri i tre fratelli martiri Alfio,Cirino e Filadelfo.

Ma ciò che più sorprende entrando in chiesa ,è un altare posto a sinistra dell'ingresso ,interamente dedicato ai tre fratelli martiri attraverso tre statue lignee ad altezza d'uomo che li rappresentano, una tela che li raffigura,ed incastrata sul muro una grande lapide datata 1716 su cui si legge in latino :

"Sanctorum Alphi, Philadelphi et Cyrini carcer anno CCLIII "

(Il carcere dei Santi Alfio,Filadelfo e Cirino -l'anno 253)

 Ai piedi di tale lapide una grata sul pavimento conduce in un sito di epoca romana dove secondo la tradizione agiografica, furono tenuti prigionieri i tre fratelli martiri Alfio, Cirino e Filadelfo durante il viaggio da Trecastagni a Lentini dove subirono il martirio il 10 maggio 253 .

 Da tutto ciò si ricava che ben due chiese sorsero in un sito di epoca romana a quanto pare di estrema importanza ma poco conosciuto,poco valorizzato e soprattutto su cui si è poco indagato e mi sembra il minimo quantomeno renderlo noto ai catanesi

 Nelle foto ho cercato di creare un collage per mostrare le parti più interessanti del sito archeologico dei Minoritelli

 

Milena Palermo per OBIETTIVO CATANIA

 

 

 

Parrocchie

 

S.FRANCESCO D'ASSISI Via Crociferi 2 - 95124 Catania tel: 095 312103

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  • SANGIORGIO CARMELA V. Sangiuliano, 109 095-316906

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L'ULTIMO AMORE                             (Pietro Paolo Frontini)                                Schizzi d'Arte