Vi capita mai di possedere un posto come il solaio, dove mettere alla rinfusa tutte le cose che trovate nel vostro percorso e che conservate in un disordinato ordine con nuove cose da aggiungere in mezzo a vecchi e disordinati ricordi? Ecco, questa pagina l'ho chiamata così. Quando scrivo qualcosa, poi la conservo qui. E' un po' il mio libro, anche se mancano tante altre cose. Ci sono dentro molti miei post di Facebook; cose nuove, vecchie, ritrovate e scarabocchi di un piccolo pensatore. Tutte in ordine sparso, proprio come devono stare in una soffitta o in un solaio.

 

 

 

OSSERVANDO I MIEI CONCITTADINI

 

 

A FERA ‘O LUNI

E' il secondo mercato storico di Catania, dopo la Pescheria.

Quando Catania era Capitale di Sicilia sotto il trono dell’aragonese Federico III, il mercato nacque di fronte all’ex Regia Cappella (adesso basilica Collegiata) e poi spostato in piazza Università dopo il terremoto del 1693. Nel 1832 trovò la sua definitiva collocazione nell’attuale Piazza Carlo Alberto.

Innumerevoli sono le versioni sul nome e il significato. Ovviamente, quella più facile è riferita al giorno della settimana, appunto il lunedì. Secondo altre ipotesi, il nome deriverebbe dal dio assiro-babilonese Luni o dalla dea Luna. La zona Luno era una delle quattro parti dell’antica Catania, assieme ad Aetnopoli (Leucatia),  Demetria (Cibali) e Littoranea (Ognina) e comprendeva la zona esterna alla Porta di Aci, cioè l’attuale ubicazione del mercato perchè nel luogo vi era un tempio dedicato al suddetto dio Luno, posto in cima ad una collinetta dove oggi sorge il Santuario dedicato alla Madonna del Carmine.

Un’altra ipotesi del nome è quella che vede in ogni lunedì l'arrivo dei familiari dei soldati borbonici in servizio nella caserma prospiciente la piazza, per fornire quei  militi di ogni mercanzia o biancheria da consumare in tutta la settimana. Non so se questo sia rispondente al vero.

Oggi il mercato non si svolge soltanto al lunedì ma, tranne la domenica, ormai in ogni giorno della settimana. Nella zona cosiddetta Pracchio, gli fa compagnia la chiesa di S. Gaetano alle Grotte, edificata nel III secolo in una grotta lavica già usata come cisterna e dedicata a Santa Maria La Grotta, demolita ad opera degli arabi e restaurata dal normanno Conte Ruggero.

Ma entriamoci al mercato, no?

Appena si entra, come in tutti mercati del Meridione d’Italia (vedasi quelli palermitani) ci si immerge nel calore, nei colori e nell’abbandono della tristezza che fa posto all’allegria. Si incontra immediatamente la geniale ironia del Catanese e la sua pronta loquacità nel partorire implacabili battute. Non possono farci niente, è più forte di loro, la devono dire!

In un baleno sembra quasi mancasse l’aria, le pulsazioni aumentano e le antenne cominciano a drizzarsi per ricevere suoni e colori strabilianti che filtrano dai tendoni di bancarelle in cui si vende mercanzia di ogni genere.

Nello stretto corridoio in cui si incrociano catanesi, siciliani, africani, cinesi, indiani, tutti indaffarati a far vivere un luogo dove si fanno affari meglio che a Piazza della Borsa, arrivano decine e decine di meravigliose e spassose espressioni teatrali. E' proprio lì dove, da cronista, spesso raccolgo quel tesoro che esce dalle bocche dei miei concittadini e che non posso tenere soltanto per me. Impossibile non condividerle. Qui di seguito, quel che sento:

- Cuore, a mamma, ti piaci stu vistitu blu elettricu ‘po vattìu di Vanessa?”

- Frida dice a Oriana “A genti parra picchi avi giga supecchiu ndo telefunu. A quali! U russettu russu non mi passa mancu cu l'acqua raggia!”

- “Cunnuti ca siti! 5 euri? Cu l’ha spinnutu mai 5 euro pi m'paru 'i cosetti?”

- “Peco, peco (prego), tuttu a neuro. Avemu macari Docce e ca ‘bbanna!”

- “Oggi c'è assai pisci, non ci abbastunu i cancillati da villa!”

- "Avemu u Blaccky friddu 'da cucuzza”
- “Ascaniu, appoi ti peddi. Dammi a manu, a mamma (ndr: come rovinare la vita a un bambino nato a Catania)”

- “Me nannu? Sta megghiu di mia, ci arrivau a cattulina do suddatu!”

- “Ah, u ‘ttaccanu a chiddu ca arrobba 'a Fera? Petomane!… accussì s’insigna!!! (a Catania non si impara, si insegna)”

Entro al bar, prendo un caffè e alzo il volume delle mie orecchie: “Aspetta, ca non ci viru di luntanu, sugnu preside. Ma è zuccuru?  No mbare, aiu a diabete (a Catania il diabete è fimmina!) e poi no sangu u dutturi attruvau u GPL iautu! Troppo pericoloso, preferisco evirare (evitare) un ics cerebrale!”

Nel frattempo il banconista chiede al collega! "Kevin, ti giuru quantu stimu a vista ‘e l’Ognina,  mi dissi queste mestruali palore: 'Capucino take away, please' Mah! ...chi significa?" “Turi, nenti, ti dissi “da pottare!”. Tranquillu!

Alla fine del giro esco dalla Fera o Luni in un sabato ancora soffocato da questa interminabile estate, senza non godermi le ultime canzonette all’uscita su Piazza Stesicoro. Perché i venditori del mercato non si limitano a “vanniare”, ma si dilettano pure nel canto, ovviamente nel rispetto della nostra famosa liscìa:

- Dieci carciofi a 6 euro posson bastare, dieci carciofi a 6 euro io te li voglio dare! (Dieci ragazze in versione Fera o luni)

Oppure questa, dedicata al sabato e non al lunedì:

- L’aria do sabatu a Fera, ruffiana e sincera… cco te! (Maledetta primavera in versione Fera o luni)

Eccezionali! Come si fa a non amarli?

Mimmo Rapisarda

 

 

IL PANE A CATANIA

Catania, a differenza di Palermo che è stata più araba e normanna, fra le antiche dominazioni in Sicilia è stata soprattutto una grande città romana. E’ anche vero che anche qui esistono testimonianze normanne e sveve come la Cattedrale e il Castello di Aci, ma quel che oggi si vede maggiormente alla luce sono le rovine romane o quel che è rimasto di esse. A coprire l’immenso circo, il decumano, i monumenti, i templi, le terme e gli interi quartieri coloniali ci pensò poi l’Etna nel 1669.

Come mangiavano a quel tempo i romani di stanza a Catania? Avendolo appreso già dai Greci, anche in Sicilia gran parte della popolazione – non tanto la plebe - consumava i pasti nelle “tabernae” (le nostre Putie) dove si consumavano cacciagione, carni, pesce, frutti di mare, murene in brodo, vino, zuppe. Veniva consumata così tanta roba alla brace che Domiziano, con un suo decreto, dovette eliminare questa usanza. Il poeta Marco Aurelio Marziale scrisse: “La strada (regno dell’Arrusti e mangia) di Catina non è più occupata da fumosi focolai (i cufuni), è tornata ad essere una colonia di Roma.”

Ecco dove nacque il nostro famoso Street food. Immaginate questa gente che prima, durante e dopo i cruenti spettacoli all’Anfiteatro di Catania, si avviava alle cosiddette Thermopolie (gli odierni bar)  e consumavano quel cibo sulla strada, velocemente e in piedi. Ma portavano a casa (take away) anche frittelle, lumache, molluschi già cotti, frutta secca, frittelle, focacce e …… pane. Già, il pane. Quello col grano siciliano.

L’Impero trovò in Sicilia e in Sardegna valli immense piene di frumento che potevano sfamare la lontana Roma, famosa la frase di Catone: “La Sicilia è il granaio della Repubblica, la nutrice al cui seno il popolo romano si è nutrito”.

Però i Siciliani non vennero trattati da Roma come alleati ma da sudditi veri e propri, obbligati a pagare un tributo annuale in grano e costretti ad obbedire. Così venne imposta la “lex frumentaria”, tributo che consisteva in una decima parte del raccolto: la cosiddetta Decima (civica decumana), poi sostituita con lo "stipendium", imposta sulla terra pagata in denaro perché il grano siciliano non era più indispensabile per Roma, avendo nuovi approvvigionamenti con le conquiste in Egitto e in Nord Africa. Ma il grano siciliano rimase il figlio prediletto del sole e lo sapevano bene sia i romani sia, nei secoli a venire, gli ebrei, gli arabi, i normanni, ecc.

Non mi dilungo perché non sono uno storico, né un esperto di grani antichi (consiglio https://www.facebook.com/Foodiverso) ma voglio soltanto spiegare a modo mio cosa rappresenti il pane per i catanesi, una passione che si può già cominciare a capire dal numero di panetterie (o panifici, come li chiamiamo) in città. Sono tanti, tantissimi, in via Plebiscito a decine uno vicino all’altro, a distanza di pochi metri. Non chiudono, anzi continuano alla grande con la loro rispettiva clientela.

Oggi si sono adeguati alla modernità. Più che forni sembrano delle vere e proprie rosticcerie, vendono pure spicciola gastronomia ma anche tavola calda in cui vengono usati altre impasti che però non hanno niente a che fare col pane vero e proprio, diversamente da Palermo dove concepiscono la tavola calda come ogni cosa che può essere infilata nel panino: dalla meusa alle panelle, dalla frittola alle stigghiole. Non scrivo delle scacciate e le focacce siciliane, che sono tutto un mondo a parte.

Non so se in altre regioni o città fanno così, ma a Catania il pane viene sfornato continuamente, quasi ogni tre ore. Il privilegio? Comprarlo che non si può nemmeno toccare e, appena a casa, staccare un pezzo di “vastedda” ancora bollente, aprirla e versarci sopra olio, sale e pepe. Quasi lo stesso procedimento per arrivare al famoso “pane cunzato”, senza bisogno di sedersi ai tavoli di Alfredo in quel di Salina. Per carità, anche da lui è ottimo, ma l’ho trovato un po’ troppo croccante e scomodo perché trasborda di contenuti a “cielo aperto”, quasi un'enorme fresella pugliese. Per questo, fra le cinquanta sfumature di pane cunzato siciliano, trovo quello catanese (ottime le sagre a Scillichenti, Piedimonte e Castiglione.) il più morbido e con pochi ed essenziali condimenti che ben si associano fra loro. Comunque, de gustibus.

Chi non ricorda la mitica curva ad Agnone Bagni, lungo la Statale per Siracusa? In quel bar vendevano il pane cunzato appena sfornato, tagliato a metà e condito con ottimo olio, origano, formaggio primo sale, cipollina e peperoncino …. prima di servirlo in fette enormi. Era qualcosa che non poteva mai mancare nelle colazioni al sacco di una volta. Ricordo che tempo fa, alla fiera dei Morti a Catania un gruppo di ragazzi stava portando alla cassa le vettovaglie per la gita dell’indomani (immancabilmente ‘o Milu!). Chiedono anche otto ciambelle da più di un chilo ciascuna. Scherzando, dico a uno di loro: "Ma tutte queste? Quanti siete, una trentina?" Un ragazzo mi risponde “semu ottu” e inizia a contarle, nominandole con l’indice della mano: "Iu, Ninu, Arazzio, Melo, Turi, Pippo, Giuvanni e Cicciu!" Fantastici!

Ma è quando si trova al panificio che il catanese dà il meglio di sé. Aspetta pazientemente il suo turno e quando arriva guarda il bancone pieno di roba tutta per lui, si avvicina alla vetrata appannata dal calore e procede alla sua performance come se stesse per recitare una commedia di Pirandello. E' già sul palco, quindi Primo atto.

Chi ha fretta può anche andar via perché se il cliente è quello giusto, il tempo che impiega per decidere cosa prendere è interminabile. Come un navigato perito, comincia ad indicare: “signorina, ci metta una schiacciatina … no, no quella, quella più vicina; appoi na mafadda, ca c’iaiu cori.. però con la ‘ciciulena’; poi ci mittissi n’panuzzu ca sugnu senza renti; un ferro di cavallo ben cotto…  anzi no, tolga il ferro di cavallo e ci mettissi u binocolo. Chi è u binoculo? i gemellini…. na coppia, va!”

Come scegliere dei pasticcini! Osservando, aspettiamo pazientemente la fine del primo atto.

Secondo atto. Arrivano quattro ragazzotti che ordinano dodici morbidoni per il loro spuntino al mare.

- “Mbare, abbastunu?”

- Cettu mbare, semu quattru: tri, sei, novi, ddurici! Giustu, no?

Mentre pagano arriva un ripensamento: “signorina, tridici! avemu a unu che è ‘ncintu!”

Mentre la clientela aspetta il suo turno mormorando “su carusi!”, la bella commessa al banco li serve ma, concentrata com’è sul servizio, non sente il ragazzo che sta per uscire e che intralcia l’accesso all’esercizio:

- “Ciao bella”. Da lei nessun segnale.

- “Ciao amore”. Da lei ancora niente

Lei solleva la testa solo quando un cliente le dice “signorinella bedda, avemu cchi fari, u salutassi picchi chistu non si nni va chiu! Pessi a testa ppi lei, no pa mafaldina!”

Terzo atto.

La stessa commessa perde tempo spiegando a una cliente alla cassa tutto il programma della prossima crociera: tariffe, cene col comandante, tappe ed itinerari. La signora che ha davanti le risponde con un album di personali ricordi, interminabili, che salpano da Genova, attraversano tutto il Mar Mediterraneo e attraccano a Palma de Majorca, perché uno dei grandi piaceri della vita è sempre quello di far capire a tutti che “ci sono stata anch’io!”, magari inventandosi situazioni che non esistono.

Il discorso si allunga fino a quando la nostra giovane crocierista dichiara ad alta voce quante cambiali Findomestic l’aspetteranno appena fuori dall’imbarcadèro della nave, a sbarco avvenuto. Nel frattempo gli astanti fanno finta di niente, indifferenti, ma in realtà nascondono una bramosa curiosità di sapere i fatti degli altri.

Però il tempo passa, qualcuno si spazientisce e arriva inesorabile, bruciante, geniale, qualcosa per cui noi catanesi siamo famosi e che ci appartiene. Da dietro la fila un uomo grida “Signorina, quannu sbarca a Santorini mu favurisci n’cucciddatu bellu abbruscatu?”.

In passato ho cercato di spiegarla ma non riuscivo a farla capire. Ecco, è questa la liscìa! Forse fra il frumento che ci razziavano i Romani (vedasi Sordi), i Borboni (vedasi Totò) o gli Angioini (vedasi Fernandel) è scivolato sulla terra catanese anche un pizzico di spirito di patata presente nel loro DNA.

Fine della commedia. Quando arriva il mio turno e sto per pagare arriva da fuori una giovane voce. Fra la risata generale dei presenti, con un sorriso smagliante che veniva di abbracciarlo, ritorna indietro il capo-gita con un ripensamento: “quindici! avemu fami!”

Mimmo Rapisarda

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A proposito, “abbruscatu” vuol dire “well-done!”

Preciso che non mi sono inventato niente. Sono tutte situazioni in cui ero presente, tutte perle che immediatamente mi appunto sul cellulare.

 

 

SCIATALGIA A SAN CRISTOFORO

Oggi pomeriggio quattro passi a prendere aria salubre: via Gramignani, via Villa Scabrosa, via del Principe e dintorni. Mi ci voleva, ogni tanto ne sento il bisogno.

E’ lì che faccio la spesa per la mia speciale wikipedia Marca Liotru, è lì che li sento davvero, dove drizzo le orecchie. Lì è dove nasce il vero catanese, in quelle strade in cui padroneggiano la creatinina, il colesterolo e la glicemia (vedasi l’obesità fra i giovani della zona che si abbuffano a carne di cavallo, cipolline e panzerotti);  lì dove non potresti sentirti mai solo perché la densità di popolazione è tale da incrociare un essere umano ogni due metri, ma con l’optional del sonoro che è già una bella cosa perché qui è inserito di serie. Non devi pagare alcun extra, è gratis. Basta saper apprezzare gli accessori.

Peccato che un improvviso mal di schiena mi abbia costretto a fermarmi in via Cordai. Così da via Plebiscito giro su Via Belfiore, sublime crocevia di catanesità, e mi accomodo su una di quelle sedie con tavolino poste sul marciapiedi all’ingresso di un bar molto “raffinato” e frequentato da nullafacenti professionisti. Cosa consumano? Centinaia di Moretti! Della Ceres non gliene frega nulla.

Mi siedo. Ho bisogno almeno di una ventina di minuti per riprendere il cammino e tornare in auto senza problemi. Vedo la gente passarmi davanti e ne rimango affascinato per quel che fanno e che dicono. Quando la tensione al gluteo sinistro comincia ad allentarsi, un uomo con una birra in mano si siede accanto a me. Sono nuovo nel luogo, potrei essere chiunque e quindi genero diffidenza. Lui, da un aspetto così indefinibile da non farmi capire se più giovane o più anziano di me e in possesso di una lucidità poco credibile, mi guarda dritto negli occhi e dice:

- Cecca a quaccunu?

- Sciatica.

- No, “Saru Sciatica” non c’è.

- No, mi scusi. In questo momento ho la sciatica, la sciatalgia, e ho bisogno di sedermi perché soffro se sto in piedi.

- Ah! (*), picchì non ci metti a pumata ca s'incamina (Sifcamina)? Chissa bona fu, quannu mi ruppi i vettibri palombari (lombari).

Senza nemmeno salutarmi si alza, torna all'interno del bar e ordina un’altra Moretti rivolgendosi ai suoi colleghi: “mbare, assira ti visti ni ticchi tocchi! bonu vinisti!”

 

E voi vi abbonate ancora a Netflix? Venite qui e fatevi una passeggiata!

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(*) prefisso universale che usiamo a Catania e che ci toglie dall’imbarazzo in qualsiasi occasione.

 

 

 

LA HALLOWEEN DI CASA NOSTRA

Mimmo Rapisarda - novembre 2004

 La tradizione vuole che nella notte fra l’1 e il 2 novembre le anime dei defunti lascino le loro nicchie e scendano in città a rubare ai più ricchi pasticcieri, mercanti, sarti, per far regali ai bambini dei loro parenti che siano stati buoni nell'anno e che li abbiano pregati. E la preghiera fanciullesca è questa:

"Armi santi, armi santi, sugnu unu e vuatri síti tanti: Mentri sugnu 'ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitimìnni assai.".

In realtà i derubati sono papà e mamma, e i nonni. Ricordo ancora l’operetta che mettevano in scena i miei genitori la notte prima.

Dopo aver acquistato i giocattoli per me e mio fratello già sotto le coperte, i nostri genitori  ci facevano capire che all’ingresso di casa arrivavano i parenti defunti con i doni da mettere ai piedi del letto. Mentre loro attuavano questa recita, noi battevamo i denti dal terrore facendo attenzione a non gridare perché era una mancanza di rispetto verso i morti che, offesi, avrebbero potuto non regalarci proprio niente. Il mio sonno arrivava tardi, memore di quello che dicevano i miei compagni di scuola "Stanotti venunu i parenti motti e ti rattuni i peri!" (stanotte vengono i parenti morti e ti grattano i piedi).

La mattina dopo, al risveglio, con timore mi affacciavo sotto il letto per vedere cosa mi avevano lasciato questi morti. Io ci avrei rinunciato tranquillamente ai giocattoli, sapendo che arrivavano dall’aldilà, ma dovevo farlo.

Impiegavo almeno dieci minuti prima di vedere che c’era sotto il letto. Mi immaginavo di vedere all’improvviso lo scheletro di mia nonna che mi porgeva, sorridente, la pista Politoys dicendomi "ioca, beddu da nanna" (gioca, nipotino bello di nonna tua).

Comunque, anche se ricca di tradizioni, era un’usanza macabra che oggi farebbe imbestialire qualsiasi pediatra o psichiatra infantile. Purtroppo, per ottenere i giocattoli dovevamo superare questa difficilissima prova alla “Dario Argento”. Ma il sadismo dei genitori nel terrorizzarci non si limitava ai giocattoli. Infatti l’indomani, mentre giocavamo, ci facevano mangiare i dolci tipici di questa ricorrenza: le rame di Napoli al cioccolato, i Totò, le n’Zulle e le immancabili "ossa 'i mortu": macabri dolcetti a forma di teschio, tibia, femore di pasta bianca che subito si sfarinava sotto i denti, proprio come ossa calcinate; il tutto deposto su uno strato di pasta croccante e marroncina: la bara!

Dai ricordi dei miei zii e dei miei nonni, quando ai tempi della guerra e del dopoguerra un giocattolo era considerato un capriccio ed era già un’impresa portare il pane a casa, i doni dei morti ai bimbi erano costituiti soltanto da pere e mele cotte, scarpe, abiti e fucili fatti col cartone. Ed era un sacrificio per i genitori, ma forse era meglio così.

Ma ai miei tempi, l’indomani era già festa! Gli spettri della notte li avevamo già dimenticati e le strade sembravano quelle di Kansas City: spari ovunque, con lo sceriffo (u cchiu spettu) che spadroneggiava sui cowboy “babbi” e le bambine che davano terra da mangiare, a mo’ di pappa, alle loro nuove figlie-bamboline.

Gli odierni sessantenni, ex bambini degli anni Settanta, si ricorderanno certamente della fiera con le ambite  meraviglie che vendevano a Piazza Vittorio Emanuele a Catania, mai chiamata così perché per tutti era “a chiazza de motti” proprio perché lì, nella notte dell’1 novembre, si vendevano i giocattoli per i propri figlioletti.

Allora non esisteva internet, whatshapp, Sky e tutti i marchingegni di adesso. C’era solo la Rai con il primo e il secondo canale; nessun'altra alternativa a parte Carosello, il maestro Manzi, Bice Valori e Bruno Canfora.

Ma c’erano anche i Fort Alamo in miniatura, marines e indiani di plastica, strumenti musicali che non funzionavano affatto e cineprese dal complicato funzionamento che oggi getteremmo nel cestino dopo quattro nanosecondi!

Ah, no, c’era anche il cinema: Dove osano le aquile, James bond, Soldati a cavallo, la battaglia di Inghilterra, Dio perdona io no, Ammazzalo per me, Il massacro di Fort Apache e i capolavori di Sergio Leone. Questo fenomeno  influenzava la società di quei tempi; pertanto, generazioni di bambini, genitori compresi, cercavano di emulare le gesta di Gringo, Rin Tin Tin, James Bond e Patton andando a cercare nelle bancarelle le stesse armi appartenute a commissari sfreccianti su bellissime Alfa Romeo o a pistoleri dal nome strano ma che vivevano a Trastevere. Per questo motivo, la maggior parte dei giocattoli era costituita da una fabbrica di guerra che sparava solo coi mitici .... caps, come li chiamavano a Catania! Erano capsule di plastica contenenti non so quale polvere per far sparare a salve. Caps, gommini o fulminanti!

Quindi, alla festa dei Morti, ai maschietti veniva regalato tutto un corredo da bandito del West con cappelli texani fatti di cartone e poi foderi, cinture finte e pistole, fucili, mitra, soldatini a forma di Tex Willer e fortini che ricordavano il Gen. Custer e Geronimo.

Il 3 si sparava ancora, eccome. Il 4 novembre, invece, era il giorno in cui si visitavano le caserme aperte al pubblico e si faceva addirittura la fila per visitarle guardando in diretta il cambio della guardia. Poi si saliva a bordo delle navi militari che arrivavano al porto per sedersi al sedile del cannoniere o del nostromo. Oggi questa cosa farebbe quasi ridere, ma allora la giornata della Forze armate significava qualcosa. Ma il 4 era anche la giornata particolare che con mio fratello attendevamo con ansia, perché potevamo finalmente prendere possesso dei “doni della nonna”.

Perché solo al 4 novembre? Perché finalmente mio padre sazio delle sue sparatorie. Nei giorni precedenti dovevamo giocare con altro perchè le armi le maneggiava solo lui, consumando strisce e strisce di “caps” e immaginandosi Gringo, James Bond o un agente sovietico (personaggio da lui molto ambito) in film di controspionaggio molto in voga negli anni Sessanta.

Affascinato anche lui dal cinema, si riprendeva i regali che ci aveva fatto - ho il vago sospetto che i giocattoli, alla Fiera dei Morti, se li scegliesse personalmente - e cominciava a sparare, sparare, sparare. Sbucava all’improvviso, inginocchiato, da dietro il letto e ci fulminava alle spalle dicendoci "morite, canaglie!"! Poi ci faceva gli agguati dietro alle porte, come un po’ faceva Sordi quando imitava Jean Gabin in Costa Azzurra. Noi lo guardavamo rassegnati e con gli occhi al cielo, aspettando la consegna delle armi. Niente!

Dopo aver scaricato tutta l'artiglieria, come un bambino vergognato ci riconsegnava l’arsenale, ancora fumante, per farci finalmente giocare. Cazziato da mia madre e appagato dalle stragi consumate nei corridoi di casa, sollevava la bandiera bianca lasciandoci le munizioni rimaste. E lì era un bel guaio, perché i Caps, nei giorni a seguire, diventavano praticamente introvabili! Spariti! Ma chi li costruiva, chi li produceva? Quindi dovevamo far sparare quelle pistole, che poi duravano solo due mesi, cercando di imitare il rumore dello sparo con le nostre bocche.

E’ un rapporto strettissimo quello che lega i catanesi ai propri cari estinti tant'è che per l'occasione in Sicilia viene allestita un fiera ad hoc (fiera dei morti, appunto) dove ci si muove tra bancarelle che offrono merce di scadente natura, ma soprattutto giocattoli per "i picciriddi".

A Catania la chiamano Fiera dei Morti. Un luogo storico che, a dire il vero, è sempre stata a Piazza Carlo Alberto, dove si svolge anche "a fera 'o luni" (fiera del lunedì), quotidiano mercato ortofrutticolo e pescheria all'aperto che tuttora conserva l'antico nome poiché si svolgeva solo di lunedì. Ma non è più la stessa cosa. L’altro ieri ci sono andato e come ogni anno, dopo averla visitata, con delusione mi riprometto di non ritornarci più e invece, come tutti i miei concittadini, ci ricasco.

Ogni 31 di ottobre, frotte di catanesi di qualsiasi ceto sociale si scaraventano in massa alla Fiera dei Morti, una volta ubicata alla Plaja, un’altra volta al porto, un’altra alla Villa Bellini, un’altra all’aeroporto.

Tutti ci vanno con la baldanza di chi sta per fare l’affare della vita ma, puntualmente, trovano le stesse cose presenti in ogni mercatino rionale italiano: romagnoli che cucinano Fiorentine; frittate con l’ultima bistecchiera;  brasiliani che vendono i prodotti dei pellerossa; argentini che vendono dubbi tappeti persiani;  napoletani che vendono DVD e CD contraffatti sparando ad alto volume l’ultimo successo di Nino D’Angelo o di Gigi Finizio.

I catanesi ci stanno bene in quella bolgia e, "calando" dai loro quartieri, sono capaci di girare per più di un’ora per cercare un posto per l’auto, arrendendosi alla fine agli spietati ricatti dei parcheggiatori abusivi. Già stanchi dopo pochi minuti, si infileranno  in quel girone dantesco e puzzolente di patate fritte, olio, pizze a taglio andate a male, ma pieno di croccante "catanesità" all’inverosimile, tanto liotrica che farebbe risvegliare dalla tomba Nino Martoglio per scriverci una delle sue commedie.

Mi avvicino ad una di quelle bancarelle che offrono di tutto, dal Bacardi al panino con mille specialità da farsi venire l’intossicazione. Attendo la mia bevanda e all’improvviso sento in perfetto accento catanese "Ciao m’bare… n’cafè". Mi volto e vedo alle mie spalle due "vu cumprà" senegalesi alti due metri, neri neri, che rivolgono quel "ciao compare: un caffè" al barman. Sentirli parlare in dialetto è davvero uno spasso! Loro lo sanno e lo fanno apposta! Mentre mi appresto a pagare, un gruppo di ragazzi stanno portando alla cassa le vettovaglie per la gita dell’indomani (immancabilmente …. ‘o Milu!). Hanno anche otto ciambelle di pane da più di un chilo ciascuna, i cosiddetti "cucciddati". Scherzando, dico a uno di loro: "Ma a che vi serviranno mai domani tutte queste ciambelle? Quanti siete, una trentina?" E il ragazzo catanese, con una risposta bruciante mi indica le ciambelle e iniziando a contarle dice: "Semu ottu: Iu, Ninu, Arazzio, Melo, Turi, Pippo, Giuvanni e Cicciu."

Nella zona mobili c’è l’antiquario napoletano che cerca di vendere qualcosa di antico, ma non sa chi ha di fronte: "Anticu? Tu si anticu! Chissu vecchiu è!". E ancora: "a n'euru, a n'euru!", che non si capisce se vende a un euro o invoca un'ambulanza per farsi ricoverare alla Neuro.

Un altro mobiliere, forte di aver letto da qualche parte le gesta di un certo Napoleone Bonaparte e sapendo di un altro Napoleone III, cerca di spacciare un mobile in stile Napoleone Terzaparte! Gli chiedo la logica risposta alla sua dichiarazione. Mi dice:  “Bonaparte è stato il primo Napoleone, no? Ha fatto bene il suo dovere (da lì "bona") e la sua dinastia non poteva che arrivare alla terza parte, compresa la mobilia del periodo!”. Non fa una grinza!

Più in là scorgo enormi e "distinte" madri di famiglia che vendono giocattoli luminosi fatti in Cina; altre donne bellissime, straniere o autoctone, vendono altra mercanzia dai Camper-Biochetasi-da Zio Mario-da Zio Nino-da Zia Lucia: "Ma u paninu u voli ca rucula o ca maionesi? Ci mettu n’pocu di pocchetta?: - "Ahu, pani di Lintini originali, ah…"s’accomota…" peco, peco!

In un angolino mi accorgo della presenza di una piccola folla. Al centro dell’anello umano tre pellerossa stanno suonando con chitarre e flauti "Let it be" dei Beatles cercando di ottenere, a fine esibizione, delle offerte. Vedendo cosa sono costretti a fare per vivere i veri padroni d’America, mi viene da dire "Guarda come si è ridotto un grande popolo!". Un catanese, a me vicino, continua: "……..e sunavanu macari bella musica!".

Sempre più divertito, mi allontano fra le bancarelle di giocattoli. I bambini davanti a quei balocchi cominciano ad essere sempre più esigenti e si ricordano del prodotto che hanno visto in tv; vogliono questo, vogliono quello (per la verità, già da piccoli hanno le cosiddette "corna") e invece ricevono ceffoni, ne prendono di santa ragione da genitori nervosi.

Fra la frutta e verdura con cartelli che fanno sganasciare dalle risate, tipo "fiche nostrane" su una cassetta di fichi secchi, passa un milanese che chiede a un venditore di lumache "quanto vanno all'etto?" e il venditore "quannu vannu a lettu no' sacciu, ma ogni matina e' cincu i trovu tutti ccaà!" (quando vanno a letto non lo so, ma ogni mattina alle cinque le trovo tutte qua).

Non lo fa capire, ma è stanco e nervoso anche il commerciante che cerca di rifilare a una giovane madre la tutina troppo stretta per il bambino. E quando devono "rifilare" qui si raffinano con una sorta di lingua italiana che, a modo loro, li fa apparire più "professionali"……: “signora, guardi che questa tutina la mette pure mio figlio che ha due anni come quello suo…..suo figlio ha fatto due anni l’1giugno? Mio figlio il 3 giugno…. che coincidenza, "se la spaciano" di due giorni!!!!” Si fanno fregare anche con le scarpe "mi stanno un po' strette" e il venditore "signora, poi cedono...", oppure "mi stanno un po' larghe" e il venditore "signora mia, queste si adattano al piede e poi si restringono".

All’incrocio fra il vialetto delle porchette e quello delle sedie in vimini, intere famiglie si ritrovano e si salutano parlando di cassa integrazione, di assegni di assistenza, di TFR, di arrampicate sul campanile della Cattedrale per manifestare contro le autorità, di bivacchi davanti al Municipio perché la fabbrica sta chiudendo. Fra l'ennesima fregatura parleranno del lavoro "in continenti” che ancora consente di sopravvivere. Però, stavolta, loro non vogliono commettere l’errore dei nonni, non vogliono tornare qui in età pensionabile portandosi dietro un cancro ai polmoni beccato nelle fabbriche polentone; se proprio se lo devono beccare, che sia alla pelle per il troppo sole che hanno preso alla Playa...  perchè stavolta vogliono morire qui a tutti i costi, anche mangiando solo pane e cipolla.

Li lascio alle loro speranze:- Ma tu ppi cu voti? - Belluscono….- Ma cchi dici? Non è candidatu o Cumuni….- Turi…. comu si chiama chiddu…..ah… Sciampagnini! Poi si rimettono in cammino alla ricerca delle scarpe giuste che, in ogni caso, dopo due giorni li costringeranno ad una visita podologica.

Abbagliati da tutto quel ben di Dio luccicante, acquisteranno anche altri oggetti inutili che non useranno mai, che non serviranno a nulla e che arrivati a casa si guasteranno. L’affare della loro vita, come ogni anno, non l’hanno fatto. Non fa niente, domattina per le strade non ci saranno più gli spari di una volta ma finestre chiuse dalle quali si intravedono televisori accessi che proiettano silenziosi videogiochi acquistati dai marocchini, che non funzioneranno e che bisognerà riportare per il ricambio. E, inevitabilmente, di nuovo la ricerca del parcheggio, il marocchino che non si trova “picchì su tutti i stissi”, ecc. ecc.

Noi catanesi siamo indistruttibili, inossidabili, ma alla Fiera dobbiamo andarci costi quel che costi, perché ci divertiamo da matti in quella Halloween ambulante in cui tutti, ma proprio tutti, ritorniamo "picciriddi".

Tanto, domani è festa e non si lavora… e dopodomani nemmeno.

(Mimmo Rapisarda)

 

 

 

AL BAR

al banco accanto a me, lui accarezza i capelli della sua ragazza durante l'aperitivo.

- Màico (Michael) che bellu, mi sta fannu addummìsciri !

- Tresi (Tracy) gioia, si addummisciùta di natura. E’ divessu !

 

 

 

AH? (*)

(*) Usata anche nei numerosi film ambientati in zona, trattasi di autoctona espressione di colui che chiede approvazione, a conclusione della sua battuta. Espressione che viene rafforzata se l’autore della battuta non è proprio convinto della valenza di quel che ha appena detto, chiedendone in questo modo l’approvazione. Ma potrebbe anche essere ironia, sottintesi, presa per il culo nei confronti dell’interlocutore. Su “ah?” si potrebbe fare anche ricerca scientifica e scoprire altri concetti in merito a quelle due semplici lettere che, pronunciate con un tipico accento e messe accanto a un punto interrogativo dal “significato universale”😁, non costituiscono né un avverbio, né una preposizione ma un prefisso di appartenenza territoriale come il "ne'?" torinese.. anche se qui è decisamente diverso.

Non è vero? ... ah?

 M.R.

 

 

I CLIMATIZZATORI NATURALI

Qualche consiglio su dove ripararsi dall'alta temperatura, onde evitare svenimenti per strada e concludere la serata la pronto soccorso.

Un piccolo segreto di Via Etnea. Non so se vi siete mai chiesti perché, nel tratto che va dal fotografo Marino fino a Palazzo Cantarella, un gruppetto di uomini sosta sempre proprio sul marciapiedi antistante l’ingresso del Palazzo delle Poste.

Nei caldi pomeriggi estivi sono sempre lì, ogni giorno, a sollevare al cielo i loro antichi racconti pregni di avventure a Taormina, delle serate al Lido dei Ciclopi negli anni Sessanta, delle loro carriere, di conquiste mai avvenute ma raccontate nei minimi dettagli, ma soprattutto di minchiate, tante minchiate che si sollevano al cielo come palloncini alla festa di Sant’Agata e che li fanno sentire ancora giovani quando arriva il momento di prendere il bus (se arriva) per tornare a casa.

Perché le sollevano proprio lì? Perché mi hanno raccontato che proprio in quei dieci metri di Via Etnea circola una corrente d’aria proveniente da Via Litrico, complice l’androne del Palazzo delle Poste, che genera un gradevole venticello che si incanala in quel tratto di strada come se fosse aria condizionata, capace di asciugare in un attimo qualsiasi indumento offeso dall’afa catanese.

Ecco (come da foto) perché stanno sempre lì, quasi a darsi spallate per ricevere ogni alito di brezza proveniente dalla Villa Bellini.

 M.R.

 

 

BENTORNATI!

Quest'altra calda estate finisce e lascia all'ultimo scaffale in fondo al ripostiglio colonne di CD contenenti le foto dell'ultimo viaggio che nessuno vedrà mai, ma chi è rimasto in città nelle "due fatidiche settimane" ha dovuto fare i conti con noti problemi di sopravvivenza. C'è chi ne ha approfittato godendosi il silenzio e la tranquillità, chi scattando stupende fotografie, chi leggendo o dipingendo, chi scoprendo le insolite immagini dei semafori che lampeggiano senza automobili.

Meno male che in quei momenti ci accorgiamo anche di altre cose più belle alle quali, seduti in auto e in fila, non facciamo caso. Infatti solo in quel giorno solleviamo il naso per scoprire quanto siano belli i cornicioni e i tetti della nostra città, scoprirne gli antichi cortili, o certe trattorie che solo per te preparano le "Sarde a Beccafico" come le sanno fare qui; oppure i negozietti nascosti che vendono quell'oggetto che cercavamo disperatamente da tempo, che non abbiamo trovato nemmeno su e-Bay ma che, invece, era proprio sotto i nostri occhi. A chi è rimasto gli si è offerta anche la soddisfazione di andare a pagare le bollette all'Ufficio Postale senza fare alcuna fila, praticamente uno spasso da giostra: si entra, si prende il biglietto A272 che si illumina immediatamente; ti presenti trionfante davanti all'impiegata e, visto il tempo ancora a disposizione, dopo avere pagato la multa ti viene anche voglia di portarle una granita al caffè per farle passare quello sconforto dovuto a solitudine da pubblico impiego. Una patologia, visto il cronico blocco del turn-over, che si diffonde sempre di più.

Però bisogna anche vivere, no?  E quindi c'è stato pure chi ha cercato di farlo, girovagando fra queste saracinesche selvagge ancora imbrattate di scritte contro la tessera del tifoso (con tutti i problemi che ci sono in Italia, sembra che sia questa la prima necessità della nostra società) o di messaggi d'amore con decine di X, 6, K, che all'inizio partono bene ma poi cambiano strada, crollano e si frantumano più in basso sotto i colpi di azzardati congiuntivi aggiunti dall'avventuroso autore. In alcuni esercizi ancora aperti mancava addirittura la merce, sembrava di stare nei supermercati bulgari, altri hanno fatto a gara a chi chiudeva prima. Nonostante si facciano ripetuti appelli da parte di Prefetture, Camere di commercio, ecc.. mai come quest'anno le serrande si sono chiuse così, senza criterio: tre settimane, tutti assieme e nella stessa strada!

Per fortuna, abitare in una città come quella mia significa villeggiare  tutto l'anno in un hotel a cinque stelle. Qui vengono apposta in vacanza e non ce ne rendiamo conto, disprezzando e paragonando a iosa.

Il giornale, tranne a Ferragosto, non ci lascia mai. Ogni santo giorno di agosto fa bella mostra di centinaia di reginette, stellette, Veneri, donne-in e donne-up premiate nei comuni etnei che festeggiano l'estate. Tutte quelle belle ragazze sfilano su palchi in legno traballanti, emozionate con la fascia e la corona, a tentar di coronare il sogno della loro vita: diventare Miss Italia o, al limite, fotomodella. In povera alternativa (che poi sarebbe ancora meglio) velina in Tv, che se viene impalmata da un calciatore di seria A significa il non plus ultra!

Sui social leggiamo l'ultima, patetica, photo-gallery dedicata al compleanno della Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare di turno (ma che ce ne frega?), circondata da amici abbronzatissimi che sfoggiano abbaglianti sorrisi su abiti bianchissimi. Oppure le onnipresenti sedie azzurre di un ristorante a Marzamemi, fotografate da migliaia di persone che hanno consumato dopo aver aspettato due ore in piedi in mezzo a una folla sovrumana che non ha niente a che vedere con la bellezza del luogo. E’ lì perché “deve” stare lì, altrimenti su facebook chi ci crederebbe?

Suggerirei la direzione quella genuina, creativa e spassosa, altra frangia che col caldo estivo si riappropria del "passeggio" estivo etneo. Lì sì che c'è davvero da divertirsi, perchè niente è ipocrita, nessun movimento viene fatto per parata.

Sarò crudele nei loro confronti? Nooo.. ma è mia abitudine, d'estate, andare ad osservarli quando... origliando origliando....

Sono tutti ritornati dalla terribili vacanze, paonazzi in faccia per aver preso troppo sole sotto la tenda o l’ombrellone. Ripopolano immediatamente la strada perchè già troppo occupati ad acquistare cosmetici fasulli da far rabbrividire la pelle (nel vero senso della parola) e scarpe da tennis che produrranno loro dannosissime verruche. In quelle bancarelle, a guardare il loro cantante preferito durante il video-promo del suo ultimo CD: seduto in camera da letto che piange e canta, davanti ai carabinieri che lo vengono a prendere all'alba, "Suonn carcerato, mammà!"

C'è una cosa da dire a loro discolpa: .... zoticoni (zaurdi dalle mie parti) sì, ma veri! Tutto è autentico così come lo si sente, prendere o lasciare:

- Le mamme che cercano i figli "Noemi, unni si 'a mamma, Cristian, Jessica, Kevin ... appena v'acchiappu v'assuntumu!!. 

- L'innamorato in lite con la zita: "Su tri uri ca mi teni a fungia. Gioia, ma cchi ti fici?!"

- Gli amici che si raccontano: "m'bare, a machina nova a pigghiai vintimila euri. Ma non era n'autoritaria? m'bare, ma quali, spatti senza oppss!. Appoi a sbagnai c'un bellu piattu di pasta cche mongoli!'  M'bare biatu a ttia, io ho l'intolleranza ai glutei e problemi di abete.

- Altri si lamentano per il clima: .... ufff.. c'è caldo, sto fando una fauna perchè in città non si respira, la colpa è di  questo smoking tremendo! E l'altro: No guarda, lo escludo a Priolo, la colpa è tutta del buco nell'azolo!

Quando tornano a casa son tutti uguali, zaurdi e non. Me li immagino già lì davanti agli amici, sprofondati a sei e otto sui divani Poltronesofà artigiani della qualità, mentre con sfacciata  fantasia racconteranno delle loro imprese turistiche alla Indiana Jones nei fiordi norvegesi, nella striscia di Gaza, nello Yemen, nella cordigliera delle Ande, nella Terra del Fuoco. Ci diranno che han fatto tutto da soli,

- che hanno noleggiato auto e scooter d'acqua scorrazzando sulle isolette che se non te ne fai almeno una nell'estate sei cancellato a vita;

- che hanno fregato un tunisino sul prezzo del tappeto acquistato alla Medina;

- che hanno affittato una vecchia casa di pescatori a niente;

- che hanno prenotato esclusivamente low cost perche fa fico;

- che hanno volato con compagnie da quattro soldi passando con estrema disinvoltura attraverso quaranta coincidenze che nemmeno uno steward della Lufthansa ci sarebbe riuscito;

- che hanno scattato migliaia di foto per reports spettacolari da ingolfare i loro profili Facebook. Perché, sappiatelo: “in qualsiasi posto vai, che siano villani o baroni che incontrerai, a tutti i costi fai sapere sui social da dove ritornerai”.

Purtroppo i bugiardoni non vi diranno mai di come sono andate davvero le cose. Perchè quelli indimenticabili, in positivo, di viaggi ne rimangono ben pochi.

La verità è che indimenticabili, invece, saranno stati lo stress causato dalle prenotazioni della vigilia, le file ai traghetti, dagli imprevisti dell'ultimo momento, dagli aerei perduti perchè non hanno aspettato la coincidenza, dall'impiegata innervosita al check-in che vi nega la prenotazione fatta sul web, dalla tassa doganale pagata all'aeroporto per quel tappeto creduto un affare presso il tunisino di cui sopra.

E poi, gli imprevisti in loco:

- le topaie all'arrivo che non corrispondono per niente a quelle viste su internet

- la scarlattina dei bambini,

- il marito sul pedalò (con la bagnina) che non è più tornato;

- la moglie al parco commerciale che ha fatto festa al conto corrente;

- i suoceri che stanno male all'altro capo del mondo;

- il nonno che bussa con veemenza ma senza successo alla porta della badante polacca;

- i vicini di stanza che le gridano "dagliela, per favore, che vogliamo dormire!";

- la figlia quindicenne che si massacra la notte col suo cellulare, sprigionando tanti sms in cielo da far concorrenza alla volta celeste nel mese di agosto.

Tutto ciò non ve lo diranno mai!

Diciamoci la verità. Ogni anno i villeggianti tornano dalle ferie abbastanza stressati, e sotto sotto hanno una gran voglia di riposare sul proprio letto e riprendere le vecchie abitudini. Il rientro a casa è il momento magico che durante la vacanza hanno sempre sognato; quindi, strafogare tutto il cibo che è rimasto in frigo anche se scaduto e già sottoforma di stalattiti ma sempre meglio di quello preso al Grill Pavesi, accendere il climatizzatore e il 55 pollici Full-HD, sintonizzarsi su Sky sport e farsi una maratona di calcio estivo che l'hanno avuta sul groppone per dieci giorni fino a commuoversi come in un film strappalacrime, tanto da desiderare anche Albinoleffe-Portogruaro di Coppa Italia dilettanti.

Ma si sarebbero accontentati anche della Signora in Giallo, oppure delle numerose caserme di Carabinieri e commissariati sparsi nel mondo televisivo (rigorosamente in replica) in cambio del maledetto 14 pollici, con l'antenna traballante a causa di sciami che volteggiavano intorno.

Tutto questo "stato di benessere" avrebbe avuto luogo in quella famosa casa di pescatori a due passi dal mare (così era scritto) ma che in effetti era lontana quindici chilometri dalla costa, in piena campagna e infestata dalla più grande migrazione entomologica mai avvenuta in natura!

I TG ci tortureranno con gli esodi biblici delle partenze e quelli apocalittici del rientro. Per far notizia e con estremo cinismo, ci racconteranno degli incidenti stilando le funebri classifiche causate dai coglioni che ancor oggi partono la mattina del 14 agosto. Ma dopo tutti gli incitamenti alle partenze intelligenti, francamente non sono proprio sicuro se questi siano davvero dei coglioni, perché quelli autentici te li ritrovi mentre viaggiano tutti assieme nelle notti "intelligenti" dal lunedì al venerdì, convinti di fregare tutti.

Finalmente, ogni anno si ridanno appuntamento dove finisce l'autostrada come se quel luogo fosse la sede di un club di disperati. Tutti lì assieme, ad asfissiarsi dentro le roventi lamiere pagate a cambiali per sette anni, sognando quel miraggio che hanno davanti che si estende e si accorcia come una fisarmonica lunga un paio di chilometri, ora vicino e poi lontano, prima cristallino e poi fioco e traballante, ora a portata di mano e all'improvviso irraggiungibile: il casello dell'ANAS.

E in quel deserto di asfalto nero, l'ombra dell'agognata tettoia con la scritta luminosa "contanti" è un'oasi in cui si brama la tanto desiderata visione celeste: non una mano divina, ma quella del casellante che ritira i soldi del pedaggio, quindi la.... libertà! Ah, casa dolce casa, arrivo!

Bentornati!

(Mimmo Rapisarda – sett 2011)

 

 

SUGLI AUTOBUS CITTADINI

A Catania c’è un modo molto divertente per passare il tempo libero. No, non parlo di noiosi Happy Hour (più noiosi dell’aggiornamento di Adobe), di cineforum degni del Prof. Caligaris o di giri in bicicletta in una città che, per sua conformazione “piroclastica”, non è per niente adatta al ciclismo. Si tratta dell’AMT: Azienda Municipale Trasporti, con sede in Catania. Con tutti gli sforzi che si fanno per eguagliare i colleghi europei, forse non dovrei scrivere questo. Ma qui siamo a Catania, siamo speciali. E il percorso, specie quello popolare, è uno sballo!

Quelli dell’AMT sono da anni in crisi cosmica, non sanno più che pesci pigliare e forse la penserebbero diversamente se sapessero che le loro vetture sono invece popolate da veraci attori che trasformano i loro sedili in tribune e i corridoi del mezzo in palcoscenico. Mancherebbe solo Musco a far da controllore ai clandestini e saremmo completi!

Pensandola in maniera più ingegnosa, il servizio potrebbe diventare fruttuoso. Che voglio dire? Che per passare un sano pomeriggio di autentica “cultura catanese” basta acquistare un biglietto di un’ora e mezza ad appena 1 euro (che vuoi di più, con un euro?), salire su certe, tipiche, linee che già al solo nome dei loro capolinea ti fanno intuire il favoloso tragitto – per niente bello, visto che attraversa triste, malfamata e abusiva periferia - e chi potrebbe salirci sopra per allietarlo e renderlo …. diciamo, più colorito!

Provateci, obliterate il ticket e mettetevi comodi su una sedia, se la trovate. Non fate caso ai loro ritardi mostruosi, da scriverci pure un romanzo durante le attese, o alle cose che non funzionano all’interno, oppure ai monitor che vedete davanti ai vostro occhi e che vi dicono “next stop: “…. puntini puntini. Volete il sollazzo a un euro? E allora allungate le antenne delle vostre orecchie e ascoltateli bene: sono i pensionati che tornano dalla Pescheria e che si lamentano dei prezzi alti e del Governo ladro; grandi saggi che si trasformano in grandi oratori sfoggiando arringhe interminabili contro Berlusconi, Monti, Bersani (dai, anche Lo Monaco!); e poi personaggi incredibili che raccontano a qualunque sconosciuto, senza nessuna vergogna, le loro disgrazie quotidiane; vecchie pazze (più di quelle di Trastevere) che non hanno più niente da chiedere alla dignità, niente da perdere negli ultimi chilometri della loro vita e quindi tanto da offrire in termini di lecite volgarità agli astanti; madri quindicenni già con due bimbi alle ginocchia, che sembrano suoi fratelli, intente a guardare l’ultimo messaggio FB o a rispondere all’ultima prenotazione del loro ambitissimo lavoro: ricostruttrice di unghie!

I più riservati sono sempre gli extracomunitari, sempre zitti in dignitoso contegno. Ma gli indigeni sono slavine di fatti personali, valanghe di storielle e fatti privati da regalare a chiunque ne sappia o voglia coglierne il valore!

Ma questo è niente. Basta allungare un po’ di più l’antenna per captare ancora di più: il menù dell’indomani, le scenate di gelosie, gli scontri con la suocera, le vendette col vicino sulle scale, le corna e i tradimenti, le cambiali andate in protesto, le promesse del candidato a Consigliere di quartiere (vedi che autorità!), i candidati a Sindaco di Catania ca su “unu cchiu latru di n’autru!”

Una ragazzina tredicenne in rigoroso abbigliamento alla Tatangelo racconta alla sorella del suo fidanzatino di un "pretendente" multimediale: “n’somma, mi visti accussi bedda e scrissi “mi piaci la voglio, la voglio conoscere”. Sempre rivolta alla ipotetica cognata: “U sai comu finiu? Ca sti rui s’ammazzanu e iu eru a bambula, ndo menzu!”. La cognata: C'è capaci ca ti voli?

Autentico teatro. L'autobus (specie quello catanese) è un palco. Osservando i suoi passeggeri riesci a immaginare le loro esistenze, dagli sguardi fantastichi le loro giornate allegre o dolorose che siano, addirittura riesci a captare il motivo per cui stanno rientrando a casa e .... cosa ci porteranno, o ci troveranno.

A volte guardo le loro buste della spesa e dal contenuto immagino già tanto, tantissimo.

Se poi cominciano a parlare (in questo caso) comincia il primo atto come in una commedia di Martoglio e alla fine occorrono pure gli applausi. E se li meritano!

Man mano che mi avvicino ai Capolinea, gli attori scendono dal bus, mentre vanno incontro alle loro vite disgraziate. Ma forse disgraziate le vediamo solo noi, fragili pessimisti del nuovo millennio, perché …. forse i nostri eroi sono felici lo stesso così, perché forse non capiamo come siano indistruttibili ed immuni alle più catastrofiche crisi economiche, insensibili alle più menegrame previsioni. Perché forse non immaginiamo che vivono alla giornata e il loro obiettivo pro-capite giornaliero è costituito da un etto. Di pasta, di qualsiasi taglio.

Forse (anzi, è certo) di tutto il resto non gliene frega nulla. Domani si vedrà, e dopodomani pure.

All’arrivo rimango solo io, col divertito autista, e rifaccio il percorso all’incontrario. Per arricchirmi ancora di più.

I requisiti del divertimento? Conoscere il dialetto e tanta, tanta, tanta curiosità di conoscere la vera Catania.

 M.R.

  

 

 

BOTTANA!

(da Facebook, ott 2019) Senza alcuna dedica sgrammaticata, senza Xerchè, 6comesei o altri vocaboli da parte di aspiranti Prèvert della strada, così ignoranti da far rizzare i capelli.

Invece così, amaramente e semplicemente “buttana”. Non sapremo mai se industriale, intellettuale, continentale, condominiale o totale, ma glielo doveva dire senza mezzi termini, incazzato, senza tamarri fronzoli attorno e soprattutto in “Marca Liotro style”, visto che da noi la P viene sostituita dalla B , alla Sig. Carunchio. Con quella B a Catania si addolcisce un po' il termine riferito al mestiere più antico del mondo, attribuendolo a tante altre cose che non hanno niente a che vedere con la P. L'elenco è infinito, secondo l'onta ricevuta sul momento.

Insomma, una parola (ma non si fa) spruzzata sul muro ….. cu tuttu u cori!

Solo qui in Sicilia e a Catania in particolare, siamo in grado di decifrare certi codici nascosti presenti in ogni commento, ogni parola, ogni espressione. Basta una virgola mancante o spostata più in là... che per noi cambia tutto il significato.

Per esempio, nella foto allegata è chiaro che il termine si avvicini molto a quello con la P. Lui si è grattato la fronte, ha scoperto la tresca e, incavolato, grida al mondo quel “Caty si (sei) buttana” spruzzato a caratteri cubitali. Vuole dire “sai, sei proprio una……

Al contrario, la singola parola “buttana”(o il cinematografico bottana) può essere usata sì per le corna, ma il più delle volte anche per tanti altri motivi, come per esempio esprimere il disprezzo nei confronti della vigilessa, la suocera, la nuora, addirittura una zanzara, la datrice di lavoro, la rivale, la padrona di casa, la compagna o una stronza che ti ha fatto proprio esasperare!

Per questo dico che la prima foto è un capolavoro, con quella piccola parola che contiene tutta la nostra ironia e il nostro modo di essere. La letteratura e il cinema insegnano.

A proposito della spiegazione del termine e senza scomodare il significato dedicato al mestiere più antico del mondo, ecco un altro esempio (ed occasione) per rivolgere quella parola anche ad oggetti.

Quando le mie auto hanno raggiunto 100.000 km, ho fatto puntualmente l’applauso e loro mi hanno sempre ricambiato con altri anni di vita e pochissimi pensieri. Al momento della rottamazione, nell’ultimo viaggio mi ci metto pure a parlare, ricordando assieme alla condannata di turno i tornanti, i sorpassi e tutte le soddisfazioni passate. All’ultimo chilometro, addirittura, le incoraggio quasi con le lacrime agli occhi “Dai, forza, non sentirai niente. Durerà pochissimo, non te ne accorgerai nemmeno” lasciandole in concessionaria con una carezza sul cofano.

L’ultima, invece, non è stata così generosa. A parte i numerosi problemi, mi ha voluto beffare lasciandomi a quel chilometraggio che si vede in foto. Come dire “caro mio, siccome devi soffrire fino alla fine, gli ultimi 11 metri te li fai a piedi”.

Ecco, in questo caso a Catania lo diciamo "cututtucori" : buttana!

 

 

A "CALATA" A MARE

A maggio arriva per i catanesi "l'ura 'ddo bbagnu", non possono farne a meno. Anzi, i più tradizionalisti iniziano la loro stagione balneare dopo la festa della Madonna del Carmine a luglio. Solo allora cominciano a fare i bagni perchè convinti che, per ragioni climatiche e religiose, la temperatura marina diventa accettabile solo a partire da quella data. Comunque, il catanese che va al mare è davvero particolare.

Per la mia età età, posso soltanto ricordare i flash che ho immortalato nella mia mente quando osservavo "il bagnante" degli anni Settanta-Ottanta, che era fatto così:

Esce da casa ben rasato (è domenica e la stagione venatoria è appena cominciata); è tutto "disinfettato e ustionato" con il dopobarba Denim sul viso, quello dell'uomo che non deve chiedere mai (ma che appena a mollo chiederebbe certamente una crema rinfrescante per le infiammazioni causate dal sale sulla pelle); ha le basette, i baffi e un'acconciatura alla Franco Gasparri con riga laterale vaporosa che qui chiamavano "menza scrima", oppure una capigliatura alla Cugini di Campagna che nel suo aspetto generale lo faceva sembrare come l'Orso Capo in vacanza.

Al primo bar che incontra consuma il primo caffè, perchè senza quello non connette;  poi dal tabaccaio compra le sue Marlboro e accende la prima della giornata. E si avvia.

Lasciamo stare l'abbigliamento settimanale - che era un tutto un programma - ma quello della domenica mattina era il seguente: polo La Coste (per i meno facoltosi Benetton ), pantaloncini bianchi sulla coscia Cerruti 1881; orologio Casio, che a quei tempi era già una sciccheria;  Ray Ban con vetri scuri che più scuri non si può, oppure Lozza sfumati sul celeste; borsello in pelle a tracolla (non c'erano ancora i marsupi).  E alla fine l'accessorio più importante, più in voga, più trend per quei tempi: gli zoccoli in legno del Dr. Scholls!

Erano due zatteroni incredibili in noce massiccio del peso di due chili ciascuno, col plantare sagomato da chissà quale operaio che per sbaglio li creò mentre stava lavorando al calco della pianta. Sono certo che il Sig. Pescura (ma esiste?), vedendoli, disse "Guarda, sembra proprio la pianta del piede, produciamole in massa facendo capire che sono anatomiche! Bravo!".

L'operaio fu promosso capo-reparto e quella fabbrichetta divenne quasi una piccola multinazionale producendo a milioni quegli strumenti di tortura, a danno dei nostri piedi. Tutti, ad ogni estate, come cretini compravamo quelle nuove, ma io aspettavo con ansia la fine dell'estate proprio per non calzarle più. Nate come sanitarie, provocavano delle vesciche pazzesche e crampi allucinanti ai polpacci perchè sollevarle da terra ad ogni passo,  prima una e poi l'altra, era come andare due ore in palestra. Se poi, per sbaglio, poggiavi il tallone sullo spigolo del contorno laterale erano cavoli! Ma la cosa più importante, che andava contro ogni raccomandazione sulla confezione, era sbatterle mentre si camminava. Specialmente in discesa su una strada di Catania che porta al mare e che si chiama Via Zoccolanti! (in verità, il nome della strada deriva dagli zoccoli che calzavano i monaci della vicina chiesa S. Maria della Guardia).

Sbatterle e consumarle significava: 1) renderle più leggere perchè non si dovevano sollevare coi piede e quindi camminare finalmente in modo comodo e sano; 2) far colpo sulle ragazze grazie a quel  tipico rumore, quasi da nacchere madrilene; 3) ottenere un punteruolo  di legno e quindi un'efficace arma da difesa; 4) un paio di Pescura consumate da dietro, con i pneumatici lisci, avevano molto più valore di un paio nuove perchè appartenevano a un veterano che si era fatto due gambe così per ridurle a quel modo. E poi dai, indossarle già vecchie, con la fibbia verdognola arrugginita dalla salsedine, la pelle screpolata, sporca e ammorbidita faceva molto, ma molto fico! Oggi fanno ridere, ma per un ventennio (per essere più precisi, dal 1960!) hanno fatto epoca. Quando finì la loro moda, in milioni hanno tirato un sospiro di sollievo!

Dunque, il nostro bagnante, con la sua capigliatura e il suo abbigliamento, col telo da mare Sergio Tacchini sotto l'ascella sinistra, con  il borsello sulla spalla, la sigaretta in bocca, scende finalmente al mare. Tutto è perfetto, ogni cosa è al suo posto, manca soltanto l'autoradio Voxon da mettere sotto il braccio, ma le cose si sarebbero complicate per i pochi appigli anatomici rimasti a disposizione. Facendo un rumore incredibile scende, scende a mare, anzi .... cala (a Catania non si scende e non si arriva:... si cala!). Cioè, così conciato e con quel ttac-ttac tutti capivano dove stava andando! Scusate, torna un attimo indietro perchè ha dimenticato di prendere il giornale: La Sicilia, legge solo quello! Quindi ritorna sui suoi passi (ahi!) ma dopo quella faticaccia è già sudato. Cosa c'è di meglio di una calda brioche all'uovo da inzuppare in una granita - rigorosamente di caffè con panna - seduto al tavolino?

E dopo averla consumata, sfogliare il quotidiano di città? Così si attarda e legge, esclusivamente: la pagina dello sport per informarsi sugli ultimi acquisti del Catania, la cronaca cittadina per informarsi sugli ultimi acquisti della Questura e, infine,  la pagina necrologica per  ripetere ogni venti secondi la parola "nuzzunteddu!" ! Saranno già le dodici!

Finalmente arriva allo stabilimento balneare, sulle rocce o sulla spiaggia non ha importanza. Si spoglia, rimane in costume che se non era Arena (o meglio ancora Speedo) non eri nessuno e ai piedi le infradito Samurai che facevano posto alle costosissime Pescura, perchè durante il bagno te le fregavano. In cabina, prima di fare la sfilata, si dà una controllata al suo aspetto: si guarda allo specchio, dà un assetto alla convergenza centrale per evitare che qualche pneumatico vada fuori strada, va un attimo in apnea per verificare il giro vita, accenna a piccoli movimenti di bicipiti e deltoiti. E poi dice "tanto non gli somiglierò mai!".  Ovviamente si riferiva al mito di quei tempi: Fabio Testi, irraggiungibile per tutti noi.

Esce fuori. E se non accompagnato, si guarda attorno con i suoi RayBan a goccia e col suo telo da bagno comincia  a cercare un posto dove sdraiare tutto il suo corredo e lui stesso. Si gira, si guarda attorno, ma con movimenti che la dicono tutta sul noto gallismo etneo, che lui si porta dentro il suo DNA. Infatti è lì anche per "attraccare", per "tirare il filo" alla preda che potrebbe passargli davanti. Le sue armi di cattura? Il mezzo litro di Denim che si è spruzzato addosso e che lo sta facendo bruciare peggio del Coppertone, la folta pelliccia sul petto,  la catenina sul collo, la sua abbronzatura naturale, un sorriso smagliante ma soprattutto la sua genialità, capace di fabbricare le più brillanti battute per far cadere chiunque ai suoi piedi!

A questa scenetta c'è da aggiungerci pure una buona dose di pavoneggiamento tipicamente locale, sia per gli status-symbol che porta addosso sia per i suoi movimenti e per quello che dice, un atteggiamento che dovunque, in gergo, si dice "tirarsela" ma che qui a Catania chiamiamo semplicemente e senza mezzi termini "spacchiamentu".

Se la "caccia" è andata  a vuoto, non resta ca "farisi 'u bbagnu", da solo o con gli amici. Si avvicina al mare con fare circospetto e prima di tuffarsi resta immobile sulla scaletta o sul bagnasciuga a fissare l'acqua, anche un quarto d'ora, fino a farsi ipnotizzare dai bagliori dei riflessi marini. Sì, lo ammetto, lo so, è sempre stato e sarà sempre un freddolino. O meglio, la sua temperatura corporea, per natura supera abbondantemente i 37 gradi e come "Don Giovanni in Sicilia"che fa la doccia fredda a Milano, per lui quell'impatto è traumatico. Però lo attrae. Ma che guarda, che pensa? Forse con la sua presenza l'acqua si è riscaldata? No, è sempre uguale. Saranno passati dieci minuti prima di prendere il coraggio di entrare nell'acqua frescolina. Si attarda ancora un po' con la scusa di prendere una fettina di cocco dal venditore "bellu è u coccu picchì è friscu!".

Ma l'acqua gelida è sempre lì che lo aspetta. La tocca con l'alluce, poi si tocca le spalle, lo stomaco. Già, lo stomaco... pensa alla granita che ha mangiato e che lo farà morire a causa di una congestione. Colto da pessimismo cosmico, il suo pensiero finale è "ma cu m'ha fici fari?". Poi accenna a tentativi di segni della croce, ma si vergogna a farlo perchè il suo orgoglio prevale sul perdono divino prima di "morire ....... annegato!". Ha troppi peccati sul groppone. Mischinu!

La fila dietro è interminabile, composta da tanti come lui che non osano chiedergli il passo per tuffarsi. Anzi, se lui con gentilezza dice "Passi avanti, che ho tempi un po' lunghi", questi rispondono prontamente "Ma s'immagini, per carità! Faccia, faccia pure con comodo" (e cu si movi?).

Proprio per il suo innato senso dell'onore, si decide finalmente ad entrare in acqua. Ma prima di immergersi formula l'immancabile, fatidica domanda al bagnante che rientra: "com'è l'acqua?". Le risposte sono, ancor oggi, due: se proviene da un suo concittadino normale è "Comu u turruni!", se il concittadino è liscio........ la risposta è, come sempre, "vagnata!".

(Mimmo Rapisarda, maggio 2006)

 

 

DISCUSSIONI DI INIZIO AUTUNNO FRA GIOVANI PROFESSORESSE CATANESI:

Ciao, ho visto la graduatoria, ma quest’anno non sei più alla Pascoli?

Non più, sono alla Deledda di Ramacca!

Oddio! Che brutta vita, ma non ti potevano avvicinare alla Quasimodo di Monte Po?

No, ho rifiutato. Li mi fregavano l’auto, l’ultima volta mi è costata ottocento euro di riscatto per riaverla, nuova nuova appena uscita dalla concessionaria. E poi mi guardano le gambe sotto i banchi, già nichi nichi su vastasi! Ho fatto anche la supplente alla Boccaccio di Zia Lisa per sostituire una collega in astensione obbligatoria per controlli postnatali. Era febbraio. Ho chiesto ai bambini “come si chiamano quelli che tirano il cordone di S.Agata?” La loro risposta (già cunnuteddi): Alfio, Concetto, Carmelo, Turiddu….

Comunque, siamo in quattro a Ramacca e ci vado perché per entrare in ruolo ho rinunciato ad anni di vacanze per frequentare i corsi abilitanti TFA, PAS, ecc. Ora non mollo nemmeno se mi spediscono alla Martoglio di Passopisciaro. Però se mi fanno incazzare fra Consigli di classe, Consigli d’Istituto e riunioni con i genitori, mi faccio ingravidare e mi metto in maternità, così mi rivedranno fra tre anni! Così faccio lavorare i supplenti e lo Stato pagherà il doppio per far insegnare l'Eneide.

E poi, te lo immagini, come faccio a lasciare i bambini a scuola? Sono quattro: 3 anni per ognuno ho raccolto 12 anni di gravidanze difficili, maternità, aspettativa, ecc. Peccato non arrivare, di questo passo, alla pensione. Bei tempi quando c’erano quelle Baby che quasi quasi ci potevi arrivare.

Quando saranno grandetti li iscriverò a una triennale qualsiasi a Catania; subito dopo a una tosta Magistrale al Nord, hau! vuoi mettere? u carusu si specializza co micciu! Dopu, quantu costa costa, n’bellu master accussi addiventa scinziatu e tonna n'luminari!.

Per ora mi fannu sulu scimuniri, i picciriddi. Li ho chiamati come nel Vangelo: Luca è alla Manzoni; Matteo all’Alighieri, Giovanni alla Leopardi e Marco alla Verga. Ma dove li lascio? L’inizio della scuola per molte donne è una liberazione, per me è una disgrazia.

Scusate se interrompo colleghe, mi hanno appena assegnata alla Cesare Battisti. Sapete dov’è?

Auguri collega, si trova fra via Cordai e Via S. Maria delle Salette, in piena zona residenziale di Catania fra aiuole all’inglese e bambini vestiti come ad Haward! Non ti peddiri!

________

A parte gli scherzi, son sicuro che non sono tutte così (ci sono anche quelle che si fanno un mazzo e ne conosco) ma, girando girando, fra le tante sedi scolastiche intitolate a nomi illustri della letteratura italiana rimane solo la spaventosa ignoranza delle nuove generazioni. Vuote, sempre sole senza parlare con nessuno e con i volti illuminati dai cellulari; pronte a cercare su Google, di nascosto, il nome di colui che fu sconfitto a Waterloo. Ma non è colpa dei docenti, ma della società in cui vivono.

Nonostante ciò, auguro al corpo docente di questo Paese buon lavoro, sicuro che fra le tante, nuove, difficoltà, ce la farà anche quest'anno. Dovranno essere loro, ancora una volta, a tentare di forgiare la futura classe dirigente (sigh!) che un giorno dovrà curarci, amministrarci, difenderci.

L’ultima che ho sentito: Che ti ricorda Gabriele D’Annunzio?

Monserrato. E' quella strada che dopo il semaforo si chiama Via S. Nicolò al Borgo.

Mi arrendo.

 M.R.

 

 

 

 U “SCIDDICU”

 Con mio cugino ogni tanto andiamo a pescare (praticamente il nulla) nel golfo di Ognina. Soprattutto a traina, tecnica con la quale non siamo mai riusciti a far abboccare nemmeno un riccio Monaco.

Tuttavia non ci arrendiamo e, come tanti altri disperati, ogni domenica ci attrezziamo di buon mattino facendo la nostra prima sosta a Piazza Santa Maria della Guardia, per acquistare l'esca dalla Sig,ra Olga.

Con l’esca dal valore superiore al bottino finale, ci avviamo dove abbiamo "ottenuto", con fatica, un posto-barca presso u "Sciddicu" (lo scivolo) che, in sostanza, è ciò che rimane dell’antico “scaru nicu” (scalo piccolo) di Ognina, piccolissima darsena naturale a ridosso della piazza Mancini Battaglia, fra le papere che si rinfrescano marcate a vista da gatti pronti a cogliere al volo ogni loro passo falso.

Le acque antistanti sono ricche di Posidonia, pianta marina del Mediterraneo , polmone naturale del mare e autentica prateria sabbiosa regno di «mazzuni 'i rina»  e di «taccuni».

Una volta scalo di pescatori professionisti, oggi l’attività do “Sciddicu” è limitata al dolce approdo dei natanti da diporto.

Ma perché proprio lì? Infatti, nel litorale Catanese esistono porti più convenienti e organizzati, in cui devi solo scendere dall'auto, accendere il motore e salpare e mi riferisco ai porti privati Rossi, Riposto, Acitrezza, Brucoli, Porto di Catania, ecc.. Va bene, però non siamo allo Scivolo di Ognina dove, oltre al fatto di essere dentro la città, è tutta un’altra cosa.

Qui si fa a gara per …. soffrire. Dicono che certe donne siano affascinate dagli uomini stronzi e qui è esattamente così: si paga (se ti è consentito), alla fine della giornata non becchi nemmeno una sarda disperata e alla fine te ne torni a casa pure contento.

Vi chiedete se siamo pazzi? No. Lo può capire solo chi è nato o ha vissuto da queste parti. Sarà la mentalità della gente del luogo oppure prendere un caffè seduto su una panchina sotto i pini marittimi della piazza a contemplare quelle nuvole spruzzate a levante da panna rosa e celeste, che sembra il reparto Maternità del cielo. Tutto ciò fa bene alla salute, con una tabella anti-stress particolare: audio sulle storie di pescatori del luogo; immersione nei loro occhi increspati di lische e salsedine; visione di pomeriggi autunnali con una gamma multicolore che nessun pittore riuscirebbe mai a riprodurre.

Ma andiamo a vedere perché siamo anche così masochisti.

Prima di tutto l'organizzazione del famigerato "Yacting Club". Farebbe diventare verdi (e magari ne sarebbe felice) i capelli di un iper-efficiente “Lumbard” proprietario di un'imbarcazione ormeggiata al Lago di Garda. Loro sono in tre: l'anziano gestore Garozzo, uno degli ultimi mastri d'ascia catanesi,  il figlio e un aiutante.

Altrove si partirebbe in qualsiasi orario, ma qui allo Scivolo non lo saprai mai: è un optional. Se decidi per le sette del mattino, la previsione della partenza si estende in un arco di tempo che va dalle 6.45 alle 7.45. Prendere o lasciare! Un esempio? Se alle otto non li svegli a cannonate, anche con un forte caffè di Balsamo, non riescono assolutamente a connettere.... figuriamoci a muovere un dito.

Dopo un abbondante quarto d'ora in cui si sentono soltanto i nostri ripetuti sospiri di sollievo e le loro pessimistiche previsioni pronunciate a mezza voce (spiramu ca…. mah, oggi chiovi, ….bah.. chi avi stu muturi? …cu sapi ssi patti? …. ma a cima unni iè? ….. ca u Signuruzzi a mannassi bona, ecc. ecc. ecc), cominciano ad armeggiare su un carrello elevatore il cui peso netto è tragicamente inferiore a quello di tutta la ruggine che si porta addosso e che poggia (quando i freni funzionano) su una grande piattaforma ricoperta di melma e di quintali di alghe mai rimosse che hanno visto, loro sì, Ulisse.

Che divertimento il districarsi fino all'ormeggio in un girotondo fatto di secoli di ami, piombi, lenze! Alla fine della corsa, tonnellate di nafta oleosa intrisa in ogni falanga sotto le barche, lasciate lì da generazioni di pescatori e pronte a farti scivolare direttamente in acqua (anche per questo si chiama Scivolo?). Un luogo perfetto per disputarci l’indimenticabile "Giochi senza frontiere"

E adesso comincia il bello. Con noi sono stati sempre squisiti, disponibili e gentilissimi ma fra di loro cominciano ad imbeccarsi, a cominciare dal Capo che riprende gli altri due su come avvolgere le cime sotto la chiglia o come agganciare i grandi moschettoni sulla prua e sulla poppa. A vederli si potrebbe pensare "ma perché li sgrida così? forse saranno novelli e proprio oggi li sta istruendo?". No, no… lavorano con lui da una vita; il fatto è che, sistematicamente, lo spettacolo viene replicato e non è mai lo stesso, perché le quinte cambiano e i teloni si aprono diversamente ogni mattina.

Questi signori calano in acqua decine e decine di barche al giorno, ma ogni volta è sempre un'esperienza nuova, assolutamente diversa da quella dell'ultima volta. Cioè, se in un pontile di Portofino questa manovra sarebbe di una noia da far sbadigliare anche i pesci, qui diventa una sorta di avventura alla Indiana Jones. Insomma, è teatro. Teatro nostro!

A guardarla bene, la nostra barca sospesa in aria sembrerebbe proprio al sicuro. Noi la vediamo oscillare e saremmo pure tranquilli, considerata la consumata esperienza del personale del cantiere navale, peraltro certificata da centinaia e centinaia di approdi e partenze. Cosa potrebbe mai accadere? Niente!

E invece non è così, si rischia grosso! La fine della nostra tortura arriva dopo le spericolate manovre al cardiopalma con quella prua penzolante che sfiora altre imbarcazioni, paranchi, gru, pali della luce e diportisti di passaggio che gridano al miracolo per la scampata tragedia! Il natante viene finalmente poggiato a mare, continuando a dondolare paurosamente fra bestemmie, cazziatoni e i nostri cuori che palpitano a mille per l'ansia e la tensione accumulata.

Ma loro, gli addetti, sono ansiosi? Per niente! Continuano ad azzannarsi sui loro errori di valutazione come collegiali davanti ai rimproveri di un educatore e, soprattutto, come se quello fosse stato il primo varo della loro vita!

Qual è il colmo? Che in verità, in decenni di lavoro non hanno mai danneggiato nessun natante …. però se non fanno così non si divertono. Poveretti, sono catanesi, c'è da capirli. Come potrebbero passare una giornata intera in mezzo a vari schifosamente perfetti, con banalissime partenze e senza alcun imprevisto? E dove siamo, a Bellagio? Che piacere c’è?

Prima di partire c'è sempre la rete di un decennio fa che rimane impigliata fra le eliche. Con fatica riescono a toglierla e ci allontaniamo, già stanchi ma divertiti. Loro ci guardano, e sotto i baffi sorridono. Ci domandiamo se lo facciano apposta e se, in fondo, ci prendano per il culo.

Quando sul contagiri solleviamo a nord la lancetta, siamo già fuori dal porto e prendiamo il largo, scoprendo qual è l'altro motivo per cui si fa a gara per trovare un posto barca a Ognina. Col sole ad Est e il vento in faccia incrociamo i primi pescherecci che ritornano dalla pesca, accompagnati da balletti di affamati gabbiani il cui gracchiare si avverte a centinaia di metri, e che danzano su quel succulento sufflè a forma di stiva.

Più che il mare, lo spettacolo è quel che abbiamo davanti. Siamo già al lungomare, dedicato a due valorosi ammiragli aragonesi: Ruggero di Lauria e Artale Alagona, protagonisti di grandi battaglie durante la guerra del Vespro, fra le quali la più famosa è il cosiddetto "Scacco di Ognina". Vedere questa arteria dal mare è cosa ben diversa dal passeggiarci sopra. Da sopra nessuno potrà mai sapere quante e quali grotte esistono nella parte sottostante. La scogliera è nera, lucida, dura, irta, spigolosa e spumeggiante.

Alle nostre spalle, l'Etna comincia ad illuminarsi e a truccarsi. A quell'ora è ancora di colore rosa e improvvisamente ci presenta la sua stazza compresi vene, muscoli e nervature in tutto il loro splendore. Ragazzi, sono qui, dietro di voi: ci voltiamo e lei si staglia superba, immensa, dominante una città distesa sul mare e all'indietro allungata fino alle colline di San Gregorio, a terrazza. Dietro di esse il vulcano è in lontananza, enorme, e che proprio per questi avvallamenti e distanze offre una particolare sensazione ottica. Cioè, sembra che la visione di tutto l'insieme (montagna, colline e città) appaia in tre dimensioni. Uno spettacolo unico. Ecco perché sul lungomare, al mattino troviamo lussuosi yacht nella rada del golfo. Certamente uno sballo deve essere gettare l’ancora di notte, magari vedere il vulcano in eruzione; poi l’indomani a far colazione a bordo, davanti alla sua imponenza. Vengono apposta da ogni dove per provare questa sensazionee, e noi nemmeno ce ne accorgiamo.

Dal porto ci avviciniamo alla zona "Scogliera": u Unnazzu, u Monucu fra un branco di alici che cercano disperatamente di sfuggire ai tonni. Tentano di saltare in superficie, ma i voraci gabbiani sono già pronti a far loro la festa. Nessuna speranza, da sopra o da sotto sono già condannate.

Se perfino gli animali pescano in abbondanza, per noi non c'è niente: solo un polipo distratto che per sua disgrazia si è impigliato nei nostri ami, poi i soliti nsuragghi, le vope, i buddaci e niente più, nemmeno per farci un brodo. Fra la passerella delle grotte sotto Via Villini a Mare, passiamo davanti 'o Carabbineri" (zona chiamata così perché in passato esisteva una trattoria sulla cui insegna qualcuno aveva dipinto un carabiniere) per vedere se almeno qualche saraghetto depresso avesse mai deciso di farla finita!

Quando, alla fine, torniamo col magro bottino alla base siamo felici come se a bordo ci fosse una grossa cernia appena pescata. Noi ne siamo davvero convinti, noi la vediamo davvero perchè stregati dalle sirene e dai tritoni del golfo di Ognina.

Da sempre considerata la leggendaria scogliera su cui l'Odisseo approdò sospinto dal dio Eolo, io la chiamo la "vasca da bagno degli Dei", perché la immagino come la maga Circe che, trasformatasi in scogliera, ammalia chiunque passi dalle sue parti al punto di non fargli capire di stare a baciare le sue onde anzichè lei, fino a farlo annegare.

 Mimmo Rapisarda, set 2011.

 

 

IN SALA D'ATTESA, AL PATRONATO

Mi reco al Patronato del sindacato per la consueta consegna dei CUD, delle spese mediche e di altro, ai fini della presentazione dell’annuale 730 .

Noto che c’è più gente dell’anno scorso, chiedo chi è l’ultimo e mi accomodo in attesa del mio turno.

Accanto a me ascolto dal vivo le voci di questa più cocente crisi, voci di gente che lavorava nelle industrie elettroniche della Etna Valley o nella zona industriale di quella città che una volta fu soprannominata la Milano del Sud per il suo sviluppo o voci di ex dipendenti un tempo in servizio presso lo splendore commerciale di piccole, splendenti, storiche botteghe che in fasti migliori di adesso determinarono la ricchezza catanese ma che oggi si sono viste sopraffare da sporadici negozi di telefonia o da loschi parchi commerciali che servono solo a giustificare il riciclaggio di denaro sporco da depositare, sotto forma di cemento, sulle campagne della provincia.

In sala d’attesa, prima di me, avanza un uomo che chiede disperatamente al commercialista per quale motivo debba rinunciare all’indennità di disoccupazione dopo decenni di onesto lavoro, soprattutto dopo aver letto sul giornale che sono stati sequestrati 49 milioni di euro a Formigoni. Chiede spiegazioni, di fronte a braccia onestamente allargate!

Subito dopo una donna, arrivata per ultima, ci chiede una cortesia: “devo consegnare solo due fogli, lor signori permettono?” Tre quarti d’ora! Ma questa è una particolare sindrome dei miei concittadini: devono fregare quello che hanno davanti a loro a tutti i costi; hanno sempre una fretta maledetta e maleducata, anche se dopo non hanno assolutamente niente da fare! L’importante è sorpassare la fila e togliersi dallo stomaco l’incombenza della commissione, al più presto. Non ne ho mai capito il motivo.

Dopo la furbastra è il turno di una famigliola composta da padre, madre e bambino terribile, che chiedeva lumi sulla mancata assegnazione della casa popolare. Sempre più dispiaciuto, ascolto il capofamiglia il quale si sente dire che per ottenere gli eventuali benefici occorreva dichiararsi disoccupato da 36 mesi (lui lo era da 34). Come sopravvivere nella serie A: 34 non bastano per salvarsi dalla serie B, ma 36 sì. Quasi piangendo lo dice alla moglie, occupata a tenere a bada lo scatenato figlioletto, e gridando le chiede pure come mai da questo mese debbano dare 80 euro ciascuno a chi lavora, e nemmeno un centesimo a chi non lavora più e che è costretto a dormire a casa dei suoceri. Come mai?

Vedevo la faccia del commercialista derelitta, arresa e incapace di rispondere alle domande di quei poveretti. L’avrei abbracciato per come (e si vedeva!) sarebbe stato disposto a rimetterci di tasca sua pur di offrire almeno una pizza serale a qualcuno.

Purtroppo vedevo anche la moglie del disoccupato, seduta accanto a me, che volgeva i suoi occhi sulla mia carpetta dove c’era scritto “Redditi 2013”. La guardava come una cosa appartenente a una mosca bianca.

A quel punto mi sono vergognato e ho capovolto la carpetta. Con una gran voglia di chiederle scusa.

M.R.  

 

CANI "MARCA LIOTRU"

Il cane, risaputo, è fra le razze più intelligenti del mondo animale. A loro abbiamo visto fare di tutto: salvare piccoli e grandi padroni, accompagnare i non vedenti. A loro abbiamo insegnato a fare capitomboli, capriole, comportarsi come pagliacci, chiedere denaro sulle strade, …. addirittura a fare qualcosa dietro un comando in qualsiasi lingua. Faccio un esempio sulla frase “seduto”: sitting in Inghilterra, seance in Francia; sitzend in Germania; sentado in Spagna. Fin qui ci arriva, poveretto. Lui obbedisce sempre, anche ricorrendo al vocabolario. Il problema nasce se vive a Catania, con un padrone catanese.

Oggi pomeriggio notavo un bel cagnolone col suo padrone, anziano, in Piazza Mancini Battaglia a Catania. L’animale aveva appena fatto il bagno nella spiaggetta di Ognina e, ancora bagnaticcio, si accovacciava sotto le gambe del padrone in attesa di ritornare a casa dopo la rinfrescante passeggiata.

Il padrone, allora, gli dà un comando: “scutòliti!”. Il cane, ovviamente, non risponde.

Guardandoli, ho pensato: “come potrà mai capire? Già è tanto che deve captare certi segnali audio in lingua nazionale da parte di chi lo porta a spasso, ma...... in dialetto?"

Ma il padrone continua: “Ahu, t’hai rittu scutòliti! Ca m’alloddi a machina!”.

A quel punto, vedo il cane che si dà l’ultima scrollatina degna di un autolavaggio a spazzola, fa quattro salti attorno al padrone e salta in auto.

Mi chiedo: che l’animale sia in grado di navigare in internet e conosca il mio sito?

Conosceva il dialetto! Addirittura un termine difficilissimo da spiegare e tradurre.

M.R.

 

 

ALL'UFFICIO POSTALE

Multa Sostare, chi non l’ha mai trovata?

Che meritavo in quanto parcheggiato in orario notturno in centro storico. Quello che non mi meritavo erano i 10 euro di sovrapprezzo che, senza nessun motivo, ho dovuto saldare sul c/c di Sostare. Un pizzo urbano.

Per il pagamento, di bonifico non se ne parlava perché, dal verbale rilasciato sul parabrezza lungo 80 cm. (da Guinness!) , viene indicato nei primi venti centimetri un IBAN e nel rimanente “mezzo metro” un altro IBAN!!!! Come fidarsi di una partecipata municipale in odor di smantellamento, dopo le sirene di dissesto al Comune di Catania? Quindi due bollettini da pagare alla posta. E va bene, facciamo questo sacrificio.

Parcheggio di fronte a un ufficio postale operativo nel pomeriggio; attivo il mio Neos Park che, con i nuovi aggiornamenti,  è più facile attivare i codici di testate nucleari (sono arrivato a 6 ENTER per dirgli “Tariffa Catania attiva”, con tanto di 110 e lode e bacio in fronte in “Scienze e tecnologie applicate in soste metropolitane”) e mi avvio all’entrata.

Per l’aria condizionata non c’è che dire: eccellente! Vedo solo 3 utenti e altrettanti dipendenti, ma sono uscito dopo un’ora! Perché?

Spezzo una lancia a favore degli impiegati che, per quei pochi che sono rimasti, fanno il possibile per mandare avanti la baracca. Ma gli utenti? Peggio di Scapece in Benvenuti al Sud!

Davanti a me, in attesa, che dopo mezz’ora stavo già boccheggiando di fronte a quei larghi monitor di Poste Italiane che ti fanno vedere effimeri paradisi gialli e blu, c’erano soltanto tre utenti:

1) La prima era un’anziana signora che usava lo sportello come il confessionale parrocchiale, confidando all’impiegato i lamenti di casa, della nuora che non sopporta, ai dolori alla schiena per via dell’artrosi e addirittura  fino alle prestazioni coniugali del marito. Non sono sicuro se sia entrata prima di noi con un biglietto regalatole da chi era appena uscito (abitudine abbastanza in voga in un paese civile come il nostro);

2) Il secondo era il parente di un altro utente che mi era accanto in attesa, mentre diceva peste e corna e che cercava spiegazioni su certe incomprensibili operazioni bancarie sul proprio conto corrente. I correntisti di Poste Italiane sono i personaggi più temuti: se aprono il libretto di risparmio e sei alle loro spalle, è finita!

3) Il terzo era il più terribile. Io avevo il n. A216, lui il n. A215. Entrambi dovevamo pagare bollettini e, visto il suo A ministeriale , mi sono giustamente seduto dietro. Dopo 20 minuti, mi accorgo che davanti avevo uno straniero confuso, credo albanese, che aveva premuto il tasto di prenotazione sbagliato e stava cercando di spiegare all’impiegato che voleva inviare a casa del denaro: 40 minuti per questa operazione!!!!

Era in canottiera e alle spalle aveva un grande tatuaggio a colori raffigurante un paesaggio orientale. Io indossavo degli occhiali da sole polarizzati, il che significa che in condizioni di  riflesso si riduce il riverbero rendendo una migliore percezione dei contrasti e una visione nitida con colori  naturali. Significava pure che, nell’attesa, in quel tatuaggio che fluttuava e che sembrava un quartiere cinese in movimento nel mercato di Shanghai, ero ormai diventato padrone dei viottoli, dei ruscelli e dei numeri civici nelle pagode presenti. Addirittura ci vedevo dentro delle geishe che con infiniti inchini e una tazzuola di vino báijiǔ, mi pregavano di consegnar loro i bollettini che avrebbero fatto pagare dal Direttore di filiale in persona, e senza mora!

Mi stavo addormentando a Pechino quando fui svegliato dal campanello che annunciava il numero A216!

Ecco finalmente il mio turno. Pago ed esco fuori, mi accomodo in auto e mi accorgo che sul parabrezza c’era un altro verbale della Sostare: 31 luglio, ore 16.30, col Neos Park attivo!

No, non è possibile, questo è uno sfregio. Stavo per incazzarmi in strada come Steve Martin quando non trovò l’auto noleggiata all’aeroporto di Chicago nel film “Un biglietto in due”, ma mi sono calmato solo alla lettura del verbale, sempre lungo 80 cm: c’era un’altra targa. Non era la mia.

Un mio concittadino, fregandosene e senza farsi mille problemi, l’aveva poggiato sul mio tergicristalli. A  ricordo, e con tanti “sticazzi” alla suddetta Società.

L’avrei abbracciato!

M.R.

 

LA VERA AMICIZIA ALLA FERMATA DEL BUS

Stamattina ho incontrato un amico all'ultimo giorno di vacanza a Catania. Non lo vedevo da tanto tempo perchè vive oltre stretto e a volte anche all’estero. Ha appena fatto il suo pieno “Marca Liotru”, quello standard: arancini, granita, cannoli, mascolini alla pescheria ecc. ed era in procinto di salire sul bus 830, appena arrivato, che stava aspettando da quasi un’ora (1) e che lo avrebbe portato dai parenti che lo ospitavano.

E’ alla fermata, mi vede, mi chiama, poi si gira e guarda l'agognato bus fermarsi. Mi abbraccia velocemente, guarda le bussole che si aprono. E’ felice di vederle finalmente aperte e, al contempo, di dirmi “Mimmuzzo, come stai?”.

Gli dico “dai, bene, prendilo che lo perdi, ci sarà una prossima volta!” Alla fine, come una liberazione, mi dice “Ma chi se ne frega? Prendo il prossimo (2)! Tu meriti di essere salutato come si deve!”

Ditemi se questa non è vera amicizia!

(1) particolare che fa parte del suo pieno, altrimenti eravamo a Stoccolma.

(2) l'ho poi accompagnato in auto. non sa cosa l’avrebbe aspettato, mi avrebbe maledetto!

M.R.

 

 

GELATO AL GUSTO CARPE DIEM

Ieri sera, lungomare di Catania, piazza Tricolore.

lui mammoriano doc, capigliatura con ciuffo gigante, shirt D&G appena acquistata alle bancarelle e così tatuato da sembrare un antico vaso della dinastia Ming ambulante. E' incazzato, gamba destra poggiata sulla ringhiera e un cono gelato in mano proteso verso la sua amata che gli sta accanto alla sua sinistra, immobile come una statua di fronte al tramonto.

Lei, altrettanto mammoriana doc, circa 90 kg. di beata giovinezza; maglietta rosa fragola a fior di pelle e jeans slim che, poveretta, le fanno traboccare all'altezza del ventre tanta spensierata ciccia all'aria. Tralascio il resto del corredo.

La ragazza aveva appena litigato per un messaggio osè sul cellulare del ragazzo ma quella leccornia del "perdono" nel frattempo la tentava. Era a soli dieci centimetri, ma non osava toccarla per orgoglio. Guarda l'orizzonte con gli occhi rossi facendogli capire che non molla, che stavolta la deve pagare, che non serve offrirle qualcosa per rimediare.

A questo punto il ragazzo, con tanta boria: "Nenci talìa, u viri stu gilatu? Tu u sai ca ..... supra a vita di me niputi non c'iaiu giuratu mai! Talia ca u iettu n'terra!"

Ma lei deve, deve farcela. La gola non può sopraffare il suo orgoglio. Un'altra donna glielo avrebbe gettato in faccia ma al contempo riflette: "perchè sprecare tanto ben di Dio?". Proprio per questo tentenna e resiste, resiste ancora a quella tentazione.

Il suo boyfriend ritorna sui suoi passi: "Nenci... già sugnu n'cazzato ca non n'sittai i pattiti. Supra all'ammuzza do nannu!..... a cuppa jè di stu cellulari ca s'invintau i messaggi di Màico, Gresi, Giennifer, Gessica ca liggisti antura, ma cu su chissi?” "Nenci, mammoririmoomà (*) ... u staiu ittannu!!!. Ma non lo fa, nonostante fossimo al lungomare catanese (normale abitudine). Glielo porge in mano e scappa via bestemmiando.

Lei rimane impassibile con quel cono in mano, non cede. Guarda sempre il mare mentre quella delizia ancora intatta viene a malapena sorretta dalle sue dita cicciottelle, con unghie dai colori sgargianti e perlinate come un albero di Natale a San Gregorio Armeno.

Quando lui è già arrivato a Piazza Nettuno, la prima lacrima scende sulle rubiconde guanciotte della ragazza, asciugata goffamente dalla sua mano sinistra che, per miracolo, sfiora un po' di panna trascinata sulla bocca. In preda all'orgoglio, sta per gettare tutto sulla scogliera di fronte (e dalle!) ma poi si ferma.... "mi, che bona sta panna!" e dà quindi un primo assaggio. "Sulu chissu e poi basta! Ma picchi chiddu mi l'ha fari fari vilenu?"

La seconda lacrima non scenderà più. Il secondo assaggio arriva presto e, piano piano, sempre più voluttuosamente, davanti a quel bellissimo tramonto si gusta il gelato più buono della sua vita senza rimpianti e collere. Quel che doveva essere una dimostrazione di dignità si trasforma improvvisamente in uno sfogo di egoistica ingordigia.

Mi è piaciuto osservarla mentre consumava con godimento quell'ambito premio al gusto Carpe diem, con assoluta calma e cercando di non far scivolare giù nemmeno una goccia, quasi a non sciupare ogni attimo di quel momento tutto suo, lasciando fuori dalla porta ogni rimorso sentimentale o dietetico, entrambi rimandati all'indomani.

Quando l'ho incrociata al ritorno, era abbracciata a lui. Tosta, con appuntata sul petto una spanna di rispetto in più conquistata sul campo e un paio di etti da smaltire, ma soprattutto felice di aver saputo cogliere quell'attimo che stava per scappare via.

Ciao, bella Nancy, ieri hai capito tutto. Mi raccomando, qualsiasi cosa accada nella tua vita... futtitinni e non ti peddiri nenti, picchi ogni lassata è pessa!

(*) origine del termine “Mammoriano”.

M.R.

 

 

RICORDI DI VITA

 

 

C'ERA UNA VOLTA IL MIRAMARE

C'era, c'era.... eccome se c'era.

Fra qualche anno diremo così anche per questo altro pezzo di "quella" Catania che se ne va. C'era una volta, come c'era una volta il Diana, il Roma, l'Archimede e tanti altri. Demoliti da poco nobili interessi che niente hanno a che vedere col cuore degli ultimi nostalgici, come me. Dico questo perchè, forse, non riusciamo ad accorgerci che nella vita tutto fa parte di un ciclo e il ricambio naturale delle cose che perdiamo è una cosa normale. Però, a volte ci arrabbiamo per come accade questo ricambio.

Sfido qualsiasi catanese al di sopra dei Quaranta a dirmi che non c'è mai stato. Parlo di almeno una serata alla mitica arena Miramare, a Guardia Ognina.

Architettonicamente era spartana, mediocre, direi scadente, addirittura fetiscente. Più che un cinema sembrava una masseria. Ma era decisamente il posto, in cui un inconsapevole genio dell'urbanistica pensò di collocarla, che la rendeva strategica. Un posto fantastico, quando ancora i suoi metri quadrati non valevano l'oro di oggi!

Situata sul cono della collinetta che si affaccia sulla baia di San Giovanni Li Cuti, era incastonata su di essa come un gioiello, visibile anche dal lungomare. L'ingresso si trovava su Via Messina; si pagava alla cassa che sembrava un confessionale in versione balneare e poi si entrava attraversando una stradina in discesa verso la grande fossa naturale nella quale era stava ricavata l'arena, al fresco.

All'entrata era già uno spettacolo perchè vedevi subito l'orizzonte del mare di fronte, che prima del film offriva straordinari Trailers colorati di azzurro celeste, rosa, indaco, violetto. Già questa sensazione ti rilassava e ti faceva stare subito bene, aggiungiamoci l'improvvisa frescura, gli odori, il canto dei grilli in amore e il gioco era fatto. Quel viottolo, tempestato di colorate piante di fichidindia, pergolati di vite canadese e cascate di glicine, ciclamini e gelsomini, costeggiava sulla sua sinistra un orto i cui profumi ti ricordavano perfettamente in quale luogo del Mediterraneo ti trovavi, qualora l'avessi scordato per un attimo.

Quante generazioni di catanesi sono passate da quel cancello! Intere famiglie, ragazzi, studenti, gente sola o accompagnata, "picciriddi cunnuteddi" che durante le proiezioni le prendevano di santa ragione, fidanzatini con genitori a carico che li sorvegliavano alla distanza di un metro, signore in gravidanza che si riparavano dal caldo di casa, tutte ci sono passate.

Anche intere comitive che erano lì per ben altri scopi: fare farsa! Con gli amici, qualche sera, d'estate si andava al Miramare.

Già forniti di panini con parmigiana o caponatina, stavamo seduti a tre a tre in due file. Durante la visione si sgranocchiava di tutto e si bevevano le bibite gelate. E' chiaro che il film non lo vedeva nessuno perchè il tempo scorreva mangiando, parlando, sparlando, scherzando, ridendo, raccontando, incantandoci su spalle fin troppo abbronzate e incrociando occhi ammalianti che davano appuntamenti a quelli nostri durante le luci dell'intervallo.

Un altro passatempo: scommettere sui gechi poggiati sullo schermo, sceglierne uno e vedere quanto tempo impiegava per arrivare sul cappellone di Paul Newman. Il padrone della "zazzamita" che arrivava al traguardo aveva diritto a una birra gelata.

Quando si esagerava, arrivava puntuale "shhh!!! Salenzio!".

Una sera stavano proiettando il film "Amore per sempre" con Mel Gibson. Nel 1939 il pilota Daniel McCormick è al colmo della felicità; gli manca solo l'ardire di chiedere in moglie la donna che ama. Improvvisamente lei rimane vittima di un incidente e precipita in coma. Ormai distrutto, Daniel si presta come cavia per un progetto scientifico: per più di mezzo secolo resterà ibernato con la speranza di rivederla. L'uomo verrà "resuscitato" cinquant'anni dopo da un intraprendente ragazzino.

Con l’aspetto di un ventenne, in un mondo a lui sconosciuto scoprirà che miracolosamente Hellen uscì dal coma e che si era risposata dopo averlo cercato disperatamente ovunque.

Dopo mezzo secolo Daniel la troverà, vedova e nonna settantenne, in quella scogliera degna di “Cime tempestose” dove anche lui invecchia velocemente per il fallimento dell’esperimento.

Sono finalmente uno di fronte all’altra, si guardano negli occhi per ridarsi quello stesso e ultimo bacio davanti al faro, prima dell’incidente, per poi riprendere il loro normale cammino che un destino crudele volle interrompere.

Ma prima di farlo, lui la guarda a lungo e, accarezzandola, le chiede: “Hellen, cara….. perché mi guardi così? Cosa vorresti dirmi? Dimmelo, dai!”.

Lei lo guarda fisso negli occhi per altrettanti interminabili minuti senza rispondergli quando dalle file posteriori (le più lisce) di una leggendaria arena di Catania, nel silenzio stellato della calda estate del 1992, arrivò la bruciante risposta di Hellen che fece ballare tutte le sedie in ferro per le risate: “strunzu, unni a statu?”

Risata generale, come sempre, come ogni sera in quel posto magico. Sbaglio, o ci trovate qualche assonanza con le scene di un famoso film di Tornatore?

Ma poi, dopo tutto, chi se le li vedeva i film con l'altra pellicola che avevamo alla nostra destra? La luna che guardava a scrocco mentre luccicava e abbagliava un mare che faceva altrettanto; qualche nave passava con tutte le luci accese, la brezza marina che per invidia saliva anch'essa fino a noi per stordirci. Ma noi, che eravamo già ubriachi di forti odori di menta, basilico, zagara dei giardini vicini; noi, con la giacchettina di cotone sulle spalle e lucidi di spray antizanzare; noi, seduti su quelle scomode sedie in ferro verniciate di verde e di ruggine; noi, sepolti da scorze di noccioline, abbiamo sempre saputo di questi regali che la Natura ci ha fatto e per decenni abbiamo sempre detto Grazie! Abbiamo respirato, annusato e goduto di tutti i frutti offerti dall'Arena Miramare. Ma avremmo pagato anche il doppio del biglietto per stare lì.

Almeno una volta nella sua vita, ogni catanese ha oltrepassato quel cancelletto per vedere Maciste, Totò o Tom Cruise. Chi per rilassarsi, chi per abbordare, chi per sfiorare, chi per la soddisfazione di alzarsi gonfio come un palloncino per vie delle gazzose consumate. Chi, infine, per trovare il coraggio di dirle "ti amo" con la complicità del posto.

Alla fine, sollevati a dieci centimetri da terra, risalivamo quella stradina con tre etti in più e qualche atmosfera di troppo nello stomaco. Uscivamo sulla strada, avvertendo subito il caldo e il repentino cambio di temperatura: da 20 a 36-37 gradi!. Via le giacchette di cotone.

Le strade di Guardia e Picanello, a quell'ora sono ancora vivaci, sveglie. In quei quartieri soffocati dal caldo umido e dall'afa catanese in agosto, si sentivano le nostre voci: chi sfotteva a destra e chi a sinistra. Le nostre risate sguaiate per chi, ancora impressionato dal film, imitava Franco Nero o per chi, ancora impaurito da L'Esorcista, si faceva accompagnare a casa.

Il rumore delle nostre ciabatte ci trascinava per le strade eternamente bucherellate di Picanello mentre folate di vento caldo sollevavano dai marciapiedi quintali di scontrini fiscali (autentici e fasulli) e offerte imperdibili nei supermercati. Guardando in alto, piccoli bagliori rossi si ravvivavano ad intermittenza, al buio di precari balconi; oppure scivolavano in basso al pianoterra a forma di serpenti fumosi sedendosi sulle sedie di legno e paglia, sul marciapiedi davanti casa. Tutti, tutti a godersi un po' di fresco ristoratore all'aria, lontani dalle mura di pietra lavica e intonaco rosa, ancora calde perchè cotte a puntino dal sole pomeridiano del ponente etneo. E' gente che va tardi a letto sapendo già di non poter dormire per il caldo, che si gode l'ultima ventata che producono le alghe del golfo di Ognina. Gente che si attarda fuori sparlando senza pietà di nuore, generi, compari e consuoceri, che pensa già alla spesa che dovrà fare l'indomani: i pomodori freschi, il basilico, le melanzane, la ricotta salata, la pescheria, la "minnulata" al carrettino 'Don Tino-Coni con panna-Gelati-Granite'.

Sì, ma al chioschetto del Miramare tutto era più solleticante, aveva un altro effetto... era gassoso, ghiacciato! Eppure era tutto uguale! Chi se lo dimentica quel piccolo bar? Stava dietro le ultime file, tipico da arena estiva: semi di zucca, gazzose, bibite, patatine, ecc. Negli ultimi tempi lo prese in gestione un tipo freakettone, con mille tatuaggi sulle braccia, un'infinità di borchie e un abbigliamento alla Fandango. Aveva tappezzato il locale con i poster dell'Harley Davidson, di James Dean e di altri miti che gli andavano a genio. Per aprire la saracinesca del bar arrivava a metà del primo tempo, col frigo ancora spento. Le gazzose, via via, cominciavano a diventare sempre più calde, sempre più calde. Erano segnali premonitori, erano i tempi che stavano cambiando, era la fine imminente.

L'ultima stagione, infatti, fu nel 2002. Nell'anno successivo i proprietari del terreno sul quale sorgeva l'arena lo mise in vendita a fini edilizi. Assieme ad altri lettori, in quell'anno protestai su La Sicilia esortando l'Amministrazione comunale a non concedere la concessione sull'imminente disastro che si stava per compiere perchè consideravo quel luogo un patrimonio storico della città e che, per il suo valore affettivo, apparteneva un po' a tutta la cittadinanza. Smantellarlo significava distruggere una pietra miliare che era elemento componente e integrante del fascino ogninese. Andava invece acquisito, salvaguardato e rivalutato.

Tutti sappiamo, invece, com'è andata. Se il Comune avesse acquistato il terreno, avesse bonificato e ristrutturato l'arena e l'area circostante per farci magari un Centro culturale, questa amministrazione sarebbe stata ricordata a vita dai suoi concittadini. Purtroppo, oltre a non avere il minimo interesse ad essere ricordato, chi ci governa non è nemmeno catanese e certe cose non potrà mai capirle. Speravo in un suo romantico ricordo di quando era studente nell'Ateneo catanese e che la rimembranza di un bacio galeotto regalato furtivamente alla collega di corso, davanti a quello di Cary Grant e Ingrid Bergman in "Indiscreto", lo avesse fatto redimere. Niente, solo parole al vento.

Fra le arene, avevano già chiuso il Delle Rose, la Terrazza Cavallaro, il Sanfilippo. Sono rimaste ancora l'Argentina, l'Adua e qualche altra ancora, che battagliano ogni sera con un nemico molto più agguerrito, molto più organizzato di loro; un nemico che la sera inchioda tutti noi alle nostre poltrone, con il condizionatore acceso e che non ci fa uscire da casa impedendoci di capire cos'è davvero un cinema all'aperto, o perlomeno stare fuori di casa a vedere la gente: il principale cast della pellicola di ognuno di noi. Quel nemico si chiama Televisore, con tutti i suoi tecnologici aspetti e la sua immensa offerta giornaliera, ma che alla fine ci fa sentire più soli.

Purtroppo, la fine di una delle cose più amate e ricordate a Catania è già sancita. Oggi le ruspe ci lavorano per creare un lussuosissimo casermone, con una vista sul mare tutta saccheggiata dalla cassapanca delle nostre notti d'agosto.

Ci sono passato l'altro ieri e sono entrato fin dentro al cantiere. Con un piccolo groppo in gola, ho visto quei dinosauri estirpare dalle voragini di terra tonnellate di baci, carezze, schiaffi, sguardi, dichiarazioni d'amore, tutti appartenuti alla gioventù catanese. Ho pensato per un attimo al Nuovo Cinema Paradiso e mi sono sentito come Salvatore quando, dopo i funerali dell'amato Alfredo, assiste alla demolizione dell'oggetto dei suoi desideri di quand'era adolescente.

Mentre scrivo l'arena non esiste più. Il Miramare ha già proiettato il suo ultimo "The End" sul bulldozer che gli ha dato il colpo di grazia, facendo la stessa fine del Cinema Paradiso.

Come tanti suoi spettatori che non ci sono più, ormai appartiene al firmamento dei nostri ricordi. E' uscito di scena come fece Totò in un celebre film che abbiamo visto tante volte sul quel magico rettangolo dipinto di calce bianca e dell'azzurro del mare: "Torno nella miseria, però non mi lamento. Mi basta di sapere che il pubblico è contento!"

Contentissimi. Grazie Miramare, per tutto quello che ci hai fatto vedere, vivere.... e sognare!

Il tuo pubblico.

M.R. (lug 2007)

 

 

 

 IL TRIS BAR, MITICO LUOGO DI RIMEMBRANZE

Il Tris Bar di Catania compirà quest’anno 55 anni. I siti specializzati scrivono che dal 1966 è sinonimo di qualità e sapore. Io dico che è, ancora oggi e soprattutto per i miei amici di FB ad essere cresciuti in Piazza Guardia, un intenso profumo che sprigiona ricordi di fanciullezza mischiati a besciamella, goliardia ed acne giovanile.

Si chiama così perché quando fu fondato i soci erano tre: Bonaccorsi, che si vede ogni tanto seduto alla cassa e che, a vederlo, ancora ….. ‘sa fira!; Ranno, che abbandonò nei primi anni Settanta per proseguire altrove la sua attività da solista; Pennisi, un gran signore di altri tempi che ci ha lasciati qualche anno fa.

I suoi antagonisti furono il Gattopardo nel ’69 (poi chiuso) e i Giganti (da sempre, ma non regge il confronto soprattutto da quando il Cine Alfieri di Billy non è più quello di una volta ).

Oggi continuano egregiamente la conduzione dell’azienda i figli Daniele Bonaccorsi e Roberto Pennisi con il catering, i servizi in sala pranzo e tutta l’eccellente offerta gastronomica dello storico locale. Mitiche sono le cipolline fumanti servite su conetti fatti di carta oleata per avvolgere e gustare la leccornia senza farla sbrodolare sulle mani. E poi le memorabili pizzette che, non me ne vogliano gli specializzati del gusto liotrico, reputo le migliori di Catania.

Da ragazzino erano la mia passione ma, come tutti i bambini, i soldini erano pochi e, quindi, le strategie erano due: la paghetta settimanale o la cresta sulla spesa. La paghetta la usavo per tutte le altre cose che potesse desiderare un adolescente; l’altra per le pizzette del Tris Bar!

Spiego la tattica mascalzona. Mia madre mi scriveva l’elenco delle cose da comprare per la spesa e io andavo. Le tecniche per conquistare la merenda erano due: 1) far segnare tutto sul conto di famiglia, dicendo a casa che avevo pagato in contanti; 2) aggiungere la cresta sul conto totale, tenendo per me la differenza.

Ma per un bambino alle elementari già scarso in Matematica e propenso ad altre branche didattiche, la cosa era alquanto difficile. Quindi, quando mi apprestavo a tornare a casa con la spesa facevo un po’ di conti nel cammino, cimentandomi in un’antica arte molto nota a politici e amministratori pubblici. Però, conoscendo le mie pessime qualità contabili, ero concentratissimo e non salutavo quasi nessuno, preso dai calcoli! Per strada incontravo qualche vicina di casa, che nemmeno calcolavo. Così alcune vollero avvertire mia madre “Signora Rapisarda, non glielo volevo dire, ma sono preoccupata. Ho visto Mimmo per strada con le buste della spesa, però aveva lo sguardo stralunato e gli occhi assenti, come se camminasse e pensasse ad altro! Le consiglio di farlo visitare". Poverette, non sapevano che stavo per raggiungere le ultime dieci lire per comprarmi le figurine Panini e, soprattutto, poter tornare al Tris Bar per la pizzetta dell’indomani!

Mia madre, verificando il lungo conto prodotto dal salumiere, si insospettì chiedendomi conto (il caso di dirlo). La mia difesa degna di Perry Mason: “mamma, è tutto aumentato! Che colpa ne ho io? Perché non lo chiedi al governo Fanfani? Non lo vedi il telegiornale?”. Terribile!

Il locale continuai a frequentarlo alle Scuole medie. Io ero alla Recupero e poi Bellini, situata al primo piano di uno stabile affacciato a Mezzogiorno sulla baia di San Giovanni Li Cuti. Le classi avevano tutte una larga vetrata che faceva letteralmente entrare il luccicante mare di Ognina in aula. La cosa creò non pochi problemi perché non seguivamo più la lezione,  continuamente distratti da quella meraviglia alla nostra destra e dalle gambe della professoressa di Inglese (da sempre le più bone!) alla nostra sinistra.

Come finì? La presidenza della scuola fece dipingere di smalto bianco le vetrate! Ma noi non ci perdemmo d'animo e consumammo tutte le matite dell'astuccio per grattare, grattare, grattare il vetro fino alla Primavera. Maledetti, oggi avrebbero chiamato il telefono azzurro!

Una volta alla settimana, dopo le due ore di educazione fisica che ci facevano battere il cuore a mille per la stanchezza (al sottoscritto non solo per la materia scolastica ma per le prime, romantiche e platoniche  extrasistole !), prima di continuare la didattica al banco, con i miei compagni di classe si andava a consumare straordinari primi piatti su quegli sgabelli, posti di fronte a quella piazza in cui il Tris Bar entra di diritto fra i suoi monumenti, situato sotto quei  pilastri che non sono più elementi architettonici ma ornamenti storici del quartiere. Cioè, se un giorno dovessero togliere il Tris Bar da sotto i portici di quello stabile, sarebbe davvero una tragedia in Piazza S. Maria della Guardia.

Già, quella piazza. Ovvero l’epicentro di un quartiere che è quasi un satellite, una piccola cittadina. Della parrocchia non scrivo nulla perché basta girare in rete per apprendere la sua storia. Voglio però ricordare padre Agnello, un giovanissimo padre Marcello che ci fece vivere momenti felici in quel piccolo campetto in cemento dietro la chiesa, in cui organizzava tornei di calcio, ping-pong ed altro per preparare lo zucchero al noioso amaro dei precetti e del Catechismo. In quei pochi metri, che a quell’età ci sembravano tantissimissimi, crescevano il bomber Robertino Rapisarda, Ardizzone, i fratelli Terrati e Mimmo Bondì che rimpinguarono le file della mitica Mongibello. E in via Zoccolanti (nome dovuto alle calzature dei frati cappuccini) alzi la mano chi non ha mai visto uscire dalla sagrestia il nostro amato padre Girolamo che ha sempre avuto una carezza, una benedizione  o una solenne cazziata per ognuno di noi?

E non posso non ricordare i tanti personaggi. Oltre al carrettino ambulante di Don Tino, il chiosco di Don Orazio davanti alla fontana, con le sue granite dai tre gusti: mandorla, limone e cioccolato, consumate in un bicchiere di plastica e con un panino di semola portato da casa. Tutte le altre fisime arrivarono solo anni dopo.

Il titolare credo fosse il bravo Sig. Cannata del Bar delle Sirene, situato accanto al negozio della mitica Olga Nicosia di cui ho già raccontato in passato delle righe molto affettuose.

Qualche metro più avanti, immersi nell’intenso odore di “ragù” proveniente dalle pentole delle casalinghe di via Bonforte, i  Ceusi. Ma sì,  mettiamoci anche loro perché, nel bene e nel male, fanno parte della storia del luogo. Ricordo che uno dei componenti lo definirono “la pecora nera della famiglia” in quanto incensurato e senza nessun procedimento penale a suo carico!

E poi "Topolino nniù nnau!”, Jachino Marletta che alzava la pietra sul petto, il fioraio Salemi, la Sig.ra Musumeci titolare del panificio in piazza e autentica colonnella, l’irriducibile juventino Mario Cutrona e suo nipote Angelo Pagano Principe della liscìa da Vaddia, "il boss della zona "Giuvanneddu" terrore di noi ragazzini e poi morto in un incidente con il suo Kawasaki,  il fotografo Chines, l’orologiaio Chisari e tanti altri che adesso non ricordo, compresi quelli che non ci sono più come Alberto Pappalardo, Salvo Piazza e Giulio Stancanelli.

Chiedo scusa. Volevo solo far gli auguri al Tris Bar e invece sono ampiamente scivolato lungo la rotonda della piazza, raccontando di chi ha calpestato i suoi contorni. Anche se residente fuori zona, sono rimasto per sempre qui. Quando devo andare in Centro, lascio l'auto sempre alla base, sotto casa di mia madre, senza aver mai capito perché non cercare un parcheggio più avanti.

Leggendomi, mi è venuta quasi una lacrima agli occhi e una gran voglia di ordinare (non le assaggio da decenni) una di quelle pizzette oggetto di queste mie rimembranze rigorosamente da asporto, essendo tutti in zona arancione!

Auguri, Tris Bar!

(Mimmo Rapisarda)

 

UN'ESTATE INDIMENTICABILE

Si parla del cambiamento del clima, stagioni che non sono più quelle di una volta,  Primavere che arrivano in ritardo ed estati che non sono estati.

Una volta non vedevamo l’ora che arrivasse, l’estate. Quelle di oggi, invece, ci fanno rimpiangere la stagione fredda e non ti invogliano a far niente, ti sfiancano. Forse è il nostro corpo, troppo abituato all’aria condizionata, che non riesce più a sopportare certe temperature. Ma una volta non era proprio così e per questo i miei ricordi di bambino riferiti all’estate sono stati sempre di 26 gradi al massimo.

Chi non se le ricorda le estati dell’infanzia? Io ne ricordo una bellissima, ero ancora un bambino e avevo quasi dieci anni.

Invidio chi è vissuto in quegli anni, fantastici anni, perché li ha visti proprio in diretta. Era importante esserci e vivere di persona quella rivoluzione sociale, musicale e culturale, dove passavano per radio capolavori come Wight is wight, San Francisco, Yellow river, Eloise, Mellow yellow, Whinchester cathedral, I’m coming home oppure sfacciate cover come "I cant let maggie go" che diventava "Un angelo blu", "White shade of pale" che diventava "Senza luce", "So happy together" che diventava "Per vivere insieme".

La concorrenza televisiva consisteva soltanto nelle Stelle che stavano a guardare del primo canale contro una Figlia del capitano nel secondo canale. Firenze veniva allagata dall’Arno, Luigi Tenco si toglieva la vita a Sanremo; l’Italia di Fabbri perdeva il mondiale con la Corea e Benvenuti diventava campione del mondo; i Colonnelli si impossessavano della Grecia e  Israele stroncava l’Egitto in sei giorni. Barnard eseguiva il primo trapianto di cuore e Che Guevara, Martin Luther King e Bob Kennedy venivano assassinati; al cinema proiettavano Easy rider, Il laureato e 2001 Odissea nello spazio e la Nasa aveva già messo a punto il computer che avrebbe guidato l’uomo sulla luna: oggi non sarebbe utile nemmeno per far funzionare il solitario di Windows!

Purtroppo arrivò anche il Vietnam, che portò (fra i pochi regali) la consapevolezza che davanti ai Palazzi si poteva anche protestare; il vento del movimento studentesco del ’68 cominciava a soffiare, le prime Facoltà erano già occupate e nelle aule prive di banchi si bivaccava e si cantava Blowind in the wind con un’arma micidiale che si chiamava chitarra.

Ma i soldati americani, un giorno, li vedemmo davvero. Un pomeriggio di settembre un mezzo anfibio approdò nel porticciolo di Acicastello facendo sbarcare dei marines in attesa di essere avviati a Sigonella per poi, da lì, farli partire per il Vietnam. Noi bambini andammo di corsa, incuriositi di vederli finalmente dal vivo perché questi erano veri, in carne ed ossa e non di plastica! Imbambolati come davanti a un presepe, osservammo in silenzio tutti i loro movimenti e tutte quelle cose viste soltanto nei film in Tv: tute mimetiche, elmetti, scatolame, ecc. Tutto ci sembrava enorme, dagli scarponi ai pantaloni, dai loro piedi alle loro mani, dai loro Ray-Ban alla loro voce. Tutto ci sembrava bello, ai nostri occhi sembravano degli eroi, ma quei ragazzi stavano probabilmente andando a morire per una guerra che non apparteneva a loro e che non volevano.

Come in un noto film di Coppola, fra i fiumi della giungla del sud est asiatico quei soldati ascoltavano musica fra la puzza del Nepal, e non era quella beat che stava quasi sparendo, ma quella migliore dell'ultimo millennio: il periodo compreso tra il 1967 e il 1972. 

E quasi incosciente di tutto quel ben di Dio musicale e culturale che mi gravitava attorno, io che facevo? Ero impegnato a cercare la figurina di Pizzaballa (introvabile) in cambio di cinque figurine di Altafini! Cose da pazzi! La musica? Macchè! I miei gusti musicali erano la sigla di Braccobaldo Show e la colonna sonora della Nonna del Corsaro nero! Però, però…. qualcosa stava accadendo, quelle note erano troppo melodiose e facevano capitolare chiunque. Erano le prime avvisaglie di quanto, invece, la musica sia poi diventata una cosa importante nella mia vita, con la complicità di qualcun'altro.

Proprio in quel periodo, alla fine degli anni Sessanta, in famiglia gestivamo un ritrovo nella riviera catanese dove c’era una grande rotonda sul mare. La chiamavano la Fossa dei serpenti.

Al suo ingresso, sulla piazza del paese, c’era un semplice e sottile neon color lilla dove c’era scritto "Danze", semplicemente Danze. Si entrava dal cancelletto e poi, per le scale, si scendeva giù fino al mare, fino a quella rotonda con il bar e i tavolini all'aperto a due passi dal mare.

Ogni pomeriggio, a tutta la nipotaglia veniva offerto un cono-gelato gigante. Ci mettevano tutti in fila (abbastanza cunnuteddi) davanti al banco dell'esercizio in piazza e ad ognuno di noi porgevano un cono gelato accompagnato da un invisibile messaggio: "per tutta la sera non fatevi vedere - non chiedete più niente fino a domani - non rompete i coglioni e fateci lavorare - stop!".

Verso sera arrivavano le band, o i complessi come si chiamavano una volta. Sopra avevamo i "Rangers 67", tutti vestiti con una giubba rossa lucida, e suonavano i successi italiani: Caselli, Pavone, Berti, Fontana, Celentano, Morandi, Carosone, Dino, Paoli, ecc.. ma sotto… sotto, in rotonda, c’erano i Provos: cinque studenti che ingaggiò mio padre per quella stagione. E i Provos, lì sotto, facevano tutt’altra musica! Sapevano che alla gente piaceva ballare con una canzone di Fred Bongusto a due metri dal mare oppure ascoltarla seduti con un pezzo duro davanti, ma sapevano anche che in quel periodo una nuova ondata di strane e dolci melodie stava rivoluzionando il mondo. Consapevoli che loro stessi appartenevano a quello strano "prurito" planetario, ogni tanto desideravano far sapere agli altri come stava cambiando la musica fuori dai confini nazionali. Il risultato? Il maresciallo dei vigili ci chiedeva ogni sera di abbassare il volume su “Reach out i'll be there” e i Rangers67 rimasero a suonare da soli su in piazzetta di fronte al famoso forno per pizze con la bocca di Polifemo! Nella stagione ci furono anche degli avvicendamenti, altrettanto scatenati: The Runaways (i fuggiaschi, o fuggitivi) e solo dopo appresi il motivo delle loro giacche bianco e blu, simili a quelle dei carcerati.

E così questi Provos, tutti vestiti di bianco, fra "Pugni chiusi", "Cinque minuti e poi" e "Pregherò", dal loro repertorio tiravano fuori "La tua immagine" dei New Dada, cantata per metà in italiano e per metà nella versione originale, ma anche "The sound of silence" di Simon & Garfunkel, e poi …o "Lady Jane" o "Yesterday" .. e tante, tante altre. Per me erano diventati un mito ed ogni sera li aspettavo con ansia…. qualcosa stava cominciando a friccicarmi dentro.

I ragazzi che venivano la sera da noi erano, per lo più, occhialuti studenti catanesi inconsapevoli che quella magia stava per contribuire, da lì a poco, a far nascere tanti figli dei figli dei fiori. Complici un’inebriante brezza marina che entrava nelle loro narici fino a stordirli, dolci e ammalianti note e una luna che, oltre al mare, illuminava anche dichiarazioni d’amore sussurate fra il collo, la guancia e un Fa diesis.

Ogni sera, dopo aver provato, la band andava a cenare e mi lasciavano da solo a guardia degli strumenti ancora coi jack collegati dicendomi (senza speranza): "Mimmo, mi raccomando, dai un occhio.". Ma non c’era verso. Già a quel tempo rimanevo affascinato da tutto quel luccicante ben di Dio: chitarre con i colori più sgargianti, organi elettrici, amplificatori, enormi microfoni ecc.. Quella capannina fatta con le canne e illuminata da affascinanti neons blu, rossi, verdi, gialli che si accendevano e spegnevano quasi come in un albero di Natale, era per me troppo allettante. Appena i musicisti andavano via prendevo le bacchette, mi accomodavo alla batteria tutta madreperlata e cominciavo a tormentare i tamburi; e poi passavo all’organo Farfisa, e poi pizzicavo le chitarre elettriche Eko, e poi e poi e poi…….. Da lontano, il batterista Lucio detto "Ringo", si sentiva tranquillo perchè sentendo suonare (suonare?) il suo rullante sapeva che qualcuno, anche se quasi li distruggeva, controllava gli strumenti. Pur se devastatore e inconcludente, per me quello fu il primo contatto con la musica.

Una sera li mandai in tilt. Avevano poggiato una chitarra sul retro della capannina dimenticando di disattivare lo strumento dall’impianto. Stavano cantando Homburg e a un certo punto della canzone si guardarono tutti in cagnesco: "Ma chi è che sta sbagliando gli accordi? C’è qualcosa che non va, com’è possibile?". Non si erano accorti che sul retro, mentre loro suonavano, io stavo armeggiando con quella chitarra, sballando tutto il resto della canzone! Ero terribile, un vero rompiballe!

Oggi mi sarei perduto fra quelle note invece di perder tempo a giocare al pallone di notte coi miei cugini. Una notte, dopo aver mandato in frantumi qualche lampione nella piazza antistante, il pallone rotolò troppo ma troppo lontano e andai a recuperarlo fino ad avvicinarmi alla ringhiera affacciata sul golfo dei Ciclopi, verniciata con l’azzurro del mare sottostante. Sudato, infreddolito per il gelo della notte e col pallone sotto l’ascella sentivo alcuni suoni provenienti dai locali che non avevano ancora chiuso. Dalla costa vicina, il Lido dei Ciclopi, sentivo "Yyeeeaaahhh!, i tuoi occhi sono fari abbaglianti….", cantata da un ragazzo inglese che si faceva chiamare Mal dei Primitives; e poi un’altra: "il tuo diario che sempre riempivi, solo con ciò che faceva piacere a chi di notte l'andava a vedere… piccola…", cantata da uno sconosciuto complessino che stranamente si faceva chiamare col nome dell’orsetto protagonista dei libretti che leggevo nel pomeriggio: Pooh!

Come avrei voluto avere vent’anni allora. Mi consola il fatto di averli vissuti almeno di riflesso e per questo mi considero un privilegiato. Io c’ero! (anche se il mio contributo è stato solo quello di rompere almeno tre grancasse dei Provos). Ma mi sono rifatto, col tempo ho recuperato tutto quello che mi sono perso. Con tutto quello che stava accadendo come avrei potuto sentire caldo nell'estate del '67? Anzi, c’era fin troppo fresco con quei venti portatori di nuovi entusiasmi!

Ma anche le cose belle finiscono. Quello fu l'ultimo anno della mitica Fossa dei Serpenti. Le balere e le rotonde sul mare cominciarono a far posto alle cantine e ai centri sociali; stavano per nascere i mega-raduni della musica come quelli all’isola di Man e quello a Woodstock; la Bussola e il Pyper venivano sostituiti dai Palazzetti e dai Teatritenda e certi barbuti giovanotti cominciavano a riprendere il discorso che aveva appena iniziato Tenco.

Già nel ’68 la rotonda, in senso di pista da ballo, non c'era più; veniva utilizzata come piattaforma balneare di un piccolo stabilimento. Più nessuno andava a ballare sul mare perché si preferivano le chiuse e buie discoteche. Il colpo di grazia lo ebbe nel 1972 con una mareggiata che le portò via il novanta per cento del suo pavimento, lasciandole soltanto una mezza luna a forma di falce. La sezione PCI del posto ne approfittò subito per verniciarla di rosso, dipingendole accanto un martello! L’ultima volta che ho calpestato i suoi resti fu una ventina di anni fa. Come tanti altri catanesi ci sono andato a pescare, e mentre lanciavo il mulinello sentivo i gabbiani volteggiarmi intorno in cerca di esca e di pesce; e il loro gracchiare era un canto di fantasmi in quella rotonda che non c’è più. Un canto che sembrava quasi un arpeggio simile all’inizio di "The boxer", la sigla di apertura dei favolosi Provos, oggi tranquilli signori in pensione.

Mimmo Rapisarda.

 

LE NOTTI STELLATE DEGLI ANNI SETTANTA

20 LUGLIO. Come oggi, l’uomo sbarcò sulla luna. Quella notte, la prima volta che avvenne, allunò con svariati colpi di culo che furono dichiarati dopo decenni. L’apparecchiatura informatica di bordo possedeva una potenza di calcolo inferiore a quella di uno smartphone di oggi; la CPU era stata inventata solo un anno prima e quel giorno l’armadio di transistor e valvole, un sistema paragonabile a un Olivetti M24 del 1981 che già allora era una sciccherìa, andò in tilt per la quantità di informazioni richieste e solo grazie all’esperienza aeronautica dei comandanti  Armstrong e Aldrin, che nella fase finale elaborarono a mano con una Texas Instruments tutti i calcoli di avvicinamento, il LEM potè atterrare.

Intanto Collins girava attorno alla Luna, pregando Dio di potersi presentare in tempo all’appuntamento con la navicella sparata dal Lem, per riportarli a casa. La frase, l’impronta, la bandiera, le pietre, sono tutte storie che ormai conosciamo e che ricordo con l’immagine celebrativa che ho postato. Ma quella notte, noi ragazzini di quel tempo, come vivevamo? O cosa fantasticavamo guardando quella palla che di sera illuminava le nostre vite senza bisogno di troppi neons?

Io la passai col mio adorato nonno nella sua casa di San Vito a Taranto. E mentre lui, da vecchio lupo di mare, faceva le sue previsioni meteo dell’indomani soltanto guardando le stelle e il mare che avevamo davanti, mia nonna ci deliziava l’attesa dell’allunaggio con fantastiche friselle che noi consumavamo senza accorgercene, tanto eravamo assonnati durante una di quelle estati per me indimenticabili.

Assieme a quei tre lassù, quella notte eravamo tutti svegli, in tutto il mondo. In Italia, dando pugni sul televisore per evitare le maledette strisce orizzontali, eravamo tutti sul primo canale ascoltando Tito Stagno che s’incasinò in diretta, più del rincoglionito Ruggero Orlando da Houston.

L’Italia era fresca Campione europeo e il Milan di Rivera e Prati vinceva la Coppa dei Campioni; Nixon era stato eletto Presidente USA e per rispetto ai suoi predecessori continuava a giocare a Risiko spostando le pedine sulla casella Vietnam; i Beatles attraversavano le strisce pedonali di Abbedy Road e i Rolling Stones infuocavano l’erba di Hyde Park; imperversava il movimento studentesco in cui fascisti e comunisti se le davano di santa ragione nei licei di tutta Europa. In Italia non si ricorreva più alle cambiali per una lavatrice ma si pagava in contanti. Ancora solo per un po’.

Ovviamente le esigenze non erano quelle di oggi. Non avevamo bisogno di quattro televisori in casa, sette utenze telefoniche, P.C., condizionatori, l’immancabile vacanza dove oggi tira il vento del trend onde indirizzare il gregge della serie “altrimenti che scrivo quando ritorno dalle ferie?”

Nel ’69, non conoscendo affatto le comodità che ci avrebbe riservato il futuro, era uno sballo lo stesso. Anche la cosa più banale, anche un’estate senza partenze, la vivevamo spensieratamente e soprattutto con entrate monoreddito. Significava che potevamo permetterci …. (udite, udite!) una mamma a servizio completo! Casalinga sì, ma con un ruolo importante, che contribuiva al bilancio familiare evitando sprechi sia nel locale lavanderia che nei locali sartoria e cucina. Vi pare poco? Sfido qualsiasi bambino di oggi a dirmi che riceve ogni giorno le magliettine belle stirate, le fette di nutella per la merenda del pomeriggio, il canale due già sintonizzato sulla Nonna del Corsaro nero e soprattutto il sorriso di una mamma sempre a portata di mano, invece del monitor illuminato! Vi pare poco farvi abbracciare dalla mamma anziché litigare con uno sconosciuto che commenta un vostro post su facebook?

Non so voi, ma credo che un po’ tutti si viveva meglio. Noi bambini consumavamo le scarpe buone giocando a pallone per strada e i nostri genitori non chiamavano già l’obitorio se tardavamo a ritornare a casa; soprattutto eravamo irrintracciabili! che bello! E poi, come si poteva? Il massimo era il gettone telefonico e per fare un’interurbana occorreva il consiglio di famiglia.

La ragazzetta non si conquistava con nascosti sms, ma con un atto molto più coraggioso che consacrava la propria maturazione: la dichiarazione d’amore. Era un fottuto momento, specie la prima volta: si balbettava, non si sapeva che dire, si arrossiva, si dicevano velocemente frasi imparate a memoria la sera prima, e tutto sto po’ po’ di adrenalina per ricevere cosa? la seguente risposta: “sì, ti voglio bene, ma come un fratello! ci devo pensare!”. In realtà lei ci aveva già pensato da tempo, ma per i maschietti quella era la risposta più atroce che si potesse ricevere nel 1969!

Così, ogni sera, dopo Giochi senza frontiere…. un, deux, trois, si andava a guardare la stessa luna bianca, irraggiungibile come la ragazzina; quasi la si pregava come se fosse un Dio, sperando nel “sì” dell’indomani. Che poi, a 11 anni, arrivava subito l’altro problema: che facciamo dopo il sì? Oggi si sa perfettamente, fin troppo, ma allora era un disastro. Però credo che, in fondo, era molto più romantico perchè allora la si conquistava con una penna (usata) e un cornetto Algida.

Che tempi! Non esistevano i condizionatori in auto e per evitare il caldo si partiva (tutti assieme, senza il fuggi-fuggi di oggi) per le vacanze si partiva nei freschi orari notturni, stretti stretti in auto, senza bisogno di station wagon per giustificare la voglia di certi capricci dei nostri giorni. I colori del primo mattino visti dai finestrini ripagavano di tutte le scomodità e i sudori in fronte. I ragazzi di oggi quei colori nemmeno li conoscono, impegnati a dormire fino a mezzogiorno per smaltire le sbornie di qualche ora prima. Noi ci ubriacavamo al massimo con l’aranciata in bustina e, se proprio volevamo fare i folli, il cocktail San Pellegrino, facendo attenzione a dove andava a finire il tappo perché sotto poteva scapparci un premio!

Però, anche se cambiano i tempi e queste memorie li faranno certamente ridere, sono convinto che i nostri nipoti quella luna complice la guardano ancora, ogni sera, confidandole i loro desideri. Perché cambiano le mode, gli usi, i costumi, ma i cuori no. I cuori rimangono sempre gli stessi.

Forse fra cinquant’anni qualcuno leggerà queste parole nei Social Network installati direttamente nelle proprie orbite e, lo so, riderà di me e del reperto archeologico scovato nell’internet del 2064. Ma se fra i commenti di quel futuro ci sarà qualcuno che, abbassando le ciglia, cliccherà “mi piace” vuol dire che avevo ragione. Vuol dire che i cuori non cesseranno mai di battere alla stessa maniera.

Sono andato fuori tema? No. La luna è sempre lì, pallida e paciona. Alza gli occhi al cielo e osserva, ogni sera, le nostre eterne sciocchezze.

M.R.

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 LA MIA VECCHIA 500

ah ah... forse perchè si chiama Fiat, ma anche la mia vecchia 500 mi lasciava a piedi.

Una volta, in viale Africa, non ne volle sapere di ripartire dopo averla appena ritirata dall'autofficina.

Esasperato, la lasciai lì ma gliene dissi di tutti i colori e in modo molto agitato, insultandola addirittura con termini volgari e prendendola a calci sulle ruote. Gli automobilisti passavano e allungavano il collo per vedere se c'era qualcuno a bordo.

Però era bella, niente a che vedere con quella attuale. Il tettuccio apribile per l'aria "condizionata" e le stelle sulla testa mentre gli stereo8 mandavano musica alle casse che al massimo erano a 20 watt. La mitica doppietta dalla terza alla seconda, i sedili "ribaltabili", il cruscotto della L che facevo ritornare nuovo dopo averlo lavato con la CocaCola, e ....... poi aveva delle curve mozzafiato che solo i designers di allora potevano creare.

A proposito, su quel cruscotto applicai una calamita con le foto della mia fidanzata a sinistra e quella di De Gregori a destra, sopra la scritta "con correre, pensa a noi". Spirito di patata e spensieratezza che si posseggono solo a vent'anni; era anche un modo per prendere un po' in giro quelli che alla calamita sul cruscotto ci credevano davvero, che so... Gesù e la bambina o il parente nell'aldilà.

Quelli che salivano a bordo e conoscevano De Gregori, quando vedevano la calamita già si mettevano a ridere perchè la mia passione musicale, già allora, era leggendaria. A chi invece non lo conosceva, come mia madre, la cosa suscitava ............... mi chiedeva se poteva finalmente conoscere la signorina e poi, "chi è un tuo amico, e che può dire la gente? mah!". O il meccanico, che mi guardava come se volesse dirmi "mbare ma chi addivintasti tuccatu da rannula?"

In quel periodo ero così, un po' pazzoide.

 M.R.

 

LA GAMELLA

La Gamella era un recipiente di latta nel quale, fino a tempi recenti, i soldati mangiavano il rancio, sinonimo di gavetta. Il termine proviene dallo spagnolo ma, in gergo marinaresco italiano, significava altro. Infatti nel linguaggio della Marina Militare indica l’insieme delle stoviglie e posateria delle mense di bordo (questo dice Treccani).

In effetti tutto era contenuto lì: primosecondocontornoposatepane e vino in boccione di vetro, tutti assieme e compatti per evitare, a bordo, che tagliatelle e cotolette se ne andassero per conto loro durante il mare in burrasca. Non so se viene ancora usata, ma quasi 40 anni fa si utilizzava anche nelle mense a terra.

Il termine indicava anche colui che doveva provvedere, in toto, al vettovegliamento della “ciurma”, sia a bordo che a terra. In poche parole: il Direttore di mensa, che per questo veniva appunto chiamato “Capo Gamella”.

Io sono stato costretto a farlo nel 1978, per due mesi, alla Capitaneria di Catania. Dapprima mi ribellai, ma poi mi fecero capire che far mangiare una sessantina di persone non era la stessa cosa che ristorare più di 500 persone di stanza in basi come Augusta o Maristaeli. In effetti al porto la cosa era più a dimensione terrena, piu urbana, quasi in borghese, da spesa al mercato rionale con un budget a disposizione che non era possibile avere in posti più “militari” dove si era costretti a cucinare quel che passavano da Roma.

Dopo ho scoperto il lato divertente e conveniente della cosa. Prima di tutto non avevo i miei abituali incarichi, ovviamente dormivo a casa mia, ero esente dalle guardie e respiravo aria fresca e libera! Che bello!

La mattina partivamo col furgone assieme al cuoco, il vice cuoco, i tre marinai destinati ad aiutare (sbucciare le patate, va), lavare la cucina, il pentolame e le “gamelle”. Da qui il terzo termine, cioè “essere di gamella”.

Prima tappa la colazione da offrire a tutti, poi a Fera o Luni dove si compravano dozzine di polli o decine di chili di carne; poi la verdura, la frutta, ecc. Conoscevo quasi tutti i venditori che, per palesi interessi, facevano a gara per salutarmi. Poi si passava al supermercato in Corso Sicilia per le altre cose, chiudendo un occhio a quello che il cuoco metteva nel carrello, specialmente il mio che da civile lavorava al San Domenico a Taormina!!! In caso di pesce, lo prendevo direttamente da solo al mercato ittico di ViaTempio (lo Sgabello) alle quattro del mattino.

Poi si tornava alla base e si cominciava a cucinare, mentre io pensavo alla contabilità, alle fatture ricevute per far quadrare il Giornale di Mensa per fine mese e a controllare l’ordine in refettorio.

Quando tutto era pronto, si mettevano le pietanze del giorno in una gamella che poi si poggiava sul “portagamella”. Intorno alle 14.00 lo si portava al Comandante in 2° per la “prova assaggio”, nel suo ufficio sperando di ricevere la fatidica ma stupida frase "ottimo e abbondante". A volte questi scendeva direttamente nelle cucine.

Il “secondo” era colui che, rispetto al “primo", doveva far funzionare e amministrare la macchina; quindi doveva tirare le orecchie ai ragazzi, concedere licenze e permessi, rimproverare, punire, farsi odiare; insomma era lo stronzo per antonomasia. Lo sapeva anche quando assaggiava, per questo era consapevole dei rischi che correva.

Quello nostro lo era ancora di più (infatti ci litigai e per questo lasciai la Marina), non era molto amato e temevo che un giorno gli svuotassero nel piatto un vasetto intero di Guttalax.

Lui assaggiava e ogni giorno aveva sempre qualcosa da ridire sulla cottura o sul sapore come se fosse Cannavacciuolo. Mentre ce ne diceva di tutti i colori, ogni giorno mi veniva di dirgli “Stronzo, ma quando mai te lo puoi permettere di assaggiare un boccone del genere, preparato da uno chef di prima classe, e perfino gratis? Che porcheria di minestrone ti cucinera' oggi tua moglie? Approfittane e stai zitto. Strozzati!”.

Ogni tanto mi ci lamentavo per altre cose: “Comandante, possiamo far riparare il pavimento nelle cucine? Ci passeggiano gli scarafaggi!” E Lui: “Sono i fuochisti. Durante la guerra ce li mangiavamo con l’insalata! Non c’è bisogno!” Contento lui.

Poi controllavo il pranzo, e dopo anche la cena. In attesa delle portate, facevo i ritratti a carboncino ai marinai in caserma. C'era la fila.

Comunque, bei tempi. Oggi mi era passata questa immagine per caso, ed ho voluto raccontare un periodo che ricordo con tanto piacere.

 M.R.

   

 

LE PIZZERIE DI UNA VOLTA

Oggi, rivedendo PERDUTOaMOR, mi accorgo di quanto fosse stato geniale e meticoloso Battiato nell’arte di “far vedere e non far vedere”, cioè lanciare quei piccoli messaggi nascosti fra i fotogrammi.

Quel che faccio vedere bisogna saperlo stanare. Nel film c’è un cameo, un gioiello della durata di pochi secondi, in cui si scorge un momento felice di catanesi che andavano a prendere un po’ di fresco alla riviera dei Ciclopi negli anni Sessanta. La location è la parte finale della piazza di Aci Castello, un meraviglioso palcoscenico teatrale con le quinte rappresentate dalla costa con i faraglioni di Acitrezza in lontananza, il castello normanno a destra e una mitica pizzeria a sinistra di cui scriverò in seguito.

La scena è immaginata, ricordata e girata dal Maestro proprio lì, sulla piazza di fronte a quello spettacolare belvedere. E’ magistralmente camuffata, ma chi sa o possiede quella famelica curiosità di scovare la chiave di lettura si accorgerà che tutto è al suo posto e non manca proprio niente. Ciak! il juke box che suona “La terza luna“ di Neil Sedaka; i ragazzi che corteggiano discretamente le ragazze che passeggiano “sutta u castiddazzu” dentro abiti dai variopinti colori dell’epoca; due pettegole; il timido spasimante che si fa accompagnare per dichiararsi all’amata; due anziani coniugi che litigano fra loro; fanciulle che giocano felici e senza smartphone mentre i tranquilli genitori gustano il gelato seduti in piazza. Lo Spritz? Al massimo c’era il San Pellegrino con il Cocktal, il Bitter, il Crodino, quattro olive e un pugnetto di arachidi. Stop. La fettina di limone e il cubetto (uno!) di ghiaccio, erano serviti solo a richiesta.

Guardatelo attentamente perché Battiato non ve ne darà il tempo. E’ uno spaccato di vita della durata di appena 30 secondi che proietta, come in una passerella di alta moda, una generazione che si accontentava di piccole cose ma soprattutto un piccolo scrigno di gente perbene. Geniale!

Alla fine della scena si vede il protagonista con un amico a contemplare la fuga, seduto all’ingresso di una scalinata che portava a una nota rotonda sul mare di quegli anni: la Fossa dei serpenti, gestita nei suoi ultimi anni da mio padre e i miei zii. I giovani musicisti della band che avevamo, prima di attaccare il primo LA, ogni sera andavano a prendere la pizza proprio lì sopra in piazza. Ma prima di andare mi raccomandavano “Mimmo, accura ‘e strumenti!”. Macchè! Mentre mangiavano sentivano continui e fragorosi rumori di rullanti, tamburi, piatti, chitarre scordate e la mia voce di bambino al microfono che cantava a squarciagola, lì sotto a due metri dal mare e con la pista vuota davanti, “Una ragazza in due” dei Giganti accompagnata a modo mio, solo toccando i tasti della tastiera Farfisa illuminata da quegli affascinanti neons a colori. Poveretti, quante cene ho fatto andare loro di traverso. Molte volte, come si dice qui, “cia fici fari vilenu” proprio lì in quel locale lungo otto metri compreso forno, banco e quattro tavoli per quattro persone ciascuno.

Allora a Catania non c’erano molte pizzerie come oggi perchè le prime cominciarono ad arrivare con il napoletano Carmine al Teatro Sangiorgi e poi, a poco a poco, in quei pochi ma fantastici locali di quella raggiante Catania che non esiste più, quali il Nord Ovest, Finocchiaro, Lorenti, Fort Apache, Texas, Mignemi, Bellavista; più tardi Grand Canyon, Palmento, Tre Fontane, ecc.. Oggi invece sono tante, troppe, esagerate e le ossa di quei Maestri si riivolterebbero se leggessero gli ingredienti: Grana, San Daniele, pistacchi, noci, radicchio, mortadella, salame. Ma quando mai? Le pizze originali erano quelle di un tempo, preparate con sostanze semplici e genuine, solo e rigorosamente Biancaneve, Napoletana, Margherita, Capricciosa, Fattoressa, Quattro formaggi e Calzone che per i più esigenti veniva preparato con spinaci. Nient’altro, il menù era composto solo da una pagina compresi coperto e servizio. Quelle da asporto venivano messe una sopra all’altra in involucri di carta oleata di colore rosa, non facendole toccare tra loro grazie a delle bacchette di legno che alla fine del pasto spiluccavamo perché impregnate ancora di mozzarella, di autentica mozzarella!

Per la gioventù catanese di allora era un privilegio andare in pizzeria fuori città, poteva farlo solo chi aveva l’auto perché i paesini rivieraschi erano allora considerati lontani e l’attuale litoranea rappresentava quasi una gita fuori porta.

Le pizzerie castellesi entrano di diritto nella storia della ristorazione catanese. Una che è riuscita a mantenere il passo è quella denominata “I cessi” per via della vicinanza ai bagni pubblici nella sua vecchia ubicazione. La signora Santina me la ricordo ragazzina, alla cassa. Ottime pizze, ma anche succulente scacciate diverse dalle Catanesi (almeno quelle della Fam. Bonaccorso, titolari della pizzeria) perché alte non più di due centimetri, impastate con l’olio e ripiene solo di broccoli affogati, pepe, olive nere e pepato primosale. E basta, buonissime.

Ma il non plus ultra, il must, era la pizzeria sulla piazza, di fronte al castello. Sempre piena d’inverno, non era facile sedersi subito anche perché non esistevano le prenotazioni, quindi i cellulari, internet, ecc. Non aveva nemmeno la linea fissa, a stento il registratore di cassa.

I commensali già presenti rimanevano lì a parlare anche dopo la consumazione, a discutere a lungo di occupazioni studentesche e di Che Guevara, avvolti in maglioni alla Folagra e fumando, fumando, fino a far diventare il locale un bagno turco. Non potendo stare in piedi all’interno visto il pochissimo spazio, si aspettava il proprio turno fuori al freddo, scrutando dai vetri appannati se uno dei quattro tavoli era finalmente  tornato libero, anche da propositi di rivoluzione proletaria lasciati lì fra la mancia, dieci Marlboro sul posacenere e il conto da infilare nella tasca dell’eskimo.

D’estate era diverso: venivano messi i tavolini all’aperto davanti a quel piazzale antistante la statua di Giacinta Pezzana. Si prenotava e poi, in attesa del segnale con la mano, si facevano due passi in piazza, con calma come nel film, a filosofare sui perché della vita della durata equivalente all’esatto percorso dal Bar Privitera al Bar Viscuso, avanti e indietro avanti e indietro, lasciando sull’asfalto della piazza concetti espressi al momento, mirabilmente meritevoli di essere conservati ma purtroppo volatizzati verso il cielo di Aci come farfalle, anche per un motivo molto più terreno: la fame!  Peccato.

I tavolini erano rotondi, con la tovaglia coperta da una cerata e fermata da una cintura circolare in alluminio. Le sedie erano anch’esse in alluminio, ma se c’era folla spuntavano quelle piccole in legno, scomodissime, precarie e verniciate di bianco e di rosso. Ma chi arrivava a sedersì lì non gliene importava niente, perché prendere la Margherita e una Peroni gelata seduti di fronte a quel ben di Dio, con quel profumo di mare, era una vincita al Lotto.

La pizzeria “Al Castello”, a partire dagli anni Settanta venne poi gestita da Saro Grasso, che di giorno lavorava a Catania con mio padre in città. Aveva in gestione anche Il Tubo, nei pressi dell’Ecce Homo. Non mi soffermo a descrivere il personaggio perché lo ricorda in modo magnifico Luigi Pulvirenti, qui:

https://www.facebook.com/luigi.pulvirenti.50/posts/10211811218779177

Per me le sue pizze erano spettacolari, le più buone, non lasciavo nemmeno il cornicione. E ogni volta ricordo lui, dietro al banco, ad impastare e infornare con l’immancabile sigaretta in bocca ormai tutta ridotta in cenere e che ormai faceva parte degli ingredienti.

Appena mi facevo vedere: “Pippo, pripara n’tavolu po figghiu do zu Turiddu!” (il loro Capo). Non mi faceva mai pagare, alla fine mi consegnava pure quelle da portare ai miei. Io mi vergognavo di questa cosa (soprattutto davanti alla ragazza); ci andavo solo per la sua bravura, non per scrocco. Così decisi di disertare ma una pizza come quella sua, portata fumante a un tavolo posto di fronte a quel palcoscenico, non l’ho più assaggiata.

Oggi me ne sono pentito, non per poco nobili motivi ma perché ho appreso da un castellese che in paese quasi nessuno ha pagato il conto da Saro; la sua risposta era sempre “dumani ma pavi!”. L'avrei voluto rivedere almeno una volta prima che morisse. Non so se i figli di Saretto siano riusciti a continuare l’opera del padre, se la pizzeria ha un’altra gestione o se addirittura non esiste più, ma che Dio abbia in gloria l’ultimo maestro catanese dell’arte pizzaiola!

Riposa in pace Saro, e se lassù ti diranno “bravo, queste Fattoresse sono celestiali! quante ali dobbiamo metterle?”, fai spallucce e rispondi “chi fretta c’è ? dumani … o quannu voli Diu!”.

(Mimmo Rapisarda, maggio 2021)

 

 

 

 

SCEMENZE SUI SOCIAL ACCHIAPPATE SULL'ORLO DELL'OBLIO.

Da un paio di giorni sentivo una strana puzza nell'auto. Prima di chiamare la concessionaria per verificare un eventuale problema al climatizzatore (che avevo attivato da pochi giorni), ieri l'ho portata all'autolavaggio. Con igienizzazione compresa, non si sa mai.

mi chiamano:

- duttureddu, lei è piscaturi?

- no, perchè?

- c'è n'pisci sutta u tappitu! è n'mazzuni saracinu!

Era l'ultimo degli irriducibili pettini, saltato fuori dalla busta e ormai essiccato!

 

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Alle ore 10.00 esatte il nuovo addetto all'animazione gridò "voglio vedere tutto il lido ballare!".

Solo dopo il silenzio assoluto si rese conto di avere appena assunto servizio al Geriatric Sea Beach. Disattivò l'amplificazione e aggiunse le lettere RI al cartellone delle attività di svago balneare.

 

 

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Cammariere con Paoli e Rea . Niente, non è cosa, non è musica mia. Mi sto addormentando, non ce la faccio. Più lo guardo lì sotto suonare e più sogno di vederci Willie Nelson, Jhonny Cash e Dolly Parton.

Per passare il tempo ho fatto di tutto ma, a parte chi mi è accanto,  non vedo niente di interessante. Non posso scrutare nemmeno le stelle, che non si fanno vedere per via della cappa di afa che le ricopre. Lamette nemmeno a parlarne, oggi è sabato e i tabaccai sono già chiusi.

Insomma, mi è venuta una gran voglia di Al Bano e Romina Power.

Accetto pure filmati youtube di Renzo Arbore o di Gino Latilla.

Giuro che metto gli auricolari per non disturbare.

Arrghhh!

M.R. AGO 2017

 

 

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Mettetela come volete: la musica del Padrino, i berretti neri, il Bell’Antonio, i baffi, i fichi d’India, i cannoli, beddamatri, mizzica… ma i matrimoni in Sicilia hanno un fascino tutto particolare.

E’ uno spettacolo. Come per incanto, tutto è fermo in attesa di essere dipinto, girato, scritto. Già la sposa fa parte del capolavoro appena esce fuori dalle chiese barocche di tufo e pietra lavica, coi suoi neri capelli e gli occhi come olive. Aggiungiamoci alcune pennellate di cavalli, il cocchiere, le musiche, gli invitati (soprattutto gli invitati), il selciato, i colori, i paggetti e i testimoni, il tragitto, i curiosi, il rinfresco, il posto.... e l'opera è completa.

E poi ditemi perchè qui, anche in quel particolare giorno, tutto diventa un film di Maestri del cinema come Visconti, Bolognini, Germi, Wertmuller, Zeffirelli, ecc. ecc. ecc. Forse perchè solo qui in Sicilia, questi geni dell'arte hanno sempre saputo individuare l'interruttore per accendere ….. la luce!

Giugno 2013

 

 

 

 

QUANDO ESAGERO CON LO ZUCCHERO NEL CAFFE'

 

Primo maggio di questo (omissis) ”2015”. Quel che è rimasto dei miei capelli insieme all’essere che ho incontrato tanti anni fa. Ma solo dopo ho scoperto di quale sostanza era fatto, certamente proveniente da un mondo di elfi, folletti e gnomi.

Col tempo, poi, mi sono pure adattato al ruolo molto “secondario” del coniuge di colei che emana luce così pura da attrarre gli esseri umani che vivono fuori dal bosco. Il mio è un ruolo che non esiste nella bibliografia fiabesca, non si sono sognati di inventarselo nemmeno i fratelli Grimm o Christian Andersen. Io l'ho attuato dal vivo.

Ho scoperto da tempo chi è davvero ma lei, forse, non sa di esserlo. Non l’ha ancora capito nemmeno quando viene circondata da tutti quelli che l’amano e che, incantati, le vedono scivolare attorno stelline luccicanti e polveri magiche. Loro sì che lo sanno.

Lo sanno anche i bambini, innocenti, che le vogliono dare a tutti i costi la buonanotte; lo sanno perfino gli animali, anche loro innocenti, che le scodinzolano sotto la gonna senza nemmeno conoscerla o gli uccellini che aspettano le sue molliche ogni mattina. Lo sanno tutti, tranne lei.

Personaggi del genere me li raccontava mia madre da bambino, per farmi addormentare. E invece io l’ho sposato quel personaggio, fino ad abituarmi a conviverci.... con una fata!

 

 

SAN VALENTINO

... compresi i non corrisposti e i non dichiarati, … ma anche a tutti coloro che amano o che sono amati;

 agli innamorati “tesserati” e a quelli “tartassati”;

ai liceali maldestri e ai laureati già navigati;

agli amanti che si accontenteranno di fugaci sms e ai cornificati che quegli sms li hanno già scoperti;

alle tonnellate di rose rosse accettate per bramosia, a quelle gialle rifiutate per gelosia, ma soprattutto tutte quelle ordinate dai fioristi!;

ai pacchiottoni che si mangiano le mani per l’occasione sprecata e ai Casanova (esistono ancora?) che non sprecano nemmeno le briciole e mangiano non le loro ma le altrui mani, le altrui bocche, cuori, tutto;

ai primi teneri bacetti soffiati all’asilo e a quelli, altrettanto teneri, scambiati dagli anziani nelle case di riposo quando  si guardano negli occhi convinti di essere ventenni;

a chi ci crede ancora, ma anche a chi non ci crede più;

ai separati di fresco, che stasera saranno da soli e a quelli che consumeranno un'ipocrita cena a lume di candela;

a quelli che dicono, ogni anno, che lo festeggiano ogni giorno e a quelli che non sanno nemmeno che giorno è oggi;

a chi pensa che tutto questo scompenso ormonale sia solo una composizione farmacologica con scadenza triennale e a quelli che giurano amore eterno scorticando i banchi di scuola (sono ancora in legno?);

a quelli che dicono “qualche volta chiamami anche tu” e a quelli che dicono “non mi telefonare più”;

a quelli che chiedono “quanti anni mi dai?” e a quelli che rispondono “l’ergastolo, ma mi dichiaro complice per entrare nella tua cella”;

a quelle che, per amore, al botteghino fanno due ore di fila sotto il sole per prenotargli l’abbonamento allo stadio e a quelli che, per amore, in farmacia chiedono per lei ad alta voce Lines Seta Ultra Viola (con le ali);

E infine a quelli che amano le cazzate di Federico Moccia, ma anche a quelli che le proprie le scrivono in questo post. Perdonateli, sono in buona fede e si inteneriscono perchè stanno invecchiando.

Insomma, a tutti quelli che nella loro vita hanno detto, almeno una volta, “ti amo” a qualcuno; che sia stata l’amato/a o un parente, un animale, una squadra, un mito, una passione che fa battere comunque il cuore.

Se avete pronunciato queste due sacrosante parole che servono a dire “vale la pena vivere”, San Valentino

 M.R.

 

 

SCEMENZE POETICHE

 

Ho subìto un intervento sul palmo della mano:
una cisti fra la linea della vita e quella dell'amore.
Mi hanno lasciato, a malapena, quella della vita.
L'altra è stata tagliata, ferita, squarciata, lacerata,

bruciata, recisa e poi cucita, scrostata, piallata, 

raschiata, spianata, levigata e infine eliminata,

annullata, cassata, abolita. Cancellata.
Un capolavoro di chirurgia plastica.

Ormai inesistente, invisibile, impalpabile.
Ma allora ....... com'è che la risento vibrare sotto le dita?

(M.R.)

 

 

Qual è il giorno che mi odiasti veramente?

Dimmi che urlai, come ti feci piangere, perchè ti angosciai.

Dimmi il giorno esatto, che processerò la mia coscienza

e mettendola sotto tortura le farò confessare

dove si nasconde quello che di carogna c'è dentro di me

e che non sono mai riuscito a stanare.

Ora dimmi qual è quel giorno che mi amasti veramente.

Com'ero, come ti guardavo, e quali versi ti dedicai?

Rivelami qual è la data, che interrogherò i miei rimpianti

e guardando quello specchio afferrerò in un baleno

quel che di più bello c'è riflesso in me

ma che non sono mai riuscito a vedere.

(M.R.)

 

 

La durata della felicità è regolata da un semaforo

posto agli incroci del nostro destino:
la luce verde dura un soffio,
la luce rossa un'eternità.
Quindi, quando ti è consentito premi sull'acceleratore.
Dietro ti stanno già suonando.
(M.R.)

 

Da quando ti guardo mi hai causato strabismo.
Da quando ti respiro, un enfisema.
Da quando ti ascolto, non so più parlare.
Da quando ti bacio, non sento più il palato.
Da quando t'amo, un cancro è padrone del mio cuore.
E mentre mi stai consumando, 

tu rimani la mia inguaribile patologia.
Io, invece, un malato terminale
invaso da infinite metastasi a forma di te.
(M.R.)

 

 

 

Un giorno mi hai chiesto "Quanti anni mi dai?"
Settanta!
Cafone io? No cara, e ti dimostro che a volte
la matematica è un'opinione, sanguinolenta opinione.
Dieci anni te li do per quelle gote prima da sfiorare,
e poi con cattiveria azzannate, sbranate, dilaniate.
Per indignarti, eccone dieci per il tuo sguardo magiaro
capace di pietrificare colui che ci guarda dentro.
Sei ancora risentita? E allora affondo sempre di più:
ancora dieci per quei capelli che galoppano
nell'arena dei sogni come una biga impazzita.
Signora, la mia villania non è ancora finita: altri dieci
per quella bocca da stravolgere da est ad ovest,
da nord a sud, e poi veloce fino allo zenit.
E quale insulto finale, gli ultimi trenta te li do
per l'ergastolo che sto ancora scontando
da quando mi hanno colto in flagrante,

con la prova del delitto ancora in bocca: il tuo cuore.
Lo vedi che il conto torna?

(M.R.)

 

Ieri è venuto da me uno strano essere, dicendomi che al di là della vita un Paradiso esiste davvero. Non come quello che abbiamo sempre concepito, ma un posto dove sia i buoni sia i cattivi possono godere delle sue meraviglie e del suo senso di benessere. Un posto dove appena arrivati, si rimpiange all’istante tutto il tempo sprecato nella vita terrena.

Mi ha detto che se mi fossi tolto la vita per conquistare questa autentica felicità non sarei stato nemmeno punito per il peccato commesso perché in quel posto non esiste nemmeno l’Inferno.

Poi mi ha offerto un siero per non sentire il dolore del trapasso e la sua tutela durante il viaggio per vincere la paura. In sostanza mi sono trovato su un piatto d’argento tutta la verità e tutte le risposte, peraltro belle. Un’occasione che qualsiasi mortale avrebbe accettato.

Però, prima di andar via, mi ha pure avvisato che se avessi rifiutato quella proposta avrei dovuto aspettare mille anni per riconquistare questo privilegio.

Allora ho passato in rassegna tutta la mia vita: il passato con te e il futuro con te. E ho valutato se ne valeva la pena.

    Gli ho risposto di no.

(M.R.)

 

 

IL NATALE A MODO MIO

 

CHIAMASI ATMOSFERA

Stasera rientro a casa e vedo nelle casette della posta decine di enormi buste provenienti da San Giovanni Rotondo. Prendo la mia credendo, per il suo volume, che si trattasse dell’estratto conto bancario di fine anno.

Dopo aver risposto (quotidianamente e credo per la centesima volta) a quei poveri cristi del Call Center che Fastweb, TeleTu e Teledue non mi interessano, apro l’enorme busta (era in formato A4 o forse A5 special.. esiste ancora?) . Pesa non so quanto e son sicuro che Poste Italiane, con i problemi che ha, non si sarà fatta prendere dalla compassione religiosa. Quindi tariffa intera!

Perché lo dico? Ma perché calcolando il numero dei  condomini, le palazzine, i quartieri, le città, le regioni……. dove cacchio li prendete tutti questi soldi?

Insomma, parliamo tanto di fame del mondo, di fare in modo di aiutare i profughi, di … non dico far vivere, ma far sopravvivere quelli che se la passano peggio di noi e voi, invece, che fate? Barattate col sottoscritto l’acquisto del calendario di frate Indovino con allegati il bollettino postale e la macabra cartolina della salma di Padre Pio che, con tutto il rispetto per il Santo, non la farei mai vedere ai miei nipoti per Natale.

Ma siete ammattiti? Io credo che se fosse in vita e soprattutto conoscendo il suo pessimo carattere, Padre Pio avrebbe fatto l’inferno cercando ad ogni costo di smantellare quella Las Vegas cappuccina che avete creato. Ma lo leggete Papa Francesco? Se non lui, li leggete almeno i giornali o siete troppo occupati a registrare gli incassi provenienti dalle vostre Royalties?

Ma voi, umili frati che fate rivoltare le ossa di una tomba in quel di Assisi, cari Padri dell’ordine dei “multinazionali” che non siete diventati altro, invece di spendere il denaro dei vostri fedeli in questo modo che nemmeno Berlusconi lo sperpera così in campagna elettorale, perchè ogni tanto non accendete il televisore per capire meglio quale potrebbe essere la sua reale destinazione? Non ci vuole tanto e non si deve nemmeno attendere, gli sbarchi a Lampedusa e i pensionati che scavano nelle pattumiere sono fra le prime notizie dei Telegiornali.

Comunque, Buon Natale e….  che il Signore sia sempre con voi (almeno spero).

(2013)

 

 

NATALE 2007

E anche quest'anno è arrivato, siamo pieni di auguri fervidi, cordiali, rispettosi, calorosi e auguriamo un felice e prosperoso anno nuovo a tutti, anche ai nemici. L'aria pungente e frizzantina ci brucia il naso e le guance, quel fumo che esce dalla bocca mentre parliamo ci ricorda quest'atmosfera. Le strade sono piene di gente, di autocarri fermi in doppia e tripla fila che scaricano merce ma è anche il tempo dei saggi e delle recite nelle scuole elementari.

Ogni anno ecco il coro dei bambini, dai più alti fino ai pulcini per intenerire un pubblico composto da mamme disperate perchè non sono riuscite a trovare quella particolare stoffa che richiedono queste maestre sempre più esigenti, pignole e nevrotiche. La vulcanica direttrice scolastica, presa da sindrome di protagonismo, diventa la Milly Carlucci dell'occasione presentando chiunque come si fa alla notte degli Oscar. Le maestrine di musica e canto sfoggiano i loro abiti eleganti in questo momento "mondano" che aspettano da mesi e per il quale non ci hanno dormito la notte.

Si vedono poi arrivare dei signori di mezza età in giacca e cravatta. Sono i politici che in queste occasioni fanno una scellerata opera di sciacallaggio sfruttando un momento magico riservato soltanto ai bimbi. Presenziano in queste innocenti riunioni solo per farsi campagna elettorale davanti ai genitori, sputtanando buoni propositi e promesse che non concretizzeranno mai; ricevono ringraziamenti dai direttori didattici per il contributo concesso chiedendo in cambio di citarli nei titoli di coda. Sono lupi famelici simili a quello di Cappuccetto rosso proiettato poco prima in quei locali. E i bambini, se conoscessero la vera identità di quelle nonnine camuffate, scapperebbero via dal terrore.

Nel frattempo, i genitori sono assiepati in platea e coperti da cineprese e fotocamere con teleobiettivi che ho visto soltanto nella finale mondiale con la Francia, dietro la porta di Buffon. Questa è una di quelle occasioni per usare finalmente queste apparecchiature sofisticatissime, che non sanno ancora ben manovrare nonostante la lettura di quel gran tomo delle istruzioni (450 pagine!). Quelle foto, quelle riprese, le faranno vedere ai nonni e poi andranno a finire in una sottocartella di Windows, nel dimenticatoio di decine di CD masterizzati al punto di non riconoscere più qual era l'anno di quella foto. Che era bella quell'unica, espressiva, originale fotografia, stampata, che da sola rappresentava tutto un evento, tutto un anno, tutta un'emozione.

Dagli asili ai licei, il 23 dicembre è stato sempre così, è questa la vera vigilia di quei tre giorni in cui diventiamo più inoperosi di un orso in letargo e non capiamo più se è domenica, sabato o festivo. Quindi non ci resta che aspettare che passino, ovviamente in famiglia con i nostri cari.

Ma c'è chi, in quel momento, vorrebbe essere con un tutt'altro "caro", in tutt'altro luogo. Chi non l'ha mai provato alzi la mano! Ci sarà sempre un ragazzo che sta alla finestra a guardare le altre illuminate dagli alberi di Natale pensando l'amata conosciuta a scuola, quella del primo banco che filava tutti meno che lui, che per ora immagina come una Madonna e che gli sta facendo perdere la testa. Non l'ha più vista dal 23, da quando hanno fatto la festa al Liceo per gli auguri natalizi. Ne è innamorato perdutamente. Da un paio di mesi il viso di lei ha traslocato nei suoi pensieri, armi e bagagli nella sua mente. E non vuole proprio sentire di andarsene, nemmeno con l'avviso di sfratto.

C'è la luna sui tetti c'è la notte per strada, ci scommetto che nevica, tra due giorni è Natale .... I familiari si chiedono perchè è così triste, lo chiamano per giocare a tombola ma lui è distratto, tanto distratto. "Dai, che c'è il discorso del Presidente". Ma chi se ne frega del Presidente? Lui è altrove, intento ad analizzare scrupolosamente tutte le domande e le risposte di questi ultimi giorni: "ma se quando ci siamo fatti gli auguri mi ha risposto così, allora vuol dire che....no caro mio, non ti fare illusioni, avrà un altro ragazzo, te l'ha fatto capire quando ha risposto al cellulare, si è messa a ridere, a chi rideva?.....però, a pensarci bene, con quella frase cosa avrà voluto dire?.... chissà adesso che fa, con chi sta festeggiando, se in questo momento mi pensa o non si ricorda nemmeno che esisto? che faccio, le telefono o no? mah, a gennaio prendo coraggio e glielo dico".

Secondo voi sta male? No, sta bene, benissimo, magnificamente in salute. Ha solo ricevuto uno dei regali più belli che Madre Natura ci potesse donare. Si chiama cotta, ovvero splendida infatuazione di intensità variabile che potrebbe trasformarsi in un malessere di durata triennale, ma che nei casi più gravi rimane nell'organismo fino alla vecchiaia.

Il ragazzo passerà i giorni di vacanza a pianificare strategie, a leggere frasi memorabili scaricate da internet che dovrà imparare a memoria, poesie rubate a Neruda, filosofiche metafore per impressionarla; tutto un epico piano bellico per farla cadere alla riapertura della scuola. So già che fino al 7 gennaio sarà malinconico, che non mangerà, non dormirà, che avrà le farfalle nello stomaco, che si ammalerà di gastrite. Non so, invece, se riuscirà nel suo intento o se il suo cuore, impazzito per i propri battiti, farà cadere lui anzichè lei. Chissà se lo farà inciampare in un complicato discorso intellettuale in cui nemmeno lui riuscirà a sbrogliare il bandolo della matassa, col rischio di annoiare la sua preda. Oppure lo farà balbettare in quel fatidico momento chiamato "dichiarazione", sperando che lei non gli dica (crudele, ma in realtà calcolato da tempo) "Ti voglio bene, ma come un fratello. Ci devo pensare". Una deludente risposta che ha massacrato l'anima giovanile di milioni di maschietti. Ammettetelo.

Purtroppo per lui, Gennaio è ancora lontano e tutti questi giorni di festa fino all'Epifania - maledetto Natale! - non fanno altro che impedire i suoi meravigliosi intendimenti e amplificare quello splendida malattia che si porta addosso e che ha contratto fin da quel giorno a scuola quando, durante la ricreazione, per una frazione di secondo i suoi occhi sono entrati dritti dritti dentro quelli di lei incrociandosi entrambi in un fugacissimo attimo, come due stelle che si congiungono perfettamente in parallelo nella costellazione di Cupido. Un "plin" il cui rumore sarà percepito soltanto da loro due; un secondo brevissimo ma eterno, interminabile, giusto appena per consentire a qualcuno di scoccare una freccia. E quando un cuore è stato lacerato così pietosamente, proprio in questo periodo, sono cavoli! Due settimane che sembreranno secoli.

Passerà anche per lui, ma per quest'anno dovrà rassegnarsi a una festa diversa: quella che la sua anima turbata, già arrivatagli dallo stomaco fino in gola, gli riserverà. Gli organizzatori non si chiameranno Santa Claus o Befana ma Feniletilamina, Ossitocina, Endorfina, Testosterone. Tutte sostanze, i cosiddetti ferormoni, che vigliacche faranno baldoria nel suo cuore festeggiando anche il Capodanno, fino a sfiancarlo.

E il 7 gennaio, mentre il nostro, carico di adrenalina, avrà molto da fare (speriamo bene) noi invece dedicheremo i primi giorni a un'altra sostanza: la Biochetasi, formidabile amica che ci aiuta a smaltire quelle autentiche follie di fine anno. Tutti a dieta! Ma quanto durerà? Se a dicembre i salumieri hanno fatto affari, in questo mese li faranno i farmacisti, i dietologi e le palestre. Buoni affari anche per i Pronto Soccorso, che nei primi giorni dell'anno riceveranno la visita di parecchi imbecilli. Comunque i buoni propositi finiranno presto, la buona volontà di perdere qualche chilo farà posto ai primi cioccolatini dentro la calza della Befana e alla gran quantità di Pandoro rimasta per le colazioni fino a febbraio.

Dopo le spese pazze, faremo i conti con tutto ciò che si dovrà pagare nel primo mese dell'anno: bolli auto, canone tv, tagliandi di garanzia, tassa sulla spazzatura, conguagli vari, ecc.. ma dov'erano nascoste tutte queste tasse? Per non parlare di quell'effimera dicitura che chiamano “tredicesima”, vista fugacemente ogni anno sul cedolino, che cos’è? Mai vista dal vivo, quasi un'entità evaporata nell'arco di una settimana!

Riguardo all'anno che verrà, in passato qualcuno disse "ogni Cristo scenderà dalla croce...". No, non scenderà nemmeno quest'anno. E' sempre lì che ci guarda, da duemila anni. Ogni 31 dicembre solleva gli occhi al cielo e dice "Padre, perdona sti poveretti perchè continuano a non sapere quel che fanno!".

M.R.

 

 

NATALE 2006

(Lettera di Babbo Natale a Mimmo Rapisarda)

Napapiiri (Finland), dicembre 2006

Caro Mimmo,

ciao, sono colui che tutti chiamano Babbo Natale.

Da un po' di anni soffro di depressione e ad ogni dicembre cerco qualcuno per sfogarmi. Quest'anno ho scelto il tuo sito web (si scrive cosi?).

Innanzi tutto, vuoi sapere una cosa? Mi sono stufato! Mi sono stufato di tutte queste nuove richieste che mi arrivano, di tutte queste nuove tecnologie che trasformano i desideri di quei poveri cristi lì sotto in meno di tre mesi. Così capita che mentre ad ottobre preparo l'oggetto, due bifolchi annunciano a tutti "Life is now" e a metà novembre sono costretto a ricominciare tutto daccapo. Alla fine arrivo al 24 dicembre stressato e depresso. Ho fatto pure delle sedute di psicanalisi qui vicino, in Svezia, presso uno strizzacervelli, un certo Freud. Alla fine sono uscito dal suo studio ancora più depresso.

Come ogni anno, per fronteggiare questa nuova realtà, ho cercato di farmi aiutare dai soliti gnomi lapponi. Ma quelli conoscono a malapena l'impianto elettrico dell'albero di Natale. Così ho dovuto assumere degli elfi giapponesi hi-tec, mandando in cassa integrazione i miei gnomi. Non ti credere, sono cose che capitano anche qui, conseguenze del vostro inarrestabile progresso!
Sai, una volta ero uno di quelli che voi chiamate santi. Non so come, ma dalla Puglia mi sono ritrovato in Lapponia. Mi hanno cucito addosso questa casacca rossa (ormai da buttare via e che mi sta strettissima) sfruttandomi in tutti i modi. Come un coglione mi fanno dire per le strade "oh oh", mi fanno bere la bevanda scura di una multinazionale americana, mi fanno fare il giro del mondo in 20 giorni (altro che 80 giorni, quella sì che era una pacchia!), mi infilano nei film, nelle canzoni, nei libri, negli spot ed usano la mia immagine come meglio credono. Sfogliando queste pagine, vedo che anche tu non scherzi, briccone!

Mah... meno male che dura solo un mese e che poi si dimenticano di me, lasciandomi in pace per il resto dell'anno.

Sapessi le richieste che mi arrivano! Le più pazze! Mi chiedono carriere strepitose, una notte con Alena Seredova, trenta punti di bonus per la Juve, una raccomandazione alla ASL per avere il Dott. Gargiulo come medico di famiglia, entrare nella casa del Grande Fratello, confezioni di Viagra, labbra alla Angelina Jolie e capelli alla Brad Pitt, vincite alla lotteria, terni e ambi al lotto per pagare l'abbonamento a Fuorigrotta dimenticando che mi chiamo Nicola e non Gennaro! Figurati che alcuni mi hanno chiesto, senza riuscire a trovarlo, il catalogo Postal Market. Dicono che sia meglio della rivista Playboy.
E poi una certa De Filippi che doveva nascondermi dietro una busta gigante per far riappacificare due coniugi. Un giorno mi ha pure scritto una signora che si chiama Carrà, pregandomi di farle da "gancio" per un bambino un po' scettico: dovevo entrare in uno studio televisivo dove lei gridava a tutti "Babbo Natale …è quiiiiii!.

Mai che mi sia arrivata una lettera congiunta da Gerusalemme per far finire la guerra in Medio Oriente, o una dal Palazzo dell'ONU perchè cancellino tutti gli embarghi nel mondo, o una della Fao che mi comunica "per quest'anno non c'è bisogno di niente", o una dal nord Africa dove sta scritto "da gennaio non si salpa più". Niente, nessuna lettera, quella casella del mio ufficio postale rimane sempre vuota.

Com'erano belli i tempi in cui mi scrivevano soltanto per far stare bene mamma e papà, o solo per far guarire il bambino malato incontrato per strada oppure solo per i tanti desiderati trenini e le bambole o addirittura soltanto per aiutare un innamorato a conquistare la sua amata (con la puntuale sfuriata del mio collega Valentino, il quale sosteneva che avrei voluto fregargli il lavoro!).

Anche le mamme sono cambiate. Quando mi chiedono di farmi fotografare con i loro bambini e li metto sulle mie ginocchia, mi accorgo che nei loro occhi non c'è più l'innocenza di una volta. Mi guardano come soldatesse dell'Esercito della Salvezza o come Dame della San Vincenzo. Io capisco, sto zitto e non tengo più di tanto i loro bimbi. Comunque non le giudico. Coi tempi che corrono, gli orchi cattivi sono sempre più in agguato.

E poi è cambiato tutto. Oggi i trenini me li tirano in faccia! In passato, quando mi calavo dal camino, sapevo che erano tutti a letto e potevo operare nel buio del salotto con tranquillità. Oggi, già che i miei pantaloni non mi entrano più perché ho già abbondantemente superato la taglia 58, scendo dal camino sempre con più difficoltà e quando a mezzanotte arrivo sotto, tutto sudato...... me li ritrovo ancora tutti lì, svegli, con gli occhietti ancora aperti, imbambolati di fronte alle loro playstation o a massacrarsi il pollice destro per infiniti e insignificanti messaggi, oppure per guardare il video dell'ultima bravata fatta al compagno di classe. …e li vedo immersi nella loro scolorita solitudine, nel loro status di ragazzi cresciuti troppo in fretta, nella loro spenta adolescenza di figli con genitori divorziati. Quando mi materializzo mi guardano con un'espressione che non dice nè amore, né odio. Niente. Soltanto un'atroce indifferenza simile a quella con la quale si guarda una cacchetta per strada; indifferenza che tocco con mano ogni anno, sempre di più. Vedono il sacco pieno di roba (che non sanno quanta fatica mi è costato, viste le sempre più esose esigenze della delegazione sindacale degli elfi giapponesi) e mi dicono "Mettilo lì, insieme agli altri. L'hai portato lo scontrino fiscale? Vecchio, almeno ce l'hai un punto vendita in questa città? Se non funziona, dove vuoi che reclami, in Finlandia?".

L'altro ieri ho chiesto a un dodicenne "Cosa vuoi per Natale?". Sai cosa mi ha risposto? "Niente, grazie. Non desidero nulla di terreno, ho già Emule.com!".

Vedi a che punto sono arrivato? Sono stanco e non ce la faccio più, ho miei anni, i miei acciacchi e questi folti capelli bianchi che vedi non è altro che una parrucca, quelli veri li ho persi come li perdi tu. A proposito, lo vuoi per Natale un trapianto? Un certo Silvio da Arcore me l'ha chiesto due anni fa ed è felicissimo, funziona! Gli ho fatto omaggio pure della bandana, come optional.

So che vuoi dirmi: "ma allora perchè fai tutto questo?" Perchè, nonostante desideri anch'io la pensione, la verità è che io, Pollicino, Peter Pan, Pinocchio e tanti altri "miei colleghi" siamo la stessa persona. Fino a quando esisteranno bambini che mi evocheranno attraverso quello che vogliono davvero vedere i loro occhi, sarò trascinato sulla mia slitta a girare il mondo in cerca di gente (chiamiamoli bambini) che hanno ancora nell'anima quel po' di fantasia e fanciullezza da farli rimanere tali. Ed io, per forza di cose, avrò questa perpetua missione fino a quando non ci sarà più nessuno che dirà che Babbo Natale non esiste. Ma fino a quando sentirò un bimbo piangere perchè un imbecille gli ha detto della mia inesistenza, io ci sarò. Sempre. Ci sarò (ci saremo) anche per quegli anzianotti ancora affascinati dai folletti birboni che li fanno tornare bambini e che la smettono soltanto quando si sentono dire "buonasera dottore" risistemandosi la cravatta per darsi un po' di contegno.

Amico mio, amici miei, la vita è già difficile e breve. In ogni momento una pallida donna di malaffare vestita di nero vi aspetta dietro l'angolo e, purtroppo, i clienti se li sceglie sempre da sola. Per fregarla, Madre Natura vi ha regalato quel folletto che fa tanto bene alla salute e che invece, quando crescete e siete ormai convinti di essere immortali, lo riponete nei cassetti dei vostri ricordi come una cosa che non serve più.

Lo dico soprattutto a quelli più giovani: sforzatevi di divertirvi anche con poco, basta sfruttare la fantasia, la goliardia e l'ingegno, non cercate un divertimento artificiale attraverso scellerati strumenti che vi costringono ad acquistare nel villaggio globale. E poi un consiglio da Babbo: fra tanti "mi piacerebbe farlo, ma forse è meglio di no" ogni tanto fatelo, accontentatelo il vostro cuore ribelle, fatelo adesso perché un giorno non ve lo consentiranno, perchè un giorno vi diranno che siete dei buffoni. Per questo quel dono dovrete portarlo sempre con voi, non mollatelo mai. In poche parole: godetevi la vita con filosofia, senza pensarci su più di tanto.

Un signore che si chiamava Antoine De Saint-Exupéry una volta scrisse "Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano".

Io mi ricordo delle infanzie di tutti voi, uno per uno. Ricordatele anche voi, quest'anno vi aiuterò a rinfrescare la memoria. Per me è più di un dovere perchè quel folletto sono io, sono da sempre dentro di voi e non lo sapete. Questo è il mio regalo di Natale: io stesso.

Ringraziandovi per l'affetto che mi avete manifestato in questi secoli (e Mimmo per lo spazio concessomi), vi auguro delle feste serene.
..... chiamatemi come volete, Nicola, Babbo, Klaus, spirito natalizio. Io sarò sempre il vostro.... Natale

__________________

Santa Claus Office - Joulupukin Pajakylä - 96930 Napapiiri - Arctic Circle - Finland - E-mail: santa.claus@santaclausoffice.fi

P.S. che lo sbaddu sia sempre con voi (questa me l'ha insegnata il padrone di casa)

 

 

AFORISMI

"Quando ti dicono "niente è impossibile" pensa a Leicester, quando ti dicono "tutto è possibile" pensa a Catania"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Due sono le parole più stupide inventate dall'uomo: per sempre"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Li invidio i capi in saldo a La Rinascente. Loro sì che hanno visto Woodstock!"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Che c'è di più bello nel vedere un francese incazzato mentre lui è sul cubo numero due e tu su quello numero uno?"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Ieri non so quanto miele ho sparso lungo le vie, per decorare valanghe di cuoricini a San Valentino.

Oggi ritornerei a raccoglierlo dov'era, ma solo per decorare crespelle a San Giuseppe."

(Mimmo Rapisarda)

 

"L'uomo va in bambola per due effluvi: il profumo dei capelli della sua innamorata e l’odore di nuovo dell’auto alla concessionaria."

 (Mimmo Rapisarda)

 

"Amore vuol dire aver vissuto assieme i lockdown anti-Covid e non aver divorziato."

(Mimmo Rapisarda)

 

Sui binari della nostra vita esiste da sempre quel treno in partenza per Yuma.  Sta a noi riuscire a saltare giù dal vagone prima di arrivare a destinazione.

(Mimmo Rapisarda)

 

 

 

 

 

LA MIA TERRA

 

 LA VASCA DA BAGNO DEGLI DEI

Omaggio a Ognina, ovvero a quel che resta dell'antico scalo marittimo di Catania: il Porto di Ulisse, come lo chiamava Plinio.

La storia, le leggende e le origini del porto, tuttora coperto dalle antiche lave sul nostro lungomare, sono già descritte su magnifici libri in vendita nelle librerie. Non sono io colui che dovrebbe rendervi dotti, ma solo tentare di spiegarvi perché è una fortuna vivere attorno a questo piccolo lembo di costa jonica e perché si diventa ogninesi.

Quel poco che intendo io è l'Ognina dell'altro ieri popolata da alcuni personaggi che conosco, illustri e non: mastri d'ascia, famiglie di armatori, pescatori, sportivi, imprenditori, commercianti, ristoratori, ricchi, poveri, savi, matti, furbi e ingenui. Chi non conosce i suoi personaggi? La famiglia Testa, Pippo Sciabulazza, il Tenace, i Ceusi, Affiu u babbu, Mimmo Urzì, Maria 'a pazza, Topolino, il Vigile pazzo, il panettiere che girava d'inverno in canottiera, Padre Foti, Padre Agnello e Mons. Fallico, la clinica Gretter, gli Spampinato, i fratelli Maugeri detti i Vichinghi figli del "baracchiere"  presso il Barone Paolo Castorina da Mascalucia che diede lustro ai Bagni Ulisse nell'ultimo secolo e che, pare, abbia ispirato Brancati nella stesura di Paolo il Caldo. E poi il Prof. Peppe Perrotta, l'architetto volante Pippo Anfuso autore di libri straordinari su Ognina, Nitto dei frutti di mare e.. ricordando la grande ala che era, il campo Ulisse custodito dalla famiglia Laudani, dove non era facile concentrarsi perchè a sinistra c'era l'Etna… e a destra il mare! Con questi scenari come si poteva controllare il centravanti? Purtroppo il cinico attaccante conosceva il difensore e quanto fosse sensibile quando calciava un pallone nel suo quartiere; se poi la giornata e la luce erano tanto appropriate da mandarlo in bambola, per il centravanti non era nemmeno tanto difficile andare a rete!

Guardando oltre quella porta, dietro l'Istituto Nautico, ancor oggi si può scorgere l'infreddolita scia natatoria alla "San Silvestro a mare" del compianto Lallo Pennisi, o la squadra di canoa-polo di Edoardo Finocchiaro proprio di fronte dove una volta c'era la rosticceria Pollo d'Oro, succursale marittima di una blasonata società calcistica catanese degli anni Sessanta. Dopo aver preso "u rancutu" da Milone, infilato fra canotti e salvagenti, che c'è di meglio di un giro fra i locali della piazza? Ecco il Costa Azzurra del Sig. Alioto che ha poggiato sul mare tanto di quel cemento da passare più giorni davanti ai giudici che alla cassa del ristorante, e poi il ristorante Fort Apache, lo Yacting Club, il Circolo Canottieri Jonica, il Piccolo Bar, la pasticceria Quaranta, la storica Terrazza Balsamo che ritengo il bar più panoramico di Catania: entrateci pure dentro, prendetevi un caffè al tavolo e dopo dieci minuti controllate se per caso il caffè si è raffreddato… forse eravate troppo distratti. Ma anche i locali sul lungomare e che accompagnano fino a Guardia: Tris Bar, i Giganti, Europa, La Tavernetta, Cafè de Paris, Ernesto. Come si possono non citare?

Come peraltro sarebbe un delitto omettere, oltre al già citato Bagni Ulisse, anche uno storico stabilimento balneare appartenente di diritto alla storia di Catania. Mi riferisco al Lido Longobardo, citato anche da Ercole Patti e da Giovanni Verga.

Adesso si chiama diversamente e la gestione è cambiata, ma è ancora collocato esattamente al centro della baia di Licuti, e proprio per questo dalle sue scalette sembra di scendere in una piscina naturale di fronte a uno specchio acqueo senza una bava di vento. Ai tempi d'oro, si attraversava il vecchio ingresso decorato dai trofei dell'Amatori Catania di Paolone e dell'Ing. Stazzone e si obliteravano i biglietti al bancone dove erano sedute le signore Longobardo. Le due sorelle, fin da bambine hanno avuto la fortuna di respirare quei legni impregnati di sale e da sempre appartenuti a quell'immenso campionario di odori catanesi, così inebriante da portare al fallimento la migliore profumeria del Corso. Mentre si pagava l'ingresso, attraverso i loro occhi si poteva quasi sfogliare la storia catanese del penultimo secolo: costumi in affitto che arrivavano alle caviglie, bianche pagliette e papillon a quaranta gradi, ghiaccio grattato all'Etna per farne granite al limone, cabine da bagno con botole e scalette, gote rosse di vergogna all'uscita dagli spogliatoi, bagnini coi baffoni e soprattutto un mare che i nostri scrittori hanno sempre saputo pennellare sulle loro pagine. Ma non c'era solo il Longobardo.

Fino ai primi anni Ottanta facevano da cornice a Li Cuti anche il lido Mirasole, lo Smeraldo, il Porto San Giovanni, le Rocce (molto di moda negli anni Settanta), il Lungomare, il Villa Teresa, l'Elios, il Gambero com'era una volta. Allora era anche consentito rimanere fino a tarda sera e si approfittava per giocare a Scala Quaranta all'aria fresca, fra un'anguria ghiacciata e partite in notturna di pallanuoto, con le calottine della Libertas che si fronteggiavano fra due porte sempre a mollo e illuminate da neon … purtroppo a intermittenza. Non posso dimenticare questi flash (a intermittenza).

Bello tutto questo, no? Un posto così, davanti al mare, non sarebbe una pacchia soprattutto per i naviganti? E invece non è così.

Nonostante sia una città di mare, a Catania è già difficile conquistare un solo metro quadro su cui far galleggiare anche una paperetta di plastica, figuriamoci un vero natante. Anche la piccola pesca è diventata un'impresa proibitiva a causa della scellerata tecnica a strascico che continua a rastrellare i nostri fondali portandosi dentro le reti decenni di ecosistemi utili alla riproduzione ittica. Uno scempio che si compie sotto troppi occhi e che si chiudono spesso a metà a danno dei pescatori onesti (quelli che sono rimasti) e della sopravvivenza dei nostri speciali prodotti ittici. Basti pensare che un Presidente della Repubblica se li faceva spedire a Roma.

Tuttavia, assieme a un mio cugino, non ci siamo arresi e come tanti altri concittadini ci dilettiamo a pescare col bolentino dalla barca… o cerchiamo di farlo. Quando possiamo, ci attrezziamo e di buon mattino facciamo la nostra prima sosta a Piazza Santa Maria della Guardia per acquistare l'esca dalla Sig,ra Olga, titolare dell'omonimo negozio su via Zoccolanti.

Da sempre considerata la leggendaria scogliera su cui l'Odisseo approdò sospinto dal dio Eolo, a partire dai nomi delle strade molte cose ricordano lui e i suoi compagni d'avventura. Ecco, forse questa "vasca da bagno degli Dei" è proprio la maga Circe trasformatasi in scogliera, che dopo la delusione avuta da Ulisse, ammalia chiunque passi dalle sue parti fino al punto di non fargli capire di stare a baciare le sue onde e non lei, e quindi farlo annegare.

A mio modo di vedere, è questa Ognina. Un piccolo angolo di Paradiso che l'Etna, durante l'eruzione del 1381, pensò bene di risparmiare per assicurarsi una tribuna perfetta dalla quale farsi ammirare meglio. Per questo, tanti secoli fa, ha circondato questa piccola striscia di sabbia senza sfiorarla, nemmeno con un lapillo, trasformandola in un palco disegnato con le sue colate laviche. Così l'Opera, con la o maiuscola, fu completata. Non è stata mica scema, la montagna.

Chi legge avrà facilmente capito che il sottoscritto è cresciuto da queste parti.

Esattamente a Guardia, sopra Li Cuti. Sono un figlio di Ognina e nelle sue strade ho vissuto per più di trent'anni. Anche se non ci abito più, la percorro quotidianamente con immenso piacere (anche se allungo il mio percorso), nei suoi bar prendo il caffè del pomeriggio e ricevendo i suoi baci di sole, le chiedo sempre "come stai" come si fa con una madre. Amo così tanto questo rione che quando ho cambiato casa ho cercato con costanza solo quelle che possedevano uno speciale requisito: la vista sul porto di Ulisse. E ci sono riuscito.Ogni mattina, dopo il primo caffè, è mia abitudine affacciarmi sul terrazzo e scrutarlo. Ovviamente il panorama è sempre bellissimo e sempre uguale.

Però che ci posso fare…..devo dirglielo ogni mattina: "Buongiorno Ognina".

 M.R.

 

 

MAMMA ETNA

Le fette da distribuire aumentano sempre di più, ma la torta da far leggere a tutti rimane sempre della stessa dimensione. E allora che si fa? Oggi esistono centinaia di testate giornalistiche che nel fare il copia e incolla, inciampano in verità che si lasciano alle spalle raccogliendo nell'impatto solo colossali cazzate, pur di far notizia. Perchè ormai, in questo mestiere, la cosa fondamentale è informare continuamente minuto per minuto, a costo di diffondere allarmismi, panico e terrorismo mediatico 24h. Anzi, più catastrofica è la notizia e meglio è.

Nel link che posto, ho letto finalmente qualcosa di sensato dopo il marasma di notizie catastrofiche che stanno facendo il giro del mondo. Dice bene il Prof. Privitera, in sintesi: "hanno scoperto l'acqua calda, noi lo sappiamo da decenni ma non diffondiamo castronerie pur di ottenere un po' di like in più. Calma, tranquilli!".

Anch'io conosco questa situazione. Una decina di anni fa, qualcuno mi raccontò di un certo timore (ma non preoccupazione) di chi conosce l'Etna, dovuto alla non più robusta tenuta dei suoi pilastri: troppa roba addosso! Sono passati 10 anni e siamo ancora qui, non è successo niente se non questo battello di scienziati che ha scoperto il motore sottomarino che viaggia a 4 cm. a settimana, facendo scivolare l'Etna verso il mare.

Certo, siamo tutti sotto il cielo e, considerate le ultime scosse telluriche, qualcuno ci pensa a questa ipotesi. Eccome. Per questo voglio precisare che quel che si paventa è già accaduto, davvero.

L'Etna ha circa 500.000 anni e le ultime architetture del complesso vulcanico risalgono a 150.000 anni fa. Già allora riversava immense ed interminabili colate sull'attuale fianco orientale. Ma un giorno di 80.000 anni fa, in medio Paleolitico, improvvisamente accadde la catastrofe. Un decimo del monte, quella parte che oggi comprende Zafferana, Viagrande, Milo, Mascali, Piedimonte, Giarre e Riposto, collassò e scivolò sullo Jonio con miliardi di tonnellate di materiale. Quasi un'intera provincia che lasciò un vuoto oggi chiamato Valle del Bove!

Tempo fa lessi che a seguito di una simulazione al computer, scoprirono che i suoni e le visioni di quell'evento furono apocalittici, la montagna si squarciò da un fianco liberando oceani di lava incandescente, violentissimi terremoti, frane da fine del mondo e, soprattutto, uno tsunami che quando ritornò distrusse le coste della Sicilia orientale e della la Calabria jonica, lambendo addirittura le coste d'Israele. Il fumo e le nuvole piene di elettricità e lapilli coprirono mezzo pianeta per molto tempo.

L'avete presente il film 2012? Ecco, uguale! Roba da far festeggiare la Lega lombarda e la Liga veneta per anni!

Questo tsunami è classificato al secondo posto nella storia dell'uomo, dopo quello di Creta.

A proposito di uomo, dov'era? Non c'era quasi nessuno. In Sicilia l'uomo sembra essere giunto molto tardi. Comparve durante il Paleolitico superiore (40.000 anni fa) con l'Homo Sapiens, che non brillava molto per intelligenza ma che di fronte a quelle scene sarebbe morto sicuramente per la paura!

Chissà com'era l'Etna ancora prima e quante catastrofi ha generato! La Terra ha 4 miliardi e 600 milioni di anni e se dividiamo la sua età in 46 giorni di 100 milioni di anni ciascuno, i dinosauri scomparvero ieri mattina, Cristo è nato un minuto fa e sulla Luna ci siamo andati due secondi fa! Quel che l'Etna riversò in mare, per la vita del pianeta corrisponde a un'ora fa. Quindi, nonostante la sua moderna tecnologia l'uomo sarà in grado di radiografare il futuro del Mongibello solo fra un secondo, un minuto, forse mai. Oggi può solo ipotizzare, non più di tanto. Deciderà soltanto madre Natura quando accadrà, se accadrà. E quel giorno non basteranno le bombette del Prof. Barberi per deviare flussi lavici perchè saremo solo dei microscopici intrusi sulla pelle di un pianeta che continua il suo naturale percorso.

Ovviamente, bisogna monitorare continuamente perchè siamo (solo nel Catanese) quasi un milione di anime che vivono, pur amandolo, sotto le gonne del secondo vulcano attivo al mondo!

E se dovesse accadere? Ci faremo il segno della croce e ci saluteremo, non essendoci via di scampo. Io probabilmente morirei d'infarto, solo ad assistere a quelle visioni! Avrei solo il tempo di cliccare "salva" sull'aggiornamento della pagina "Etna" su mimmorapisarda.it !

Manco il tempo di dire "miiiiii! m'bare.... talìa, c'è a fini do munnu!"

M.R. Ottobre 2018

 

LE PROMESSE POLITICHE A CATANIA

Non volendoci ricascare, avevo dato appuntamento all’anno nuovo per vedere se le solite promesse venivano disattese oppure no. Capodanno, Epifania, Carnevale, Sant’Agata, Pasqua e Ferragosto 2018 sono già passati. Ottobre 2018 sta per arrivare e, come prevedevo, la situazione (a parte le solite panchine e qualche alberello che vedrà la luce fra 50 anni) la situazione è rimasta immutata. Male, male male!

Non appartengo alla generazione giovanile spregiudicata e strafottente di oggi, quella con le facce illuminate e i pollici maciullati dalle distrazioni informatiche, senza ideali né convinzioni, che ottiene tutto e subito; né a quella brillante degli anni 50’ e 60’ nata in una Catania romantica che profumava i suoi marciapiedi di lavanda, facendoli calpestare da raggianti giovanotti che si ingegnavano per entrare ai Ciclopi per vedere i Platters di scapocchio. Un’era in cui la città era viva e piene di gente, gli amori fiorivano appassionati e le belle signore con 5° di seno speravano di diventare Miss Italia. Altri tempi.

No, io appartengono a quella degli anni Settanta cresciuta a pane ed eskimo, in piena crisi energetica e politica e con il coprifuoco serale in via Etnea in cui circolavano solo reclute in libera uscita che uscivano dal cinema Olympia o da via Di Prima.

Fra tutte, la generazione più pacchiottona rispetto alle altre due, ma la più genuina e sincera. Pur senza un quattrino in tasca, ci divertivamo lo stesso perché non mancava mai la fantasia per poter trasformare quel grigiore in un verde che non hanno nemmeno nelle colline svizzere. Era la gioventù che si accontentava di una Margherita e una birra Henningher alla Luna Rossa di Acirezza quando si poteva parcheggiare, che rinunciava a un cinema con Edwige Fenech se sapeva che in piazza Università stava per cominciare l’esilarante comizio del Cav. Mario Ferrini, che si terrorizzava a un posto di blocco dei Falchi visto il tanto rispetto che si aveva per le forze dell’ordine, che si accontentava di entrare gratis al secondo tempo per veder giocare Bonfanti o Spagnolo, che fumava le sigarette di nascosto (pagghioli!) comprate a cinque nelle bustine, che gridava "presente! all'appello mattutino all'Esperia, che si faceva venire la gastrite nel preparare la famigerata “dichiarazione” aspettando la puntuale risposta “ti voglio bene …… ma come un fratello, ci devo pensare!”, che cominciava a ballare al Charlie Brown o al primo Banacher o si spostava con i Ciao, i Gilera e le prime Kawasaky. Questa la Catania di 40/50 anni fa, silenziosa, educata, per niente appariscente ma non per questo geniale e viva! Anzi.

E questa generazione, fra granite di mandorla che inzuppavano pagnotte rigorosamente di semola, leggeva anche il quotidiano locale, ovviamente gratis al bar, ma lo leggeva. E rideva sì, rideva di gusto ad ogni progetto proclamato dai politici che allora amministravano la città. Allora come oggi, venivano pubblicati questi grandi disegni sulle pagine: grandissimi, belli, avveniristici, spaziali; anche allora si pensava alle future passeggiate per le famiglie, i garages, i supermercati, che vi credete? Rispetto a quelli odierni elaborati con l’Autocad, erano invece faticosamente disegnati col righello, la china e il tecnigrafo. Entrambi diversi nella tecnica ma uguali nella sostanza: minchiate!

Clamorose minchiate provenienti da destra o da sinistra, sia in quelle di ieri che in quelle di oggi. Non è cambiato niente. Ho aspettato quasi un anno per vedere se stava per cambiare qualcosa. Niente, ribadisco quanto scrissi un anno fa. Ho sessant’anni ma da bambino aspetto ancora la trasformazione di corso Martiri della Libertà, del lungomare veicolare al viale Alcide De Gasperi, lo stadio nuovo, l’allungamento della pista per i voli intercontinentali, il palazzo di Via Bernini, l’ex Palazzo delle Poste in viale Africa, ecc.

Niente, assolutamente niente di nuovo! Non si è riusciti nemmeno a cambiare il nome della strada intitolata a Nino Bixio, criminale arrivato qui a decapitare contadini spacciati per briganti. E’ ancora lì, nel quartiere Barriera.

Togliere le rotaie da corso delle Provincie e trasformarlo in Viale Ionio? Ne hanno cominciato a parlare che ero alle scuole elementari! 30 anni ci hanno impiegato! Mio nonno mi raccontava che da bambino suo nonno gli raccontava della prossima costruzione del ponte di Messina!!!! Negli anni Novanta qualche sognatore megalomane (buonanima) avrebbe voluto far qualcosa, ma qui a Catania si dice che “senza soddi non si canta missa”, lasciandoci solo archeologia urbana e lacrime che stiamo ancora versando.

Qui siamo lenti, inesorabilmente lenti. Non ci piacciono le evoluzioni e le riforme, sono cose che durante lo stravolgimento delle fondamenta fanno saltar fuori cose insabbiate da una politica che si è sempre mossa come un bradipo, appositamente. Ecco perché siamo un po’ tutti figli del Gattopardo per quella famosa frase che tutti conoscono.

Lasciare Catania ancora così è davvero un peccato. Dio ce l’ha consegnata sul mare dicendoci “prendetela, è vostra, non dovete far altro che farla muovere per vivere felici”.

Suffuru! Nemmeno quello siamo riusciti a fare. Quella ricchezza è sempre lì a portata di mano: si chiama Etna, Playa o Scogliera, Simeto, Pescheria, Nebrodi, Taormina, il Barocco e tutta la nostra storia lasciata a ricordo nei numerosi siti archeologici della Katane romana, grande città. E noi, invece, che facciamo? Costruiamo il palazzetto del ghiaccio - bellissimo ma che starebbe bene a Bolzano – all’inizio di un arenile lungo dieci chilometri di fronte al mare!

Anche se “The Guardian” ci ha classificati fra le 10 dieci città europee da visitare (memorabile la frase “Catania caotica, ma bellissima”), purtroppo oggi la vedo peggio dell’altro ieri. Ne annuso l’inefficienza, l’incapacità, il menefreghismo e il disamore per la città. Così facendo si continua a non rispettare i catanesi che ci guardano dall’estero costretti a donare altrove eccellenze e genialità che sarebbero servite per farci vivere meglio tutti, che aspettano da un momento all’altro quel cambio di passo …. gridandocelo da migliaia di miglia sempre con le stesse parole: “Forza Catania, sei la più bella, alzati!”

M.R. sett 2018

  

 

COMU FINIU CO CATANIA?

Questa maledetta attesa per l'ufficialità della serie B ci sta distruggendo l’anima.

A Catania è così ad ogni estate e sospetto che ci sia un accordo fra Organi sportivi e la Stampa nazionale per far vendere più giornali. Ogni mattina al bar, fra un boccone di minnulata ca brioscia e il telo da mare sotto braccio, ormai siamo abituati a rovinarci l'estate nel bene e nel male, a causa delle vicende che riguardano il Calcio Catania. Che siano promozioni, retrocessioni, radiazioni e notizie su probabili acquisti.

Mai come in agosto sfogliamo così assiduamente il nostro quotidiano La Sicilia. Sì, va bè, la lettura delle prime pagine sono quasi un dovere per la nostra coscienza di cittadini: i migranti (mischini!), gli sbarchi, la politica, la TAV, la FLAT (cosi fitusi, ni luvanu 80 euri!), la quota 100 e la modifica della legge di Elsa Fornero (grandissima tappinara!), lette velocemente perchè la brama di arrivare a ciò che si vuol veramente sapere è davvero tanta. Poi le altre pagine dedicate allo spettacolo, l'ambiente, la cronaca nazionale (chi nicchi e nacchi lo speciale di 4 pagine dal titolo Economia Ragusana? avaia!), tutte saltate in minuto per arrivare, finalmente, all'agognato tesoro: "comu finiu co Catania?"

Arrivati a quella pagina, LO SPORT, la granita si squaglia e il telo da mare cade per terra: abbiamo appena appreso (forse, chissà domani) la sorte della nostra squadra di calcio, da sempre maltrattata e odiata dagli organi federali, quindi quanti punti di penalizzazione (ma l'annu ca veni unni iucamu?) per certi treni, i ricorsi, gli avvocati, la carta bollata e i nostri politici sempre assenti . Oppure le news se l'attaccante in arrivo ha finalmente trovato l'accordo per giocare con noi, dopo un tira e molla scritto e centellinato quotidianamente goccia a goccia sulla nostra curiosità, come il mastro fa con l'alambicco per distillare la grappa. Che poi sono notizie presenti anche sui social, infatti non facciamo altro che rileggere le notizie del giorno prima. Però ci piace leggerle anche sulla carta stampata, siamo fatti così.

A proposito di tira e molla, ricordo l'arrivo a Catania dell'attaccante della Reggiana Giampietro Spagnolo, ambito da mezza Italia per la sua straordinaria potenza. Costava parecchio ed era un pallino del nostro Presidente Massimino che voleva regalarcelo a tutti i costi. Passammo almeno due estati a parlare di lui nei bar: "arriva, non arriva, in settimana sapremo del braccio di ferro fra le sue società, nella trattativa si è inserito il Bari terzo incomodo...". Alla fine del secondo anno, finalmente, arrivò a Catania ma a condizione di ingaggiare anche il libero Roberto Benincasa, che poi si confermò un valido difensore nella pronta risalita in serie B del 1975. Di famiglia borghese di Siena, Roberto si era fidanzato a Catania e..... con Catania: abitava a Picanello e si iscrisse in Economia e commercio per laurearsi poco dopo. Diventammo amici e ogni tanto, a noi ragazzotti, con la sua Fiat 500 ci portava allo stadio per l'allenamento. Quando entravamo al parcheggio del vecchio Cibali, tante erano le risate quando i tifosi ci guardavano da fuori i finestrini "cu jè chiddu d'arreri, Malaman? Chi dici, jè Biondi... non viri ca ch'avi i baffi?". ah ah !

Chi si rici do Catania?" sì, ogni anno è uno stress. Poi, sazi di rossazzurro, dopo aver formulato tutte le formazioni possibili (4-3-3, 4-2-3-1, 3-5-2) e detto peste e corna dell'ultimo allenatore, passiamo all'altra parte del quotidiano: la cronaca cittadina, per apprendere gli ultimi acquisti della Questura pubblicati con tanto di foto e relativo, esilarante, pecco (il soprannome).

E' stato e sarà sempre così nella nostra bollente, smaniosa e sempre uguale estate sportiva. In un preciso momento della mattinata, durante la lettura de La Sicilia, da "talìa a cu accattanu!...." si passa immediatamente a "talia a cu attaccanu!...."

M.R. ago 2018

 

 

IL LUNGOMARE LIBERATO.

Chiedo scusa al bambino che mi ha massacrato l’alluce col suo skateboard e al quale gli ho augurato di andare in … altro paese. La colpa non è sua, ma dei suoi genitori che dopo una settimana di cicche fuori dal finestrino e tovaglioli gettati di nascosto sulla strada, oggi hanno deciso di fare passerella radical-chic sulle bici, al lungomare.

Bella iniziativa, da seguire, promuovere e incoraggiare in futuro. Ma regoliamola. Non è più una passeggiata ma una pista e bisogna stare attenti ai ciclisti che (guai a chi li tocca!) ti mandano al diavolo senza mezzi termini.

E poi, dai, senza tirarsela… che in questa specialità siamo degli specialisti. Non vorrei fare il rompipalle ma, francamente, più che una passeggiata mi sembra un’ondata di sfrenato esibizionismo. Stasera vedevo i clienti dell’Hotel Nettuno che, affacciati, guardavano questa maratona umana sull’arteria come a chiedersi “sono pazzi o affamati di libertà?”

Guardavano attoniti la parata di t-shirts di chi sfoggia la più prestigiosa della serie “Hard Rock Cafè”, artisti di strada che proponevano opere d'arte che nemmeno i muri degli asili comunali avrebbero accettato, poveri scemi che salivano a bordo del book-bus municipale facendo finta di fare gli intellettuali e sfilate di cani vestiti con imbarazzanti foulard al collo che manderebbero volentieri al diavolo i loro padroni per la magra figura di fronte alla cagnoline bastarde delle sciare del Rotolo.

I bambini? Poveretti, loro sono incoscienti. Non sanno che rischiano l’osso del collo in tenera età perché infilati forzatamente dentro il cestino della bike elettrica del papà che, con Nike, Lacoste e capelli al vento, non si accorge dell’auto che gli suona dietro perché intralcia il passaggio.

La sua risposta è “Ma sei demente? E suoni, pure!”.

Con tutto il dovuto rispetto per i dementi autentici (grande, grande rispetto), il conducente dell’auto lo affianca, scende dall’auto e gli dice “Coglione cos’è questa confidenza? A chi dai dal tu? Ti sei mai chiesto perché sono uno dei pochi che possono passare? A bordo c’è una persona cagionevole di salute e per questo sono autorizzato a percorrere il lungomare per portarla subito a casa che è dopo Ognina, se ti togli dalle palle. Chiaro?”.

I colori della faccia del papà ciclista-ambientalista non li ho mai visti in natura, non li posso descrivere.

La più sincera della serata? Una signora che ha detto al marito “ma quannu finisci sta minchiata, ca ni facemu na bella passiata ca machina?”

Ok il lungomare libero, ma più tolleranza e meno spakkiamento ambientalista.

 M.R.

 

 

SFOGO DI UN CANE AL LUNGOMARE LIBERATO

Buonasera,

sono un cane di una razza dalla non facile nomenclatura che, però, il mio padrone pronuncia con fierezza. Non è colpa mia, io non sono nato per essere amato ma per essere mostrato come una modella di Annabella di Pavia, soprattutto al Lungomare liberato in Catania. Sarà così, almeno fino a  quando sarò considerato di  moda. Dopo non lo so.

Non so quante volte, oggi, ho sentito “Che razza è? Come? Ma che bello, quanto costa? Morde? Posso?” Che sofferenza ogni 15  giorni, peggio di andare dal veterinario!

Quante centinaia di mani mi hanno accarezzato mentre facevo su e giù da Balsamo al Borghetto: bello cucciolone (ahi! e non pizzicare…  e che cazzo!). Quanti bambini mi hanno tirato con le dita la pelliccia sotto la bocca, e le orecchie, la coda? Tutto questo un centinaio di volte. Fatevelo fare voi, e poi vedrete che bello!

Per non parlare di quando incrocio un mio simile e il padrone mi costringe al confronto  di pedigree, quello della prova del fuoco. L’altro cane mi guarda come a Mezzogiorno di fuoco; si avvicina, mi annusa dovunque, … eh no caro mio, lì no! E dai! Perché ti incazzi, e non ringhiare, ce l'hai con me? E poi sono etero!

Perché mi costringe a questi incontri massacranti ad ogni venti metri? Che ti ho fatto di male? Mi hai portato al mare, quindi fammelo respirare, fammi correre fra gli scogli, fammi riportare da te un piatto di plastica lasciato sulla scogliera dai tuoi concittadini zozzoni. Soprattutto fammelo fare sempre, non solo oggi come se dovessi timbrare un cartellino di presenza.

E invece no. Posso pure accettare di farmi chiamare, con estremo imbarazzo per un cane, Filippo, Antonio, Ernesto (fa fico) invece dei canonici Black, Zorro, Flick, ma quando è troppo è troppo!

Per fortuna, ogni duello finisce quando sento la sua stretta al collo, in evidente difficoltà sulle risposte date al padrone del cane più titolato. Dopo ho avvertito la sua delusione nel non aver saputo reggere il confronto di razza. Proprio io, che gli sono costato un occhio della testa e pagato a cambiali. Quando mi ha riportato in auto mi ha quasi scaraventato dietro, guardandomi come un maglione Armani con l’etichetta Made in China.

Ritornati a casa, si è pure dimenticato di portarmi la ciotola. Fa niente, tanto la domenica non si cena mai. Domani è lunedì e, preso dal lavoro, avrà dimenticato tutti i suoi propositi di coccarde a concorsi canini da affibbiarmi al collo.

Lo amo lo stesso il mio padrone, ma adesso sono troppo stanco e nervoso per farglielo capire. Che stress il lungomare liberato, meno male che lo fanno solo due volte al mese!

Bau!

(2017)

 

 

 

LE CALENDE GRECHE CATANESI

Bellissime le sue pagine ..! solo le dico che dopo averle viste mi sono innamorata della cittá e il primo viaggio che potró fare sará a Catania !!

Grazie !! un saluto da Castellon de la Plana (Spagna) che, guarda il caso, assomiglia un po´a Catania..! non la cittá in sé, ma la posizione geografica..il mare, una pianura di aranceti e la montagna alle spalle...Grazie ancora per la sua meravigliosa guida !

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Di complimenti me ne arrivano parecchi (qui non li ho mai postati), ma ricevere messaggi del genere mi rende estremamente felice, non per la mia persona ma per Catania e ciò mi fa capire che gli sforzi profusi attraverso il mio sito web, volti a valorizzare la mia terra, funzionano! Forse più di un Ente di promozione turistico.

Non sono uno che se la tira. Quello che voglio dire è che se un piccolo (si fa per dire) sito web riesce a far tanto, cosa si aspetta a promuovere tutto questo ben di dio, che qualcuno ci ha regalato, e che non sappiamo far decollare?

Promuovere vuol dire calarsi nella passione verso la propria città, diventare suoi ruffiani, truccarla come una star da farla apparire uno schianto. E invece no, il sito web del Comune fa piangere, sembra il portale di un Istituto bancario. Ormai il biglietto da visita è Internet.

Forse chiedo troppo. Già, qui si fa tutto in modo lento, molto lento….e senza ammuttari! Da quando ero ragazzino seguo l’iter di semplici opere pubbliche, attraverso proclami dei governanti di turno, come se fossero le piramidi egiziane in costruzione. Sui giornali, ogni sei mesi, leggo progetti bellissimi sulla trasformazione di C.so Martiri della Libertà al posto delle fatiscenti sciare, ma solo avveniristici progetti degni di Nembo Kid e niente più. Ogni tanto leggo: a giugno inizieranno i lavori, sì ma di quale anno?

Togliere le rotaie da corso delle Provincie e trasformarlo in Viale Ionio? Ne hanno cominciato a parlare che ero alle Elementari! La tribuna coperta al Cibali? Una vita di articoli su La Sicilia come se stessero costruendo il Maracanà. L’allungamento della pista per far atterrare i 747 a Fontanarossa è ormai diventata una farsa, una cosa che al Nord verrebbe realizzata di routine ma che qui diventa un’opera colossale. Il Governo l’ha messa di canto, negando pochi spiccioli al settimo aeroporto italiano. Adesso si spera di farla rientrare nel Def, avremo da leggere sotto l’ombrellone, quest’estate. Nel frattempo devo pure vedere Salvini che gira in Pescheria, accompagnato da un certo Attaguile (nemmeno catanese), promettendo future minchiate ai pescatori.

Ma la vogliamo finire? Fino a che punto permettete questo? Perché dovete ignorare la ricchezza che è lì, a un palmo da vostro naso, solo aprendo la finestra dei vostri palazzi? Non la vedete? Sì che la vedete, si chiama Ognina, Etna, Playa o Scogliera, Simeto, la nostra Movida, Riviera dei Ciclopi, Sant’Agata, la Pescheria, Nebrodi, Taormina, Barocco, storia romana, araba, greca, normanna, bizantina, sveva (sabauda lasciamo perdere); e poi l sua letteratura, il suo teatro, i suoi musicisti, il sole, il mare, la gastronomia, le tradizioni. Tanti accessori che non servono per “truccare” Catania come la star che ho detto prima perché sono proprietà che indossa già, in modo naturale, da millenni. E poi non dovreste nemmeno spendere denaro in rossetti e mascara, ci avrebbe già pensato madre Natura! Vi rendete conto di cosa avete a portata di mano? Perchè non vi sforzate di presentarla come merita, senza farla deridere da tutti sul web per uno scippo in Via Tempio o per un autobus che passa quando vuole Dio. Truccatela, rendetela attraente, stuzzicante, trasformatevi magari nei suoi magnaccia per accattivarvi svedesi e norvegesi in arrivo con le navi al porto, impazziti per il nostro clima.

So già che non sarà possibile (volutamente), ma sarebbe bello trasformarla nella capitale del Mediterraneo. Ma seriamente e senza noiosi tavoli tecnici pieni di gelosie su chi deve fare questo o quello. Solo per un attimo abbandonate il gioco delle solite poltrone e delle strategie politiche che ci hanno ormai nauseato da decenni; pensate ai tanti catanesi che vi guardano dall’estero, costretti a donare altrove genialità che sarebbero servite per farci vivere meglio e che voi siete riusciti soltanto a seppellire.

“I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.”

(Il Gattopardo - Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

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Scusate, ma alla sera mi prudono i polpastrelli …

 M.R.

 

 

 

GIORNI BUI

Ecco una serie di vocaboli "Marca Liotru", quando a Catania si vede in cielo (ma solo ....... poco poco) qualche nuvoletta nera.

Dopo appena qualche goccia, il catanese comincia a prepararsi come se stesse venendo giù l'Apocalisse. Non è cosa, non sopporta l'umidità, il freddo, il vento. Sì, è affascinato dalla neve o dalla nebbia che in quelle poche volte che le ha viste le festeggia come a Carnevale. Basta che il gioco duri poco e torni il sole.

Per lui, avvertire freddo è terribile. Prova ne è la descrizione che ne fa Brancati in Don giovanni in Sicilia: il Percolla fa la doccia, gelata, a Milano e sogna il bagno in vasca a Catania a temperatura "ambiente", preparato amorevolmente dalle sorelle.

36, massimo 37 gradi. Corporea, quasi a non accorgersi dell'acqua sulla pelle. Non un grado di meno, e rigorosameNte senza scaldabagni.

  

 

 

LA TRAPPOLA

E' proprio così, o si ama o si odia.
Per chi non l'ha mai vista, a vederla la prima volta deve fare un brutto effetto essere circondati da tutti questi vecchi palazzi di colore nero e con le rifiniture di bianco calcare. E' il materiale di costruzione che ci ha regalato quel monte che ci sovrasta, che ci saluta ogni mattina all'albeggiare, che ci fa vedere e capire quanto è potente e quanto può decidere le nostre sorti. Ma ormai amiamo pure lui, nonostante i forestieri ci dicano ad ogni eruzione "ma come fate a vivere qui, ma siete così tranquilli?".
Chi viene a vivere qui i primi giorni si sente oppresso da questa città scura, viene preso dalla malinconia per via dei colori pesanti e severi che niente hanno a che fare con i colori siciliani, solari e mediterranei; infatti Catania si contraddistingue dalle altre città siciliane anche per il colore.
Ma soprattutto per quelli che quel colore lo hanno intonacato: i catanesi. Non so se sia dovuto alla temperatura dell'Etna che circola sotto la città o ad uno strano gas invisibile che emana il suo cratere, ma i catanesi sono proprio figli del Mongibello. Sono vulcanici come lui. E sono anche diversi dagli altri siciliani. Nell'essere "catanese" c'è tutta la furbizia dei napoletani, l'intraprendenza nel commercio degli svizzeri, la genialità degli inglesi, l'ospitalità dei giapponesi, la voglia di far festa dei messicani, la lingua dei toscanacci, la bramosia di scommettere dei texani a Las Vegas, l'amore per i viaggi dei vichinghi (l'accento catanese si avverte in qualsiasi aeroporto del mondo, sono dovunque) ecc.
Ma l'ironia no. L'ironia e l'autoironia dei catanesi (o liscìa come la chiamano qui) sono proprio marca "Liotru". Questo spirito liscio, la battuta pronta che ti brucia al primo colpo è una cosa che ci appartiene. Storica è la disavventura di quel signore che, scendendo dal tram in corsa, mise un piede in fallo cadendo rovinosamente sul marciapiede. Molte persone accorsero per aiutarlo a rialzarsi e una di loro, con altruistica sollecitudine, gli chiese: "Chi fici, s'astruppìàu?" (che fa, si è fatto male?). E quello (liscio), prontamente, mentre si tirava su dolorosamente: "Ma no, non m’astruppiari... Iù d'o trammi scinnu sempri accussì" (No che non mi sono fatto male, io dal tram scendo sempre così!).
Oppure l'altra storiella di qualche anno fa, quando la gente di colore non aveva ancora invaso la città e incontrarla era sempre un fatto un po' insolito. Due catanesi passeggiano discutendo pacatamente sotto i portici di Corso Sicilia in un luminoso pomeriggio di sole, quando incontrano un numeroso gruppo di nigeriani, di quelli molto scuri di pelle, proprio neri che più neri non si può. Al passaggio degli africani uno degli amici si ferma e rivolto all'altro: "Au, Giuvanni, scuràu!" (Ehi, Giovanni, si è fatto buio!"). Si può essere più brucianti di così?
Questa ironia ce la portiamo dovunque, dagli sportelli degli uffici postali - dove l'impiegata viene ricoperta dalle battute più sarcastiche - ai marciapiedi di Via Etnea, culla di questi cervelli in continua fibrillazione. Anche allo stadio, nella tribuna B, reparto "liscio" del vecchio Cibali e famosa per storiche battute rivolte ai giocatori o all'arbitro, si fa ironia. Una è questa:"Abbittru, si i cunnuti avissuru l'ali a tia t'avvissuro a ddari a mangiari ca fionda!" (Arbitro, se i cornuti avessero le ali, tu lo sei tanto che per farti mangiare dovrebbero lanciarti il cibo con la fionda!")
E che dire di un mio conoscente che alla "Fera o luni", avendo trovato un paio di pantaloni di suo piacimento, non sapeva come provarseli davanti a tutti? L'ambulante: "Prufussuri, si mittissi sta tuvagghia davanti" e l'acquirente, di statura alta: "Sì, ma arriva a coprirmi soltanto dalla testa alla pancia!! E l'ambulante: "Prufussuri.... ma a lei di sutta cc'u canusci?" (n.d.r.: ma a lei di sotto chi la conosce?). Micidiale! Quando la liscìa diventa filosofia!
Solo qui, se una signora, dopo aver atteso quasi due ore l'arrivo del bus dice al conducente "su tri uri c'a aspettu a lei!" quello le risponde "picchi? chi avevumu n'appuntamentu?".
Solo qui se qualcuno chiede al telefono "chi parla?", si sente rispondere "cchi sacciu, un pocu iu e n'pocu vossia".
Solo qui, se una bella turista entra in un bar e chiede dell'acqua (dopo essere stata "radiografata" dalla testa ai piedi), si sente rispondere "l'acqua a voli naturali o frizzantina comu a lei?". Solo qui le maestre d'asilo, chiedendo in aula "Bambini, come si chiamano quei signori col sacco bianco che tirano il cordone di Sant'Agata?", si sentono rispondere ".... Cuncettu, Arazzio, Turiddu, Melo, ecc. ecc.". Fin da piccoli, lisci!
Solo alla nostra pescheria, alla domanda "ma è fresco?" la risposta è "signuruzza, qui è tutto combustibile!"
E poi hanno un grande spirito di adattamento e del commercio. Gli stessi che vendevano i panettoni per strada dopo un po' di tempo li puoi trovare a vendere colombe, uova pasquali e palme per la Pasqua, mimose per la Festa della donna, panini davanti alle discoteche, rose per S. Valentino, giocattoli per la festa dei Defunti, fuochi d'artificio per il Capodanno. La domenica non si riposano: limoni e bibite dalla dubbia marca allo stadio (così vedono anche la partita gratis!). Anche i taxi hanno una grande faccia tosta. La passeggera si lamenta: "Mi scusi, ma a Mlilano la corsa dall'aeroporto costa molto di meno!" e il tassista, senza battere ciglio: "Signorinella bedda, cchi voli mettiri.... Catania ccu Malanu?"
Ecco, forse anche questo aiuta quei malinconici dei primi giorni a rendersi conto che qui non è come avevano pensato.. Ma la città non fa niente per farsi amare, sta sorniona, come una bella donna non dice niente e si fa desiderare, non li calcola nemmeno, non li guarda, è tutto un corteggiamento fatto di sguardi che spetta fare al visitatore che alla fine se ne innamorerà perdutamente e capirà che tutto quel colore scuro non era come pensava, che quel nero non era nero ma rosso scuro, rosso sanguigno, pressione alta, lava e lapilli che tentano continuamente di fuoriuscire. Il visitatore, poi, in quella lava incandescente ci si tufferà volentieri. Diventerà anche lui, per forza di cose, parte integrante di quel materiale piroclastico che scende ogni sera a valle e va a ricoprire le strade cittadine, facendole rivivere ed esplodere come ad una nuova eruzione. La prova è che molti che sono stati trasferiti qui e poi sono ritornati al paese d'origine hanno ancora Catania nel cuore; altri sono rimasti intrappolati dal suo fascino e non sono più andati via.
Altri ancora, purtroppo, l'hanno dovuta lasciare per sopravvivere e quando tornano qui mettono da parte qualsiasi appartenenza forestiera, si rimettono addosso la "marca Liotru" e fanno il pieno di catanesità (a cominciare dalla gastronomia) in quei pochi giorni di vacanza.
Lasciarla è quasi sempre un dramma. La stazione e l'aeroporto sono i muri del pianto delle partenze. Il catanese è uno dei pochi passeggeri ad affacciarsi dai finestrini del treno. La sua innata curiosità lo spinge a scrutare, a guardare cose nuove, a far riflettere la sua mente vulcanica, ma quando parte dalla sua città si affaccia ancora di più anche se il paesaggio è sempre lo stesso, anche se il viaggio dura soltanto due giorni. E per salutare un suo figlio Catania sceglie le giornate più splendide (vigliacca!): si profuma con una brezza marina da far resuscitare i morti, si bagna i capelli con un mare azzurro al sapor di alghe profumatissime cresciute in fondali meravigliosi, si dà un fondotinta con la luce e il sole che c'è da queste parti, chiama a raccolta i più floridi giardini di aranci che salutano con profumi di zagara e un cielo che è un Carnevale di colori.
E il catanese in partenza sta lì a guardare sua madre, dopo si ritira nel corridoio del treno e avverte subito odori diversi e un'improvvisa malinconia. Apre il pacchetto della merenda e dà il primo morso a un'olivetta di S. Agata, dimezzandola. L'altra metà non può più mangiarla perchè è bagnata dalle lacrime che scivolano dai suoi occhi. Ma lui, da buon catanese, non si dà per vinto e pensa: "sarà stato il vento dal finestrino...... "
(Mimmo Rapisarda, 2004)
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Ogni uomo nasce Re. Ma la maggior parte degli uomini muore in esilio, proprio come la maggior parte dei Re. (Oscar Wilde) 

 

 

LA VIA ETNEA

Quando, un tempo, il centro e le zone circostanti erano considerate la Città per eccellenza, chi doveva raggiungerle spostandosi dalla periferia, diceva che doveva andare a Catania, anzi, per l'esattezza, "andare" si trasformava in "scendere": quindi "scinnu a Catania" (a prescindere dalla reale orografia del territorio).

Queste frasi si sentono anche nel film "La terra di trema" di Visconti, quando la famiglia Valastro di Trezza si appresta ad incontrare l'avvocato di città. Oggi ciò farebbe solo ridere, ma c'è ancora qualcuno che lo dice.

Ma c'è di più: per esempio chi, "scendendo" (abituiamoci) al centro in via Etnea, esaspera il verbo all'inverosimile con "calare." Pazzesco, no?

"Staiu calannu a via Etnea", perchè a Catania non si scende ma si .... cala! E la calata in via Etnea è tutta particolare. E spiego il perchè.

Anche la salita è affascinante, da ricordare, col sole alle spalle e l'Etna di fronte che fa capolino dal Tondo Gioeni, salutando a volte rosato, a volte imbiancato, a volte incazzato, ma la discesa… è tutt'altra cosa.

L'orario ideale, e comodo, è fra le undici e le dodici del mattino; stavolta il sole si sente arrivare schietto in faccia, senza preavviso, come uno schiaffo spinto dal caldo Mezzogiorno, ed è così bello ricevere tale affronto da porgere l'altra guancia, non smettendo mai di farsi oltraggiare, spudoratamente.

Si deve percorrere la via Etnea a passo di lumaca, come appena alzati dal letto, in pantofole e vestaglia. Non bisogna farsi fregare da lei, perchè è molto furba, ma al contempo civetta: bisogna farle la corte, assaporarla nel suo insieme, ma senza lasciarle briciole. Basta non farsi scappare niente di ciò che accade intorno: le saracinesche dei negozi oleate da Turi dell'Olio, le sudate esternazioni dei clienti dei chioschi e le folle di pensionati alle fermate AMT, imbestialiti per i soliti ritardi dei mezzi.

Quindi attenzione a destra e a sinistra, perchè qui succede tutto e il contrario di tutto, e quando qualcosa accade te ne accorgi da estemporanei capannelli di gente creati dalla rinomata curiosità catanese o dai barocchi complimenti dei barman dei celebri Caffè che, per la passione che mettono nel promuovere ciò che offrono ai turisti sul banco, sembrano quasi essere proprio i titolari del locale o attori di compagnie teatrali, pagati dall'Ente Provinciale del Turismo.

C'è tempo o cambiamo pagina web? Ma sì, dai, c'è tempo. E chi ci spinge, basta aspettare no? Restiamo qui a crogiolarci al sole.

Camminare di fretta sarebbe un'offesa a Stesicoro, Verga, Bellini, Martoglio, Musco. Il passo veloce non è da noi, l'orologio lasciamolo ad altri: abbiamo ben altro da guardare, per esempio decine e decine di bellissime chiome nere su occhi grandi come olive che sembrano dirti "ti aspetto di là".

"Calare" lungo la via Etnea a quell'ora, davanti a bianche spire di fumo che si "annacano" in controluce, liberandosi da bocche ancora pregne di aromi di caffè, panzerotti, viscotta e minè. ... ecco, tutto ciò è sublime.

Ascoltare il contenuto umano di questa strada è come sentir parlare ad alta voce la città stessa; così giunge notizia di disperati sit-in a Palazzo degli Elefanti, del Governo ladro, di case occupate, del tempo che tarda a migliorare (incontentabili!), della misteriosa sparizione dell' 830 per tornare a casa a Picanello, del venditore di "masculini" alla Pescheria che ha sbagliato a "tornare" il resto, del maledetto destino funesto; e poi delle corna di quello e di questo, delle numerose cambiali finite in protesto, del "bacilicò" dimenticato alla Fera o luni e che invece doveva serviva per il pesto. Ecco, tutto ciò è spettacolare!

Levigare, ancora e sempre, gli storici marciapiedi in pietra lavica scolpiti anche da Brancati nelle sue opere, scansando mitici matti che lì vivono e rispondere loro con un sorriso, quando gridano "Savoia!"; poi fermarsi presso Savia a rivolgere un caloroso "mbare, cchi si rici?" ad occasionali conoscenti intenti a cazzeggiare (cioè nel pieno della loro attività istituzionale) ma soprattutto a sparlare di ogni cellula che faccia parte del mondo organico dall'Alcantara al Simeto ...ecco, tutto ciò è rilassante.

Veder radiografare dalla testa ai piedi la fauna rosa che passa davanti in quel momento, ascoltare l'"ars oratoria" cittadina, immensa ma variabile a seconda delle condizioni meteo, spaziare dalle notizie de La Sicilia, alla crisi (perché si sa … c'è crisi) a tutto quello che si riesce a captare nella tromba delle scale di un qualunque condomino... ecco, tutto ciò è straordinario.

Ma come possiamo quantificare e distinguere, soprattutto giustiicare questo ciarliero "piccolo mondo" d'altri tempi che resiste ancor oggi alla tecnologia dell'I-Phone preferendogli un tam tam proveniente dagli antichi cortili - meno artificiali - di Via Etnea?

- Il venticinque per cento di quelle parole sono castronerie estemporanee che, grazie al cielo, il vento solleva oltre Palazzo Pancari volando fino a Cibali;

- L'altro venticinque per cento, è puro pettegolezzo da comari inviperite pronte a calunniare l'inquilina del piano di sotto, novella Maddalena.

- La crema rimasta (corrispondente al cinquanta per cento) è costituita da decine e decine di brillanti massime o geniali concetti filosofici da strada, autentiche perle che meriterebbero di essere vergate su carta stampata, anziché galleggiare dentro una tazzina di Spinella.

E' un peccato, basta ascoltare la proverbiale e famosa "liscìa" catanese quando entra in azione o leggere questi signori (se i vostri occhi riescissero a vedere!!!) come parole nelle pagine di un libro di Ercole Patti, per accorgersi di tutto il ben di Dio che evapora nell'etere senza essere conservato agli atti.

Comunque, oggi è difficile incontrare questi prodotti autoctoni di origine controllata, soprattutto vederli all'opera nel pezzo migliore del loro repertorio: sentirli parlare. Purtroppo sono camuffati in mezzo a mandrie di balorda gioventù prese dal Grande Fratello e dall'ultimo modello di smartphone. Ma se si riesce a scovare un residuato del famoso Gallismo, è  facile accorgersi di quando stanno per scoccare una delle loro brillanti esternazioni. Lo fanno nel loro angolo preferito, di fronte ai bar storici che non possono tradire della loro presenza perchè loro stessi sono monumenti in quel contesto. Quasi tutti benestanti e avvolti in eleganti soprabiti, gli "ultimi dei belli" passano ancor ogg il loro tempo a consumare quei marciapiedi; non lavorano, non hanno mai lavorato e mai hanno pensato, nemmeno lontanamente, a quella catastrofica .... ipotesi. Insomma, son tutti figli di un certo Giovanni Percolla, il famoso "Don Giovanni in Sicilia".

Quando arriva la bruciante battuta, ti osservano con uno sguardo alla "Sig. Carunchio"; la fronte si arruga, i baffi si sollevano fino ad aprire il sipario a un sorriso mascalzone circondato da guance così arrossate che sembrano  pregustare ciò che per sta uscire da quella bocca.... e poi...

Tac! E' partita! Bollente, appena scivolata sulla lingua da un sovrastante cervello sempre in fermento come un vulcano! Quando la consegnano al destinatario, le sopracciglia inarcate del mittente continuano a sorridere ancora un per un po', come testimoni di qualcosa che deve essere registrata nell'elenco delle memorabili storielle siciliane.

Forse mi sono dilungato ad analizzare il fenomeno, ma assicuro che il fatto accade nell'arco di due-tre secondi. Niente di più!

Così, a turno, ad ogni ora della giornata, in quell'angolo magico che trasuda Storia da ogni mattone, questi signori si lasciano rubare in versi dal luminoso cielo, come aquiloni in aprile che non riprenderai mai più, centinaia e centinaia di tresche mai esistite, centoquarantamila formazioni del Catania indispensabili per approdare a una tranquilla salvezza, interminabili ricordi dei night club di Taormina o dei Platters al Lido dei Ciclopi, quotazioni degne da consumati bookmakers su certe prestazioni sessuali, ricordi di indimenticabili incontri che farebbero arrossire perfino Tinto Brass, valutazioni estimative sui patrimoni altrui così precise che nemmeno la Guardia di Finanza e, infine, gli ultimi avvistamenti del più bel culo di Catania!

Questo miscuglio di coriandoli fatto di popoli, etnie, cultura, storia, ormoni, sensazioni, tradizioni, scemenze al vento e ... meravigliose, stupende, minchiate….. ecco tutto ciò è poesia!

Soprattutto perchè questo gran carnevale di aggettivi si chiama... Via Etnea.

 M.R.

  

 

LA FUGA

Tanto tempo fa, al tempo della Genesi, Dio decise di fare ai Catanesi un dono meraviglioso: farli nascere "tutti, ma proprio tutti" in un Giardino dell’Eden.

Piazzò questo giardino ai piedi di un monte che lo proteggeva dai venti e dalle piogge, gli dipinse davanti un mare intingendo il pennello in un azzurro inesistente in natura, lo profumò di una brezza proveniente da fondali ricchi di pesci unici al mondo, lo seminò di frutti maturati sotto un sole che non voleva più saperne di andarsene ed infine lo illuminò con un sipario di stelle per decantarne tutta la sua bellezza, al punto da suscitare le invidie della Luna appena creata.

Però, non essendoci spazio per tutti, con rammarico pensò di fare delle selezioni permettendo così solo ad alcuni privilegiati di viverci dentro fino alla fine dei loro giorni.

Quindi emanò un editto che diceva: "Coloro che l’indomani troveranno davanti alla porta di casa una piccola mela di marzapane acquisiranno per sempre il diritto di cittadino dell'Eden".

Ma in quella notte i catanesi, essendo golosi di dolciumi fin dalla notte dei tempi, all'insaputa del Padreterno fecero man bassa di tutto quel "ben di Dio". Come se non bastasse, nella foga fecero rotolare alcune mele davanti alle porte sbagliate.

La mattina seguente accadde che alcuni, innamorati della propria terra, furono costretti ad andare via portandosi nel cuore il perenne ricordo di quel Paradiso ed altri invece rimasero controvoglia, anche se avrebbero preferito cercare frutti più grossi e gustosi altrove.

Chiaramente ci furono dei malcontenti per le scelte impopolari e a tutti gli Etnei rimase l'eterno dubbio che Dio, quella notte, forse assonnato o distratto per il gran lavoro della creazione del mondo, avesse ripartito senza alcun criterio e con immotivata ingiustizia il suo marzapane.

Dio non volle saperne niente: disse che i Catanesi avevano fatto scempio del suo dono macchiandolo con la loro ingordigia e che per tale colpa non poteva esserci punizione più giusta. Ecco perchè da quel giorno, in quel Paradiso chiamato "Catania", ad ogni episodio del genere viene pronunciato l'antico detto "U Signuri ci mannau u' (marza)pani a cu non ciavi i denti".

E i cosiddetti fortunati che sono rimasti, al contrario di quelli che son dovuti andare via per sopravvivere? Dopo un po' di tempo aprirono il cancello del giardino e scapparono fuori, spinti dalla bramosia di emergere, dall'ambizione e dalla convinzione di trovare paradisi più belli.

Sono diventati qualcuno, certo. Ma maledicono ancor oggi il giorno che andando via rifiutarono quel frutto perchè anche se hanno trovato mele più grosse, hanno capito che la vita scorre e il tempo passa inesorabile mentre le loro mele marciscono. Ogni tanto ci rientrano, nel giardino, ma poi devono starne lontano perchè non possono viverci. E soffrono.

Dal loro purgatorio, ogni giorno, chiedono alla loro nostalgia in quale direzione guardare il tramonto .....per ricordare il loro Eden. E piangere.

Ma questa è un'altra storia.

(Mimmo Rapisarda)

 

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- I veri paradisi sono i paradisi perduti. (Marcel Proust)

 

 

CONSIGLI TURISTICI

Va bè, lasciamo queste le cose tecniche e passiamo...... a cose più  "di sustanza"!

Il suo clima è mite, punto. Scrivono così, senza aggiungere la parola "perennemente" per non rosicare. La verità è che il nostro clima è invidiato da tutti, sia per la posizione geografica sia per il meraviglioso parallelo sul quale ci poggiamo. Grazie al complesso vulcanico dell'Etna, Catania è riparata dagli spifferi di Tramontana mandando puntualmente in bambola tutte le previsioni meteo annunciate. Quindi, prima di arrivare qui è consigliabile telefonare a parenti ed amici per verificare le reali condizioni meteo, onde evitare la figura di Totò e Peppino alla stazione di Milano.

Convincetevi che quando è nuvoloso, la causa non è dovuta a perturbazioni ma a nuvole di gas che sprigiona l'Etna e che si spingono fino in città. Qui non esiste la Primavera: dalle isteriche pioggerelline di marzo e aprile, l'estate arriva violenta e senza preavvisi nei primi giorni di maggio, prolungandosi fino alla fine di ottobre e lasciando il suo posto a mesi di novembre e dicembre così miti da indurre gli aficionados a fare un tuffo a Licuti (quello famoso che si vede sempre in TV) o a passeggiare in via Etnea in t-shirt a Natale e Santo Stefano. Insomma, non è una città per andare in giro in montone!

La corrente elettrica è da 200 w.  con prese di tipo L. Quindi, sia gli inglesi che gli americani devono premunirsi di adattatori, acquistandoli nel loro Paese o appena arrivati in città.

Ma la corrente non è solo elettrica, perchè quella del nostro Golfo alimenta una brezza che, se penetra a fondo nei polmoni, attiva scariche che possono provocare gravi danni da dipendenza. Se già fulminati e il malessere dovesse persistere, consultare un medico che nulla potrà rimediare di fronte a cotanto paradisiaco stato di appartenenza. E' consigliabile tenere tali effluvi al di fuori della portata dei bambini se si vuole evitare che crescano sotto il marchio Liotru. Sono stati accertati casi di adolescenti che, crescendo e diventando più adulti, sono ritornati sul posto dell'incidente convivendo, felicemente, con questa sindrome mediterranea.

Sarete accolti con calorosità della gente che vi ospita, perchè orgogliosa di farvi vedere in quale posto vivono. Abituate le vostre orecchie a percepire sillabe in cui tutte le "gl" diventano "ggh" (es: coniglio = cunigghiu); a vocaboli con una consonante che a noi sembra fin troppo superflua e che quindi tronchiamo raddoppiando tutto quel che ha davanti (es.:cettamente, possibbimente, ecc. ecc.); poi le doppie "elle" le facciamo diventare doppie "di" (es: bella  = bedda) ma spinte con la lingua in un modo che è impossibile descrivere, davvero. Tutto ciò è affogato in mezzo a un'infinità di verbi al passato remoto (turnai, u pigghiasti, mangiai, guidai, ecc.) e in un mare di defini.."zioni" pronunciate con una O molto, ma molto, ma molto larga!

In caso di imbottigliamento stradale non vi preoccupate. Non si tratta del "traffico" come recitava un noto film di Benigni, ma della caratteristica curiosità dei catanesi che anche davanti a un banale tamponamento, paralizzano il mondo attorno a loro perchè vogliono scrutare, accertarsi, vedere, capire il perchè, intuire se per caso il motivo è un altro, se si è venuti alle mani (spettacolo ambitissimo), se è questione di "spittizza" o se, addirittura, è stato un problema di ... "conna, sdisonorati!"

Insomma, un cortile alla Martoglio. In ogni caso, anche, soprattutto. Vivendoci per un po', capirete perchè.

Non meravigliarsi nel vedere le stesse facce, nelle stesse bancarelle e negli stessi posti: sono sempre loro, che per campare cambiano solo la merce e i cartelli per vendere olivette e torrone a Sant'Agata , zeppole a San Giuseppe, castagne e vino a San martino, palme a Pasqua, giocattoli alla festa dei Defunti, panettoni a Natale, botti a Capodanno, rose rosa alla Festa della Mamma e rose rosse a San Valentino.

Il tasso di disoccupazione qui è elevatissimo, ma i catanesi sono stati sempre dei maestri nell'arrangiarsi. La volontà ce la mettono tutta, ci hanno creduto e ci credono ancora ed oggi. Rispetto ai tempi delle valigie di cartone, preferiscono mangiare pane e cipolla pur di non partire.

Purtroppo sono stati governati, attraverso i secoli e fino al recente passato, da una scellerata classe politica. Anche se la vivono come una spugna per l'intero giorno, il 70 % dei catanesi dorme nei comuni limitrofi e quindi tocca a quei pochi residenti entro i confini municipali di decidere, col proprio voto, le sorti di Catania. Certi sciacalli, purtroppo, di questo ne sono a conoscenza e si ricordano di "quei pochi" solo ogni cinque anni, cioè al momento della campagna elettorale. Infatti, puntualmente, li prendono in giro in cambio di promesse che non verranno mai mantenute per farsi obliterare  il biglietto d'ingresso nei Palazzi che contano. 

Tuttavia, Catania è fatta d'acciaio perchè abitata da un popolo che attingendo da inesauribili depositi di estro e genialità, si adatta e si plasma a qualsiasi catastrofe perchè capace di inventarsi sul momento le più brillanti soluzioni. Non per niente è sopravvissuto a tante catastrofi naturali ricostruendo la città ancor più bella di prima. In sostanza, i Catanesi ne sanno una ... e molte di più del diavolo!

Pertanto, non date retta a quelli che ci dipingono con la coppola, perchè si tratta di gente ignorante che non è mai stata qui e non ha mai letto i libri di storia. I simboli coi quali ci etichettano appartengono ad una cultura ignorante e bigotta e sono sicuro che anche loro, rendendosi conto e respirando l'aria della culla di antiche civiltà, partiranno poi con opinioni diverse e tante emozioni nel cuore. Parecchie volte ho sentito queste parole galleggiare fra le lacrime, alla partenza: "ma non credevo.... ma era questa Catania, la Sicilia?".

La verità è che, rispetto ad altre città più organizzate, Catania (soprattutto per la sua "ruspante" inefficienza) ha dalla sua il potere di affascinare con un profumo che spruzza addosso a chiunque la stia per lasciare.

Volete sapere com'è fatto per constatarne la fragranza? Basta passeggiare per il suo lungomare nelle mattine primaverili o autunnali (ma sì... anche invernali) ed annusare gli spruzzi che salgono sul "passeggio" dalla risacca che si infrange sulla scogliera . E' così forte, aspro, salmastro, che diventa più indimenticabile del n. 5 di Chanel. Rimane addosso a vita, ed è proprio lì che Katane ti frega. Chiedete a chi ha vissuto qui, per qualsiasi motivo. Anche il più banale, il più breve.

Ovviamente, per altri "piccoli problemi" di convivenza, l'importante è attenersi, come in ogni parte d'Italia (e ogni mondo è paese) a certe regole. Quindi non arrivate a sventolare la borsa fuori dal finestrino, non esibite gioielli come se foste alla cassa di Bulgari ed evitate di percorrere zone pericolose quali quelle oltre Porto, il Faro Biscari e zone limitrofe.

Ma, dopo tutto, anche questo è folklore. Basta farci l'abitudine e capirete anche questo aspetto, con ironia, per rendervi conto quanto Catania sia la città più napoletana della Sicilia e, come i napoletani, sappia fregare il prossimo.... con classe, fino a fargli dire Grazie! Li amerete, vedrete, li amerete. Per farvi amare voi, invece, basta non toccare ai catanesi queste tre cose sacre: Sant'Aituzza, i Masculini e....  u Catania.

Vuoi sapere ancor di più come sia fatti? Allora clicca qui.

Le avvertenze sono tutte qui. Che vi credevate, di trovarci ad attendervi con la lupara? Non sappiamo nemmeno com'è fatta; di canne mozze conosciamo solo quelle da dove fuoriesce l'insostituibile ricotta dei nostri cannoli.

Buona permanenza a Catania e... buon divertimento! Dimenticavo: il biglietto è gratuito!

(mimmorapisarda.it per la sua città)

M.R.

 

LO DIRO' AL SINDACO

Fra le altre, a Bianco dirò anche questa.

Chi ha il privilegio di avere un esercizio commerciale in un posto – come nel caso di Piazza Duomo – che gli consente di avere un’enorme affluenza rispetto ad altri suoi colleghi meno fortunati, ha il sacrosanto dovere di rispettare i motivi per cui tutta quella clientela, soprattutto turistica, sosta e riscalda le sedie dei suoi tavolini.

A questi particolari locali, siti in pieno centro storico catanese (fra i quali il titolare del bar all’angolo con Via Garibaldi, Prestipino, da te immortalato) e, purtroppo, nostro primo biglietto da visita al turista o crocierista assetato che arriva a Catania, bisognerebbe imporre alcune regole fondamentali previa apposita ordinanza della Giunta, deliberata all’unanimità e nell’interesse storico e culturale della città. Pena: il ritiro della licenza.

Me l’hanno detto e l’ho verificato di persona. Tutti sappiamo che i migliori locali, dove con un Bitter potresti anche pranzare, non sono proprio al centro. Ma i crocieristi li portano lì, all’Elefante e a Sant’Agata. Quindi è impensabile che al Caffè del Duomo, dico Duomo, accanto all’aperitivo ti presentino le patatine San Giorgio e un paio di olive. Questo spilorcio “trattamento” viene attuato anche dai primi bar fino alla Collegiata, mentre dovrebbero far di tutto per diventare i Gilli, i Greco, i Sacher, i Florian di Catania. Proprio come gli storici Bar che resero famosa la nostra città negli anni Cinquanta.

Il servizio eccellente, impeccabile; i banconisti e i camerieri dovrebbero conoscere almeno la lingua inglese (anche con corsi organizzati dal Comune) come si fa in tante altre città del turismo mondiale. A stento, i nostri rispondono “quella potta là”, quando chiedono loro dov’è la toilette.

Ne ho tante altre da dirgli, al Sindaco.

Oggi pomeriggio vedevo la festa di Sant’Agata d’agosto. Immensa, inimmaginabile: Via Etnea, la Cattedrale, la Badia appena restaurata splendidamente che faceva da contorno; luoghi pieni di catanesi e soprattutto di turisti che si chiedevano in quale luogo fossero mai capitati. Li vedevo, spaesati fra il fragore delle campane, i fuochi artificiali e centinaia di sacchi bianchi fra la calia e il torrone. Poveretti, non capivano se erano in Sicilia, in Spagna o in Messico per tutta quell’enorme devozione dentro il Duomo. Erano lì, con le loro fotocamere in quel contesto surreale, con il tramonto che dorava meravigliose facciate mentre rimanevano sbalorditi a quella risposta, quando domandavano, con un cono di gelato al pistacchio di Bronte fra le mani, “ma è bellissimo, mai vista una cosa simile. ma lo fate ogni anno?”.

La risposta che li ha fatti sbigottire era “signorinella bella, lei non ha visto niente. Questa è solo la festa di mezz’agosto. La vera festa, il meglio, è a febbraio di ogni anno”. Ecco, occasioni come queste, in un periodo in cui la città brulica di turisti, sono l’assaggino per far capire davvero cos’è (e non per sentito dire) la terza festa religiosa nel Mondo. Quindi la Sant’Agata di agosto – che da sola dovrebbe essere già un evento importantissimo dell’estate catanese e pubblicizzato all’inverosimile - meriterebbe più enfasi e ridondanza turistica per far pregustare al pellegrino o turista che sia, la vera festa di Sant’Agata celebrata in pieno inverno.

I miei consigli non si riferiscono alle grandi opere o alla disoccupazione. Anche se il degrado è sotto l’occhio di tutti conoscendo le orrende incompiute lasciateci in eredità da Scapagnini, non sono né un urbanista né un sindacalista. Sono solo un cronista. Del web, ma un cronista. E da cronista sento un gran fetore.

I marciapiedi cittadini li vedo oleosi, unti di grasso, lucidi di olio di frittura e luccicanti dai cocci di bottiglie di birra della sera prima. Come nel calcio, anche qui c’è il tentativo di imitare Barcellona, ma lì di notte puliscono e invece qui, al mattino, tutto puzza dei residui dell’ultima serata di movida.

Tutta questa forma di aggregazione è bella, divertente, spassosa. Definiamola come vogliamo, ma anche in questo caso bisogna rispettare le regole. E’ un delitto imbrattare con lo spray i muri del prezioso Barocco catanese di via Crociferi o della Civita solo perché sei ubriaco o hai sniffato, come è un altrettanto delitto scaraventare sulla scogliera del lungomare tonnellate di carta stagnola, contenitori di fritture varie e lattine perché non possiedi il minimo senso civico o rispetto per il luogo in cui vivi. A nulla serviranno le pregevoli opere di volontariati per ripulirla. Non servono a niente se si autorizzano, ancora, autentici mercati nordafricani in Piazza Nettuno e Viale Alagona. Chi è stato a firmare?

Catania ha bisogno di essere “sgrassata e ramazzata” per bene. Ne ha proprio bisogno, il suo tanfo si sente da Ognina al Pigno. E siccome il servizio per farla pulire costa parecchio, le spese le farei pagare a chi infrange le regole. Chi sono? Chi vende panini sul lungomare, chi riempie di volantini pubblicitari i parabrezza per aquisti di ori e argenti, elettrodomestici o cene in ristoranti poco raccomandabili. Che fa l’80% dei catanesi quando vede queste proposte , prima di entrare in auto? Le getta per terra. E allora il servizio di spazzatura (a nostro carico) facciamolo pagare, attraverso multe salatissime, a chi provoca tutto ciò. Non è difficile individuarli. Si firmano pure, sappiamo anche chi è il colpevole!

Nell’era della spazzatura differenziata e dei problemi delle discariche, è da pazzi continuare a ragionare così. Dobbiamo capire che certe cattive abitudini non sono più consentite, per il bene della collettività. La multa la applicherei anche alle Onoranze Funebri che consentiranno ai congiunti di gettare per terra i fiori delle corone durante il corteo. Un’autentica porcheria che non serve a nessuno, nemmeno a far salire più in fretta verso il cielo l’anima del defunto. E’ solo inciviltà gratuita, autorizzata da tempo, che qualcuno l’indomani dovrà spazzare via. Chi paga? Facciamolo pagare alla Ditta delle Onoranze funebri, vedrai come imporranno il divieto, con apposite clausole, al momento del preventivo!

Avrei un elenco interminabile per Enzuccio nostro, appena lo vedo. Tante sono le cose, come quella di far aderire il comune di Catania all’applicativo Decoro Urbano. Una App gratuita con la quale si può segnalare immediatamente al Comune associato la buca stradale, il muretto divelto, l’atto di inciviltà, ecc. Un modo diretto di collaborare col Sindaco.

E poi il verde, ma dai smettiamola. Per il suo clima, ma specie per il suo secolare e demagogico vizio di promettere un servizio che poi non sa mantenere, Catania non è mai stata una citta che può permettersi il verde urbano (vedasi Villa Bellini) e, pertanto, proporrei di smetterla con gramigna, cliclamini e piantine che durano la bellezza di sette giorni. A che serve piantare ettari di rotoli di erba già pronta al momento dell’inaugurazione, se poi nessuno la innaffia e dopo una settimana quelle rotonde sembrano un incrocio di Tunisi? Dai, diamoci al sintetico! Le rotonde e le aiuole comunali rivestiamole di erba come quella dei campi di calcio che non ha bisogno di grande manutenzione. A prima vista, quel verde perenne si presenterà molto meglio della gialla sterpaglia rinsecchita a causa del mancato affidamento alla ditta dei Servizi, ecc.

Ne avrei tante altre, ma non vorrei tediarti. Mi fermo qui.

I problemi sono tanti, tanti, tanti e per questo non invidio chi, di questi tempi, aspira a candidarsi a Sindaco.

Noi catanesi abbiamo riempito per decenni la rubrica "Lo dico a La Sicilia" nel nostro quotidiano, oggi diventato quasi un cortile. Ma queste sono storie che conosciamo tutti da tempo. Storie vecchie, Francesco. Vecchie come la nostra città.

Ma io le taggo lo stesso, non si sa mai.

 M.R.

 

 

M'BARE TUCLE

Vi racconto la storiella di un marinaio greco.

La Grecia fu la più importante civiltà della storia antica dell’uomo; già duemila anni prima di Cristo nelle sue Agorà i filosofi si chiedevano chi fossimo, se rotondo o piatto era quel mistero oltre l’orizzonte e cosa ci sarebbe stato appena defunti. Tutto ciò mentre gli antenati di Salvini saltavano di ramo in ramo, fregando le bacche agli scoiattoli per sopravvivere.

Ma, seppur potente, il territorio ellenico era di natura prevalentemente montuoso, arido, e non poteva garantire ai suoi abitanti, sempre più numerosi, una produzione agricola sufficiente al fabbisogno della popolazione. Questo problema sfociò in un diffuso malcontento sociale, già ampliato fra i ceti inferiori perchè costretti a subire la prepotenza degli aristocratici e soprattutto per i contrasti fra le “poleis” greche. E siccome ogni mondo è Paese, la residenza greca fu assicurata solo ai soliti pochi eletti, costringendo la classe meno abbiente a cercare altrove migliori condizioni di vita. Fantozzi esisteva anche allora!

Così, col permesso di Atene a partire con le proprie navi, carichi da spirito di avventura e stimolati da quanto appreso nelle favole omeriche, questi esuli emigrarono altrove colonizzando terre mai viste ma conservando gli usi, i costumi e la religione della Madre Patria. Ecco chi erano.

- di etnia dorica Corinzi, Megaresi, Cretesi, Rodesi, che fondarono Megara, Siracusa, Gela, Agrigento, Eraclea, Selinute;

- di etnia jonica i Calcidesi della penisola Eubea e dell’Isola di Nasso che, addentrandosi fino in Campania, fondarono la prima colonia greca italiana dal nome Cuma e dopo Naxos a Taormina, Reggio, Messina, Catania, Lentini, Milazzo;

- proseguirono gli Achei con Sibari, Locri, Crotone e Metaponto;

- e infine i dorici greci di Sparta, che fondarono Taranto, la più importante città della cosiddetta Magna Grecia  il cui territorio si estendeva fino a Paestum, tanto da far preoccupare la terra d’origine.

Il capo della spedizione era generalmente un nobile mandato ad interrogare l'oracolo per avere istruzioni su dove fondare la nuova colonia. L’Ecista (fondatore) non si limitava a guidare i coloni ma provvedeva anche alla costruzione della nuova città, all’assegnazione dei lotti di terra da coltivare e alla pianificazione urbanistica della stessa colonia. Niente a che vedere con Corso Martiri della Libertà a Catania. Se sapesse! 

Il viaggio nella Sicilia orientale fu guidato dall'ecista Tucle da Calcide che, appena approdato in Sicilia, dovette fare i conti con i Siculi che si opposero per difendere le loro terre. Intorno al 734 a.C. fondò Zancle (Messina) e poi Naxos, l’approdo migliore. Viste le bellezze naturali, il promontorio e l’isola Bella ancora incontaminata, quel luogo straordinario volle chiamarlo Naxos in onore a Nasso, l'isola greca calcidese dove lui nacque e dove fu organizzata la spedizione.

In memoria di quel che accadde tanti secoli fa, nel comune siciliano è stata eretta una statua bronzea dedicata a Nike e rivolta verso quel mare che spinse sulle sue spiagge le navi dei coloni greci. La statua si trova a Giardini in Via Calcide Eubea (vi ricorda qualcosa?). Una seconda copia è situata, invece, nell’attuale Calcide (Khalkis) per ricordare la linea virtuale che unisce le due Naxos nonché il gemellaggio tra Giardini Naxos e Calcide Eubea, celebrato nel 1965.

Questo Tucle, un giorno d’estate salì su quella collina dove successivamente fu costruito un teatro ad opera del rivale dorico Gerone, tiranno di Siracusa, e il suo sguardo lungimirante si allungò su qualcosa di affascinante che fumava al tramonto. Era Aitna, qualcosa che in vita loro i Greci non avevano mai visto. Così, spinto dalla curiosità e dalla sete di conquista, dopo sei anni guidò una spedizione più a sud e scoprì che adagiata sul mare e ai piedi di quel monte esisteva una terra meravigliosa ricca di laghi, fiumi, foreste, spiagge e fertili terreni.

Bellissima, ma come chiamarla? Visto il territorio lavico su cui sorgeva la chiamò Katane (grattugia), anche se le interpretazioni riguardo il nome sono tantissime: da "katà-Aitnè" (dal greco "presso” e “Aitna”) continuando fino alle nomenclature degli Arabi.

Nel 728 avanti Cristo fu così fondata Katane, e poi Leontini soprattutto per tenere a bada i Siracusani, ma i nuovi abitanti (irriconoscenti “sdisangati e malusangu” già dall’antichità) fecero fuori Tucle sostituendolo con Evarco. Catania cominciò così la sua storia, con tutto quel che avvenne fino ai nostri giorni.

Dichiarando l'indipendenza della Magna Grecia, tutte queste colonie raggiunsero splendori più grandi della stessa Madre Patria ma le lotte interne e l'eterna rivalità fra dorici e jonici, soprattutto in Sicilia, porteranno a un indebolimento della Grecia siciliana che diverrà facile preda dell’Impero Romano nel 263 a.C. Poi arrivarono i Bizantini nel 555, gli Arabi nel 900, i Normanni nel 1071, gli Svevi nel 1194, gli Angioini nel 1266, gli Aragonesi nel 1282 e conseguentemente gli Spagnoli nel 1516, i Borboni nel 1734, i Sabaudi nel 1860 e, dal 1947, quelli che ancora scaldano le poltrone a Sala d’Ercole. Ma questa è un'altra storiella.

Purtroppo, a parte il teatro greco-romano, le testimonianze della colonizzazione greca a Catania sono pochissime rispetto a quella romana visibile ancora oggi in parecchi quartieri della città.

Anche Goethe, incantato da quel monte fumante visto da Taormina, racconta nel 1787: ” …….. davanti a noi l’intero, lungo massiccio montuoso dell’Etna; a sinistra la sponda del mare fino a Catania, anzi a Siracusa; e il quadro amplissimo è chiuso dal colossale vulcano fumante, che nella dolcezza del cielo appare più lontano e più mansueto, e non incute terrore”.

Questa è la storia di quel marinaio ellenico, impavido quanto Ulisse re di Itaca. Ma se l’Odisseo era solo una leggenda raccontata da Omero, 'mbare Tucle è esistito davvero.

Tutto ciò che ho scritto è un piccolo messaggio ai miei concittadini: quando vi trovate al lungomare di Giardini, in attesa davanti alla pizzeria o in procinto di affittare lettino ed ombrellone, anziché guardare souvenir made in China sulle bancarelle fate qualche passo più avanti fino ad arrivare in una piazzetta dove è collocata una grande scultura in bronzo simboleggiante il coraggio, la perizia e la tenacia dei naviganti e che i residenti del luogo chiamano “L’uomo e il mare”. Se guardate bene, sulla statua c’è una targa su cui è scritto “Tucles”, a ricordo di quel condottiero che noi catanesi dobbiamo ringraziare e che per tale motivo, essendo lo scrivente di queste righe nato nella terra del "peccuru", gli viene conferito d'autorità quello di "Tucle u spettu”. Pertanto, adesso che lo sapete, quando gli passate davanti rendetegli omaggio e toglietevi il cappello, perché vi troverete di fronte a colui che fondò Catania, la nostra città.

M.R.

https://www.mimmorapisarda.it/STORIA.HTM#kat

 

 

VIA PLEBISCITO COAST TO COAST

Dal Porto comincia la salita. A sinistra si va per il vecchio macello di Via Zurria (adesso piscina comunale dedicata al povero Ciccio Scuderi) e poi l'Angelo custode. E' la zona più vicina al mare e si vede dalla vendita di esche, vermicelli ballerini, spagnoli, coreani e americani. Più avanti, fra i muri delle strade spruzzati "a sostegno di una fede", tanti chioschi di fede rossazzurra tappezzati da poster del nostro amato Catania e raffiguranti immagini a me molto familiari: provengono dal mio sito web !

Siamo in Via Plebiscito, nell'autentica Catania. Confesso che io ci vivrei; molto meglio di silenziosi condomini pieni di verde e cinguettii. Certe volte, invece di perdermi in un caotico e inconcludente centro commerciale, preferisco farmi un “via Plebiscito coast to coast”. Mi ci immergo volentieri divertendomi ad ascoltare la sua gente, sentirmi dentro la storia della mia città per la vicinanza di numerose testimonianze rimaste su quelle strade e sconosciute da parecchi. Le dominazioni in Sicilia qui si toccano con mano. Diverse, man mano che si cambia il quartiere: da quella sveva e normanna dell’Angelo Custode a quella araba di San Cristoforo, a quella aragonese e barocca dai Cappuccini fino all’Antico Corso.

Siamo in un mondo a parte. Nel suo contesto sociale e storico, è un quartiere bellissimo dove poter ritrovare le proprio origini, l'essere catanese. Come in una Matrioska, scoprire quartieri infilati in altri quartieri con splendidi cortili degni delle sceneggiature recitate da Angelo Musco e Giovanni Grasso. Sono come li lasciò il Gen. Montgomery nel luglio del 1943, in alcuni edifici sono rimaste anche le scritte del ventennio fascista!

Nonostante la triste e falsa nomea, io non ho mai avuto problemi. Ogni volta ne rimango stregato. Senza che nessuno mi abbia mai infastidito, percorro in piena tranquillità strade interne come via Stella Polare, Gramignani, Mulini a vento, del Principe, Cordai, Villa Scabrosa. Ogni tanto esagero e tento di entrare in quei cortili ma, non conoscendomi, vengo bloccato puntualmente all’ingresso con un immancabile “prego?” spuntato fuori all’improvviso.

Eccomi sulla strada maestra. Sul marciapiedi davanti al suo ingresso, una farmacia suggerisce di misurare la glicemia a solo un euro. Però qualcuno, con una “disinteressata” quanto geniale idea pubblicitaria, aggiunge "e 'cu n'euro ta luvatu u scantu e ti po iri a mangiari a raviola ni Lanzafami". Translate: “e con un euro ti sei tolto lo spavento e puoi andarti a mangiare la raviola fritta da Lanzafame”.

Il fatto che il titolare della farmacia - ormai assuefatto alla mentalità del quartiere - non l’abbia più cancellata decreta la suddetta frase aggiuntiva che, di fatto, diventa un'opera d’arte marca Liotru! Questa non potevo farmela scappare.

C'è tanto da fotografare, ci sono chicche che nemmeno a Forcella a Napoli. Percorro via Plaja e vedo un vecchio stabilimento ormai smantellato, pieno di macerie. Mi accosto e, mentre mi appresto a fotografarlo, un colpetto sulla mia spalla blocca il mio entusiasmo: un anziano signore mi fa un cenno con il suo dito indice che si muove come un metrometro. "Lei cca non po' fotografari! C'è gente ca s'avissi a stari a casa e inveci s'attrova peri peri" (è più forte di loro, non ce la fanno a rimanere ai domiciliari con tutto quel ben di Dio che c'è fuori). Il signore continua: "appoi ci su autri ca pigghiunu u redditu di cittadinanza e vinnunu i muluni strada strada.....m'ascutassi, chi voli sapiri ciu cuntu iu!".

E mi racconta che in quell'edificio esisteva il pastificio Maione, la pasta consumata dalla maggior parte della cittadinanza fino al Dopoguerra. Fallì a causa del benessere degli anni Sessanta e l'avvento della Barilla & Co. Un racconto affascinante, proveniente da quegli occhi pieni di storia, di sofferenze, di guerra, di anni difficili e che si muovevano assieme a tutte quelle rughe che mi spiegavano anche del deposito dei vini semidistrutto dai bombardamenti, della fabbrica di ghiaccio antistante per farci i gelati e le granite di una volta. Tutti quegli edifici, in rigoroso stile architettonico del famoso ventennio, sono ancora in piedi. Malconci ma presenti come vecchi fantasmi che sovrastano centinaia di ricevitorie di scommesse frequentate da una gioventù balorda che, devo dire, a casa sua è davvero molto "arucata"! Mi sono sentito più sicuro qui che davanti all'Altare della Patria. Bello, bello, bello! Quella mezz'ora è stata per più soddisfacente del report fotografico.

Ecco perchè qui non faccio più click. Faccio un esempio: tempo fa stavo fotografando un vecchio edificio in via Di Giacomo (regno di Santapaola) e non mi accorsi che nell'inquadratura stavo riprendendo anche una donna anziana che si prendeva il fresco pomeridiano annusandosi le ascelle su una sdraio, fuori dalla sua casa che era ormai quasi da demolire. Inconsapevolmente stavo per acchiappare un capolavoro, ma lei si accorse di me. “Lei cu iieeèèè? Chiamu a me figghiu!”. Insomma, m’assicutau. Ciò significa che, come dice una famosa frase, "ti piace? guarda ma non si scatta!"

Ad angolo con via Cordai c'è una trattoria col suo slogan che campeggia sulle tende davanti all'ingresso: "si picca vo pavari e bonu vo mangiari, na Zia ..... ta fimmari". In zona, sono tante le zie che che diventano tali per i nipoti e pronipoti. Il massimo della loro carriera è il caravan dei panini al Lungomare di Catania, lì zii e zie diventano tante.

Ci passo e scopro qualcosa nel locale che in città non sono mai riuscito a trovare: lumache già cucinate, da asporto. A Catania le lumache le vendono dovunque, purtroppo a casa non me le fanno cucinare e nemmeno me le cucinano perchè si impressionano. Addirittura, mia moglie ha organizzato in passato evasioni bibliche, sui vasi del terrazzo, quando le ho portate a casa.

Sto per prenderle ma non mi fido tanto. Più in là scorgo un'altra trattoria con tutta l'esposizione della mercanzia: costate suine, bovine, equine e tanta gastronomia "Made in Catania" da far storcere il naso a chi è abituato a cucina vegana, vegetariana e gourmet. Chiedo anche a questa trattoria se hanno lumache da asporto.

- "Vaccareddi? no, non ni facemu"

- "Ce li ha la Zia, più sopra. Mi dica, mi posso fidare?"

- "Assira, vossia .... chi mangiau?"

- "Che c'entra? Va bè, una caprese"

- "U viri? nuatri da zona semu vaccinati e non ni succeri nenti, inveci lei finisci 'o spidali! Ci luvassi manu !".

L'avrei abbracciato !

Comunque, la risposta del gestore è anche invidia, cuttigghiu e folklore catanese, perchè qui si fa teatro anche in queste cose. La trattoria che racconto non sarà luccicante come il Pavillon Leodoyen a Parigi, ma è semplice e senza fronzoli come si legge in questa brevissima recensione in rete che dice proprio tutto: "Potete assaggiare la vera, tipica saporita cucina catanese. Fantastica, gustosa, semplice e ignorante al punto giusto"

Lungo la via, moltissimi sono gli esercizi commerciali, tutti con enormi immagini di Sant'Aituzza e racchiusi fra loro in duecento metri. Nessuno di loro ha difficoltà economiche per la breve distanza col rivale, tanta è la densità di popolazione. Oltre al pane vendono anche tavola calda della tradizione catanese. Tanta, tanta, tanta da produrre tonnellate di trigliceridi ben evidenti nella ciccia traboccante dai jeans della gioventù del luogo.

Qui non puoi mai sentirti solo; sono moltissimi, spumeggianti, estrosi, geniali e pieni di colori come dentro la "Vucciria" di Guttuso. Amano la vita in tutti i sensi, nel bene e nel male e comunque vada. Per essere chiari, prendere il quartiere un sabato sera, squartarlo come un cappone a Natale e poggiarlo all'angolo fra via Belfiore e Via Plebiscito, poi entrarci dentro e vedere quel capolavoro prendere vita come quei libri per bambini che aprendoli cominciano ad animarsi. Lo si sentirà parlare, ansimare, litigare col venditore di carne arrosto, scacciare il cane "spettu" scacciare il cane "spettu" che sa dove fare la questua. E poi decine di Malaguti che sfrecciano come missili fra quarti di carne equina disossata per strada, fra braci di carne e carciofi accanto a mercanzie di ogni genere. Un dipinto !

Affondo sempre per via Belfiore fino a Via Tripi, al "Traforo", alla famosa macelleria equina dei F.lli Foti, inconfondibile per il tendone biancorosso. Percorro via Testulla e arrivo al Locu, piccola zona che in confronto via Plebiscito rappresenta via Veneto a Roma. Oggi molto degradato, questo spazio si trova nella parte finale del traforo ferroviario, a ridosso di Via della Concordia. Ci voglio entrare perchè mi ricorda quando, giovane sottufficiale di Capitaneria, alla fine degli anni Settanta mi inviarono qui per notificare un verbale a qualcuno (non ricordo se navigante o pescatore). Quella mattina ero in divisa, entrai in quelle stradine e fui subito circondato da un branco di cani, molto aggressivi nei confronti del sottoscritto.

A mia difesa arrivò una voce "Cumannanti, si luassi u cappeddu. I cani su addestrati ppi muzzicàri i vaddia!". Così mi tolsi il berretto, i cani si calmarono e alla fine riuscii a completare il mio compito. Pazzesco, no?

Lungo via Juvara torno indietro in Via Plebiscito ed entro in un bar. All'ingresso è affisso il manifesto del prossimo concerto di Gianni Vezzosi; special guest "Savvo Zauddu" e Matteo, dodicenne cantante neomelodico che è già una star!! L'arredamento è rimasto simile a quello degli spot dei gelati Algida nei Caroselli. Non pensate di trovarci tavolini in granito, aperitivi che fanno trend o gente che se la tira (a Catania lo chiamano "spacchiamento"). Di stuzzicherie nemmeno a parlarne, al massimo un pugnetto di arachidi e un paio di olive. Vi serviranno le bevande ancora nei lunghi e scomodissimi bicchieri del Bitter San Pellegrino che solo una cicogna ci può bere, e se chiedete un Negroni vi risponderanno che fuori ce ne sono a decine in ogni angolo di strada!

Ordino il mio aperitivo (questo lo conoscono) che di solito preferisco con ghiaccio e senza limone. Al banco c'è una donna che nemmeno mi ascolta perchè impegnata in chat, mentre si distrugge i pollici e le unghie disegnate con luccicanti paesaggi stellari. La massima aspirazione in carriera per le ragazze è il diploma di ricostruttrice di unghie, estetista oppure (il sogno) velina; per i ragazzi diploma all'Alberghiero, calciatore (possibilmente il compagno della velina) o cantante neomelodico.

La donna al banco sarà sulla quarantina, probabilmente è già nonna perchè canta al cellulare "Battiamo le manine, ca ora arriva u papa’, ni potta i cioccolattini e Kevin si mancirà". E' rilassata, continua a fottersene del sottoscritto ma dal retro arriva un giovanotto, forse il compagno: "au Aitina, chi fai, ti movi? U vo sevviri u chistianu?" .

Gli sguardi delle donne sono una condanna che Dio ha inflitto a noi uomini, ogni volta che li incrociamo. Quindi gela il suo uomo con uno di questi sguardi, accompagnato dal noto "Quannu iu parrava che chistiani tu sgaggiavi mobili co girellu!". (translate: "quando io parlavo già con la gente tu graffiavi i mobili col girello".

Mentre vengo servito nervosamente dalla donna (aperitivo caldo e con una fettona di limone, nemmeno mi rischio di protestare), vedo che l'uomo si arrende e le dice: "Amore, vita do me cori, lo sai che a quest'ora dò i numeri". Un esempio di come, nella vera Catania, si può mettere a posto una persona solo con le parole!

Esco con quello schifo nello stomaco e risalgo lungo la Route 66 della catanesità. Appagato, continuo per la piazza di fronte la Chiesa San Cristoforo dove, gentilissimi, mi spiegano tutte le procedure per cucinare, ancora lì bollenti, il sangeli, la matruzza e il quarume. Lì davanti inizia via Velis (dove visse il grande Micio Tempio) e in uno splendido cortile all'aperto che sembra il sipario di una commedia, mi imbatto in un battibecco fra una madre di famiglia e un bambino di 10 anni che le risponde ad ogni rimprovero come in un'opera di Martoglio, fra le risate della gente presente. Meglio di andare al cinema!

Continuo per San Cosimo alle Chianche in cui è rimasto qualche residuo del vecchio Bastione di San Giovanni, la Giudecca, la Vigna del Sardo, la zona del Fortino piena zeppa di scomodissimi divani, pessimi arredi e rosticcerie che attendono di accendere le loro luci al passaggio di Sant'Agata nella notte del prossimo 4 febbraio.

E poi i Cappuccini Nuovi, il vecchio Ospedale V. Emanuele spesso teatro di nervose rimostranze al pronto soccorso, l'Istituto Ippico, l'incrocio col Fortino, il Bastione degli infetti, quello del Tindaro e la Torre del Vescovo e, alla fine, annusando l'aria, capisco che sono quasi arrivato alla fine, cioè all'interno di quel gomito puzzolente e gustoso che si chiama Antico Corso (U Cussu, in dialetto catanese), tappa finale a nord nella sezione "Terme dell'Itria" e famoso per il cosiddetto "arrusti e mangia" della carne di cavallo, preparata in rigorosa maniera "street food" dai numerosi osti presenti in zona.

Ecco, secondo me, via Plebiscito. Sono sicuro che molti altri più bravi di me la saprebbero descrivere meglio, nel dettaglio e nella sua storia.

Io la vedo così. Basta saperci guardare dentro col cuore, la curiosità e la fantasia per farla diventare un'autentica giostra.

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I BENEDETTINI IN TV

Qualcuno del Dipartimento di Scienze umanistiche mi ha detto che quando finì di girare nell’ex Convento dei Benedettini, Alberto Angela non se ne voleva più andare. Si è innamorato di Catania e infatti nella prossima puntata parlerà dell’Etna, e dopo ancora della maestosità della festa di S. Agata.

Io lo sapevo, ne ero certo della cotta. Come una bella donna, Catania ti ammalia e ti rapisce… ma solo quando decide lei.

Puntata Impeccabile, sabato scorso. Anche se un po’ generico, visto il tempo a disposizione, Angela ha fatto omaggio a Catania con uno straordinario servizio. Più di così non poteva fare, perchè l’ex Monastero dei Benedettini, Palazzo Biscari e Via Crociferi meriterebbero, da soli, un’intera puntata ciascuno. Per non parlare di quel che manca ancora: Anfiteatro, Teatro romano, Castello Ursino, ecc.

Angela ha fatto capire come questa città conservi all’interno del suo tessuto urbano (non si tratta di siti fuori porta!) gioielli inestimabili che il mondo dovrebbe conoscere di più. Basti pensare al sito dei Benedettini, fino a poco tempo fa adibito a caserma o ad aule per scolaresche e poi rivalutato dall’Università di Catania negli anni Ottanta grazie alla grandiosa opera dell’Arch. De Carlo, autentico artefice del suo recupero. Nel 1984 ero presente all’inaugurazione, che fecero coincidere con il 500° dell’Ateneo, e mi meravigliò lo stupore ancora impresso nei suoi occhi, quandò raccontò ai Presidi delle ex Facoltà le sue scoperte sotterranee, dalle cucine progettate dal Vaccarini ai refettori che uscivano fuori man mano. Un grande.

L’altra sera è stato spiegato ampiamente quanto è immenso, ed è vero quel che raccontava Angela in merito alla vita agiata di chi abitava il Monastero. Non si trattava di poveri prelati votati alla vita francescana, ma dei secondogeniti della Nobiltà catanese costretti ad andare in convento, a condizione di viverci a 5 stelle. Cioè servitù al seguito, agiatezze, prostitute durante le ore notturne, fumo, alcol e soprattutto, cibo tanto cibo. Niente a che vedere con la vita di un monaco.

Chi non ricorda in TV i Vicerè, tratto dal romanzo di Federico De Roberto, che li definì “Porci di Dio”? Avrete pure sentito Angela pronunciare la frase “Scacciu e michellassu”. Ecco che significa:

Questo il menù (così come lo scrivevano i monaci) di una cena in un giorno qualsiasi del 1800: Eccolo qui:

Comunque, una grandiosa puntata che rende omaggio ad un importante luogo del Mito, che meriterebbe altro e non il degrado, l’inciviltà, l’ignoranza (soprattutto) e il menefreghismo che regnano sovrani nelle sue strade. Buttafuoco disse “A Catania il provincialismo non ci fa vedere il bello che c'è”. E’ vero, Catania non è solo arancini, granite e cannoli. C'è dell'altro, meravigliosamente altro.

Assieme a poche altre città italiane, a Catania – come in tutta la Sicilia - ci si può permettere di toccare con mano la storia grazie alle dominazioni e ai popoli che l’hanno abitata e governata. Non ci siamo fatti mancare niente: Greci, Romani, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Borboni, Sabaudi. Per chi non la conosce, percorrendo certe strade la sua storia la si può annusare, si può respirarla. E poi non ci vuole tanto a partire carichi di informazioni prima di allacciare le scarpe, internet non è solo stupidaggini da condividere. Per esempio, su facebook la pagina Obiettivo Catania di Milena Palermo è una fonte inesauribile di notizie storiche per chi vuole divertirsi all’indomani, calpestando letteralmente il nostro passato e apprendere le proprie origini …. invece di perder tempo nei Centri commerciali.

Credetemi, scoprire certe cose e poi dire a se stessi “ma dai!… ma io vivevo qui?” è davvero un sollazzo. A Catania viviamo fra patrimoni UNESCO che nemmeno gli stessi cittadini sanno di possedere.

Grazie Prof. Angela, grazie anche per quelle frasi finali: “Catania è distesa tra il mare e l’Etna e riassume molto bene due termini da noi utilizzati: distruzione e rinascita. Catania è stata devastata da quel terribile terremoto di fine ‘600 trasformandosi in una sorta di fucina internazionale del barocco. Ha saputo rinascere e quello che ha saputo creare è qualcosa di straordinario. Piazze che sembrano palcoscenici, statue che sembrano parlare con ampi gesti. E’ una città che incanta e che ha tanto da insegnarci proprio per questa capacità di guardare al futuro con ottimismo. Questo spirito ci chiede di essere tutelato e protetto”.

Belle, ma qualcuno potrebbe pensare “ma se avete tutto questo ben di Dio, perché lo distruggete? Forse è colpa di chi lo abita? Forse senza i catanesi Catania sarebbe una città straordinaria ?”

No. Catania è così perché (nel bene e nel male, nonostante inciviltà, inefficienza e tante altre cose negative) è abitata proprio dai catanesi. Per assurdo, Catania non sarebbe stata così bella se non ci fossero stati i catanesi. Lo so, sono “malusangu”, malarazza, pronti a fottere il prossimo nell’arco di 10 nanosecondi, arroganti, imprevedibili, impulsivi, a volte violenti… ma hanno un cuore grande così, intraprendenza, ingegno, estro e generosità da vendere. Soprattutto vanno letteralmente pazzi per la scritta “Melior de cinere surgo” che hanno nel loro DNA, e cioè rinasco dalle mie ceneri ancora più bella.

Perché loro sono fatti così: si autodistruggono e poi ricostruiscono dalle ceneri la loro città più splendente di prima. Figli del loro vulcano, come a "Muntagna" sono incontentabili, piroclastici al loro passaggio e impetuosi come colate laviche al momento di incanalarsi negli ingrottamenti delle loro vite, per poi riemergere nelle nuove rinascite come sempre. Come disse Luigina Grasso: Essi stessi sono l'Etna, anche loro fremono, sbuffano, eruttano e mandano al cielo lapilli. E se nel loro sangue si guardasse bene, il coagulo è magma solidificato, è lava.

(gennaio 2020)  M.R.

 

 

 

IL CALCIO

 

QUANDO IL CALCIOMERCATO DIVENTA UN TORMENTONE ESTIVO

Adesso che è finito il calciomercato, non c'è alcun dubbio che il più grande acquisto del Calcio Catania per la prossima stagione rimane l'essere riusciti a trattenere, ancora per un anno, la Gallina Bionda.

Con tutto il rispetto per i Grandi del passato, Maxi Lopez resta il più grande attaccante che abbia mai calpestato la sacra erba cifalota. Però quest'estate ci ha fatto alzare le temperature corporee. Non è stata colpa sua e nemmeno del caldo; i quaranta gradi li abbiamo raggiunti grazie alla continua cantilena della stampa sportiva: "Maxi resta o no? va alla Fiorentina o va al Genoa? Undici, dieci o nove milioni?" Quanta ansia! Nemmeno quando sono arrivati Spagnolo e Benincasa dalla Reggiana, nell'estate del 1973.

Lopez è innamorato di Catania, ma le sirene continuavano a suonare e così, fino al 31 di agosto abbiamo dovuto rimodulare, quasi ogni giorno, la formazione-tipo senza lui, con lui o con alternative del suo calibro.

Che compiti gravosi per noi, che gran problema sociale... vero? Quasi una città allo sfascio!

Tuttavia, come ogni anno, ho pubblicato nel mio sito la mia ipotetica formazione ma non sono stato il solo ad immaginare "come sarà il Catania". Infatti questo puzzle è un divertente gioco a quiz cittadino che si svolge prevalentemente d'estate, fra inverosimili "allenatori" dotati di una boria che sembrano provenire da Coverciano e davanti a una dozzina di granite di mandorla. Diciamo che ci divertiamo da matti a giocarci, forse per rispettare quel detto "siamo tutti C.T." oppure perchè quando siamo seduti a un tavolino, qui in Sicilia cominciamo a filosofare al vento (in gergo liotrico: "minchiati!"). Ben altra filosofia impazza nei forum dedicati al Calcio Catania e le nostre brucianti battute li infuocano a dovere.

Quindi, a parte i Gossip balneari e le escort nazionali, le vacanze rovinate e le cambiali protestate, la manovra finanziaria e il Governo ladro, i mulinciani a Fera o luni e i capuni a Piscaria, le "conquiste" vere, presunte e inventate, questo è il principale argomento nei bar catanesi durante i mesi di giugno, luglio e agosto.

L'uomo da sparlare ferocemente, invece, è Pietro Lo Monaco: l'Etna ci ricopre di polvere nera? I commercianti fregano sui saldi? La linea D non passa? ...... il colpevole è sempre lui! ...."Manca l'acqua! A cuppa è di Lo Monaco, ca soddi non ni voli nesciri!". Che pazzi! Lui ci rimane male, ma non ha ancora capito che i tifosi in fondo gli vogliono bene, che nonostante le accuse si fidano ciecamente di lui e che gridare allo stadio "Direttore pezzo di...." è ormai diventata una pratica scaramantica per invocare il gol della vittoria. Sarà una follia tutta nostra, ma è vero! Verificato di persona.

Ma è anche il caldo, credetemi, che ci fa "delirare" così da mezzogiorno in poi. Garantisco che quando al mattino c'è più fresco siamo meno vulcanici, pure più riflessivi, anche se il nostro dilemma rimane sempre quello: ".... chi fici u Catania? a ccu accattanu? Così, dopo aver imboccato il primo cucchiaino traboccante di delizie, i "grandi saggi" sognano di sedere sulla panchina rossazzurra riformulando ad alta voce la formazione etnea senza il mancato acquisto, sognato da settimane fra conferme e smentite del quotidiano di città.

Poi, anagrammando, continuano: "Mah, viremu ora a ccu attaccanu!"..... e sfogliano la Cronaca nera. A Catania è sempre così, ogni estate.

 M.R.

  

NON PIU' UNA PARTITA MA UNA LEGGENDA.

 Non è la data, l'anno, il paese, lo stadio che rende ogni volta incredibile questa partita, ma è la nomenclatura che la fa diventare mitica: Italia-Germania. 

Due parole che unite da un trattino e messe dovunque, o in una partita al calcio balilla o sulla spiaggia di un villaggio turistico fra un'amichevole di turisti tedeschi e italiani, innescano una magia che scatena quanto di più incantato si possa pensare per una partita di calcio. C'è qualcosa di stregato in queste due parole, è come se il Dio Palla volesse chiedere la parola d'ordine a chi vorrebbe conferire con lui per iniziare a parlare di pallone. 

Questa partita è diventata lunghissima, non finirà mai. Da oggi ancora di più, ma per quanto tempo ancora? Il 90' è finito da parecchio, i minuti di recupero pure, ma i supplementari si stanno ancora giocando e forse si giocheranno ancora. Da una fantastica panchina le riserve sostituiscono da quarant'anni i titolari: esce Boninsegna ed entra Totti; Gigi Riva ha i crampi ma Paolo Rossi si sta già scaldando; il sudato Tardelli ha problemi alle corde vocali per quanto ha urlato e Gattuso gli va incontro per farlo riposare. Chissà quando lo sentiremo davvero il triplice fischio finale! E' un match che è diventato ormai una leggenda, una sfida interminabile fra la scuola dei panzer tedeschi, tutta muscoli, perfezione e geometria e quella italiana, tuttta estro, contropiede e genialità. Quando quel rettangolo verde si riempie di 22 puntini bianchi e azzurri una polverina magica scende sul capo di quegli uomini che per sortilegio, anche se sfiniti, ritrovano nuove forze, nuovi stimoli, corrono come pazzi alla ricerca del gol della vita. 

C'è da dire che in queste epiche battaglie i tedeschi hanno sempre incassato cocenti sconfitte sulle quali, però, non hanno mai potuto recriminare nulla o accampare scuse. E questo li ha fatti inviperire ancor di più, perché sono state sconfitte sempre limpide, pulite e meritate e che hanno fatto sempre male al loro stomaco e al loro orgoglio nazionale. Ma più perdono e più ritornano ad essere i soliti crucchi, fino ai miserabili articoli della loro stampa o alle puntuali e puerili minacce di boicattaggio delle pizzerie italiane in Germania. Non mangiano più la nostra pizza? E cchisenefrega!! Chiedete al pizzaiolo coi baffi neri di Berlino se sono meglio duemila Margherite invendute o due gol a nostro favore! Forse non vi può rispondere perché è ancora ubriaco di birra ed euforia. Però… sotto sotto, anche se dicono che siamo cafoni, furbetti e disonesti, alla fine ci ammirano e ci invidiano e - a modo loro - ci rispettano. Perché per loro noi siamo, da sempre, IL NEMICO. 

Italia-Germania a questo punto è anche un simbolo, una metafora per significare che in ogni occasione della vita tutto è il contrario di tutto, che puoi scendere dalle stelle alle stalle in un minuto, che mentre stai a difendere la tua area di rigore piena di problemi ti ritrovi - per spontanea reazione - proiettato ad attaccare l'altra area di rigore; che niente in ogni nostra Italia-Germania è predisposto, preparato, dettato e organizzato ma, illogicamente, in quella confusione di ormoni impazziti tutto va al suo posto come se ogni lancio o rimessa laterale fosse già stata scritta su un libro. Italia-Germania significa che può succedere qualsiasi cosa, avere la licenza di essere te stesso, vuole dire dimenticarsi subito degli schemi imposti dall'allenatore, entrare in campo e perdersi… perdersi fra quelle immense praterie di prato verde che si spalancano davanti perché la tattica non esiste più, le marcature nemmeno (figuriamoci la zona) e i capovolgimenti di fronte fanno diventare il campo di calcio come un flipper col Tilt acceso. 

Ognuno va per conto suo, e si ritrova da solo con la sua sorte in quel suo piccolo fazzoletto verde personale, smarrito, come su un campo di battaglia della Grande Guerra in attesa che il nemico si affacci da dietro la nebbia. Fra l'odore di erba fresca appena tagliata, il boato del pubblico ormai non lo sente nemmeno più, non vede più neanche gli spalti, ma soltanto il verde e quella nebbia surreale. Attorno a lui soltanto un fatato silenzio. Ogni tanto avverte ai suoi lati soltanto una locomotiva che passa, bianca o azzurra non importa, è un compagno di squadra o un avversario che in preda ai cinque minuti di straordinaria follia che gli ha assegnato il fato corre in cerca di una gloria che vede davvero, di un gol che percepisce in anticipo, di appiccicosi e fraterni abbracci che già avverte sulle spalle, di una prima pagina di giornale che sta già leggendo mentre corre un dannato, con 120 minuti nelle gambe, alla ricerca di quelle tanto ambite linee bianche: i pali e la traversa. In quei suoi cinque minuti il pallone che ha davanti ai piedi è pazzo, ha voglia di infilarsi in quella rete come uno spermatozoo che tenta di entrare nell'utero di una donna. E non importa se per strada ha perso i parastinchi e gli sgambetti gli fanno tanto male, lui deve macinare a tutti i costi quei trenta metri che lo separano dal sogno.

Non c'è niente di patriottico in quel che fanno quando questi uomini s'incontrano, lo fanno perché accade qualcosa di strano, quasi miracoloso. Non lo sanno nemmeno loro perché accade.

Questa è divenuta Italia-Germania. Come ci ricorda una famosa foto di Tardelli, è una folle e infinta corsa segnata dal destino, un urlo lungo centodieci metri di prato colorato di bianco e azzurro.

M.R.

 

5.8.2017 ITALIA ARMENIA 9-1 -

La formazione armena scesa in campo ieri sera:

Airapetyan, Hambartsumyan, Haroyan, Calisir, Ishkhanyan, Hovhannisyan, Babayan, Grigoryan, Edigaryan, Barseghyan,

Karapetian.

A disposizione:

Beglaryan, Voskanyan, Manucharyan, Daniielian, Hovhannisyan, Vardanyan, Harutyunyan

Allenatore: Khashmanyan

Vi risparmio il cognome del massaggiatore.

Quello che mi colpisce è il calciatore Calisir, che rispetto alla monotonia che sarebbe uscita dalla bocca dell'arbitro durante le presentazioni dei suoi compagni negli spogliatoi, ha un cognome per niente euro-asiatico e che sa tanto di allegria sudamericana.

Non sono andato a vedere dove è nato, ma io l'ho immaginato come un ballerino di samba che una ventina di anni fa, durante una improbabile tournée all'Est, si innamorò di una bella montagnola del Caucaso e che restò in Armenia per sempre.

Si stabilirono a Vanadzor, dove nacque Joao Pedro Calisir, detto Calinho per sue qualità pallonare. Purtroppo il ragazzo non riuscì ad avere successo ed oggi fa il meccanico di auto sconquassate degli anni Cinquanta nella sua città. Però un giorno è riuscito a coronare il sogno della sua vita: giocare contro la Nazionale italiana. Ha incassato 9 gol, essendo difensore ma, felice, ha riaperto la saracinesca della sua officina il martedì mattina, pieno di gloria.

La fantasia galoppa. Oltre al risultato, il tabellino di questa partita meriterebbe un romanzo, una canzone, una storia.

 

 

IL MIO CONCETTO DI "PELOTA"

Volevo ancora credere che il calcio fosse sempre quello, quella benedetta palla bianconera che rotola ogni domenica sull'erbetta e che smettiamo di seguirla con gli occhi solo alla sigla di chiusura della Domenica sportiva. Volevo crederci ancora che era ancora quello. Mi ero illuso.

Purtroppo è successa una cosa infame, che ormai conosce il mondo intero e che ci etichetterà come una delle tifoserie più violente, come una città troppo agitata. Non lo dicono o non lo vogliono dire nascondendosi sotto frasi come "poteva succedere dovunque". Ma lo pensano, eccome. E noi catanesi lo sappiamo, eccome.

Il calcio a Catania non era questo. E quanti ricordi di bambino in uno stadio pulito! Negli anni '60 mio padre fece fare a mia madre un maglione di lana a strisce rossazzurre. Ogni tanto mi chiedevo per chi fosse quel maglione e alla fine capii a chi era destinato: era la mia divisa da piccolo tifoso. Così ogni domenica allo stadio, ad ogni goal del Catania, mio padre mi prendeva in braccio e mi sollevava come una bandiera sballottandomi fra tante braccia festanti! Primitivo  tentativo di mentalità ultras!

Mi portava allo stadio fin dai tempi in cui il Catania era considerato l’ammazza-scudetti delle Grandi. Uno lo rovinò alla Juve e l’altro all’Inter di Herrera dopo che questi, dopo il 5-0 di San Siro nel girone di andata, considerò il Catania una squadra di post-telegrafonici che giocavano in un campionato aziendale. Poi al Cibali la pagò cara.

Ma il mio ricordo più bello è legato a qualche anno più tardi, alla partita Catania-Inter del 28.3.1971. Tipico dei ragazzini, la notte prima non riuscii nemmeno a dormire pensando di veder giocare la squadra del mio cuore: l’Inter! Era l’Inter zeppa di vice Campioni del mondo ai Mondiali di Messico ‘70: Mazzola, Facchetti, Burgnich, Bertini, Boninsegna.

 Io ero seduto nella tribuna laterale con un mio amichetto, ma quando vidi quei colori nero-azzurri sbucare fuori dagli spogliatoi, cominciò a battermi il cuore. Non potevo rimanere là, dovevo vederli da vicino!

Col mio amico scendemmo sotto e andammo in curva, proprio vicino alla bandierina del calcio d'angolo per vedere meglio le azioni. Quel giorno pioveva, il cibali era un pantano, ma c’era abbastanza verde da far spiccare quei colori indossati dalla pantera Jair, da Mariolino Corso e da Bonimba. Vedere le mie figurine Panini lì davanti, in carne ed ossa, mi faceva venire i brividi. Quando smise di piovere, seppur inzuppato dalla testa ai piedi, ero ancora lì e al settimo cielo. L’erba bagnata emanava un fresco odore e potevo sentire Bordon mentre incitava Bellugi a lanciare il pallone verso l’ennesima cavalcata di Facchetti. Mi sembrava di stare in mezzo ai miei campioni. Non al Cibali, ma a San Siro. Cosa potevo desiderare di più a 13 anni? Oggi tutto questo sarebbe stato normale, ma negli anni Settanta no. Clamoroso al Cibali! In quel pomeriggio si realizzò un sogno!

Negli anni Settanta giocavo in una squadra chiamata Pollo d'Oro. Senza nulla togliere ad altre gloriose società catanesi come Massiminiana, Katane, Interclub, Palestro, Mongibello e Trinità, per blasone è una delle più famose e ricordate a Catania. Oggi questa squadra non esiste più perchè il suo creatore, Angelo Barbagallo, un presidente vecchio stampo alla Massimino, alla Rozzi, si è portato con lui tutto quel po' di gialloverde che era rimasto nel calcio etneo.

 Allora, per noi ragazzi delle Giovanili, l'allenatore (il mister) era come un padre. C'era un profondo rispetto per quella persona, sapevamo abbassare la testa se sbagliavamo, in casi estremi sapevamo anche porgere la guancia se sbagliavamo ancora di più, con rassegnazione sapevamo posare le nostre chiappe sulla panchina se per una partita non si giocava. Sempre con educazione, anche con i calciatori della prima squadra che vedevamo come persone anziane, come zii. Oggi chissà che fanno, ma allora i signori Sanfilippo, Cuntrò, Di Francesco (u cavaleri), Lumia, Consoli, Morgia, Barbagallo (schigghia), Belviso, Scirè, Tropea (topolino)  e Verderame erano abbastanza conosciuti e per me, giovane juniores, giocare il giovedì sera contro questa sorta di miti del pallone, "allenarli", spedirli incazzati anzitempo sotto la doccia perchè non riuscivano a far gol al mio portiere soprannominato "Pruvulazzu", era già una gran soddisfazione. Tempo fa, dopo tanti anni, incontrai uno di loro e mi disse che nel 1973 aveva soltanto 24 anni. Com'è possibile? Io lo vedevo come uno di quaranta, tanto era il rispetto che c'era nei confronti delle persone più anziane!

Figuriamoci cos'era per noi Presidente, l'autorità che a settembre inviava le convocazioni per la preparazione pre-campionato. Vedere nella buca delle lettere la busta intestata della Società era meglio della lettera di Babbo Natale. All'inizio del torneo tutti in sede a prendere in consegna la borsa (gialloverde, che anche a quei tempi non doveva essere tanto chic), la tuta d'allenamento, gli accessori e le scarpine, che erano i parametri della tua bravura. Si cominciava dalle Tepa Sport, ma se stregavi il Presidente potevi arrivare alle Atala (allora molto in voga) o addirittura arrivare al non plus ultra: la Pantofola d'Oro, la mitica scarpa di calcio costruita ad Ascoli Piceno e che era l'oggetto dei desideri di noi giovani calciatori. Se poi si otteneva la Super Pantofola, voleva dire che il Presidente era riuscito ad inserirti nella selezione provinciale, in mostra prima dell'estate, per gli osservatori delle grandi squadre del Nord.

Altri tempi. Solo recentemente, ho appreso che tempo fa l'allenatore della squadra allievi del Catania è stato massacrato di botte perchè non aveva fatto giocare un ragazzo di 13 anni!

Tutto diverso da quelle sensazioni. I ginocchi sbucciati sui campi di terra battuta come il Turati o il Duca d'Aosta, l'odore della crema Sifcamina sui muscoli e quello dell'alcool canforato sui polpacci, l'ormai familiare fetore dei paludosi spogliatoi, l'ansia o il piacere di rompere il fiato dopo il calcio d'inizio, l'emozione della "federalità" delll'incontro nel vedere la giacchetta nera dell'arbitro, l'incoraggiamento ai compagni prima di entrare in campo, i battiti del cuore nel vederti nella lista dei titolari al sabato sera, nella sede sociale. E poi quella rete, quella rete di plastica che dava tanta gioia quando la vedevi felicemente gonfiarsi.

E come scordarsi delle voci di Enrico Ameri e di Sandro Ciotti nelle autoradio delle nostre Cinquecento? Solo loro potevano farti immaginare di essere lì, sugli spalti di Vicenza o al Comunale di Torino.

 Ecco, questo per me era il calcio. Ma forse è ormai troppo tardi per cambiarlo, perchè gli interessi economici e televisivi hanno il sopravvento anche su eventi tragici come quello del 2 febbraio. Ma quanta nostalgia di quel calcio genuino che ricordo io!

Quelli, per me, erano i campioni. I calciatori che vedevi soltanto sull'album Panini oppure seduti la domenica sera da Alfredo Pigna con le loro enormi basette che giganteggiavano su enormi nodi alla cravatta. Che non sapevano nemmeno parlare, che si vergognavano davanti alle telecamere, che nemmeno si sarebbero sognati di dire "life is now" o di fare i commentatori. Stadi quasi in religiosi silenzi interrotti soltanto dai boati degli autentici sportivi, gente composta che però sapeva stare al suo posto. Le marcature ad uomo, il terzino sull'ala sinistra, lo stopper incollato sul centravanti, lanci lunghi  senza fretta, col tempo di ragionare o di avere un'ampia visione di gioco. Oggi non lo potrebbe fare perchè si beccherebbe settanta calcioni in novanta minuti e con la palla al piede non gli lascerebbero nemmeno il tempo di capire con chi sta giocando, ma quando Rivera (qui riportato solo in maglia azzurra, non potevo tradire la mia Inter fino a questo punto!) riceveva il pallone dai "portatori d'acqua" o da mediani leggendari come Benetti, Furino, Bertini, Lodetti, Bedin, Agroppi, aveva davanti a sè delle praterie immense per mettere in moto il suo genio e lanciare la punta: Chiarugi, Pierino Parti o, in Nazionale, Gigi Riva. Ed era puro spettacolo!

Già, Riva. Secondo me il miglior attaccante della storia del calcio italiano. Quando era in attività anche lui era un semidio come i campioni di oggi, chi lo guardava arrivare da dietro la porta avversaria poteva avvertire il rumore dei suoi passi potenti mentre scattava per farsi trovare pronto all'appuntamento con l'oggetto del suo desiderio: una sfera di cuoio da scaraventare in porta con una potenza inaudita. Proprio per questo lo chiamavano Rombo di tuono, come il nomignolo di un Dio greco.

A Catania, durante un Palermo-Cagliari di serie A in campo neutro (è proprio una maledizione, siamo stati sempre monelli!) una volta lo vidi scagliare uno di quei suoi palloni.

11 febbraio 1973. Ero dietro la porta del portiere palermitano Girardi, e lo vidi avvicinarsi all'area avversaria. Da lontano lo vedevo piccolo piccolo, minuscolo, bianco nella sua divisa di gioco sarda. Man mano che si avvicinava il tamburino diventava sempre più grande, sempre più grande.. e dal rumore della sua galoppata verso di me, capii perchè lo chiamavano "Rombo di tuono". Dicevano che i suoi passi erano così rumorosi da paragonarli al "sinistro" presagio di un fulmine che sta per abbattersi in una trequarti di campo qualsiasi, da vicentina a meneghina, da foggiana ad antonelliana, tutti potevano godere di quello splendido temporale. Insomma, vederlo arrivare faceva davvero paura a tutti.

Arrivato in area palermitana al fantastico appuntamento con il suo grande amore di forma sferica, come il guerriero Achille agganciò al volo il solito spiovente offerto su un piatto d'argento da Sergio Gori, si sollevò da terra in una armoniosa festa di nervi e tendini, si girò in plastici movimenti degni dei disegni di Leonardo che a rifarli oggi devi andare a correre da un fisiatra e infine tese la sua coscia sinistra gonfia di muscoli (e non di strane sostanze) pronta a scagliare il suo castigo di Dio.

Lo straordinario balletto si concluse con un fragore che rimbombò fin nei quartieri adiacenti e circostanti lo stadio e l'impossibilità, da parte del sottoscritto, di vedere quel pallone viaggiare tanto andava veloce. Commovente!

Adesso fa il dirigente della FGCI. Già, soltanto un Sig. Riva Luigi da Legnago, che oggi accompagna giovanotti in  azzurro, ignari di chi fosse stato veramente quell'uomo in giacca e cravatta. Ma forse è meglio così, l'anima di Gigi Riva non è a Coverciano ma all'Olimpo del calcio.

Solo lui, assieme a pochi altri, mi hanno fatto divertire. L'ultimo è stato Roberto Baggio. Era bello vederlo "sciare" con la palla ai piedi lasciando a terra tre, quattro, cinque avversari. Ricorderò sempre quel codino che svolazzava una volta a destra e una volta a sinistra, come il timone che governa le ali dell'aquila in picchiata….codino a destra: schh-tam-gol, codino a sinistra: schh-tam-gol.….un fruscìo di capelli, il rumore di tacchetti che accarezzavano il Dio Palla completamente ai suoi piedi, mentre gli implorava "fai di me quel che vuoi, che mi sto divertendo tanto".

Ecco, il calcio è soprattutto divertimento. Diversamente da quello che oggi è diventato. Al contrario di altri sport, dove i movimenti rasentano la monotonia, dal calcio ti puoi aspettare di tutto, sempre qualcosa di diverso, di geniale. Una partita al pallone non sarà mai uguale a quella precedente o a quella successiva. Ecco perchè sono ancora legato soprattutto a quello di trent'anni fa. So pure che dovrò aspettare anni per rivedere quelle discese, quelle acrobazie, forse non le vedrò mai perché il calcio di oggi non è fatto per i giocolieri ma per i gladiatori. Mi accontenterò di rivederli in "Sfide".

E poi c'è da dire che allora i calciatori avevano attaccamento alla maglia, alcuni erano delle bandiere dei loro clubs. Oggi hanno smesso, ma le loro non saranno mai delle semplici scarpette attaccate al chiodo, di quelle che puzzano e che magari ammuffiscono nell'oblio. Non emaneranno cattivi odori perché sono state usate da chi ha fatto della sua passione un esempio per i giovani, un modello di come deve essere davvero lo sport. Sanno di pulito.

Sono le scarpette prima di tutto di veri uomini, e poi di campioni.

 M.R.

 

 

CRISTO SI E' FERMATO A CIBALI

Quella sera c'ero anch'io al Cibali, proprio in curva Nord, quella incriminata.
Quest'anno ho fatto l'abbonamento con alcuni amici in quel settore, ma lontani dalla "zona agitata". L'abbiamo fatto soprattutto per sentire il vero respiro della curva. C'è chi lo fa apposta, come se andasse ad ascoltare le voci della pescheria o del mercato. Catturare la vera essenza del popolo, godere delle sue geniali trovate.
Me ne sono pentito amaramente. Dall'inizio del campionato non si capisce più niente: allo stadio entra gente senza biglietto che l'amico fa entrare con un cenno, alla faccia dei tornelli che qui a Catania non hanno mai funzionato (il controllore chiede, a chi entra, di far vedere la tessera."Ciao Ciccio!" e si entra) e quindi stiamo stretti come sardine, sopportiamo portoghesi di 12-13 anni disinteressati alla partita e che sono lì solo per il gusto di provocare, insultare, gettare pallottole di carta sugli spettatori dell'anello sottostante, appropriarsi con prepotenza del posto riservato all'abbonato, distruggere i chioschetti del ristoro, progettare le strategie per il nuovo nemico di quest'anno. Che non è il Palermo o la Sampdoria, ma il poliziotto. Infatti uno dei cori ricorrenti è "Poliziotto primo nemico".
Era già successo col Messina: hanno attirato un poliziotto dentro la curva con la scusa di un'emergenza e lo hanno pestato a sangue. Per questo motivo abbiamo giocato due turni in campo neutro, e a porte chiuse. A pagare le loro pazzie sono stati, però, i veri sportivi. Ma a loro non è bastato.
Come mai la Società ha permesso tutto questo? Come ha fatto scoppiare all'inverosimile la capienza di questo stadio, senza tra l'altro ricavarne nulla, visto che entrano quasi tutti gratis? Infine, con questo andazzo chi sarà quel fesso (se ancora esisterà il calcio a Catania) che l'anno prossimo rinnoverà l'abbonamento?
Quella sera stava andando tutto bene: grandi coreografie, controlli agli ingressi, partita iniziata regolarmente, anche una luna gigantesca più luminosa dei riflettori che si stava godendo l'incontro. E poi fuochi d'artificio spettacolari che nessun altro giocatore al mondo si sognerebbe, nella sua carriera, di vedere all'ingresso in campo.

Una cornice spettacolare e un'occasione unica: proprio nei giorni di festeggiamenti della Patrona di Catania, in uno stadio siciliano c'erano due squadre siciliane in serie A, che con sponsor siciliani stampati su maglie dai colori sociali siciliani lottavano per il terzo e quarto posto, per giocare la Coppa dei Campioni, su 110 metri x 65 di erbetta siciliana; sugli spalti solo tifosi siciliani, in tribuna un presidente siciliano, in panchina un allenatore siciliano, in campo due centravanti siciliani. Quando mai avremmo avuto un giorno cosi? Una vita che aspettavamo la madre di tutte le partite! C'era da essere orgogliosi di questo scenario che andava in mondovisione, era un sogno che non si sarebbe avverato mai più! Era tutta la Sicilia in festa, un evento che stava proiettando l'immagine dell'Isola in tutto il mondo. Significava dire ai nipotini "quel giorno c'ero anch'io!"

Ma qualcuno aveva già deciso di rovinarlo, quel giorno. Dalla curva Nord aspettavano con ansia gli ospiti palermitani, gli odiati cugini che non arrivavano, gridando "dove sono gli ultras?" , cioè il nemico. Sfogare, su chiunque esso sia, tutte le angosce accumulate nella settimana da disadattato.
Nel secondo tempo, da dietro la curva Nord, arrivano i palermitani ed entrano nell'adiacente settore degli ospiti. Su di loro volano insulti, mortaretti, fumogeni, sfottò, slogan. Regolarmente rimandati ai mittenti. Ma era una cosa prevedibile, messa nel preventivo di un derby qual è Catania Palermo. Penso ai derby Roma-Lazio o Lucchese-Pisa. Scapagnini aveva anche avuto rassicurazioni dai Capi Ultras, che gli avevavo garantito la massima tranquillità anche per rispetto a Sant'Agata, la cui festa si celebra in questi giorni.
Vigliacchi! La notte prima sono invece entrati al Cibali, avevano oscurato le telecamere interne con nastro adesivo per non fornire le prove dei misfatti all'indomani, avevano parzialmente divelto i sanitari dei bagni in modo da essere utilizzati al momento, fuori dallo stadio avevano distrutto un vecchio muro per ricavarne pietre da lanciare, pronte all'uso all'uscita dallo stadio. Tutto progettato, tutto premeditato. Non ci sono scuse dovute alla follia del momento. Tutto vigliacco, tutto vile, tutto carogna!
 L'arbitro ha sospeso la partita due volte per via dei lacrimogeni che arrivavano dentro lo stadio. Fra svenimenti, gente che si sentiva male, donne e bambini terrorizzati, tutti ci chiedevamo come mai la Polizia stava compromettendo il campionato appestando 30.000 persone senza motivo? Perchè fare questo se in quel momento c'era calma piatta, non si stava insultando nessuno e non c'era nessun fumogeno?
Noi non sapevamo, eravamo ignari di tutto. Fuori dallo stadio le forze dell'ordine, per proteggere il settore dei palermitani, stavano fronteggiando centinaia di ultras catanesi che avevano abbandonato gli spalti per raggiungere gli odiati ospiti. Quindi gente che non aveva alcun intenzione di seguire l'evento sportivo, ma che era lì sotto solo per il gusto di menare e di farla pagare all'odiato nemico. Con l'aggravante che un altro nuovo "nemico", peraltro casalingo, stava proteggendo lo storico nemico.
Quando sono uscito alla fine della partita c'era un'insolita ressa ai cancelli, piccoli mascalzoni spingevano e avevano fretta di uscire, sembrava avessero un'appuntamento e un ordine preciso: giocare alla guerra con la Polizia e i Carabinieri.
Quando sono uscito in Piazza Spedini mi sembrava di essere a Bagdad o a Beirut, mi sono ritrovato in piena guerriglia urbana. Donne, bambini e famiglie intere che piangevano disperati alla ricerca dei congiunti, i vigili del fuoco che cercavano di proteggere un disabile in carrozzella dai poliziotti che in quel momento non esoneravano nessuno dai loro manganelli. Un inferno! Inutile descrivere immagini che ormai conoscono anche in Cina.
 Lo stadio di Catania è situato nel quartiere Cibali. Attorno ci sono viuzze anguste, pochissimi parcheggi, le zone di fuga sono inesistenti e i suoi poveri abitanti sono costretti, ogni quindici giorni, a vivere una domenica blindata. Questo non è giusto. Quando si esce tutti i tifosi, di qualsiasi settore (gente per bene, gente per male, vip e non vip), si ritrovano tutti assieme in Piazza Spedini. Quindi, (vedasi le immagini in tv) lì in mezzo c'era anche gente che va allo stadio solo per vedere la partita e che si è ritrovata in mezzo ai teppisti in un inferno inatteso, ma studiato al tavolino.
Ho attraversato la piazza fra i mezzi blindati che giravano all'impazzata, ho gettato il cappellino e la sciarpa rossazzurra e con attenzione mi sono incamminato (purtroppo insieme a questi pazzi) lungo la strada che mi avrebbe portato all'auto. Durante il percorso ho incrociato una trentina di carabinieri in assetto di guerra che correvano verso di me, verso di noi, verso quelli che non c'entravano niente. Ed erano molto nervosi. Ho pensato "tanto non mi crederete mai, non posso spiegarvi in quattro secondi che non sono un ultras, mi arrendo, ricopritemi pure delle vostre manganellate". Per fortuna i loro obiettivi erano altri. Mentre auto e cassonetti bruciavano, le pietre e i cessi dei bagni del Cibali volavano, mi sono riparato assieme ad altra gente dentro un cortile privato, fino a quando con cautela mi sono potuto avvicinare al parcheggio. Ero anche senza cellulare, tornando a casa (naturalmente tutti preoccupati per le immagini televisive e per il mio ritardo) ho appreso della morte dell'Ispettore Raciti.
Devo però spezzare una lancia a favore dei veri catanesi. Noi non siamo questi esagitati, non si possono associare i Catanesi a questo migliaio di teppisti. Noi siamo fieri di questa splendida città che in questo momento è sulla bocca di tutti, noi non siamo gli abitanti di una città che in questo momento è dipinta peggio del Bronx.
La vera Catania non è questa. I Catanesi che sono costretti a viverci lontano se la sognano anche di notte. La Catania per bene, onesta, educata, i figli di Bellini, Verga, Brancati, Capuana, Majorana e Musco sono mortificati, sdegnati, vergognati. Non si può fare di tutta l'erba un fascio, non si può all'improvviso etichettare come delinquenti tutta una popolazione che finora è sempre stata elogiata per la sua storia e la sua cultura; famosa soprattutto per la sua intelligenza e genialità, decantata per la sua calorosità, passionalità. Noi non ci riconosciamo in quel migliaio di giovani parassiti che per una settimana non fanno altro che parlare su come menare gli ospiti. Questi, nei loro bar dello sport, non parlano del rigore negato o del gol in fuorigioco, ma che tipo di mortaretto nascondere dentro lo stadio per fare più male.
Tutti noi catanesi sappiamo bene da quali quartieri proviene questa gente. Zone che tutti considerano terra di nessuno, zone dove nessuno osa avvicinarsi, dove le volanti della Polizia se la fanno alla larga perchè verrebbero aggredite dai familiari del ricercato, dove l'Enel non si rischia di contestare le bollette non pagate, dove le scuole sono carenti di docenti perchè nessuno ci vuole andare, dove ogni abitante ha già due o tre figli a 20 anni e a 30 è già nonno; gente  che vive di furti, estorsioni, sussidi, assegni familiari. Non voglio fare quello che dai quartieri alti discrimina gli altri con la puzza al naso, ci mancherebbe. Odio le discriminazioni territoriali, figuriamoci quelle con i miei concittadini. Sono catanesi anche loro e ce ne accorgiamo soprattutto il sabato pomeriggio quando si riappropriano della loro città invadendo via Etnea di gioventù balorda. Ma non si può far niente, non si possono mica mettere le barriere a sud della città. E poi loro non vorrebbero viverci in città, sono ben felici di vivere laggiù.
Una volta, alla vista delle volanti, impauriti gridavano "a custura, c'è a' custura! e scappavano come lepri. Oggi no. Le affrontano a testa alta, le sfidano, senza pietà colpiscono con spranghe di ferro padri di famiglia che lavorano e che per 20 euro di straordinario rischiano di farsi ammazzare da un bambino.
Ecco, quello che mi sconvolge è questo. In loro non albergano sentimenti come la pietà o la compassione. Hanno stili di vita simili a quelli dei ragazzi delle favelas di Rio. Per loro, organizzare la curva per la domenica o la trasferta è un modo di sfogarsi per tutte le condizioni di vita che accumulano in una settimana. A loro importa soltanto che arrivi presto la domenica per caricarsi di cocaina in curva e andare meglio in battaglia.
Ma sapete perchè? Perchè ormai non hanno più niente da perdere! Non ci credono più. Non credono più a niente. Si sentono cittadini di una società che li ha fatti diventare spietati, cinici, che ha fatto perdere in loro tutti i valori, compreso quello della vita umana. Non hanno nessun rispetto per le istituzioni, per la gente più adulta, non hanno più paura davanti a una divisa. Per loro è un onore entrare nei corridoi di Piazza Lanza ed essere salutati dai detenuti veterani.
Non gliene frega più niente di niente, non vogliono lavorare perchè sanno in che modo guadagnare in due ore il corrispondente di un mese. Hanno rinunciato a tutto ciò che significa civiltà, non riconoscono e non vogliono riconoscere i sentimenti più nobili appartenenti ad un essere umano, non sanno e non vogliono sapere cos'è la cultura, l'educazione, il rispetto, l'onestà, la giustizia. I loro miti sono gli abitanti della Casa del Grande Fratello, le canzoni napoletane, gli status symbol che possono acquisire facilmente e, soprattutto, tutto ciò che di violento può arrivare dal cinema, dalla tv, dalla stampa. Ormai sono incontrollabili, sono diventati ancora più sprezzanti, strafottenti, insolenti.
 Non posso negare che l'Amministrazione comunale di Catania, sia quella attuale sia quella passata, sia di destra che di sinistra, ha avuto sempre a cuore la rivalutazione di questi quartieri, cercando di urbanizzarne le strade, prestando attenzione ad alcuni importanti problemi quali la mancanza dei servizi pubblici e sociali, l'edilizia popolare, aiutando in tutti i modi questa gente. Nessuno si è mai tirato indietro per dare loro una mano. Penso ai parroci in prima linea, che con grandi sacrifici cercano di tenere in piedi ciò che di buono aveva fatto la Chiesa per i giovani: l'azione cattolica, gli scout, l'oratorio dove sfogarsi tirando calci al pallone sui muri parrocchiali, quindi tirandoli fuori dalla "strada". Ma è una questione di mentalità, oggi non ci riescono nemmeno questi giovani e coraggiosi sacerdoti.
Il problema si allarga a macchia d'olio anche ai giovani appartenenti alla borghesia. Il discorso è lo stesso, non si salvano nemmeno loro...anzi, si sono alleati. Così diversi, così uguali. Se quelli di Monte Po soffrono e si comportano di conseguenza perchè non hanno niente, quelli di Via Monfalcone fanno altrettanto perchè hanno tanto, tutto, subito e non hanno ancora capito cosa significhi desiderare qualcosa. Il disagio sociale fra le due categorie è uguale, anche se i loro giubbini sono uno di marca e l'altro griffato. Anni addietro i fighetti catanesi assaltarono in Corso Italia un reparto di vigili urbani soltanto perchè sequestrarono alcune moto per mancanza di casco.
E' un fenomeno generazionale davvero preoccupante. E se si ascoltano le parole che pronunciano quelle che stanno per salire a galla, a cominciare dalle elementari, c'è da preoccuparsi ancora di più. Generazioni ancora più diaboliche, ciniche, praticamente di plastica.
Oggi si parla di misure drastiche per far ripartire il calcio. Dicono che così non si può più andare avanti. Ma quali sono i rimedi? E' una cosa difficile. La verità è che il problema non riguarda il calcio, ha radici molto più profonde, il cancro da estirpare bisogna cercarlo a monte. Il calcio è solo una stazione di questo disagio sociale. Bisognerebbe infondere, non agli ultras ma alle nuove generazioni (perchè non lo sanno, non l'hanno mai provata) la sensazione di farsela addosso quando vedono i Carabinieri, come nella favola di Pinocchio. Ma forse è troppo tardi.
Sono d'accordo con chi dice che i primi ad essere rieducati debbano essere i genitori che accompagnano i bambini alle Scuole Calcio. Occorre far loro comprendere che non è affatto educativo insultare l'arbiro all'incontro dei pulcini soltanto perchè ha negato il rigore al figlioletto di appena 8 anni! Quando ne avrà 18 quell'arbitro se lo divorerà! Ecco, far capire che l'arbitro è una figura da rispettare sarebbe il primo passo per far capire al bambino che l'autorità è sacrosanta, e non si tocca!

Quando un popolo, divorato dalla sete di liberta', si trova ad avere il capo dei coppieri che gliene versa quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei suoi piu' esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni.
Ed avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, un servo; che il padre impaurito finisce col trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; che i giovani pretendono gli stessi diritti, la stessa considerazione dei vecchi e questi, per non parere troppo severi danno ragione ai giovani.
In questo clima di liberta', nel nome della medesima, non vi è piu' riguardo, nè rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una sola pianta: la tirannia.

Un problema che aveva già perpecito Platone nella sua Repubblica, migliaia di anni fa!
Ma quali sarebbero i rimedi se vogliamo salvare il calcio? Non è un problema sportivo ma sociale e politico. E non servono gli Osservatori previsti dal Ministro Melandri. E poi le misure prese ieri dal Governo decreteranno soltanto la fine del calcio. Perchè? Perchè vorrebbero addossare tutte le responsabilità alle Società calcistiche, come se gli stadi fossero di loro proprietà.

Se nell'appartamento l'impianto idrico ha una perdita e fa danni al piano sottostante, chi paga l'inquilino o il proprietario? Gli organi di Governo sono stati chiari: negli stadi non in regola si giocheranno incontri a porte chiuse.

E succederà questo: 1) Gli enti locali continueranno a disattendere i vincoli imposti dal CONI lasciando gli stadi così come sono (Catania è un autentico esempio, non hanno rifatto nemmeno il terreno di gioco, le cui condizioni hanno costretto l'arbitro a sospendere la partita con l'Empoli per poche gocce di acqua!); 2) secondo le nuove norme e la perdurante indampienza dei Comuni, le partite si continueranno a giocare a porte chiuse; 3) Le Società, impotenti, chiuderanno bottega; 4) nessuno sarà così pazzo da prendere in consegna una squadra a queste condizioni; 5) Game over!

Gli enti locali devono uscire fuori dal mondo del calcio, con una legge speciale il Governo dovrebbe dare loro una scadenza per mettere a posto lo stadio. Scaduto il termine, con decreto d'esproprio il Governo nomina proprietario di tutti gli impianti il CONI che ne affida la gestione alla Società con tutte le conseguenti responsabilità. E solo a quel punto!
Il vero colpevole dovuto allo schifo di questi impianti se n'è stato in silenzio, il proprietario di queste strutture sono le Amministrazioni comunali. Le Società calcistiche sono proprietarie dello stadio dalle 11 alle 20 di ogni domenica, dopo riconsegnano le chiavi ai Comuni che invece, con tanta negligenza, si fanno beffe dei vincoli imposti dagli Organi superiori e nei mesi di sosta estivi non fanno nulla per adeguare gli impianti alle norme di sicurezza. Pulvirenti aveva anche proposto di costruire a sue spese uno stadio nuovo se il Comune gli avesse concesso un terreno in periferia. Gli è stato ris