Vi capita mai di possedere un posto come il solaio, dove mettere alla rinfusa tutte le cose che trovate nel vostro percorso e che conservate in un disordinato ordine con nuove cose da aggiungere in mezzo a vecchi e disordinati ricordi? Ecco, questa pagina l'ho chiamata così. Quando scrivo qualcosa, poi la conservo qui. E' un po' il mio libro, anche se mancano tante altre cose. Ci sono dentro molti miei post di Facebook; cose nuove, vecchie, ritrovate e scarabocchi di un piccolo pensatore. Tutte in ordine sparso, proprio come devono stare in una soffitta o in un solaio.

 

 

 

OSSERVANDO I MIEI CONCITTADINI

 

 

CHIAMASI ATMOS... FERA!
E' il secondo mercato storico di Catania, dopo la Pescheria.

Quando Catania era Capitale di Sicilia sotto il trono dell’aragonese Federico III, il mercato nacque di fronte all’ex Regia Cappella (adesso basilica Collegiata) e poi spostato in piazza Università dopo il terremoto del 1693. Nel 1832 trovò la sua definitiva collocazione nell’attuale Piazza Carlo Alberto.

Innumerevoli sono le versioni sul nome e il significato. Ovviamente, quella più facile è riferita al giorno della settimana, appunto il lunedì. Secondo altre ipotesi, il nome deriverebbe dal dio assiro-babilonese Luni o dalla dea Luna. La zona Luno era una delle quattro parti dell’antica Catania, assieme ad Aetnopoli (Leucatia),  Demetria (Cibali) e Littoranea (Ognina) e comprendeva la zona esterna alla Porta di Aci, cioè l’attuale ubicazione del mercato perchè nel luogo vi era un tempio dedicato al suddetto dio Luno, posto in cima ad una collinetta dove oggi sorge il Santuario dedicato alla Madonna del Carmine.

Un’altra ipotesi del nome è quella che vede in ogni lunedì l'arrivo dei familiari dei soldati borbonici in servizio nella caserma prospiciente la piazza, per fornire quei  militi di ogni mercanzia o biancheria da consumare in tutta la settimana. Non so se questo sia rispondente al vero.

Oggi il mercato non si svolge soltanto al lunedì ma, tranne la domenica, ormai in ogni giorno della settimana. Nella zona cosiddetta Pracchio, gli fa compagnia la chiesa di S. Gaetano alle Grotte, edificata nel III secolo in una grotta lavica già usata come cisterna e dedicata a Santa Maria La Grotta, demolita ad opera degli arabi e restaurata dal normanno Conte Ruggero.

Ma entriamoci al mercato, no?

Appena si entra, come in tutti mercati del Meridione d’Italia (vedasi quelli palermitani) ci si immerge nel calore, nei colori e nell’abbandono della tristezza che fa posto all’allegria. Si incontra immediatamente la geniale ironia del Catanese e la sua pronta loquacità nel partorire implacabili battute. Non possono farci niente, è più forte di loro, la devono dire!

In un baleno sembra quasi mancasse l’aria, le pulsazioni aumentano e le antenne cominciano a drizzarsi per ricevere suoni e colori strabilianti che filtrano dai tendoni di bancarelle in cui si vende mercanzia di ogni genere.

Nello stretto corridoio in cui si incrociano catanesi, siciliani, africani, cinesi, indiani, tutti indaffarati a far vivere un luogo dove si fanno affari meglio che a Piazza della Borsa, arrivano decine e decine di meravigliose e spassose espressioni teatrali. E' proprio lì dove, da cronista, spesso raccolgo quel tesoro che esce dalle bocche dei miei concittadini e che non posso tenere soltanto per me. Impossibile non condividerle. Qui di seguito, quel che sento:

- Cuore, a mamma, ti piaci stu vistitu blu elettricu ‘po vattìu di Vanessa?”

- Frida dice a Oriana “A genti parra picchi avi giga supecchiu ndo telefunu. A quali! U russettu russu non mi passa mancu cu l'acqua raggia!”

- “Cunnuti ca siti! 5 euri? Cu l’ha spinnutu mai 5 euro pi m'paru 'i cosetti?”

- “Peco, peco (prego), tuttu a neuro. Avemu macari Docce e ca ‘bbanna!”

- “Oggi c'è assai pisci, non ci abbastunu i cancillati da villa!”

- "Avemu u Blaccky friddu 'da cucuzza”
- “Ascaniu, appoi ti peddi. Dammi a manu, a mamma (ndr: come rovinare la vita a un bambino nato a Catania)”

- “Me nannu? Sta megghiu di mia, ci arrivau a cattulina do suddatu!”

- “Ah, u ‘ttaccanu a chiddu ca arrobba 'a Fera? Petomane!… accussì s’insigna!!! (a Catania non si impara, si insegna)”

- "Santiago, cunnuteddu da mamma.... veni cca, lassila stari sta pàmmina" (come rovinare per sempre la carta d'idendità a n'picciriddu nato sotto l'Etna, che magari di cognome non fa Rodriguez ma Fisichella)

Entro al bar, prendo un caffè e alzo il volume delle mie orecchie: “Aspetta, ca non ci viru di luntanu, sugnu preside. Ma è zuccuru?  No mbare, aiu a diabete (a Catania il diabete è fimmina!) e poi no sangu u dutturi attruvau u GPL iautu! Troppo pericoloso, preferisco evirare (evitare) un ics cerebrale!”

Nel frattempo il banconista chiede al collega! "Kevin, ti giuru quantu stimu a vista ‘e l’Ognina,  mi dissi queste mestruali palore: 'Capucino take away, please' Mah! ...chi significa?" “Turi, nenti, ti dissi “da pottare!”. Tranquillu!

Alla fine del giro esco dalla Fera o Luni in un sabato ancora soffocato da questa interminabile estate, senza non godermi le ultime canzonette all’uscita su Piazza Stesicoro. Perché i venditori del mercato non si limitano a “vanniare”, ma si dilettano pure nel canto, ovviamente nel rispetto della nostra famosa liscìa:

- Dieci carciofi a 6 euro posson bastare, dieci carciofi a 6 euro io te li voglio dare! (Dieci ragazze in versione Fera o luni)

Oppure questa, dedicata al sabato e non al lunedì:

- L’aria do sabatu a Fera, ruffiana e sincera… cco te! (Maledetta primavera in versione Fera o luni)

Eccezionali! Come si fa a non amarli?

Mimmo Rapisarda

 

 

CATANIA DA BERE

E’ settembre, c’è ancora caldo e mi aggiro al Centro lentamente, non facendo accorgere ai miei L4 e L5 che sto aumentando il passo. Imbocco Via Santa Filomena e Via Gemmellaro, una volta tranquille stradine con storici negozietti ma oggi, finchè tirerà il vento, roccaforti del Food catanese anche se debbo dire che l‘alcol scorre ormai in tutta la città.

Un tempo non era così. Gli aperitivi di una volta non comprendevano le apericene e soprattutto si consumavano in piedi, al banco. Quei pochi che si sedevano avevano davanti un tavolino rotondo, coperto da tovaglia e un telo in plastica trasparente tenuto fermo da corone circolari in alluminio tipo quelle dell’hula hoop. Poi arrivava un piattino bianco con la pubblicità del caffè Torrisi con un po’ di arachidi, due patatine e quattro olive verdi per accompagnare tanti apertivi che non sto ad elencare, la maggior parte serviti con un cubetto di ghiaccio e fettina di limone, su bicchieri lunghi adatti solo per far bere le cicogne. Maledetti!

E i liquori? Nel periodo in cui veniva a casa un ospite e gli si offriva appena un dito di Vermouth da sorseggiare per due ore, fuori la gente beveva gli amarissimi in sai francescani, l’altro liquore al carciofo che causò la morte in strada di Calindri e l’imbevibile: Unicum! Comunque, a parte l’introvabile Prunella ballor di Fantozzi, sono prodotti che si trovano ancora oggi. Il fatto è che il gregge non li considera più, a fine pasto chiede la grappa che se ambrata è meglio. Non lo sanno il perchè, ma fa fico ordinarla.

Parafrasando una vecchia pubblicità dei rampanti anni Ottanta, mentre cammino mi chiedo: ma Catania è una città da bere? Ma Sii! Tanto tanto. Provare a sedersi ad un tavolo alle 21, dovunque e in qualsiasi giorno della settimana. Impossibile.

Via Santa Filomena è dedicata soprattutto al cibo d’elite o presunto Food made in Sicily.  Alle 17.00 già vedo tedeschi, inglesi e americani che cenano con gli spaghetti sopra le pizze ed altre diavolerie che preparano per loro in queste trappole per turisti. Gli italiani arrivano dopo, ma già immagino colui che prenderà le ordinazioni con il shashia in testa, facendo intendere la sua competenza gastronomica internazionale quando fino a un anno prima “spaccava” wurstel da Zio Mario alla stazione. Così comincia il suo spettacolo pietosamente gourmet (1), con menù imparato a memoria e bluffando spudoratamente con mercanzia presa all’Eurospin.

Suggerirà eccellenze siciliane immancabilmente adagiate su letti di pistacchi di Bronte (ora i pottunu), tre paccheri pieni di bottarga di dubbia provenienza, soupe di molluschi annegati nell’acqua di onnipresenti pomodorini di Pachino, trunzi di Aci in bagnacauda spolverati con sale rosa dell’Himalaya, Marshmallow (u zuzzu, va) caramellato e granita di mandorle di Avola con olio piccante e uova di gambero gobbetto (puah!). Giusto per dare armonia al gusto della serata, per i vini proporrà uno Chardonnay che …… “per il suo forte temperamento riesce a domare il carattere ribelle delle portate”. Ma che cazzo dici?

Ma la Catania da bere?” Sì, sì arrivo! Il tempo di attraversare via Pacini ed entro in via Gemmellaro dove si beve davvero. Anche qui è ancora presto. La strada è un po’ più larga ma perennemente invasa da tavoli e arredi farlocchi, realizzati da ditte specializzate che simulano gli Irish Coffee e i Pubs del nord Europa. Insomma, a destra vedo Dublino, a sinistra Liverpool. Ma a Catania semu, o no?

Una birreria è già aperta ed entro. Mi sembra di essere all’Hofbräuhaus di Monaco di Baviera. Chiedo una semplice birra, ma quello comincia invece a consigliarmi dell’altro. Signore, cominciamo dalla terra dei Wikinghi: St. Feuillien, Gulden Daak, Caulier, Chimay, Celebrator, Leffe, Carlsberg ? No? allora scendiamo in Germania: Augustiner, Hofbrau, Goller, Oettinger, Paulaner, Bitburger, Westmalle, Silberbock, Franken Brau ?

Dopo aver girato mezza Europa, comincio ad avere mancamenti da sbornia solo ascoltandolo, ma lui continua. Mister, sbarchiamo in Irlanda con Guinnes, Harp, Caffrey, O'Hara's Brewery, Smithwick’s, Murphy, Porterhouse, Beamish, Wicklow Wolf….  Oppure facciamo un salto in England? Elgood’s, Fuller, Samuel, Abbot, Stout, John Bull? … Quindi?

- No, guardi io volevo solo …..

- Minchia !

- Scusi, non volevo assillarla, anzi le sto facendo perdere del tempo prezioso…

- No, ma che dice? Cos'ha capito? Ho trovato quella che fa per lei: è una birra chiamata così ma si tratta di ottima artigianale siciliana e pluripremiata. Smanetta sul cellulare e me la vedere (la birra) qui. E’ fortunato, oggi me la ritrovo Bionda, Rossa e Tosta. Che faccio, spillo e verso?

- No grazie, mi fa impressione. Per caso (2) ha una Nastro Azzurro?

Mi guarda come se io fossi un mendicante a Beverly Hills e, schifato, nemmeno mi saluta quando vado via.

Esco e mi avvio nella zona dove avevo parcheggiato. Comincio ad annusare umori, odori e suoni che cominciano a cambiare rispetto alla situazione che ho appena lasciato. E’ un’atmosfera medio orientale dove parecchie etnie si mischiamo tra loro. Ho sete e finalmente lo incrocio. Eccolo lì ….u Ciospu!

Il chiosco è il luogo dove ogni catanese e non si illude di star bene dopo aver ingerito l'equivalente di cibo che un nipote calabrese ha ingozzato da sua nonna (a Catania si mangia abbastanza). E come lo fa? Con il famoso seltz, limone e sale, no?

Semplicissimo come la gazzosa a cosce aperte napoletana, figlia dell’acquaiolo borbonico e chiamata così per il bicarbonato che traboccando innaffierebbe il cliente, anche sotto l’Etna la bevanda in questione non è niente di particolare: solo acqua gassata, limone e sale. Tutto qui, è qualcosa che si può preparare anche a casa …. però consumarla al banco, circondati da certi attori consumati che danno il meglio davanti a quel laboratorio di vetri con sciroppi colorati che nemmeno Marie Curie…. è tutta un’altra cosa. Non te lo puoi perdere, è proprio quella la magia delle sue bollicine! Il servizio è rapido, attuato con abilità degna dei migliori pistoleri e il conto davvero irrisorio rispetto a tutto il contorno di quel gazebo.

Non vorrei ripetere anch’io la solita solfa sui chioschi, in rete c’è già abbastanza roba in cui si racconta la loro origine, gestori storici come Costa, Vezzosi e Giammona, quali gli sciroppi, le varianti, la maestria dei cioscari e le essenze. E proprio all’essenza mi riferisco, infilandomi dentro l’anima “do ciospu”, con tutta la sua spettacolare clientela. Se in Via Plebiscito sono più sanguigni con bistecche e polpette.... qui in zona si beve o meglio si sorseggia, in modo gassato, la liscìa catanese.

Mi avvicino e ordino anch’io qualcosa.

- Seltz limone e sale, grazie.....però avrei solo una banconota da 50 euro….

- E biatu a lei ca cci l’havi ! Cca c’è malura!

Arriva un ragazzino che reclama la precedenza sul servizio:

- “Capo, iu arrivai prima!”

- Va bè, ora ti ramu a miragghia!” e lo fa aspettare.

Ma u picciriddu è cunnuteddu di nicu nicu e gliela fa pagare. Impiega ben oltre il tempo consentito per consumare la sua bibita, quasi a farglielo apposta. Così chiede la cannuccia, la fetta di limone e non ritenendosi soddisfatto della Coca Cola si lamenta perché non è abbastanza fredda. Un vero professionista della rottura di palle.

- Attia, nicareddu ….. a casa passa, non è ca na fari mangiari l’ossa cu sali? (3)

Da dietro: “Avaia o picciriddu, e poi l’ossa boni su… ugghiuti sono afro zodiachi!”

Al banco anche alcuni fancazzisti che chiedono  notizie (in verità, sparlano) di un loro amico comune che, da quel che ho capito, è notoriamente un malaticcio professionale. Non si fa sentire da qualche giorno e quindi, fra un Mal di suocera, un Tamarindo e un Mandarinetto verde, cominciano i commenti che lo riguardano:

- Chi fa, u ricoveranu a stu cadavere in stato di scomposizione? Mossi?

- Ma chi dici?

- ‘Mbare ….non t’incazzari, no va bè accussi, tantu pi sapillu… cchi sacciu. n’cuscinu, na ghillanda, le congratulanze.

- Carusi, ora ci chiamu: au, Fulippu…. unni sì? ti operanu di arachidi anali? ah, ti stanu fannu (4) macari a trasfusioni ?

- Buttana da miseria, è ancora vivu? Menu mali, iu già stava currennu no ciuraru!

Chi aveva già la bevanda già in bocca, dalle risate comincia a produrre spruzzi simili ai Geyser di Yellowstone. L’ilarità contagia tutti i presenti, che cercano di darsi un po’ di contegno solo quando vedono arrivare una coppia di anziani. Lui è in abito bianco di lino, papillon a pois e Panama in testa; la sua signora ha un aspetto molto signorile. E’ avvolta in un elegante tauller e i suoi modi nobiliari sembrano appartenere a una contessa. I tratti sono belli, delicati e di quel poco di rossetto sulle labbra nemmeno si capisce l’esistenza. Insomma, un’affascinante signora di alta classe! Se l’uomo ricorda vagamente il Duca Conte Semenzara, lei è decisamente la Serbelloni-Mazzanti-Viendalmare.

Per lui un “completo” mixato con Chinotto. Il gestore lo serve subito e poi si rivolge alla signora ma con un’aria che sembra conoscerla da tempo. Le chiede “signuruzza, chi ci mittemu stasira ‘no sciampagninu?”

La guardo e penso “Lo manderà a quel paese, non si parla così a una distinta signora!”

La Signora ci pensa un po’ e risponde alla domanda: “...kki to nanna, o fatti rumpiri i conna! Dammi na cosa frisca ca c’è cauru!!”

Il banconista scoppia a ridere, ben sapendo che la signora è invece antica, antichissima ….. non nell’abbigliamento ma nell’essere Marca Lioutru, e di quello sopraffino. Per lo sforzo delle risate emette un rumorino stuzzicando ancora la “raffinata” signora: cu avi culu cunsidira!!

Per me, la caduta di un mito in pochi minuti!

Lui non ce la fa più e si fa sostituire al banco da una bella ragazza che produce una fila di uomini impressionante, tutti davanti come le api attorno all’ape regina, ad ordinare cazzate pur di starle davanti.

Fra i Geyser ancora attivi,  consumo finalmente il mio seltz limone e sale e mi allontano ma sento arrivare alle mie spalle strani tintinnii.Sono i boccioni degli sciroppi, i cucchiaini, i bicchieri, gli spremiagrumi in ottone e le presse che ridevano anche loro, ancora!

Avvio l’auto e nell’abitacolo percepisco tanti odori di Tequila sunrise, Mojito, Negroni, Bloody Mary e avanzi di risate che mi accompagnano fino a casa. Soprattutto avverto l’opera di shakeraggio che il seltz sta compiendo nel mio stomaco per aiutarmi ad affrontare le numerose buche stradali della mia città.

Buona serata, straordinaria Catania da bere!

(M.R.)

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“…non ha vissuto chi non sa che cos’è un chiosco delle bibite a Catania… E ce ne sono cento… E tu ti ci avvicini, portando il tuo deserto sulla lingua, e un principio di incendio tra i capelli… E senti il ghiaccio spezzarsi come il cuore di un ghiacciaio, per te che quasi fuso passi… E senti la frutta spasimare e liquefarsi in succo… Così è… Allora sì che è estate, l’estate passionale a Catania, quando tutta la tua umana sete ti assale.”

(Pasquale Panella)

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LE NOTE

 

(1) Tragicomico glossario Gourmet: “il Gabbiano in Crosta con lenticchie alla julienne” di Antonio Albanese.

“Oltre ad immaginare di poter tagliare una lenticchia alla julienne, bisognerebbe poi procurarsi un gabbiano sterile dell’aventino, ma che sia veramente sterile.. 680 lenticchie opache di Colle Val Susa di val d’Elsa di Norcia, due cucchiai di olio extravergine andaluso, tanto per essere originali, 5 manciate, ma che siano 5 di pangrattato di pane nero con pinoli armeni, noci moldave, pistacchi macedoni, arachidi e semi di mango di Maurutius, e poi un “niente di niente o quasi niente di zucchero grigio ondulato”, una bustina di tabacco aromatizzato al cardo essiccato in una malga trentina, e infine “quanto basta di sale dell’Himalaya”.

https://www.amazon.it/Lenticchie-julienne.../dp/8807492245

 

(2) A Catania usiamo questo termine quando chiediamo qualcosa con cortesia, pensando di usare del tatto e non apparire sfacciati. Esempi sono “per caso ha provveduto anche per me?” oppure “per caso ha della ricotta salata di Vizzini?” oppure “per caso è arrivata della posta per me?”

 

(3) “mi stai facendo rodere dentro fino a rosicare”, ma soprattutto è un antico detto che indica povertà. Se i ricchi potevano permettersi selvaggina fresca, i poveri mangiavano carne essiccata e quando questa finiva rimanevano nullatenenti, soltanto con le “ossa cosparse di sale”.

 

(4) Esempi di utilizzo del gerundio nel verbo “fare” ……… a Catania

Mi staiu fannu u sangu acqua! (io)

Ti stanu fannu a trasfusioni? (tu)

Melu mi sta fannu n’cazzari! (egli)

Ni sta fannu cori di masculini (noi)

Vi stanu fannu a vertenza? (voi)

Stanu fannu na minchiata (essi)

 

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E vui cummari, cu sta mantellina, nun lu sintiti a vespiri ca sona? L'avvulu rossu ‘e quattru ri matina… e poi n'completo 'nti Giammona

(da Ci ni voli tempu – Vincenzo Spampinato)

https://www.mimmorapisarda.it/cataniadabere.htm

 

 

 

IL PANE A CATANIA

Catania, a differenza di Palermo che è stata più araba e normanna, fra le antiche dominazioni in Sicilia è stata soprattutto una grande città romana. E’ anche vero che anche qui esistono testimonianze normanne e sveve come la Cattedrale e il Castello di Aci, ma quel che oggi si vede maggiormente alla luce sono le rovine romane o quel che è rimasto di esse. A coprire l’immenso circo, il decumano, i monumenti, i templi, le terme e gli interi quartieri coloniali ci pensò poi l’Etna nel 1669.

Come mangiavano a quel tempo i romani di stanza a Catania? Avendolo appreso già dai Greci, anche in Sicilia gran parte della popolazione – non tanto la plebe - consumava i pasti nelle “tabernae” (le nostre Putie) dove si consumavano cacciagione, carni, pesce, frutti di mare, murene in brodo, vino, zuppe. Veniva consumata così tanta roba alla brace che Domiziano, con un suo decreto, dovette eliminare questa usanza. Il poeta Marco Aurelio Marziale scrisse: “La strada (regno dell’Arrusti e mangia) di Catina non è più occupata da fumosi focolai (i cufuni), è tornata ad essere una colonia di Roma.”

Ecco dove nacque il nostro famoso Street food. Immaginate questa gente che prima, durante e dopo i cruenti spettacoli all’Anfiteatro di Catania, si avviava alle cosiddette Thermopolie (gli odierni bar)  e consumavano quel cibo sulla strada, velocemente e in piedi. Ma portavano a casa (take away) anche frittelle, lumache, molluschi già cotti, frutta secca, frittelle, focacce e …… pane. Già, il pane. Quello col grano siciliano.

L’Impero trovò in Sicilia e in Sardegna valli immense piene di frumento che potevano sfamare la lontana Roma, famosa la frase di Catone: “La Sicilia è il granaio della Repubblica, la nutrice al cui seno il popolo romano si è nutrito”.

Però i Siciliani non vennero trattati da Roma come alleati ma da sudditi veri e propri, obbligati a pagare un tributo annuale in grano e costretti ad obbedire. Così venne imposta la “lex frumentaria”, tributo che consisteva in una decima parte del raccolto: la cosiddetta Decima (civica decumana), poi sostituita con lo "stipendium", imposta sulla terra pagata in denaro perché il grano siciliano non era più indispensabile per Roma, avendo nuovi approvvigionamenti con le conquiste in Egitto e in Nord Africa. Ma il grano siciliano rimase il figlio prediletto del sole e lo sapevano bene sia i romani sia, nei secoli a venire, gli ebrei, gli arabi, i normanni, ecc.

Non mi dilungo perché non sono uno storico, né un esperto di grani antichi (consiglio https://www.facebook.com/Foodiverso) ma voglio soltanto spiegare a modo mio cosa rappresenti il pane per i catanesi, una passione che si può già cominciare a capire dal numero di panetterie (o panifici, come li chiamiamo) in città. Sono tanti, tantissimi, in via Plebiscito a decine uno vicino all’altro, a distanza di pochi metri. Non chiudono, anzi continuano alla grande con la loro rispettiva clientela.

Oggi si sono adeguati alla modernità. Più che forni sembrano delle vere e proprie rosticcerie, vendono pure spicciola gastronomia ma anche tavola calda in cui vengono usati altre impasti che però non hanno niente a che fare col pane vero e proprio, diversamente da Palermo dove concepiscono la tavola calda come ogni cosa che può essere infilata nel panino: dalla meusa alle panelle, dalla frittola alle stigghiole. Non scrivo delle scacciate e le focacce siciliane, che sono tutto un mondo a parte.

Non so se in altre regioni o città fanno così, ma a Catania il pane viene sfornato continuamente, quasi ogni tre ore. Il privilegio? Comprarlo che non si può nemmeno toccare e, appena a casa, staccare un pezzo di “vastedda” ancora bollente, aprirla e versarci sopra olio, sale e pepe. Quasi lo stesso procedimento per arrivare al famoso “pane cunzato”, senza bisogno di sedersi ai tavoli di Alfredo in quel di Salina. Per carità, anche da lui è ottimo, ma l’ho trovato un po’ troppo croccante e scomodo perché trasborda di contenuti a “cielo aperto”, quasi un'enorme fresella pugliese. Per questo, fra le cinquanta sfumature di pane cunzato siciliano, trovo quello catanese (ottime le sagre a Scillichenti, Piedimonte e Castiglione.) il più morbido e con pochi ed essenziali condimenti che ben si associano fra loro. Comunque, de gustibus.

Chi non ricorda la mitica curva ad Agnone Bagni, lungo la Statale per Siracusa? In quel bar vendevano il pane cunzato appena sfornato, tagliato a metà e condito con ottimo olio, origano, formaggio primo sale, cipollina e peperoncino …. prima di servirlo in fette enormi. Era qualcosa che non poteva mai mancare nelle colazioni al sacco di una volta. Ricordo che tempo fa, alla fiera dei Morti a Catania un gruppo di ragazzi stava portando alla cassa le vettovaglie per la gita dell’indomani (immancabilmente ‘o Milu!). Chiedono anche otto ciambelle da più di un chilo ciascuna. Scherzando, dico a uno di loro: "Ma tutte queste? Quanti siete, una trentina?" Un ragazzo mi risponde “semu ottu” e inizia a contarle, nominandole con l’indice della mano: "Iu, Ninu, Arazzio, Melo, Turi, Pippo, Giuvanni e Cicciu!" Fantastici!

Ma è quando si trova al panificio che il catanese dà il meglio di sé. Aspetta pazientemente il suo turno e quando arriva guarda il bancone pieno di roba tutta per lui, si avvicina alla vetrata appannata dal calore e procede alla sua performance come se stesse per recitare una commedia di Pirandello. E' già sul palco, quindi Primo atto.

Chi ha fretta può anche andar via perché se il cliente è quello giusto, il tempo che impiega per decidere cosa prendere è interminabile. Come un navigato perito, comincia ad indicare: “signorina, ci metta una schiacciatina … no, no quella, quella più vicina; appoi na mafadda, ca c’iaiu cori.. però con la ‘ciciulena’; poi ci mittissi n’panuzzu ca sugnu senza renti; un ferro di cavallo ben cotto…  anzi no, tolga il ferro di cavallo e ci mettissi u binocolo. Chi è u binoculo? i gemellini…. na coppia, va!”

Come scegliere dei pasticcini! Osservando, aspettiamo pazientemente la fine del primo atto.

Secondo atto. Arrivano quattro ragazzotti che ordinano dodici morbidoni per il loro spuntino al mare.

- “Mbare, abbastunu?”

- Cettu mbare, semu quattru: tri, sei, novi, ddurici! Giustu, no?

Mentre pagano arriva un ripensamento: “signorina, tridici! avemu a unu che è ‘ncintu!”

Mentre la clientela aspetta il suo turno mormorando “su carusi!”, la bella commessa al banco li serve ma, concentrata com’è sul servizio, non sente il ragazzo che sta per uscire e che intralcia l’accesso all’esercizio:

- “Ciao bella”. Da lei nessun segnale.

- “Ciao amore”. Da lei ancora niente

Lei solleva la testa solo quando un cliente le dice “signorinella bedda, avemu cchi fari, u salutassi picchi chistu non si nni va chiu! Pessi a testa ppi lei, no pa mafaldina!”

Terzo atto.

La stessa commessa perde tempo spiegando a una cliente alla cassa tutto il programma della prossima crociera: tariffe, cene col comandante, tappe ed itinerari. La signora che ha davanti le risponde con un album di personali ricordi, interminabili, che salpano da Genova, attraversano tutto il Mar Mediterraneo e attraccano a Palma de Majorca, perché uno dei grandi piaceri della vita è sempre quello di far capire a tutti che “ci sono stata anch’io!”, magari inventandosi situazioni che non esistono.

Il discorso si allunga fino a quando la nostra giovane crocierista dichiara ad alta voce quante cambiali Findomestic l’aspetteranno appena fuori dall’imbarcadèro della nave, a sbarco avvenuto. Nel frattempo gli astanti fanno finta di niente, indifferenti, ma in realtà nascondono una bramosa curiosità di sapere i fatti degli altri.

Però il tempo passa, qualcuno si spazientisce e arriva inesorabile, bruciante, geniale, qualcosa per cui noi catanesi siamo famosi e che ci appartiene. Da dietro la fila un uomo grida “Signorina, quannu sbarca a Santorini mu favurisci n’cucciddatu bellu abbruscatu?”.

In passato ho cercato di spiegarla ma non riuscivo a farla capire. Ecco, è questa la liscìa! Forse fra il frumento che ci razziavano i Romani (vedasi Sordi), i Borboni (vedasi Totò) o gli Angioini (vedasi Fernandel) è scivolato sulla terra catanese anche un pizzico di spirito di patata presente nel loro DNA.

Fine della commedia. Quando arriva il mio turno e sto per pagare arriva da fuori una giovane voce. Fra la risata generale dei presenti, con un sorriso smagliante che veniva di abbracciarlo, ritorna indietro il capo-gita con un ripensamento: “quindici! avemu fami!”

Mimmo Rapisarda

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A proposito, “abbruscatu” vuol dire “well-done!”

Preciso che non mi sono inventato niente. Sono tutte situazioni in cui ero presente, tutte perle che immediatamente mi appunto sul cellulare.

 

CI METTU L'AVVOCATU!

Questo è quello che il catanese sbotta non appena, a modo suo, vede intaccata la sua onestà, moralità o qualsiasi cosa contraria alle sue indiscutibili convinzioni.

“Ci mettu l’avvocatu!” detto con tanta boria, sparato dalla sua bocca come se stesse calando il carico in una partita a briscola. A caldo, a stemperare la vampata alle sue tempie già rosse per la collera subìta.

Per fortuna, il più delle volte ci ripensa e decide di non consolare il suo onore ferito di omu, masculu, patri ‘i famigghia che sia, ed evitare la figura del quaquaraqua dopo l’affronto.

In quelle poche volte che va avanti, si reca davvero dall’avvocato e quando questi gli illustra le sparute possibilità di vincere la causa ma soprattutto la parcella e le spese legali in caso di insuccesso della querela, la sua baldanza sfuma per incanto, svaniscono i suoi bellicosi propositi, l’orgoglio va a farsi benedire e di colpo esce fuori la sua anima facciòla: “avvocato, non è pi ciccari scaciuni ma…… pinsannuci bonu, appoi chi mi dissi stu nuzzunteddu? Nenti, mischinu!”

 

SCIATALGIA A SAN CRISTOFORO

Oggi pomeriggio quattro passi a prendere aria salubre: via Gramignani, via Villa Scabrosa, via del Principe e dintorni. Mi ci voleva, ogni tanto ne sento il bisogno.

E’ lì che faccio la spesa per la mia speciale wikipedia Marca Liotru, è lì che li sento davvero, dove drizzo le orecchie. Lì è dove nasce il vero catanese, in quelle strade in cui padroneggiano la creatinina, il colesterolo e la glicemia (vedasi l’obesità fra i giovani della zona che si abbuffano a carne di cavallo, cipolline e panzerotti);  lì dove non potresti sentirti mai solo perché la densità di popolazione è tale da incrociare un essere umano ogni due metri, ma con l’optional del sonoro che è già una bella cosa perché qui è inserito di serie. Non devi pagare alcun extra, è gratis. Basta saper apprezzare gli accessori.

Peccato che un improvviso mal di schiena mi abbia costretto a fermarmi in via Cordai. Così da via Plebiscito giro su Via Belfiore, sublime crocevia di catanesità, e mi accomodo su una di quelle sedie con tavolino poste sul marciapiedi all’ingresso di un bar molto “raffinato” e frequentato da nullafacenti professionisti. Cosa consumano? Centinaia di Moretti! Della Ceres non gliene frega nulla.

Mi siedo. Ho bisogno almeno di una ventina di minuti per riprendere il cammino e tornare in auto senza problemi. Vedo la gente passarmi davanti e ne rimango affascinato per quel che fanno e che dicono. Quando la tensione al gluteo sinistro comincia ad allentarsi, un uomo con una birra in mano si siede accanto a me. Sono nuovo nel luogo, potrei essere chiunque e quindi genero diffidenza. Lui, da un aspetto così indefinibile da non farmi capire se più giovane o più anziano di me e in possesso di una lucidità poco credibile, mi guarda dritto negli occhi e dice:

- Cecca a quaccunu?

- Sciatica.

- No, “Saru Sciatica” non c’è.

- No, mi scusi. In questo momento ho la sciatica, la sciatalgia, e ho bisogno di sedermi perché soffro se sto in piedi.

- Ah! (*), picchì non ci metti a pumata ca s'incamina (Sifcamina)? Chissa bona fu, quannu mi ruppi i vettibri palombari (lombari).

Senza nemmeno salutarmi si alza, torna all'interno del bar e ordina un’altra Moretti rivolgendosi ai suoi colleghi: “mbare, assira ti visti ni ticchi tocchi! bonu vinisti!”

 

E voi vi abbonate ancora a Netflix? Venite qui e fatevi una passeggiata!

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(*) prefisso universale che usiamo a Catania e che ci toglie dall’imbarazzo in qualsiasi occasione.

 

 

 

LA HALLOWEEN DI CASA NOSTRA

Mimmo Rapisarda - novembre 2004

 La tradizione vuole che nella notte fra l’1 e il 2 novembre le anime dei defunti lascino le loro nicchie e scendano in città a rubare ai più ricchi pasticcieri, mercanti, sarti, per far regali ai bambini dei loro parenti che siano stati buoni nell'anno e che li abbiano pregati. E la preghiera fanciullesca è questa:

"Armi santi, armi santi, sugnu unu e vuatri síti tanti: Mentri sugnu 'ntra stu munnu di guai, cosi di morti mittitimìnni assai.".

In realtà i derubati sono papà e mamma, e i nonni. Ricordo ancora l’operetta che mettevano in scena i miei genitori la notte prima.

Dopo aver acquistato i giocattoli per me e mio fratello già sotto le coperte, i nostri genitori  ci facevano capire che all’ingresso di casa arrivavano i parenti defunti con i doni da mettere ai piedi del letto. Mentre loro attuavano questa recita, noi battevamo i denti dal terrore facendo attenzione a non gridare perché era una mancanza di rispetto verso i morti che, offesi, avrebbero potuto non regalarci proprio niente. Il mio sonno arrivava tardi, memore di quello che dicevano i miei compagni di scuola "Stanotti venunu i parenti motti e ti rattuni i peri!" (stanotte vengono i parenti morti e ti grattano i piedi).

La mattina dopo, al risveglio, con timore mi affacciavo sotto il letto per vedere cosa mi avevano lasciato questi morti. Io ci avrei rinunciato tranquillamente ai giocattoli, sapendo che arrivavano dall’aldilà, ma dovevo farlo.

Impiegavo almeno dieci minuti prima di vedere che c’era sotto il letto. Mi immaginavo di vedere all’improvviso lo scheletro di mia nonna che mi porgeva, sorridente, la pista Politoys dicendomi "ioca, beddu da nanna" (gioca, nipotino bello di nonna tua).

Comunque, anche se ricca di tradizioni, era un’usanza macabra che oggi farebbe imbestialire qualsiasi pediatra o psichiatra infantile. Purtroppo, per ottenere i giocattoli dovevamo superare questa difficilissima prova alla “Dario Argento”. Ma il sadismo dei genitori nel terrorizzarci non si limitava ai giocattoli. Infatti l’indomani, mentre giocavamo, ci facevano mangiare i dolci tipici di questa ricorrenza: le rame di Napoli al cioccolato, i Totò, le n’Zulle e le immancabili "ossa 'i mortu": macabri dolcetti a forma di teschio, tibia, femore di pasta bianca che subito si sfarinava sotto i denti, proprio come ossa calcinate; il tutto deposto su uno strato di pasta croccante e marroncina: la bara!

Dai ricordi dei miei zii e dei miei nonni, quando ai tempi della guerra e del dopoguerra un giocattolo era considerato un capriccio ed era già un’impresa portare il pane a casa, i doni dei morti ai bimbi erano costituiti soltanto da pere e mele cotte, scarpe, abiti e fucili fatti col cartone. Ed era un sacrificio per i genitori, ma forse era meglio così.

Ma ai miei tempi, l’indomani era già festa! Gli spettri della notte li avevamo già dimenticati e le strade sembravano quelle di Kansas City: spari ovunque, con lo sceriffo (u cchiu spettu) che spadroneggiava sui cowboy “babbi” e le bambine che davano terra da mangiare, a mo’ di pappa, alle loro nuove figlie-bamboline.

Gli odierni sessantenni, ex bambini degli anni Settanta, si ricorderanno certamente della fiera con le ambite  meraviglie che vendevano a Piazza Vittorio Emanuele a Catania, mai chiamata così perché per tutti era “a chiazza de motti” proprio perché lì, nella notte dell’1 novembre, si vendevano i giocattoli per i propri figlioletti.

Allora non esisteva internet, whatshapp, Sky e tutti i marchingegni di adesso. C’era solo la Rai con il primo e il secondo canale; nessun'altra alternativa a parte Carosello, il maestro Manzi, Bice Valori e Bruno Canfora.

Ma c’erano anche i Fort Alamo in miniatura, marines e indiani di plastica, strumenti musicali che non funzionavano affatto e cineprese dal complicato funzionamento che oggi getteremmo nel cestino dopo quattro nanosecondi!

Ah, no, c’era anche il cinema: Dove osano le aquile, James bond, Soldati a cavallo, la battaglia di Inghilterra, Dio perdona io no, Ammazzalo per me, Il massacro di Fort Apache e i capolavori di Sergio Leone. Questo fenomeno  influenzava la società di quei tempi; pertanto, generazioni di bambini, genitori compresi, cercavano di emulare le gesta di Gringo, Rin Tin Tin, James Bond e Patton andando a cercare nelle bancarelle le stesse armi appartenute a commissari sfreccianti su bellissime Alfa Romeo o a pistoleri dal nome strano ma che vivevano a Trastevere. Per questo motivo, la maggior parte dei giocattoli era costituita da una fabbrica di guerra che sparava solo coi mitici .... caps, come li chiamavano a Catania! Erano capsule di plastica contenenti non so quale polvere per far sparare a salve. Caps, gommini o fulminanti!

Quindi, alla festa dei Morti, ai maschietti veniva regalato tutto un corredo da bandito del West con cappelli texani fatti di cartone e poi foderi, cinture finte e pistole, fucili, mitra, soldatini a forma di Tex Willer e fortini che ricordavano il Gen. Custer e Geronimo.

Il 3 si sparava ancora, eccome. Il 4 novembre, invece, era il giorno in cui si visitavano le caserme aperte al pubblico e si faceva addirittura la fila per visitarle guardando in diretta il cambio della guardia. Poi si saliva a bordo delle navi militari che arrivavano al porto per sedersi al sedile del cannoniere o del nostromo. Oggi questa cosa farebbe quasi ridere, ma allora la giornata della Forze armate significava qualcosa. Ma il 4 era anche la giornata particolare che con mio fratello attendevamo con ansia, perché potevamo finalmente prendere possesso dei “doni della nonna”.

Perché solo al 4 novembre? Perché finalmente mio padre sazio delle sue sparatorie. Nei giorni precedenti dovevamo giocare con altro perchè le armi le maneggiava solo lui, consumando strisce e strisce di “caps” e immaginandosi Gringo, James Bond o un agente sovietico (personaggio da lui molto ambito) in film di controspionaggio molto in voga negli anni Sessanta.

Affascinato anche lui dal cinema, si riprendeva i regali che ci aveva fatto - ho il vago sospetto che i giocattoli, alla Fiera dei Morti, se li scegliesse personalmente - e cominciava a sparare, sparare, sparare. Sbucava all’improvviso, inginocchiato, da dietro il letto e ci fulminava alle spalle dicendoci "morite, canaglie!"! Poi ci faceva gli agguati dietro alle porte, come un po’ faceva Sordi quando imitava Jean Gabin in Costa Azzurra. Noi lo guardavamo rassegnati e con gli occhi al cielo, aspettando la consegna delle armi. Niente!

Dopo aver scaricato tutta l'artiglieria, come un bambino vergognato ci riconsegnava l’arsenale, ancora fumante, per farci finalmente giocare. Cazziato da mia madre e appagato dalle stragi consumate nei corridoi di casa, sollevava la bandiera bianca lasciandoci le munizioni rimaste. E lì era un bel guaio, perché i Caps, nei giorni a seguire, diventavano praticamente introvabili! Spariti! Ma chi li costruiva, chi li produceva? Quindi dovevamo far sparare quelle pistole, che poi duravano solo due mesi, cercando di imitare il rumore dello sparo con le nostre bocche.

E’ un rapporto strettissimo quello che lega i catanesi ai propri cari estinti tant'è che per l'occasione in Sicilia viene allestita un fiera ad hoc (fiera dei morti, appunto) dove ci si muove tra bancarelle che offrono merce di scadente natura, ma soprattutto giocattoli per "i picciriddi".

A Catania la chiamano Fiera dei Morti. Un luogo storico che, a dire il vero, è sempre stata a Piazza Carlo Alberto, dove si svolge anche "a fera 'o luni" (fiera del lunedì), quotidiano mercato ortofrutticolo e pescheria all'aperto che tuttora conserva l'antico nome poiché si svolgeva solo di lunedì. Ma non è più la stessa cosa. L’altro ieri ci sono andato e come ogni anno, dopo averla visitata, con delusione mi riprometto di non ritornarci più e invece, come tutti i miei concittadini, ci ricasco.

Ogni 31 di ottobre, frotte di catanesi di qualsiasi ceto sociale si scaraventano in massa alla Fiera dei Morti, una volta ubicata alla Plaja, un’altra volta al porto, un’altra alla Villa Bellini, un’altra all’aeroporto.

Tutti ci vanno con la baldanza di chi sta per fare l’affare della vita ma, puntualmente, trovano le stesse cose presenti in ogni mercatino rionale italiano: romagnoli che cucinano Fiorentine; frittate con l’ultima bistecchiera;  brasiliani che vendono i prodotti dei pellerossa; argentini che vendono dubbi tappeti persiani;  napoletani che vendono DVD e CD contraffatti sparando ad alto volume l’ultimo successo di Nino D’Angelo o di Gigi Finizio.

I catanesi ci stanno bene in quella bolgia e, "calando" dai loro quartieri, sono capaci di girare per più di un’ora per cercare un posto per l’auto, arrendendosi alla fine agli spietati ricatti dei parcheggiatori abusivi. Già stanchi dopo pochi minuti, si infileranno  in quel girone dantesco e puzzolente di patate fritte, olio, pizze a taglio andate a male, ma pieno di croccante "catanesità" all’inverosimile, tanto liotrica che farebbe risvegliare dalla tomba Nino Martoglio per scriverci una delle sue commedie.

Mi avvicino ad una di quelle bancarelle che offrono di tutto, dal Bacardi al panino con mille specialità da farsi venire l’intossicazione. Attendo la mia bevanda e all’improvviso sento in perfetto accento catanese "Ciao m’bare… n’cafè". Mi volto e vedo alle mie spalle due "vu cumprà" senegalesi alti due metri, neri neri, che rivolgono quel "ciao compare: un caffè" al barman. Sentirli parlare in dialetto è davvero uno spasso! Loro lo sanno e lo fanno apposta! Mentre mi appresto a pagare, un gruppo di ragazzi stanno portando alla cassa le vettovaglie per la gita dell’indomani (immancabilmente …. ‘o Milu!). Hanno anche otto ciambelle di pane da più di un chilo ciascuna, i cosiddetti "cucciddati". Scherzando, dico a uno di loro: "Ma a che vi serviranno mai domani tutte queste ciambelle? Quanti siete, una trentina?" E il ragazzo catanese, con una risposta bruciante mi indica le ciambelle e iniziando a contarle dice: "Semu ottu: Iu, Ninu, Arazzio, Melo, Turi, Pippo, Giuvanni e Cicciu."

Nella zona mobili c’è l’antiquario napoletano che cerca di vendere qualcosa di antico, ma non sa chi ha di fronte: "Anticu? Tu si anticu! Chissu vecchiu è!". E ancora: "a n'euru, a n'euru!", che non si capisce se vende a un euro o invoca un'ambulanza per farsi ricoverare alla Neuro.

Un altro mobiliere, forte di aver letto da qualche parte le gesta di un certo Napoleone Bonaparte e sapendo di un altro Napoleone III, cerca di spacciare un mobile in stile Napoleone Terzaparte! Gli chiedo la logica risposta alla sua dichiarazione. Mi dice:  “Bonaparte è stato il primo Napoleone, no? Ha fatto bene il suo dovere (da lì "bona") e la sua dinastia non poteva che arrivare alla terza parte, compresa la mobilia del periodo!”. Non fa una grinza!

Più in là scorgo enormi e "distinte" madri di famiglia che vendono giocattoli luminosi fatti in Cina; altre donne bellissime, straniere o autoctone, vendono altra mercanzia dai Camper-Biochetasi-da Zio Mario-da Zio Nino-da Zia Lucia: "Ma u paninu u voli ca rucula o ca maionesi? Ci mettu n’pocu di pocchetta?: - "Ahu, pani di Lintini originali, ah…"s’accomota…" peco, peco!

In un angolino mi accorgo della presenza di una piccola folla. Al centro dell’anello umano tre pellerossa stanno suonando con chitarre e flauti "Let it be" dei Beatles cercando di ottenere, a fine esibizione, delle offerte. Vedendo cosa sono costretti a fare per vivere i veri padroni d’America, mi viene da dire "Guarda come si è ridotto un grande popolo!". Un catanese, a me vicino, continua: "……..e sunavanu macari bella musica!".

Sempre più divertito, mi allontano fra le bancarelle di giocattoli. I bambini davanti a quei balocchi cominciano ad essere sempre più esigenti e si ricordano del prodotto che hanno visto in tv; vogliono questo, vogliono quello (per la verità, già da piccoli hanno le cosiddette "corna") e invece ricevono ceffoni, ne prendono di santa ragione da genitori nervosi.

Fra la frutta e verdura con cartelli che fanno sganasciare dalle risate, tipo "fiche nostrane" su una cassetta di fichi secchi, passa un milanese che chiede a un venditore di lumache "quanto vanno all'etto?" e il venditore "quannu vannu a lettu no' sacciu, ma ogni matina e' cincu i trovu tutti ccaà!" (quando vanno a letto non lo so, ma ogni mattina alle cinque le trovo tutte qua).

Non lo fa capire, ma è stanco e nervoso anche il commerciante che cerca di rifilare a una giovane madre la tutina troppo stretta per il bambino. E quando devono "rifilare" qui si raffinano con una sorta di lingua italiana che, a modo loro, li fa apparire più "professionali"……: “signora, guardi che questa tutina la mette pure mio figlio che ha due anni come quello suo…..suo figlio ha fatto due anni l’1giugno? Mio figlio il 3 giugno…. che coincidenza, "se la spaciano" di due giorni!!!!” Si fanno fregare anche con le scarpe "mi stanno un po' strette" e il venditore "signora, poi cedono...", oppure "mi stanno un po' larghe" e il venditore "signora mia, queste si adattano al piede e poi si restringono".

All’incrocio fra il vialetto delle porchette e quello delle sedie in vimini, intere famiglie si ritrovano e si salutano parlando di cassa integrazione, di assegni di assistenza, di TFR, di arrampicate sul campanile della Cattedrale per manifestare contro le autorità, di bivacchi davanti al Municipio perché la fabbrica sta chiudendo. Fra l'ennesima fregatura parleranno del lavoro "in continenti” che ancora consente di sopravvivere. Però, stavolta, loro non vogliono commettere l’errore dei nonni, non vogliono tornare qui in età pensionabile portandosi dietro un cancro ai polmoni beccato nelle fabbriche polentone; se proprio se lo devono beccare, che sia alla pelle per il troppo sole che hanno preso alla Playa...  perchè stavolta vogliono morire qui a tutti i costi, anche mangiando solo pane e cipolla.

Li lascio alle loro speranze:- Ma tu ppi cu voti? - Belluscono….- Ma cchi dici? Non è candidatu o Cumuni….- Turi…. comu si chiama chiddu…..ah… Sciampagnini! Poi si rimettono in cammino alla ricerca delle scarpe giuste che, in ogni caso, dopo due giorni li costringeranno ad una visita podologica.

Abbagliati da tutto quel ben di Dio luccicante, acquisteranno anche altri oggetti inutili che non useranno mai, che non serviranno a nulla e che arrivati a casa si guasteranno. L’affare della loro vita, come ogni anno, non l’hanno fatto. Non fa niente, domattina per le strade non ci saranno più gli spari di una volta ma finestre chiuse dalle quali si intravedono televisori accessi che proiettano silenziosi videogiochi acquistati dai marocchini, che non funzioneranno e che bisognerà riportare per il ricambio. E, inevitabilmente, di nuovo la ricerca del parcheggio, il marocchino che non si trova “picchì su tutti i stissi”, ecc. ecc.

Noi catanesi siamo indistruttibili, inossidabili, ma alla Fiera dobbiamo andarci costi quel che costi, perché ci divertiamo da matti in quella Halloween ambulante in cui tutti, ma proprio tutti, ritorniamo "picciriddi".

Tanto, domani è festa e non si lavora… e dopodomani nemmeno.

(Mimmo Rapisarda)

 

AL BAR

al banco accanto a me, lui accarezza i capelli della sua ragazza durante l'aperitivo.

- Màico (Michael) che bellu, mi sta fannu addummìsciri !

- Tresi (Tracy) gioia, si addummisciùta di natura. E’ divessu !

 

AH? (*)

(*) Usata anche nei numerosi film ambientati in zona, trattasi di autoctona espressione di colui che chiede approvazione, a conclusione della sua battuta. Espressione che viene rafforzata se l’autore della battuta non è proprio convinto della valenza di quel che ha appena detto, chiedendone in questo modo l’approvazione. Ma potrebbe anche essere ironia, sottintesi, presa per il culo nei confronti dell’interlocutore. Su “ah?” si potrebbe fare anche ricerca scientifica e scoprire altri concetti in merito a quelle due semplici lettere che, pronunciate con un tipico accento e messe accanto a un punto interrogativo dal “significato universale”😁, non costituiscono né un avverbio, né una preposizione ma un prefisso di appartenenza territoriale come il "ne'?" torinese.. anche se qui è decisamente diverso.

Non è vero? ... ah?

 M.R.

 

 

I CLIMATIZZATORI NATURALI

Qualche consiglio su dove ripararsi dall'alta temperatura, onde evitare svenimenti per strada e concludere la serata la pronto soccorso.

Un piccolo segreto di Via Etnea. Non so se vi siete mai chiesti perché, nel tratto che va dal fotografo Marino fino a Palazzo Cantarella, un gruppetto di uomini sosta sempre proprio sul marciapiedi antistante l’ingresso del Palazzo delle Poste.

Nei caldi pomeriggi estivi sono sempre lì, ogni giorno, a sollevare al cielo i loro antichi racconti pregni di avventure a Taormina, delle serate al Lido dei Ciclopi negli anni Sessanta, delle loro carriere, di conquiste mai avvenute ma raccontate nei minimi dettagli, ma soprattutto di minchiate, tante minchiate che si sollevano al cielo come palloncini alla festa di Sant’Agata e che li fanno sentire ancora giovani quando arriva il momento di prendere il bus (se arriva) per tornare a casa.

Perché le sollevano proprio lì? Perché mi hanno raccontato che proprio in quei dieci metri di Via Etnea circola una corrente d’aria proveniente da Via Litrico, complice l’androne del Palazzo delle Poste, che genera un gradevole venticello che si incanala in quel tratto di strada come se fosse aria condizionata, capace di asciugare in un attimo qualsiasi indumento offeso dall’afa catanese.

Ecco (come da foto) perché stanno sempre lì, quasi a darsi spallate per ricevere ogni alito di brezza proveniente dalla Villa Bellini.

 M.R.

 

 

BENTORNATI!

Quest'altra calda estate finisce e lascia all'ultimo scaffale in fondo al ripostiglio colonne di CD contenenti le foto dell'ultimo viaggio che nessuno vedrà mai, ma chi è rimasto in città nelle "due fatidiche settimane" ha dovuto fare i conti con noti problemi di sopravvivenza. C'è chi ne ha approfittato godendosi il silenzio e la tranquillità, chi scattando stupende fotografie, chi leggendo o dipingendo, chi scoprendo le insolite immagini dei semafori che lampeggiano senza automobili.

Meno male che in quei momenti ci accorgiamo anche di altre cose più belle alle quali, seduti in auto e in fila, non facciamo caso. Infatti solo in quel giorno solleviamo il naso per scoprire quanto siano belli i cornicioni e i tetti della nostra città, scoprirne gli antichi cortili, o certe trattorie che solo per te preparano le "Sarde a Beccafico" come le sanno fare qui; oppure i negozietti nascosti che vendono quell'oggetto che cercavamo disperatamente da tempo, che non abbiamo trovato nemmeno su e-Bay ma che, invece, era proprio sotto i nostri occhi. A chi è rimasto gli si è offerta anche la soddisfazione di andare a pagare le bollette all'Ufficio Postale senza fare alcuna fila, praticamente uno spasso da giostra: si entra, si prende il biglietto A272 che si illumina immediatamente; ti presenti trionfante davanti all'impiegata e, visto il tempo ancora a disposizione, dopo avere pagato la multa ti viene anche voglia di portarle una granita al caffè per farle passare quello sconforto dovuto a solitudine da pubblico impiego. Una patologia, visto il cronico blocco del turn-over, che si diffonde sempre di più.

Però bisogna anche vivere, no?  E quindi c'è stato pure chi ha cercato di farlo, girovagando fra queste saracinesche selvagge ancora imbrattate di scritte contro la tessera del tifoso (con tutti i problemi che ci sono in Italia, sembra che sia questa la prima necessità della nostra società) o di messaggi d'amore con decine di X, 6, K, che all'inizio partono bene ma poi cambiano strada, crollano e si frantumano più in basso sotto i colpi di azzardati congiuntivi aggiunti dall'avventuroso autore. In alcuni esercizi ancora aperti mancava addirittura la merce, sembrava di stare nei supermercati bulgari, altri hanno fatto a gara a chi chiudeva prima. Nonostante si facciano ripetuti appelli da parte di Prefetture, Camere di commercio, ecc.. mai come quest'anno le serrande si sono chiuse così, senza criterio: tre settimane, tutti assieme e nella stessa strada!

Per fortuna, abitare in una città come quella mia significa villeggiare  tutto l'anno in un hotel a cinque stelle. Qui vengono apposta in vacanza e non ce ne rendiamo conto, disprezzando e paragonando a iosa.

Il giornale, tranne a Ferragosto, non ci lascia mai. Ogni santo giorno di agosto fa bella mostra di centinaia di reginette, stellette, Veneri, donne-in e donne-up premiate nei comuni etnei che festeggiano l'estate. Tutte quelle belle ragazze sfilano su palchi in legno traballanti, emozionate con la fascia e la corona, a tentar di coronare il sogno della loro vita: diventare Miss Italia o, al limite, fotomodella. In povera alternativa (che poi sarebbe ancora meglio) velina in Tv, che se viene impalmata da un calciatore di seria A significa il non plus ultra!

Sui social leggiamo l'ultima, patetica, photo-gallery dedicata al compleanno della Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare di turno (ma che ce ne frega?), circondata da amici abbronzatissimi che sfoggiano abbaglianti sorrisi su abiti bianchissimi. Oppure le onnipresenti sedie azzurre di un ristorante a Marzamemi, fotografate da migliaia di persone che hanno consumato dopo aver aspettato due ore in piedi in mezzo a una folla sovrumana che non ha niente a che vedere con la bellezza del luogo. E’ lì perché “deve” stare lì, altrimenti su facebook chi ci crederebbe?

Suggerirei la direzione quella genuina, creativa e spassosa, altra frangia che col caldo estivo si riappropria del "passeggio" estivo etneo. Lì sì che c'è davvero da divertirsi, perchè niente è ipocrita, nessun movimento viene fatto per parata.

Sarò crudele nei loro confronti? Nooo.. ma è mia abitudine, d'estate, andare ad osservarli quando... origliando origliando....

Sono tutti ritornati dalla terribili vacanze, paonazzi in faccia per aver preso troppo sole sotto la tenda o l’ombrellone. Ripopolano immediatamente la strada perchè già troppo occupati ad acquistare cosmetici fasulli da far rabbrividire la pelle (nel vero senso della parola) e scarpe da tennis che produrranno loro dannosissime verruche. In quelle bancarelle, a guardare il loro cantante preferito durante il video-promo del suo ultimo CD: seduto in camera da letto che piange e canta, davanti ai carabinieri che lo vengono a prendere all'alba, "Suonn carcerato, mammà!"

C'è una cosa da dire a loro discolpa: .... zoticoni (zaurdi dalle mie parti) sì, ma veri! Tutto è autentico così come lo si sente, prendere o lasciare:

- Le mamme che cercano i figli "Noemi, unni si 'a mamma, Cristian, Jessica, Kevin ... appena v'acchiappu v'assuntumu!!. 

- L'innamorato in lite con la zita: "Su tri uri ca mi teni a fungia. Gioia, ma cchi ti fici?!"

- Gli amici che si raccontano: "m'bare, a machina nova a pigghiai vintimila euri. Ma non era n'autoritaria? m'bare, ma quali, spatti senza oppss!. Appoi a sbagnai c'un bellu piattu di pasta cche mongoli!'  M'bare biatu a ttia, io ho l'intolleranza ai glutei e problemi di abete.

- Altri si lamentano per il clima: .... ufff.. c'è caldo, sto fando una fauna perchè in città non si respira, la colpa è di  questo smoking tremendo! E l'altro: No guarda, lo escludo a Priolo, la colpa è tutta del buco nell'azolo!

Quando tornano a casa son tutti uguali, zaurdi e non. Me li immagino già lì davanti agli amici, sprofondati a sei e otto sui divani Poltronesofà artigiani della qualità, mentre con sfacciata  fantasia racconteranno delle loro imprese turistiche alla Indiana Jones nei fiordi norvegesi, nella striscia di Gaza, nello Yemen, nella cordigliera delle Ande, nella Terra del Fuoco. Ci diranno che han fatto tutto da soli,

- che hanno noleggiato auto e scooter d'acqua scorrazzando sulle isolette che se non te ne fai almeno una nell'estate sei cancellato a vita;

- che hanno fregato un tunisino sul prezzo del tappeto acquistato alla Medina;

- che hanno affittato una vecchia casa di pescatori a niente;

- che hanno prenotato esclusivamente low cost perche fa fico;

- che hanno volato con compagnie da quattro soldi passando con estrema disinvoltura attraverso quaranta coincidenze che nemmeno uno steward della Lufthansa ci sarebbe riuscito;

- che hanno scattato migliaia di foto per reports spettacolari da ingolfare i loro profili Facebook. Perché, sappiatelo: “in qualsiasi posto vai, che siano villani o baroni che incontrerai, a tutti i costi fai sapere sui social da dove ritornerai”.

Purtroppo i bugiardoni non vi diranno mai di come sono andate davvero le cose. Perchè quelli indimenticabili, in positivo, di viaggi ne rimangono ben pochi.

La verità è che indimenticabili, invece, saranno stati lo stress causato dalle prenotazioni della vigilia, le file ai traghetti, dagli imprevisti dell'ultimo momento, dagli aerei perduti perchè non hanno aspettato la coincidenza, dall'impiegata innervosita al check-in che vi nega la prenotazione fatta sul web, dalla tassa doganale pagata all'aeroporto per quel tappeto creduto un affare presso il tunisino di cui sopra.

E poi, gli imprevisti in loco:

- le topaie all'arrivo che non corrispondono per niente a quelle viste su internet

- la scarlattina dei bambini,

- il marito sul pedalò (con la bagnina) che non è più tornato;

- la moglie al parco commerciale che ha fatto festa al conto corrente;

- i suoceri che stanno male all'altro capo del mondo;

- il nonno che bussa con veemenza ma senza successo alla porta della badante polacca;

- i vicini di stanza che le gridano "dagliela, per favore, che vogliamo dormire!";

- la figlia quindicenne che si massacra la notte col suo cellulare, sprigionando tanti sms in cielo da far concorrenza alla volta celeste nel mese di agosto.

Tutto ciò non ve lo diranno mai!

Diciamoci la verità. Ogni anno i villeggianti tornano dalle ferie abbastanza stressati, e sotto sotto hanno una gran voglia di riposare sul proprio letto e riprendere le vecchie abitudini. Il rientro a casa è il momento magico che durante la vacanza hanno sempre sognato; quindi, strafogare tutto il cibo che è rimasto in frigo anche se scaduto e già sottoforma di stalattiti ma sempre meglio di quello preso al Grill Pavesi, accendere il climatizzatore e il 55 pollici Full-HD, sintonizzarsi su Sky sport e farsi una maratona di calcio estivo che l'hanno avuta sul groppone per dieci giorni fino a commuoversi come in un film strappalacrime, tanto da desiderare anche Albinoleffe-Portogruaro di Coppa Italia dilettanti.

Ma si sarebbero accontentati anche della Signora in Giallo, oppure delle numerose caserme di Carabinieri e commissariati sparsi nel mondo televisivo (rigorosamente in replica) in cambio del maledetto 14 pollici, con l'antenna traballante a causa di sciami che volteggiavano intorno.

Tutto questo "stato di benessere" avrebbe avuto luogo in quella famosa casa di pescatori a due passi dal mare (così era scritto) ma che in effetti era lontana quindici chilometri dalla costa, in piena campagna e infestata dalla più grande migrazione entomologica mai avvenuta in natura!

I TG ci tortureranno con gli esodi biblici delle partenze e quelli apocalittici del rientro. Per far notizia e con estremo cinismo, ci racconteranno degli incidenti stilando le funebri classifiche causate dai coglioni che ancor oggi partono la mattina del 14 agosto. Ma dopo tutti gli incitamenti alle partenze intelligenti, francamente non sono proprio sicuro se questi siano davvero dei coglioni, perché quelli autentici te li ritrovi mentre viaggiano tutti assieme nelle notti "intelligenti" dal lunedì al venerdì, convinti di fregare tutti.

Finalmente, ogni anno si ridanno appuntamento dove finisce l'autostrada come se quel luogo fosse la sede di un club di disperati. Tutti lì assieme, ad asfissiarsi dentro le roventi lamiere pagate a cambiali per sette anni, sognando quel miraggio che hanno davanti che si estende e si accorcia come una fisarmonica lunga un paio di chilometri, ora vicino e poi lontano, prima cristallino e poi fioco e traballante, ora a portata di mano e all'improvviso irraggiungibile: il casello dell'ANAS.

E in quel deserto di asfalto nero, l'ombra dell'agognata tettoia con la scritta luminosa "contanti" è un'oasi in cui si brama la tanto desiderata visione celeste: non una mano divina, ma quella del casellante che ritira i soldi del pedaggio, quindi la.... libertà! Ah, casa dolce casa, arrivo!

Bentornati!

(Mimmo Rapisarda – sett 2011)

 

 

SUGLI AUTOBUS CITTADINI

A Catania c’è un modo molto divertente per passare il tempo libero. No, non parlo di noiosi Happy Hour (più noiosi dell’aggiornamento di Adobe), di cineforum degni del Prof. Caligaris o di giri in bicicletta in una città che, per sua conformazione “piroclastica”, non è per niente adatta al ciclismo. Si tratta dell’AMT: Azienda Municipale Trasporti, con sede in Catania. Con tutti gli sforzi che si fanno per eguagliare i colleghi europei, forse non dovrei scrivere questo. Ma qui siamo a Catania, siamo speciali. E il percorso, specie quello popolare, è uno sballo!

Quelli dell’AMT sono da anni in crisi cosmica, non sanno più che pesci pigliare e forse la penserebbero diversamente se sapessero che le loro vetture sono invece popolate da veraci attori che trasformano i loro sedili in tribune e i corridoi del mezzo in palcoscenico. Mancherebbe solo Musco a far da controllore ai clandestini e saremmo completi!

Pensandola in maniera più ingegnosa, il servizio potrebbe diventare fruttuoso. Che voglio dire? Che per passare un sano pomeriggio di autentica “cultura catanese” basta acquistare un biglietto di un’ora e mezza ad appena 1 euro (che vuoi di più, con un euro?), salire su certe, tipiche, linee che già al solo nome dei loro capolinea ti fanno intuire il favoloso tragitto – per niente bello, visto che attraversa triste, malfamata e abusiva periferia - e chi potrebbe salirci sopra per allietarlo e renderlo …. diciamo, più colorito!

Provateci, obliterate il ticket e mettetevi comodi su una sedia, se la trovate. Non fate caso ai loro ritardi mostruosi, da scriverci pure un romanzo durante le attese, o alle cose che non funzionano all’interno, oppure ai monitor che vedete davanti ai vostro occhi e che vi dicono “next stop: “…. puntini puntini. Volete il sollazzo a un euro? E allora allungate le antenne delle vostre orecchie e ascoltateli bene: sono i pensionati che tornano dalla Pescheria e che si lamentano dei prezzi alti e del Governo ladro; grandi saggi che si trasformano in grandi oratori sfoggiando arringhe interminabili contro Berlusconi, Monti, Bersani (dai, anche Lo Monaco!); e poi personaggi incredibili che raccontano a qualunque sconosciuto, senza nessuna vergogna, le loro disgrazie quotidiane; vecchie pazze (più di quelle di Trastevere) che non hanno più niente da chiedere alla dignità, niente da perdere negli ultimi chilometri della loro vita e quindi tanto da offrire in termini di lecite volgarità agli astanti; madri quindicenni già con due bimbi alle ginocchia, che sembrano suoi fratelli, intente a guardare l’ultimo messaggio FB o a rispondere all’ultima prenotazione del loro ambitissimo lavoro: ricostruttrice di unghie!

I più riservati sono sempre gli extracomunitari, sempre zitti in dignitoso contegno. Ma gli indigeni sono slavine di fatti personali, valanghe di storielle e fatti privati da regalare a chiunque ne sappia o voglia coglierne il valore!

Ma questo è niente. Basta allungare un po’ di più l’antenna per captare ancora di più: il menù dell’indomani, le scenate di gelosie, gli scontri con la suocera, le vendette col vicino sulle scale, le corna e i tradimenti, le cambiali andate in protesto, le promesse del candidato a Consigliere di quartiere (vedi che autorità!), i candidati a Sindaco di Catania ca su “unu cchiu latru di n’autru!”

Una ragazzina tredicenne in rigoroso abbigliamento alla Tatangelo racconta alla sorella del suo fidanzatino di un "pretendente" multimediale: “n’somma, mi visti accussi bedda e scrissi “mi piaci la voglio, la voglio conoscere”. Sempre rivolta alla ipotetica cognata: “U sai comu finiu? Ca sti rui s’ammazzanu e iu eru a bambula, ndo menzu!”. La cognata: C'è capaci ca ti voli?

Autentico teatro. L'autobus (specie quello catanese) è un palco. Osservando i suoi passeggeri riesci a immaginare le loro esistenze, dagli sguardi fantastichi le loro giornate allegre o dolorose che siano, addirittura riesci a captare il motivo per cui stanno rientrando a casa e .... cosa ci porteranno, o ci troveranno.

A volte guardo le loro buste della spesa e dal contenuto immagino già tanto, tantissimo.

Se poi cominciano a parlare (in questo caso) comincia il primo atto come in una commedia di Martoglio e alla fine occorrono pure gli applausi. E se li meritano!

Man mano che mi avvicino ai Capolinea, gli attori scendono dal bus, mentre vanno incontro alle loro vite disgraziate. Ma forse disgraziate le vediamo solo noi, fragili pessimisti del nuovo millennio, perché …. forse i nostri eroi sono felici lo stesso così, perché forse non capiamo come siano indistruttibili ed immuni alle più catastrofiche crisi economiche, insensibili alle più menegrame previsioni. Perché forse non immaginiamo che vivono alla giornata e il loro obiettivo pro-capite giornaliero è costituito da un etto. Di pasta, di qualsiasi taglio.

Forse (anzi, è certo) di tutto il resto non gliene frega nulla. Domani si vedrà, e dopodomani pure.

All’arrivo rimango solo io, col divertito autista, e rifaccio il percorso all’incontrario. Per arricchirmi ancora di più.

I requisiti del divertimento? Conoscere il dialetto e tanta, tanta, tanta curiosità di conoscere la vera Catania.

 M.R.

  

 

 

BOTTANA!

(da Facebook, ott 2019) Senza alcuna dedica sgrammaticata, senza Xerchè, 6comesei o altri vocaboli da parte di aspiranti Prèvert della strada, così ignoranti da far rizzare i capelli.

Invece così, amaramente e semplicemente “buttana”. Non sapremo mai se industriale, intellettuale, continentale, condominiale o totale, ma glielo doveva dire senza mezzi termini, incazzato, senza tamarri fronzoli attorno e soprattutto in “Marca Liotro style”, visto che da noi la P viene sostituita dalla B , alla Sig. Carunchio. Con quella B a Catania si addolcisce un po' il termine riferito al mestiere più antico del mondo, attribuendolo a tante altre cose che non hanno niente a che vedere con la P. L'elenco è infinito, secondo l'onta ricevuta sul momento.

Insomma, una parola (ma non si fa) spruzzata sul muro ….. cu tuttu u cori!

Solo qui in Sicilia e a Catania in particolare, siamo in grado di decifrare certi codici nascosti presenti in ogni commento, ogni parola, ogni espressione. Basta una virgola mancante o spostata più in là... che per noi cambia tutto il significato.

Per esempio, nella foto allegata è chiaro che il termine si avvicini molto a quello con la P. Lui si è grattato la fronte, ha scoperto la tresca e, incavolato, grida al mondo quel “Caty si (sei) buttana” spruzzato a caratteri cubitali. Vuole dire “sai, sei proprio una……

Al contrario, la singola parola “buttana”(o il cinematografico bottana) può essere usata sì per le corna, ma il più delle volte anche per tanti altri motivi, come per esempio esprimere il disprezzo nei confronti della vigilessa, la suocera, la nuora, addirittura una zanzara, la datrice di lavoro, la rivale, la padrona di casa, la compagna o una stronza che ti ha fatto proprio esasperare!

Per questo dico che la prima foto è un capolavoro, con quella piccola parola che contiene tutta la nostra ironia e il nostro modo di essere. La letteratura e il cinema insegnano.

A proposito della spiegazione del termine e senza scomodare il significato dedicato al mestiere più antico del mondo, ecco un altro esempio (ed occasione) per rivolgere quella parola anche ad oggetti.

Quando le mie auto hanno raggiunto 100.000 km, ho fatto puntualmente l’applauso e loro mi hanno sempre ricambiato con altri anni di vita e pochissimi pensieri. Al momento della rottamazione, nell’ultimo viaggio mi ci metto pure a parlare, ricordando assieme alla condannata di turno i tornanti, i sorpassi e tutte le soddisfazioni passate. All’ultimo chilometro, addirittura, le incoraggio quasi con le lacrime agli occhi “Dai, forza, non sentirai niente. Durerà pochissimo, non te ne accorgerai nemmeno” lasciandole in concessionaria con una carezza sul cofano.

L’ultima, invece, non è stata così generosa. A parte i numerosi problemi, mi ha voluto beffare lasciandomi a quel chilometraggio che si vede in foto. Come dire “caro mio, siccome devi soffrire fino alla fine, gli ultimi 11 metri te li fai a piedi”.

Ecco, in questo caso a Catania lo diciamo "cututtucori" : buttana!

 

 

A "CALATA" A MARE

A maggio arriva per i catanesi "l'ura 'ddo bbagnu", non possono farne a meno. Anzi, i più tradizionalisti iniziano la loro stagione balneare dopo la festa della Madonna del Carmine a luglio. Solo allora cominciano a fare i bagni perchè convinti che, per ragioni climatiche e religiose, la temperatura marina diventa accettabile solo a partire da quella data. Comunque, il catanese che va al mare è davvero particolare.

Per la mia età età, posso soltanto ricordare i flash che ho immortalato nella mia mente quando osservavo "il bagnante" degli anni Settanta-Ottanta, che era fatto così:

Esce da casa ben rasato (è domenica e la stagione venatoria è appena cominciata); è tutto "disinfettato e ustionato" con il dopobarba Denim sul viso, quello dell'uomo che non deve chiedere mai (ma che appena a mollo chiederebbe certamente una crema rinfrescante per le infiammazioni causate dal sale sulla pelle); ha le basette, i baffi e un'acconciatura alla Franco Gasparri con riga laterale vaporosa che qui chiamavano "menza scrima", oppure una capigliatura alla Cugini di Campagna che nel suo aspetto generale lo faceva sembrare come l'Orso Capo in vacanza.

Al primo bar che incontra consuma il primo caffè, perchè senza quello non connette;  poi dal tabaccaio compra le sue Marlboro e accende la prima della giornata. E si avvia.

Lasciamo stare l'abbigliamento settimanale - che era un tutto un programma - ma quello della domenica mattina era il seguente: polo La Coste (per i meno facoltosi Benetton ), pantaloncini bianchi sulla coscia Cerruti 1881; orologio Casio, che a quei tempi era già una sciccheria;  Ray Ban con vetri scuri che più scuri non si può, oppure Lozza sfumati sul celeste; borsello in pelle a tracolla (non c'erano ancora i marsupi).  E alla fine l'accessorio più importante, più in voga, più trend per quei tempi: gli zoccoli in legno del Dr. Scholls!

Erano due zatteroni incredibili in noce massiccio del peso di due chili ciascuno, col plantare sagomato da chissà quale operaio che per sbaglio li creò mentre stava lavorando al calco della pianta. Sono certo che il Sig. Pescura (ma esiste?), vedendoli, disse "Guarda, sembra proprio la pianta del piede, produciamole in massa facendo capire che sono anatomiche! Bravo!".

L'operaio fu promosso capo-reparto e quella fabbrichetta divenne quasi una piccola multinazionale producendo a milioni quegli strumenti di tortura, a danno dei nostri piedi. Tutti, ad ogni estate, come cretini compravamo quelle nuove, ma io aspettavo con ansia la fine dell'estate proprio per non calzarle più. Nate come sanitarie, provocavano delle vesciche pazzesche e crampi allucinanti ai polpacci perchè sollevarle da terra ad ogni passo,  prima una e poi l'altra, era come andare due ore in palestra. Se poi, per sbaglio, poggiavi il tallone sullo spigolo del contorno laterale erano cavoli! Ma la cosa più importante, che andava contro ogni raccomandazione sulla confezione, era sbatterle mentre si camminava. Specialmente in discesa su una strada di Catania che porta al mare e che si chiama Via Zoccolanti! (in verità, il nome della strada deriva dagli zoccoli che calzavano i monaci della vicina chiesa S. Maria della Guardia).

Sbatterle e consumarle significava: 1) renderle più leggere perchè non si dovevano sollevare coi piede e quindi camminare finalmente in modo comodo e sano; 2) far colpo sulle ragazze grazie a quel  tipico rumore, quasi da nacchere madrilene; 3) ottenere un punteruolo  di legno e quindi un'efficace arma da difesa; 4) un paio di Pescura consumate da dietro, con i pneumatici lisci, avevano molto più valore di un paio nuove perchè appartenevano a un veterano che si era fatto due gambe così per ridurle a quel modo. E poi dai, indossarle già vecchie, con la fibbia verdognola arrugginita dalla salsedine, la pelle screpolata, sporca e ammorbidita faceva molto, ma molto fico! Oggi fanno ridere, ma per un ventennio (per essere più precisi, dal 1960!) hanno fatto epoca. Quando finì la loro moda, in milioni hanno tirato un sospiro di sollievo!

Dunque, il nostro bagnante, con la sua capigliatura e il suo abbigliamento, col telo da mare Sergio Tacchini sotto l'ascella sinistra, con  il borsello sulla spalla, la sigaretta in bocca, scende finalmente al mare. Tutto è perfetto, ogni cosa è al suo posto, manca soltanto l'autoradio Voxon da mettere sotto il braccio, ma le cose si sarebbero complicate per i pochi appigli anatomici rimasti a disposizione. Facendo un rumore incredibile scende, scende a mare, anzi .... cala (a Catania non si scende e non si arriva:... si cala!). Cioè, così conciato e con quel ttac-ttac tutti capivano dove stava andando! Scusate, torna un attimo indietro perchè ha dimenticato di prendere il giornale: La Sicilia, legge solo quello! Quindi ritorna sui suoi passi (ahi!) ma dopo quella faticaccia è già sudato. Cosa c'è di meglio di una calda brioche all'uovo da inzuppare in una granita - rigorosamente di caffè con panna - seduto al tavolino?

E dopo averla consumata, sfogliare il quotidiano di città? Così si attarda e legge, esclusivamente: la pagina dello sport per informarsi sugli ultimi acquisti del Catania, la cronaca cittadina per informarsi sugli ultimi acquisti della Questura e, infine,  la pagina necrologica per  ripetere ogni venti secondi la parola "nuzzunteddu!" ! Saranno già le dodici!

Finalmente arriva allo stabilimento balneare, sulle rocce o sulla spiaggia non ha importanza. Si spoglia, rimane in costume che se non era Arena (o meglio ancora Speedo) non eri nessuno e ai piedi le infradito Samurai che facevano posto alle costosissime Pescura, perchè durante il bagno te le fregavano. In cabina, prima di fare la sfilata, si dà una controllata al suo aspetto: si guarda allo specchio, dà un assetto alla convergenza centrale per evitare che qualche pneumatico vada fuori strada, va un attimo in apnea per verificare il giro vita, accenna a piccoli movimenti di bicipiti e deltoiti. E poi dice "tanto non gli somiglierò mai!".  Ovviamente si riferiva al mito di quei tempi: Fabio Testi, irraggiungibile per tutti noi.

Esce fuori. E se non accompagnato, si guarda attorno con i suoi RayBan a goccia e col suo telo da bagno comincia  a cercare un posto dove sdraiare tutto il suo corredo e lui stesso. Si gira, si guarda attorno, ma con movimenti che la dicono tutta sul noto gallismo etneo, che lui si porta dentro il suo DNA. Infatti è lì anche per "attraccare", per "tirare il filo" alla preda che potrebbe passargli davanti. Le sue armi di cattura? Il mezzo litro di Denim che si è spruzzato addosso e che lo sta facendo bruciare peggio del Coppertone, la folta pelliccia sul petto,  la catenina sul collo, la sua abbronzatura naturale, un sorriso smagliante ma soprattutto la sua genialità, capace di fabbricare le più brillanti battute per far cadere chiunque ai suoi piedi!

A questa scenetta c'è da aggiungerci pure una buona dose di pavoneggiamento tipicamente locale, sia per gli status-symbol che porta addosso sia per i suoi movimenti e per quello che dice, un atteggiamento che dovunque, in gergo, si dice "tirarsela" ma che qui a Catania chiamiamo semplicemente e senza mezzi termini "spacchiamentu".

Se la "caccia" è andata  a vuoto, non resta ca "farisi 'u bbagnu", da solo o con gli amici. Si avvicina al mare con fare circospetto e prima di tuffarsi resta immobile sulla scaletta o sul bagnasciuga a fissare l'acqua, anche un quarto d'ora, fino a farsi ipnotizzare dai bagliori dei riflessi marini. Sì, lo ammetto, lo so, è sempre stato e sarà sempre un freddolino. O meglio, la sua temperatura corporea, per natura supera abbondantemente i 37 gradi e come "Don Giovanni in Sicilia"che fa la doccia fredda a Milano, per lui quell'impatto è traumatico. Però lo attrae. Ma che guarda, che pensa? Forse con la sua presenza l'acqua si è riscaldata? No, è sempre uguale. Saranno passati dieci minuti prima di prendere il coraggio di entrare nell'acqua frescolina. Si attarda ancora un po' con la scusa di prendere una fettina di cocco dal venditore "bellu è u coccu picchì è friscu!".

Ma l'acqua gelida è sempre lì che lo aspetta. La tocca con l'alluce, poi si tocca le spalle, lo stomaco. Già, lo stomaco... pensa alla granita che ha mangiato e che lo farà morire a causa di una congestione. Colto da pessimismo cosmico, il suo pensiero finale è "ma cu m'ha fici fari?". Poi accenna a tentativi di segni della croce, ma si vergogna a farlo perchè il suo orgoglio prevale sul perdono divino prima di "morire ....... annegato!". Ha troppi peccati sul groppone. Mischinu!

La fila dietro è interminabile, composta da tanti come lui che non osano chiedergli il passo per tuffarsi. Anzi, se lui con gentilezza dice "Passi avanti, che ho tempi un po' lunghi", questi rispondono prontamente "Ma s'immagini, per carità! Faccia, faccia pure con comodo" (e cu si movi?).

Proprio per il suo innato senso dell'onore, si decide finalmente ad entrare in acqua. Ma prima di immergersi formula l'immancabile, fatidica domanda al bagnante che rientra: "com'è l'acqua?". Le risposte sono, ancor oggi, due: se proviene da un suo concittadino normale è "Comu u turruni!", se il concittadino è liscio........ la risposta è, come sempre, "vagnata!".

(Mimmo Rapisarda, maggio 2006)

 

 

DISCUSSIONI DI INIZIO AUTUNNO FRA GIOVANI PROFESSORESSE CATANESI:

Ciao, ho visto la graduatoria, ma quest’anno non sei più alla Pascoli?

Non più, sono alla Deledda di Ramacca!

Oddio! Che brutta vita, ma non ti potevano avvicinare alla Quasimodo di Monte Po?

No, ho rifiutato. Li mi fregavano l’auto, l’ultima volta mi è costata ottocento euro di riscatto per riaverla, nuova nuova appena uscita dalla concessionaria. E poi mi guardano le gambe sotto i banchi, già nichi nichi su vastasi! Ho fatto anche la supplente alla Boccaccio di Zia Lisa per sostituire una collega in astensione obbligatoria per controlli postnatali. Era febbraio. Ho chiesto ai bambini “come si chiamano quelli che tirano il cordone di S.Agata?” La loro risposta (già cunnuteddi): Alfio, Concetto, Carmelo, Turiddu….

Comunque, siamo in quattro a Ramacca e ci vado perché per entrare in ruolo ho rinunciato ad anni di vacanze per frequentare i corsi abilitanti TFA, PAS, ecc. Ora non mollo nemmeno se mi spediscono alla Martoglio di Passopisciaro. Però se mi fanno incazzare fra Consigli di classe, Consigli d’Istituto e riunioni con i genitori, mi faccio ingravidare e mi metto in maternità, così mi rivedranno fra tre anni! Così faccio lavorare i supplenti e lo Stato pagherà il doppio per far insegnare l'Eneide.

E poi, te lo immagini, come faccio a lasciare i bambini a scuola? Sono quattro: 3 anni per ognuno ho raccolto 12 anni di gravidanze difficili, maternità, aspettativa, ecc. Peccato non arrivare, di questo passo, alla pensione. Bei tempi quando c’erano quelle Baby che quasi quasi ci potevi arrivare.

Quando saranno grandetti li iscriverò a una triennale qualsiasi a Catania; subito dopo a una tosta Magistrale al Nord, hau! vuoi mettere? u carusu si specializza co micciu! Dopu, quantu costa costa, n’bellu master accussi addiventa scinziatu e tonna n'luminari!.

Per ora mi fannu sulu scimuniri, i picciriddi. Li ho chiamati come nel Vangelo: Luca è alla Manzoni; Matteo all’Alighieri, Giovanni alla Leopardi e Marco alla Verga. Ma dove li lascio? L’inizio della scuola per molte donne è una liberazione, per me è una disgrazia.

Scusate se interrompo colleghe, mi hanno appena assegnata alla Cesare Battisti. Sapete dov’è?

Auguri collega, si trova fra via Cordai e Via S. Maria delle Salette, in piena zona residenziale di Catania fra aiuole all’inglese e bambini vestiti come ad Haward! Non ti peddiri!

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A parte gli scherzi, son sicuro che non sono tutte così (ci sono anche quelle che si fanno un mazzo e ne conosco) ma, girando girando, fra le tante sedi scolastiche intitolate a nomi illustri della letteratura italiana rimane solo la spaventosa ignoranza delle nuove generazioni. Vuote, sempre sole senza parlare con nessuno e con i volti illuminati dai cellulari; pronte a cercare su Google, di nascosto, il nome di colui che fu sconfitto a Waterloo. Ma non è colpa dei docenti, ma della società in cui vivono.

Nonostante ciò, auguro al corpo docente di questo Paese buon lavoro, sicuro che fra le tante, nuove, difficoltà, ce la farà anche quest'anno. Dovranno essere loro, ancora una volta, a tentare di forgiare la futura classe dirigente (sigh!) che un giorno dovrà curarci, amministrarci, difenderci.

L’ultima che ho sentito: Che ti ricorda Gabriele D’Annunzio?

Monserrato. E' quella strada che dopo il semaforo si chiama Via S. Nicolò al Borgo.

Mi arrendo.

 M.R.

 

 

 

 U “SCIDDICU”

 Con mio cugino ogni tanto andiamo a pescare (praticamente il nulla) nel golfo di Ognina. Soprattutto a traina, tecnica con la quale non siamo mai riusciti a far abboccare nemmeno un riccio Monaco.

Tuttavia non ci arrendiamo e, come tanti altri disperati, ogni domenica ci attrezziamo di buon mattino facendo la nostra prima sosta a Piazza Santa Maria della Guardia, per acquistare l'esca dalla Sig,ra Olga.

Con l’esca dal valore superiore al bottino finale, ci avviamo dove abbiamo "ottenuto", con fatica, un posto-barca presso u "Sciddicu" (lo scivolo) che, in sostanza, è ciò che rimane dell’antico “scaru nicu” (scalo piccolo) di Ognina, piccolissima darsena naturale a ridosso della piazza Mancini Battaglia, fra le papere che si rinfrescano marcate a vista da gatti pronti a cogliere al volo ogni loro passo falso.

Le acque antistanti sono ricche di Posidonia, pianta marina del Mediterraneo , polmone naturale del mare e autentica prateria sabbiosa regno di «mazzuni 'i rina»  e di «taccuni».

Una volta scalo di pescatori professionisti, oggi l’attività do “Sciddicu” è limitata al dolce approdo dei natanti da diporto.

Ma perché proprio lì? Infatti, nel litorale Catanese esistono porti più convenienti e organizzati, in cui devi solo scendere dall'auto, accendere il motore e salpare e mi riferisco ai porti privati Rossi, Riposto, Acitrezza, Brucoli, Porto di Catania, ecc.. Va bene, però non siamo allo Scivolo di Ognina dove, oltre al fatto di essere dentro la città, è tutta un’altra cosa.

Qui si fa a gara per …. soffrire. Dicono che certe donne siano affascinate dagli uomini stronzi e qui è esattamente così: si paga (se ti è consentito), alla fine della giornata non becchi nemmeno una sarda disperata e alla fine te ne torni a casa pure contento.

Vi chiedete se siamo pazzi? No. Lo può capire solo chi è nato o ha vissuto da queste parti. Sarà la mentalità della gente del luogo oppure prendere un caffè seduto su una panchina sotto i pini marittimi della piazza a contemplare quelle nuvole spruzzate a levante da panna rosa e celeste, che sembra il reparto Maternità del cielo. Tutto ciò fa bene alla salute, con una tabella anti-stress particolare: audio sulle storie di pescatori del luogo; immersione nei loro occhi increspati di lische e salsedine; visione di pomeriggi autunnali con una gamma multicolore che nessun pittore riuscirebbe mai a riprodurre.

Ma andiamo a vedere perché siamo anche così masochisti.

Prima di tutto l'organizzazione del famigerato "Yacting Club". Farebbe diventare verdi (e magari ne sarebbe felice) i capelli di un iper-efficiente “Lumbard” proprietario di un'imbarcazione ormeggiata al Lago di Garda. Loro sono in tre: l'anziano gestore Garozzo, uno degli ultimi mastri d'ascia catanesi,  il figlio e un aiutante.

Altrove si partirebbe in qualsiasi orario, ma qui allo Scivolo non lo saprai mai: è un optional. Se decidi per le sette del mattino, la previsione della partenza si estende in un arco di tempo che va dalle 6.45 alle 7.45. Prendere o lasciare! Un esempio? Se alle otto non li svegli a cannonate, anche con un forte caffè di Balsamo, non riescono assolutamente a connettere.... figuriamoci a muovere un dito.

Dopo un abbondante quarto d'ora in cui si sentono soltanto i nostri ripetuti sospiri di sollievo e le loro pessimistiche previsioni pronunciate a mezza voce (spiramu ca…. mah, oggi chiovi, ….bah.. chi avi stu muturi? …cu sapi ssi patti? …. ma a cima unni iè? ….. ca u Signuruzzi a mannassi bona, ecc. ecc. ecc), cominciano ad armeggiare su un carrello elevatore il cui peso netto è tragicamente inferiore a quello di tutta la ruggine che si porta addosso e che poggia (quando i freni funzionano) su una grande piattaforma ricoperta di melma e di quintali di alghe mai rimosse che hanno visto, loro sì, Ulisse.

Che divertimento il districarsi fino all'ormeggio in un girotondo fatto di secoli di ami, piombi, lenze! Alla fine della corsa, tonnellate di nafta oleosa intrisa in ogni falanga sotto le barche, lasciate lì da generazioni di pescatori e pronte a farti scivolare direttamente in acqua (anche per questo si chiama Scivolo?). Un luogo perfetto per disputarci l’indimenticabile "Giochi senza frontiere"

E adesso comincia il bello. Con noi sono stati sempre squisiti, disponibili e gentilissimi ma fra di loro cominciano ad imbeccarsi, a cominciare dal Capo che riprende gli altri due su come avvolgere le cime sotto la chiglia o come agganciare i grandi moschettoni sulla prua e sulla poppa. A vederli si potrebbe pensare "ma perché li sgrida così? forse saranno novelli e proprio oggi li sta istruendo?". No, no… lavorano con lui da una vita; il fatto è che, sistematicamente, lo spettacolo viene replicato e non è mai lo stesso, perché le quinte cambiano e i teloni si aprono diversamente ogni mattina.

Questi signori calano in acqua decine e decine di barche al giorno, ma ogni volta è sempre un'esperienza nuova, assolutamente diversa da quella dell'ultima volta. Cioè, se in un pontile di Portofino questa manovra sarebbe di una noia da far sbadigliare anche i pesci, qui diventa una sorta di avventura alla Indiana Jones. Insomma, è teatro. Teatro nostro!

A guardarla bene, la nostra barca sospesa in aria sembrerebbe proprio al sicuro. Noi la vediamo oscillare e saremmo pure tranquilli, considerata la consumata esperienza del personale del cantiere navale, peraltro certificata da centinaia e centinaia di approdi e partenze. Cosa potrebbe mai accadere? Niente!

E invece non è così, si rischia grosso! La fine della nostra tortura arriva dopo le spericolate manovre al cardiopalma con quella prua penzolante che sfiora altre imbarcazioni, paranchi, gru, pali della luce e diportisti di passaggio che gridano al miracolo per la scampata tragedia! Il natante viene finalmente poggiato a mare, continuando a dondolare paurosamente fra bestemmie, cazziatoni e i nostri cuori che palpitano a mille per l'ansia e la tensione accumulata.

Ma loro, gli addetti, sono ansiosi? Per niente! Continuano ad azzannarsi sui loro errori di valutazione come collegiali davanti ai rimproveri di un educatore e, soprattutto, come se quello fosse stato il primo varo della loro vita!

Qual è il colmo? Che in verità, in decenni di lavoro non hanno mai danneggiato nessun natante …. però se non fanno così non si divertono. Poveretti, sono catanesi, c'è da capirli. Come potrebbero passare una giornata intera in mezzo a vari schifosamente perfetti, con banalissime partenze e senza alcun imprevisto? E dove siamo, a Bellagio? Che piacere c’è?

Prima di partire c'è sempre la rete di un decennio fa che rimane impigliata fra le eliche. Con fatica riescono a toglierla e ci allontaniamo, già stanchi ma divertiti. Loro ci guardano, e sotto i baffi sorridono. Ci domandiamo se lo facciano apposta e se, in fondo, ci prendano per il culo.

Quando sul contagiri solleviamo a nord la lancetta, siamo già fuori dal porto e prendiamo il largo, scoprendo qual è l'altro motivo per cui si fa a gara per trovare un posto barca a Ognina. Col sole ad Est e il vento in faccia incrociamo i primi pescherecci che ritornano dalla pesca, accompagnati da balletti di affamati gabbiani il cui gracchiare si avverte a centinaia di metri, e che danzano su quel succulento sufflè a forma di stiva.

Più che il mare, lo spettacolo è quel che abbiamo davanti. Siamo già al lungomare, dedicato a due valorosi ammiragli aragonesi: Ruggero di Lauria e Artale Alagona, protagonisti di grandi battaglie durante la guerra del Vespro, fra le quali la più famosa è il cosiddetto "Scacco di Ognina". Vedere questa arteria dal mare è cosa ben diversa dal passeggiarci sopra. Da sopra nessuno potrà mai sapere quante e quali grotte esistono nella parte sottostante. La scogliera è nera, lucida, dura, irta, spigolosa e spumeggiante.

Alle nostre spalle, l'Etna comincia ad illuminarsi e a truccarsi. A quell'ora è ancora di colore rosa e improvvisamente ci presenta la sua stazza compresi vene, muscoli e nervature in tutto il loro splendore. Ragazzi, sono qui, dietro di voi: ci voltiamo e lei si staglia superba, immensa, dominante una città distesa sul mare e all'indietro allungata fino alle colline di San Gregorio, a terrazza. Dietro di esse il vulcano è in lontananza, enorme, e che proprio per questi avvallamenti e distanze offre una particolare sensazione ottica. Cioè, sembra che la visione di tutto l'insieme (montagna, colline e città) appaia in tre dimensioni. Uno spettacolo unico. Ecco perché sul lungomare, al mattino troviamo lussuosi yacht nella rada del golfo. Certamente uno sballo deve essere gettare l’ancora di notte, magari vedere il vulcano in eruzione; poi l’indomani a far colazione a bordo, davanti alla sua imponenza. Vengono apposta da ogni dove per provare questa sensazionee, e noi nemmeno ce ne accorgiamo.

Dal porto ci avviciniamo alla zona "Scogliera": u Unnazzu, u Monucu fra un branco di alici che cercano disperatamente di sfuggire ai tonni. Tentano di saltare in superficie, ma i voraci gabbiani sono già pronti a far loro la festa. Nessuna speranza, da sopra o da sotto sono già condannate.

Se perfino gli animali pescano in abbondanza, per noi non c'è niente: solo un polipo distratto che per sua disgrazia si è impigliato nei nostri ami, poi i soliti nsuragghi, le vope, i buddaci e niente più, nemmeno per farci un brodo. Fra la passerella delle grotte sotto Via Villini a Mare, passiamo davanti 'o Carabbineri" (zona chiamata così perché in passato esisteva una trattoria sulla cui insegna qualcuno aveva dipinto un carabiniere) per vedere se almeno qualche saraghetto depresso avesse mai deciso di farla finita!

Quando, alla fine, torniamo col magro bottino alla base siamo felici come se a bordo ci fosse una grossa cernia appena pescata. Noi ne siamo davvero convinti, noi la vediamo davvero perchè stregati dalle sirene e dai tritoni del golfo di Ognina.

Da sempre considerata la leggendaria scogliera su cui l'Odisseo approdò sospinto dal dio Eolo, io la chiamo la "vasca da bagno degli Dei", perché la immagino come la maga Circe che, trasformatasi in scogliera, ammalia chiunque passi dalle sue parti al punto di non fargli capire di stare a baciare le sue onde anzichè lei, fino a farlo annegare.

 Mimmo Rapisarda, set 2011.

 

 

IN SALA D'ATTESA, AL PATRONATO

Mi reco al Patronato del sindacato per la consueta consegna dei CUD, delle spese mediche e di altro, ai fini della presentazione dell’annuale 730 .

Noto che c’è più gente dell’anno scorso, chiedo chi è l’ultimo e mi accomodo in attesa del mio turno.

Accanto a me ascolto dal vivo le voci di questa più cocente crisi, voci di gente che lavorava nelle industrie elettroniche della Etna Valley o nella zona industriale di quella città che una volta fu soprannominata la Milano del Sud per il suo sviluppo o voci di ex dipendenti un tempo in servizio presso lo splendore commerciale di piccole, splendenti, storiche botteghe che in fasti migliori di adesso determinarono la ricchezza catanese ma che oggi si sono viste sopraffare da sporadici negozi di telefonia o da loschi parchi commerciali che servono solo a giustificare il riciclaggio di denaro sporco da depositare, sotto forma di cemento, sulle campagne della provincia.

In sala d’attesa, prima di me, avanza un uomo che chiede disperatamente al commercialista per quale motivo debba rinunciare all’indennità di disoccupazione dopo decenni di onesto lavoro, soprattutto dopo aver letto sul giornale che sono stati sequestrati 49 milioni di euro a Formigoni. Chiede spiegazioni, di fronte a braccia onestamente allargate!

Subito dopo una donna, arrivata per ultima, ci chiede una cortesia: “devo consegnare solo due fogli, lor signori permettono?” Tre quarti d’ora! Ma questa è una particolare sindrome dei miei concittadini: devono fregare quello che hanno davanti a loro a tutti i costi; hanno sempre una fretta maledetta e maleducata, anche se dopo non hanno assolutamente niente da fare! L’importante è sorpassare la fila e togliersi dallo stomaco l’incombenza della commissione, al più presto. Non ne ho mai capito il motivo.

Dopo la furbastra è il turno di una famigliola composta da padre, madre e bambino terribile, che chiedeva lumi sulla mancata assegnazione della casa popolare. Sempre più dispiaciuto, ascolto il capofamiglia il quale si sente dire che per ottenere gli eventuali benefici occorreva dichiararsi disoccupato da 36 mesi (lui lo era da 34). Come sopravvivere nella serie A: 34 non bastano per salvarsi dalla serie B, ma 36 sì. Quasi piangendo lo dice alla moglie, occupata a tenere a bada lo scatenato figlioletto, e gridando le chiede pure come mai da questo mese debbano dare 80 euro ciascuno a chi lavora, e nemmeno un centesimo a chi non lavora più e che è costretto a dormire a casa dei suoceri. Come mai?

Vedevo la faccia del commercialista derelitta, arresa e incapace di rispondere alle domande di quei poveretti. L’avrei abbracciato per come (e si vedeva!) sarebbe stato disposto a rimetterci di tasca sua pur di offrire almeno una pizza serale a qualcuno.

Purtroppo vedevo anche la moglie del disoccupato, seduta accanto a me, che volgeva i suoi occhi sulla mia carpetta dove c’era scritto “Redditi 2013”. La guardava come una cosa appartenente a una mosca bianca.

A quel punto mi sono vergognato e ho capovolto la carpetta. Con una gran voglia di chiederle scusa.

M.R.  

 

CANI "MARCA LIOTRU"

Il cane, risaputo, è fra le razze più intelligenti del mondo animale. A loro abbiamo visto fare di tutto: salvare piccoli e grandi padroni, accompagnare i non vedenti. A loro abbiamo insegnato a fare capitomboli, capriole, comportarsi come pagliacci, chiedere denaro sulle strade, …. addirittura a fare qualcosa dietro un comando in qualsiasi lingua. Faccio un esempio sulla frase “seduto”: sitting in Inghilterra, seance in Francia; sitzend in Germania; sentado in Spagna. Fin qui ci arriva, poveretto. Lui obbedisce sempre, anche ricorrendo al vocabolario. Il problema nasce se vive a Catania, con un padrone catanese.

Oggi pomeriggio notavo un bel cagnolone col suo padrone, anziano, in Piazza Mancini Battaglia a Catania. L’animale aveva appena fatto il bagno nella spiaggetta di Ognina e, ancora bagnaticcio, si accovacciava sotto le gambe del padrone in attesa di ritornare a casa dopo la rinfrescante passeggiata.

Il padrone, allora, gli dà un comando: “scutòliti!”. Il cane, ovviamente, non risponde.

Guardandoli, ho pensato: “come potrà mai capire? Già è tanto che deve captare certi segnali audio in lingua nazionale da parte di chi lo porta a spasso, ma...... in dialetto?"

Ma il padrone continua: “Ahu, t’hai rittu scutòliti! Ca m’alloddi a machina!”.

A quel punto, vedo il cane che si dà l’ultima scrollatina degna di un autolavaggio a spazzola, fa quattro salti attorno al padrone e salta in auto.

Mi chiedo: che l’animale sia in grado di navigare in internet e conosca il mio sito?

Conosceva il dialetto! Addirittura un termine difficilissimo da spiegare e tradurre.

M.R.

 

 

ALL'UFFICIO POSTALE

Multa Sostare, chi non l’ha mai trovata?

Che meritavo in quanto parcheggiato in orario notturno in centro storico. Quello che non mi meritavo erano i 10 euro di sovrapprezzo che, senza nessun motivo, ho dovuto saldare sul c/c di Sostare. Un pizzo urbano.

Per il pagamento, di bonifico non se ne parlava perché, dal verbale rilasciato sul parabrezza lungo 80 cm. (da Guinness!) , viene indicato nei primi venti centimetri un IBAN e nel rimanente “mezzo metro” un altro IBAN!!!! Come fidarsi di una partecipata municipale in odor di smantellamento, dopo le sirene di dissesto al Comune di Catania? Quindi due bollettini da pagare alla posta. E va bene, facciamo questo sacrificio.

Parcheggio di fronte a un ufficio postale operativo nel pomeriggio; attivo il mio Neos Park che, con i nuovi aggiornamenti,  è più facile attivare i codici di testate nucleari (sono arrivato a 6 ENTER per dirgli “Tariffa Catania attiva”, con tanto di 110 e lode e bacio in fronte in “Scienze e tecnologie applicate in soste metropolitane”) e mi avvio all’entrata.

Per l’aria condizionata non c’è che dire: eccellente! Vedo solo 3 utenti e altrettanti dipendenti, ma sono uscito dopo un’ora! Perché?

Spezzo una lancia a favore degli impiegati che, per quei pochi che sono rimasti, fanno il possibile per mandare avanti la baracca. Ma gli utenti? Peggio di Scapece in Benvenuti al Sud!

Davanti a me, in attesa, che dopo mezz’ora stavo già boccheggiando di fronte a quei larghi monitor di Poste Italiane che ti fanno vedere effimeri paradisi gialli e blu, c’erano soltanto tre utenti:

1) La prima era un’anziana signora che usava lo sportello come il confessionale parrocchiale, confidando all’impiegato i lamenti di casa, della nuora che non sopporta, ai dolori alla schiena per via dell’artrosi e addirittura  fino alle prestazioni coniugali del marito. Non sono sicuro se sia entrata prima di noi con un biglietto regalatole da chi era appena uscito (abitudine abbastanza in voga in un paese civile come il nostro);

2) Il secondo era il parente di un altro utente che mi era accanto in attesa, mentre diceva peste e corna e che cercava spiegazioni su certe incomprensibili operazioni bancarie sul proprio conto corrente. I correntisti di Poste Italiane sono i personaggi più temuti: se aprono il libretto di risparmio e sei alle loro spalle, è finita!

3) Il terzo era il più terribile. Io avevo il n. A216, lui il n. A215. Entrambi dovevamo pagare bollettini e, visto il suo A ministeriale , mi sono giustamente seduto dietro. Dopo 20 minuti, mi accorgo che davanti avevo uno straniero confuso, credo albanese, che aveva premuto il tasto di prenotazione sbagliato e stava cercando di spiegare all’impiegato che voleva inviare a casa del denaro: 40 minuti per questa operazione!!!!

Era in canottiera e alle spalle aveva un grande tatuaggio a colori raffigurante un paesaggio orientale. Io indossavo degli occhiali da sole polarizzati, il che significa che in condizioni di  riflesso si riduce il riverbero rendendo una migliore percezione dei contrasti e una visione nitida con colori  naturali. Significava pure che, nell’attesa, in quel tatuaggio che fluttuava e che sembrava un quartiere cinese in movimento nel mercato di Shanghai, ero ormai diventato padrone dei viottoli, dei ruscelli e dei numeri civici nelle pagode presenti. Addirittura ci vedevo dentro delle geishe che con infiniti inchini e una tazzuola di vino báijiǔ, mi pregavano di consegnar loro i bollettini che avrebbero fatto pagare dal Direttore di filiale in persona, e senza mora!

Mi stavo addormentando a Pechino quando fui svegliato dal campanello che annunciava il numero A216!

Ecco finalmente il mio turno. Pago ed esco fuori, mi accomodo in auto e mi accorgo che sul parabrezza c’era un altro verbale della Sostare: 31 luglio, ore 16.30, col Neos Park attivo!

No, non è possibile, questo è uno sfregio. Stavo per incazzarmi in strada come Steve Martin quando non trovò l’auto noleggiata all’aeroporto di Chicago nel film “Un biglietto in due”, ma mi sono calmato solo alla lettura del verbale, sempre lungo 80 cm: c’era un’altra targa. Non era la mia.

Un mio concittadino, fregandosene e senza farsi mille problemi, l’aveva poggiato sul mio tergicristalli. A  ricordo, e con tanti “sticazzi” alla suddetta Società.

L’avrei abbracciato!

M.R.

 

LA VERA AMICIZIA ALLA FERMATA DEL BUS

Stamattina ho incontrato un amico all'ultimo giorno di vacanza a Catania. Non lo vedevo da tanto tempo perchè vive oltre stretto e a volte anche all’estero. Ha appena fatto il suo pieno “Marca Liotru”, quello standard: arancini, granita, cannoli, mascolini alla pescheria ecc. ed era in procinto di salire sul bus 830, appena arrivato, che stava aspettando da quasi un’ora (1) e che lo avrebbe portato dai parenti che lo ospitavano.

E’ alla fermata, mi vede, mi chiama, poi si gira e guarda l'agognato bus fermarsi. Mi abbraccia velocemente, guarda le bussole che si aprono. E’ felice di vederle finalmente aperte e, al contempo, di dirmi “Mimmuzzo, come stai?”.

Gli dico “dai, bene, prendilo che lo perdi, ci sarà una prossima volta!” Alla fine, come una liberazione, mi dice “Ma chi se ne frega? Prendo il prossimo (2)! Tu meriti di essere salutato come si deve!”

Ditemi se questa non è vera amicizia!

(1) particolare che fa parte del suo pieno, altrimenti eravamo a Stoccolma.

(2) l'ho poi accompagnato in auto. non sa cosa l’avrebbe aspettato, mi avrebbe maledetto!

M.R.

 

 

GELATO AL GUSTO CARPE DIEM

Ieri sera, lungomare di Catania, piazza Tricolore.

lui mammoriano doc, capigliatura con ciuffo gigante, shirt D&G appena acquistata alle bancarelle e così tatuato da sembrare un antico vaso della dinastia Ming ambulante. E' incazzato, gamba destra poggiata sulla ringhiera e un cono gelato in mano proteso verso la sua amata che gli sta accanto alla sua sinistra, immobile come una statua di fronte al tramonto.

Lei, altrettanto mammoriana doc, circa 90 kg. di beata giovinezza; maglietta rosa fragola a fior di pelle e jeans slim che, poveretta, le fanno traboccare all'altezza del ventre tanta spensierata ciccia all'aria. Tralascio il resto del corredo.

La ragazza aveva appena litigato per un messaggio osè sul cellulare del ragazzo ma quella leccornia del "perdono" nel frattempo la tentava. Era a soli dieci centimetri, ma non osava toccarla per orgoglio. Guarda l'orizzonte con gli occhi rossi facendogli capire che non molla, che stavolta la deve pagare, che non serve offrirle qualcosa per rimediare.

A questo punto il ragazzo, con tanta boria: "Nenci talìa, u viri stu gilatu? Tu u sai ca ..... supra a vita di me niputi non c'iaiu giuratu mai! Talia ca u iettu n'terra!"

Ma lei deve, deve farcela. La gola non può sopraffare il suo orgoglio. Un'altra donna glielo avrebbe gettato in faccia ma al contempo riflette: "perchè sprecare tanto ben di Dio?". Proprio per questo tentenna e resiste, resiste ancora a quella tentazione.

Il suo boyfriend ritorna sui suoi passi: "Nenci... già sugnu n'cazzato ca non n'sittai i pattiti. Supra all'ammuzza do nannu!..... a cuppa jè di stu cellulari ca s'invintau i messaggi di Màico, Gresi, Giennifer, Gessica ca liggisti antura, ma cu su chissi?” "Nenci, mammoririmoomà (*) ... u staiu ittannu!!!. Ma non lo fa, nonostante fossimo al lungomare catanese (normale abitudine). Glielo porge in mano e scappa via bestemmiando.

Lei rimane impassibile con quel cono in mano, non cede. Guarda sempre il mare mentre quella delizia ancora intatta viene a malapena sorretta dalle sue dita cicciottelle, con unghie dai colori sgargianti e perlinate come un albero di Natale a San Gregorio Armeno.

Quando lui è già arrivato a Piazza Nettuno, la prima lacrima scende sulle rubiconde guanciotte della ragazza, asciugata goffamente dalla sua mano sinistra che, per miracolo, sfiora un po' di panna trascinata sulla bocca. In preda all'orgoglio, sta per gettare tutto sulla scogliera di fronte (e dalle!) ma poi si ferma.... "mi, che bona sta panna!" e dà quindi un primo assaggio. "Sulu chissu e poi basta! Ma picchi chiddu mi l'ha fari fari vilenu?"

La seconda lacrima non scenderà più. Il secondo assaggio arriva presto e, piano piano, sempre più voluttuosamente, davanti a quel bellissimo tramonto si gusta il gelato più buono della sua vita senza rimpianti e collere. Quel che doveva essere una dimostrazione di dignità si trasforma improvvisamente in uno sfogo di egoistica ingordigia.

Mi è piaciuto osservarla mentre consumava con godimento quell'ambito premio al gusto Carpe diem, con assoluta calma e cercando di non far scivolare giù nemmeno una goccia, quasi a non sciupare ogni attimo di quel momento tutto suo, lasciando fuori dalla porta ogni rimorso sentimentale o dietetico, entrambi rimandati all'indomani.

Quando l'ho incrociata al ritorno, era abbracciata a lui. Tosta, con appuntata sul petto una spanna di rispetto in più conquistata sul campo e un paio di etti da smaltire, ma soprattutto felice di aver saputo cogliere quell'attimo che stava per scappare via.

Ciao, bella Nancy, ieri hai capito tutto. Mi raccomando, qualsiasi cosa accada nella tua vita... futtitinni e non ti peddiri nenti, picchi ogni lassata è pessa!

(*) origine del termine “Mammoriano”.

M.R.

 

 

RICORDI DI VITA

 

 

C'ERA UNA VOLTA IL MIRAMARE

C'era, c'era.... eccome se c'era.

Fra qualche anno diremo così anche per questo altro pezzo di "quella" Catania che se ne va. C'era una volta, come c'era una volta il Diana, il Roma, l'Archimede e tanti altri. Demoliti da poco nobili interessi che niente hanno a che vedere col cuore degli ultimi nostalgici, come me. Dico questo perchè, forse, non riusciamo ad accorgerci che nella vita tutto fa parte di un ciclo e il ricambio naturale delle cose che perdiamo è una cosa normale. Però, a volte ci arrabbiamo per come accade questo ricambio.

Sfido qualsiasi catanese al di sopra dei Quaranta a dirmi che non c'è mai stato. Parlo di almeno una serata alla mitica arena Miramare, a Guardia Ognina.

Architettonicamente era spartana, mediocre, direi scadente, addirittura fetiscente. Più che un cinema sembrava una masseria. Ma era decisamente il posto, in cui un inconsapevole genio dell'urbanistica pensò di collocarla, che la rendeva strategica. Un posto fantastico, quando ancora i suoi metri quadrati non valevano l'oro di oggi!

Situata sul cono della collinetta che si affaccia sulla baia di San Giovanni Li Cuti, era incastonata su di essa come un gioiello, visibile anche dal lungomare. L'ingresso si trovava su Via Messina; si pagava alla cassa che sembrava un confessionale in versione balneare e poi si entrava attraversando una stradina in discesa verso la grande fossa naturale nella quale era stava ricavata l'arena, al fresco.

All'entrata era già uno spettacolo perchè vedevi subito l'orizzonte del mare di fronte, che prima del film offriva straordinari Trailers colorati di azzurro celeste, rosa, indaco, violetto. Già questa sensazione ti rilassava e ti faceva stare subito bene, aggiungiamoci l'improvvisa frescura, gli odori, il canto dei grilli in amore e il gioco era fatto. Quel viottolo, tempestato di colorate piante di fichidindia, pergolati di vite canadese e cascate di glicine, ciclamini e gelsomini, costeggiava sulla sua sinistra un orto i cui profumi ti ricordavano perfettamente in quale luogo del Mediterraneo ti trovavi, qualora l'avessi scordato per un attimo.

Quante generazioni di catanesi sono passate da quel cancello! Intere famiglie, ragazzi, studenti, gente sola o accompagnata, "picciriddi cunnuteddi" che durante le proiezioni le prendevano di santa ragione, fidanzatini con genitori a carico che li sorvegliavano alla distanza di un metro, signore in gravidanza che si riparavano dal caldo di casa, tutte ci sono passate.

Anche intere comitive che erano lì per ben altri scopi: fare farsa! Con gli amici, qualche sera, d'estate si andava al Miramare.

Già forniti di panini con parmigiana o caponatina, stavamo seduti a tre a tre in due file. Durante la visione si sgranocchiava di tutto e si bevevano le bibite gelate. E' chiaro che il film non lo vedeva nessuno perchè il tempo scorreva mangiando, parlando, sparlando, scherzando, ridendo, raccontando, incantandoci su spalle fin troppo abbronzate e incrociando occhi ammalianti che davano appuntamenti a quelli nostri durante le luci dell'intervallo.

Un altro passatempo: scommettere sui gechi poggiati sullo schermo, sceglierne uno e vedere quanto tempo impiegava per arrivare sul cappellone di Paul Newman. Il padrone della "zazzamita" che arrivava al traguardo aveva diritto a una birra gelata.

Quando si esagerava, arrivava puntuale "shhh!!! Salenzio!".

Una sera stavano proiettando il film "Amore per sempre" con Mel Gibson. Nel 1939 il pilota Daniel McCormick è al colmo della felicità; gli manca solo l'ardire di chiedere in moglie la donna che ama. Improvvisamente lei rimane vittima di un incidente e precipita in coma. Ormai distrutto, Daniel si presta come cavia per un progetto scientifico: per più di mezzo secolo resterà ibernato con la speranza di rivederla. L'uomo verrà "resuscitato" cinquant'anni dopo da un intraprendente ragazzino.

Con l’aspetto di un ventenne, in un mondo a lui sconosciuto scoprirà che miracolosamente Hellen uscì dal coma e che si era risposata dopo averlo cercato disperatamente ovunque.

Dopo mezzo secolo Daniel la troverà, vedova e nonna settantenne, in quella scogliera degna di “Cime tempestose” dove anche lui invecchia velocemente per il fallimento dell’esperimento.

Sono finalmente uno di fronte all’altra, si guardano negli occhi per ridarsi quello stesso e ultimo bacio davanti al faro, prima dell’incidente, per poi riprendere il loro normale cammino che un destino crudele volle interrompere.

Ma prima di farlo, lui la guarda a lungo e, accarezzandola, le chiede: “Hellen, cara….. perché mi guardi così? Cosa vorresti dirmi? Dimmelo, dai!”.

Lei lo guarda fisso negli occhi per altrettanti interminabili minuti senza rispondergli quando dalle file posteriori (le più lisce) di una leggendaria arena di Catania, nel silenzio stellato della calda estate del 1992, arrivò la bruciante risposta di Hellen che fece ballare tutte le sedie in ferro per le risate: “strunzu, unni a statu?”

Risata generale, come sempre, come ogni sera in quel posto magico. Sbaglio, o ci trovate qualche assonanza con le scene di un famoso film di Tornatore?

Ma poi, dopo tutto, chi se le li vedeva i film con l'altra pellicola che avevamo alla nostra destra? La luna che guardava a scrocco mentre luccicava e abbagliava un mare che faceva altrettanto; qualche nave passava con tutte le luci accese, la brezza marina che per invidia saliva anch'essa fino a noi per stordirci. Ma noi, che eravamo già ubriachi di forti odori di menta, basilico, zagara dei giardini vicini; noi, con la giacchettina di cotone sulle spalle e lucidi di spray antizanzare; noi, seduti su quelle scomode sedie in ferro verniciate di verde e di ruggine; noi, sepolti da scorze di noccioline, abbiamo sempre saputo di questi regali che la Natura ci ha fatto e per decenni abbiamo sempre detto Grazie! Abbiamo respirato, annusato e goduto di tutti i frutti offerti dall'Arena Miramare. Ma avremmo pagato anche il doppio del biglietto per stare lì.

Almeno una volta nella sua vita, ogni catanese ha oltrepassato quel cancelletto per vedere Maciste, Totò o Tom Cruise. Chi per rilassarsi, chi per abbordare, chi per sfiorare, chi per la soddisfazione di alzarsi gonfio come un palloncino per vie delle gazzose consumate. Chi, infine, per trovare il coraggio di dirle "ti amo" con la complicità del posto.

Alla fine, sollevati a dieci centimetri da terra, risalivamo quella stradina con tre etti in più e qualche atmosfera di troppo nello stomaco. Uscivamo sulla strada, avvertendo subito il caldo e il repentino cambio di temperatura: da 20 a 36-37 gradi!. Via le giacchette di cotone.

Le strade di Guardia e Picanello, a quell'ora sono ancora vivaci, sveglie. In quei quartieri soffocati dal caldo umido e dall'afa catanese in agosto, si sentivano le nostre voci: chi sfotteva a destra e chi a sinistra. Le nostre risate sguaiate per chi, ancora impressionato dal film, imitava Franco Nero o per chi, ancora impaurito da L'Esorcista, si faceva accompagnare a casa.

Il rumore delle nostre ciabatte ci trascinava per le strade eternamente bucherellate di Picanello mentre folate di vento caldo sollevavano dai marciapiedi quintali di scontrini fiscali (autentici e fasulli) e offerte imperdibili nei supermercati. Guardando in alto, piccoli bagliori rossi si ravvivavano ad intermittenza, al buio di precari balconi; oppure scivolavano in basso al pianoterra a forma di serpenti fumosi sedendosi sulle sedie di legno e paglia, sul marciapiedi davanti casa. Tutti, tutti a godersi un po' di fresco ristoratore all'aria, lontani dalle mura di pietra lavica e intonaco rosa, ancora calde perchè cotte a puntino dal sole pomeridiano del ponente etneo. E' gente che va tardi a letto sapendo già di non poter dormire per il caldo, che si gode l'ultima ventata che producono le alghe del golfo di Ognina. Gente che si attarda fuori sparlando senza pietà di nuore, generi, compari e consuoceri, che pensa già alla spesa che dovrà fare l'indomani: i pomodori freschi, il basilico, le melanzane, la ricotta salata, la pescheria, la "minnulata" al carrettino 'Don Tino-Coni con panna-Gelati-Granite'.

Sì, ma al chioschetto del Miramare tutto era più solleticante, aveva un altro effetto... era gassoso, ghiacciato! Eppure era tutto uguale! Chi se lo dimentica quel piccolo bar? Stava dietro le ultime file, tipico da arena estiva: semi di zucca, gazzose, bibite, patatine, ecc. Negli ultimi tempi lo prese in gestione un tipo freakettone, con mille tatuaggi sulle braccia, un'infinità di borchie e un abbigliamento alla Fandango. Aveva tappezzato il locale con i poster dell'Harley Davidson, di James Dean e di altri miti che gli andavano a genio. Per aprire la saracinesca del bar arrivava a metà del primo tempo, col frigo ancora spento. Le gazzose, via via, cominciavano a diventare sempre più calde, sempre più calde. Erano segnali premonitori, erano i tempi che stavano cambiando, era la fine imminente.

L'ultima stagione, infatti, fu nel 2002. Nell'anno successivo i proprietari del terreno sul quale sorgeva l'arena lo mise in vendita a fini edilizi. Assieme ad altri lettori, in quell'anno protestai su La Sicilia esortando l'Amministrazione comunale a non concedere la concessione sull'imminente disastro che si stava per compiere perchè consideravo quel luogo un patrimonio storico della città e che, per il suo valore affettivo, apparteneva un po' a tutta la cittadinanza. Smantellarlo significava distruggere una pietra miliare che era elemento componente e integrante del fascino ogninese. Andava invece acquisito, salvaguardato e rivalutato.

Tutti sappiamo, invece, com'è andata. Se il Comune avesse acquistato il terreno, avesse bonificato e ristrutturato l'arena e l'area circostante per farci magari un Centro culturale, questa amministrazione sarebbe stata ricordata a vita dai suoi concittadini. Purtroppo, oltre a non avere il minimo interesse ad essere ricordato, chi ci governa non è nemmeno catanese e certe cose non potrà mai capirle. Speravo in un suo romantico ricordo di quando era studente nell'Ateneo catanese e che la rimembranza di un bacio galeotto regalato furtivamente alla collega di corso, davanti a quello di Cary Grant e Ingrid Bergman in "Indiscreto", lo avesse fatto redimere. Niente, solo parole al vento.

Fra le arene, avevano già chiuso il Delle Rose, la Terrazza Cavallaro, il Sanfilippo. Sono rimaste ancora l'Argentina, l'Adua e qualche altra ancora, che battagliano ogni sera con un nemico molto più agguerrito, molto più organizzato di loro; un nemico che la sera inchioda tutti noi alle nostre poltrone, con il condizionatore acceso e che non ci fa uscire da casa impedendoci di capire cos'è davvero un cinema all'aperto, o perlomeno stare fuori di casa a vedere la gente: il principale cast della pellicola di ognuno di noi. Quel nemico si chiama Televisore, con tutti i suoi tecnologici aspetti e la sua immensa offerta giornaliera, ma che alla fine ci fa sentire più soli.

Purtroppo, la fine di una delle cose più amate e ricordate a Catania è già sancita. Oggi le ruspe ci lavorano per creare un lussuosissimo casermone, con una vista sul mare tutta saccheggiata dalla cassapanca delle nostre notti d'agosto.

Ci sono passato l'altro ieri e sono entrato fin dentro al cantiere. Con un piccolo groppo in gola, ho visto quei dinosauri estirpare dalle voragini di terra tonnellate di baci, carezze, schiaffi, sguardi, dichiarazioni d'amore, tutti appartenuti alla gioventù catanese. Ho pensato per un attimo al Nuovo Cinema Paradiso e mi sono sentito come Salvatore quando, dopo i funerali dell'amato Alfredo, assiste alla demolizione dell'oggetto dei suoi desideri di quand'era adolescente.

Mentre scrivo l'arena non esiste più. Il Miramare ha già proiettato il suo ultimo "The End" sul bulldozer che gli ha dato il colpo di grazia, facendo la stessa fine del Cinema Paradiso.

Come tanti suoi spettatori che non ci sono più, ormai appartiene al firmamento dei nostri ricordi. E' uscito di scena come fece Totò in un celebre film che abbiamo visto tante volte sul quel magico rettangolo dipinto di calce bianca e dell'azzurro del mare: "Torno nella miseria, però non mi lamento. Mi basta di sapere che il pubblico è contento!"

Contentissimi. Grazie Miramare, per tutto quello che ci hai fatto vedere, vivere.... e sognare!

Il tuo pubblico.

M.R. (lug 2007)

 

 

 

 IL TRIS BAR, MITICO LUOGO DI RIMEMBRANZE

Il Tris Bar di Catania compirà quest’anno 55 anni. I siti specializzati scrivono che dal 1966 è sinonimo di qualità e sapore. Io dico che è, ancora oggi e soprattutto per i miei amici di FB ad essere cresciuti in Piazza Guardia, un intenso profumo che sprigiona ricordi di fanciullezza mischiati a besciamella, goliardia ed acne giovanile.

Si chiama così perché quando fu fondato i soci erano tre: Bonaccorsi, che si vede ogni tanto seduto alla cassa e che, a vederlo, ancora ….. ‘sa fira!; Ranno, che abbandonò nei primi anni Settanta per proseguire altrove la sua attività da solista; Pennisi, un gran signore di altri tempi che ci ha lasciati qualche anno fa.

I suoi antagonisti furono il Gattopardo nel ’69 (poi chiuso) e i Giganti (da sempre, ma non regge il confronto soprattutto da quando il Cine Alfieri di Billy non è più quello di una volta ).

Oggi continuano egregiamente la conduzione dell’azienda i figli Daniele Bonaccorsi e Roberto Pennisi con il catering, i servizi in sala pranzo e tutta l’eccellente offerta gastronomica dello storico locale. Mitiche sono le cipolline fumanti servite su conetti fatti di carta oleata per avvolgere e gustare la leccornia senza farla sbrodolare sulle mani. E poi le memorabili pizzette che, non me ne vogliano gli specializzati del gusto liotrico, reputo le migliori di Catania.

Da ragazzino erano la mia passione ma, come tutti i bambini, i soldini erano pochi e, quindi, le strategie erano due: la paghetta settimanale o la cresta sulla spesa. La paghetta la usavo per tutte le altre cose che potesse desiderare un adolescente; l’altra per le pizzette del Tris Bar!

Spiego la tattica mascalzona. Mia madre mi scriveva l’elenco delle cose da comprare per la spesa e io andavo. Le tecniche per conquistare la merenda erano due: 1) far segnare tutto sul conto di famiglia, dicendo a casa che avevo pagato in contanti; 2) aggiungere la cresta sul conto totale, tenendo per me la differenza.

Ma per un bambino alle elementari già scarso in Matematica e propenso ad altre branche didattiche, la cosa era alquanto difficile. Quindi, quando mi apprestavo a tornare a casa con la spesa facevo un po’ di conti nel cammino, cimentandomi in un’antica arte molto nota a politici e amministratori pubblici. Però, conoscendo le mie pessime qualità contabili, ero concentratissimo e non salutavo quasi nessuno, preso dai calcoli! Per strada incontravo qualche vicina di casa, che nemmeno calcolavo. Così alcune vollero avvertire mia madre “Signora Rapisarda, non glielo volevo dire, ma sono preoccupata. Ho visto Mimmo per strada con le buste della spesa, però aveva lo sguardo stralunato e gli occhi assenti, come se camminasse e pensasse ad altro! Le consiglio di farlo visitare". Poverette, non sapevano che stavo per raggiungere le ultime dieci lire per comprarmi le figurine Panini e, soprattutto, poter tornare al Tris Bar per la pizzetta dell’indomani!

Mia madre, verificando il lungo conto prodotto dal salumiere, si insospettì chiedendomi conto (il caso di dirlo). La mia difesa degna di Perry Mason: “mamma, è tutto aumentato! Che colpa ne ho io? Perché non lo chiedi al governo Fanfani? Non lo vedi il telegiornale?”. Terribile!

Il locale continuai a frequentarlo alle Scuole medie. Io ero alla Recupero e poi Bellini, situata al primo piano di uno stabile affacciato a Mezzogiorno sulla baia di San Giovanni Li Cuti. Le classi avevano tutte una larga vetrata che faceva letteralmente entrare il luccicante mare di Ognina in aula. La cosa creò non pochi problemi perché non seguivamo più la lezione,  continuamente distratti da quella meraviglia alla nostra destra e dalle gambe della professoressa di Inglese (da sempre le più bone!) alla nostra sinistra.

Come finì? La presidenza della scuola fece dipingere di smalto bianco le vetrate! Ma noi non ci perdemmo d'animo e consumammo tutte le matite dell'astuccio per grattare, grattare, grattare il vetro fino alla Primavera. Maledetti, oggi avrebbero chiamato il telefono azzurro!

Una volta alla settimana, dopo le due ore di educazione fisica che ci facevano battere il cuore a mille per la stanchezza (al sottoscritto non solo per la materia scolastica ma per le prime, romantiche e platoniche  extrasistole !), prima di continuare la didattica al banco, con i miei compagni di classe si andava a consumare straordinari primi piatti su quegli sgabelli, posti di fronte a quella piazza in cui il Tris Bar entra di diritto fra i suoi monumenti, situato sotto quei  pilastri che non sono più elementi architettonici ma ornamenti storici del quartiere. Cioè, se un giorno dovessero togliere il Tris Bar da sotto i portici di quello stabile, sarebbe davvero una tragedia in Piazza S. Maria della Guardia.

Già, quella piazza. Ovvero l’epicentro di un quartiere che è quasi un satellite, una piccola cittadina. Della parrocchia non scrivo nulla perché basta girare in rete per apprendere la sua storia. Voglio però ricordare padre Agnello, un giovanissimo padre Marcello che ci fece vivere momenti felici in quel piccolo campetto in cemento dietro la chiesa, in cui organizzava tornei di calcio, ping-pong ed altro per preparare lo zucchero al noioso amaro dei precetti e del Catechismo. In quei pochi metri, che a quell’età ci sembravano tantissimissimi, crescevano il bomber Robertino Rapisarda, Ardizzone, i fratelli Terrati e Mimmo Bondì che rimpinguarono le file della mitica Mongibello. E in via Zoccolanti (nome dovuto alle calzature dei frati cappuccini) alzi la mano chi non ha mai visto uscire dalla sagrestia il nostro amato padre Girolamo che ha sempre avuto una carezza, una benedizione  o una solenne cazziata per ognuno di noi?

E non posso non ricordare i tanti personaggi. Oltre al carrettino ambulante di Don Tino, il chiosco di Don Orazio davanti alla fontana, con le sue granite dai tre gusti: mandorla, limone e cioccolato, consumate in un bicchiere di plastica e con un panino di semola portato da casa. Tutte le altre fisime arrivarono solo anni dopo.

Il titolare credo fosse il bravo Sig. Cannata del Bar delle Sirene, situato accanto al negozio della mitica Olga Nicosia di cui ho già raccontato in passato delle righe molto affettuose.

Qualche metro più avanti, immersi nell’intenso odore di “ragù” proveniente dalle pentole delle casalinghe di via Bonforte, i  Ceusi. Ma sì,  mettiamoci anche loro perché, nel bene e nel male, fanno parte della storia del luogo. Ricordo che uno dei componenti lo definirono “la pecora nera della famiglia” in quanto incensurato e senza nessun procedimento penale a suo carico!

E poi "Topolino nniù nnau!”, Jachino Marletta che alzava la pietra sul petto, il fioraio Salemi, la Sig.ra Musumeci titolare del panificio in piazza e autentica colonnella, l’irriducibile juventino Mario Cutrona e suo nipote Angelo Pagano Principe della liscìa da Vaddia, "il boss della zona "Giuvanneddu" terrore di noi ragazzini e poi morto in un incidente con il suo Kawasaki,  il fotografo Chines, l’orologiaio Chisari e tanti altri che adesso non ricordo, compresi quelli che non ci sono più come Alberto Pappalardo, Salvo Piazza e Giulio Stancanelli.

Chiedo scusa. Volevo solo far gli auguri al Tris Bar e invece sono ampiamente scivolato lungo la rotonda della piazza, raccontando di chi ha calpestato i suoi contorni. Anche se residente fuori zona, sono rimasto per sempre qui. Quando devo andare in Centro, lascio l'auto sempre alla base, sotto casa di mia madre, senza aver mai capito perché non cercare un parcheggio più avanti.

Leggendomi, mi è venuta quasi una lacrima agli occhi e una gran voglia di ordinare (non le assaggio da decenni) una di quelle pizzette oggetto di queste mie rimembranze rigorosamente da asporto, essendo tutti in zona arancione!

Auguri, Tris Bar!

(Mimmo Rapisarda)

 

UN'ESTATE INDIMENTICABILE

Si parla del cambiamento del clima, stagioni che non sono più quelle di una volta,  Primavere che arrivano in ritardo ed estati che non sono estati.

Una volta non vedevamo l’ora che arrivasse, l’estate. Quelle di oggi, invece, ci fanno rimpiangere la stagione fredda e non ti invogliano a far niente, ti sfiancano. Forse è il nostro corpo, troppo abituato all’aria condizionata, che non riesce più a sopportare certe temperature. Ma una volta non era proprio così e per questo i miei ricordi di bambino riferiti all’estate sono stati sempre di 26 gradi al massimo.

Chi non se le ricorda le estati dell’infanzia? Io ne ricordo una bellissima, ero ancora un bambino e avevo quasi dieci anni.

Invidio chi è vissuto in quegli anni, fantastici anni, perché li ha visti proprio in diretta. Era importante esserci e vivere di persona quella rivoluzione sociale, musicale e culturale, dove passavano per radio capolavori come Wight is wight, San Francisco, Yellow river, Eloise, Mellow yellow, Whinchester cathedral, I’m coming home oppure sfacciate cover come "I cant let maggie go" che diventava "Un angelo blu", "White shade of pale" che diventava "Senza luce", "So happy together" che diventava "Per vivere insieme".

La concorrenza televisiva consisteva soltanto nelle Stelle che stavano a guardare del primo canale contro una Figlia del capitano nel secondo canale. Firenze veniva allagata dall’Arno, Luigi Tenco si toglieva la vita a Sanremo; l’Italia di Fabbri perdeva il mondiale con la Corea e Benvenuti diventava campione del mondo; i Colonnelli si impossessavano della Grecia e  Israele stroncava l’Egitto in sei giorni. Barnard eseguiva il primo trapianto di cuore e Che Guevara, Martin Luther King e Bob Kennedy venivano assassinati; al cinema proiettavano Easy rider, Il laureato e 2001 Odissea nello spazio e la Nasa aveva già messo a punto il computer che avrebbe guidato l’uomo sulla luna: oggi non sarebbe utile nemmeno per far funzionare il solitario di Windows!

Purtroppo arrivò anche il Vietnam, che portò (fra i pochi regali) la consapevolezza che davanti ai Palazzi si poteva anche protestare; il vento del movimento studentesco del ’68 cominciava a soffiare, le prime Facoltà erano già occupate e nelle aule prive di banchi si bivaccava e si cantava Blowind in the wind con un’arma micidiale che si chiamava chitarra.

Ma i soldati americani, un giorno, li vedemmo davvero. Un pomeriggio di settembre un mezzo anfibio approdò nel porticciolo di Acicastello facendo sbarcare dei marines in attesa di essere avviati a Sigonella per poi, da lì, farli partire per il Vietnam. Noi bambini andammo di corsa, incuriositi di vederli finalmente dal vivo perché questi erano veri, in carne ed ossa e non di plastica! Imbambolati come davanti a un presepe, osservammo in silenzio tutti i loro movimenti e tutte quelle cose viste soltanto nei film in Tv: tute mimetiche, elmetti, scatolame, ecc. Tutto ci sembrava enorme, dagli scarponi ai pantaloni, dai loro piedi alle loro mani, dai loro Ray-Ban alla loro voce. Tutto ci sembrava bello, ai nostri occhi sembravano degli eroi, ma quei ragazzi stavano probabilmente andando a morire per una guerra che non apparteneva a loro e che non volevano.

Come in un noto film di Coppola, fra i fiumi della giungla del sud est asiatico quei soldati ascoltavano musica fra la puzza del Nepal, e non era quella beat che stava quasi sparendo, ma quella migliore dell'ultimo millennio: il periodo compreso tra il 1967 e il 1972. 

E quasi incosciente di tutto quel ben di Dio musicale e culturale che mi gravitava attorno, io che facevo? Ero impegnato a cercare la figurina di Pizzaballa (introvabile) in cambio di cinque figurine di Altafini! Cose da pazzi! La musica? Macchè! I miei gusti musicali erano la sigla di Braccobaldo Show e la colonna sonora della Nonna del Corsaro nero! Però, però…. qualcosa stava accadendo, quelle note erano troppo melodiose e facevano capitolare chiunque. Erano le prime avvisaglie di quanto, invece, la musica sia poi diventata una cosa importante nella mia vita, con la complicità di qualcun'altro.

Proprio in quel periodo, alla fine degli anni Sessanta, in famiglia gestivamo un ritrovo nella riviera catanese dove c’era una grande rotonda sul mare. La chiamavano la Fossa dei serpenti.

Al suo ingresso, sulla piazza del paese, c’era un semplice e sottile neon color lilla dove c’era scritto "Danze", semplicemente Danze. Si entrava dal cancelletto e poi, per le scale, si scendeva giù fino al mare, fino a quella rotonda con il bar e i tavolini all'aperto a due passi dal mare.

Ogni pomeriggio, a tutta la nipotaglia veniva offerto un cono-gelato gigante. Ci mettevano tutti in fila (abbastanza cunnuteddi) davanti al banco dell'esercizio in piazza e ad ognuno di noi porgevano un cono gelato accompagnato da un invisibile messaggio: "per tutta la sera non fatevi vedere - non chiedete più niente fino a domani - non rompete i coglioni e fateci lavorare - stop!".

Verso sera arrivavano le band, o i complessi come si chiamavano una volta. Sopra avevamo i "Rangers 67", tutti vestiti con una giubba rossa lucida, e suonavano i successi italiani: Caselli, Pavone, Berti, Fontana, Celentano, Morandi, Carosone, Dino, Paoli, ecc.. ma sotto… sotto, in rotonda, c’erano i Provos: cinque studenti che ingaggiò mio padre per quella stagione. E i Provos, lì sotto, facevano tutt’altra musica! Sapevano che alla gente piaceva ballare con una canzone di Fred Bongusto a due metri dal mare oppure ascoltarla seduti con un pezzo duro davanti, ma sapevano anche che in quel periodo una nuova ondata di strane e dolci melodie stava rivoluzionando il mondo. Consapevoli che loro stessi appartenevano a quello strano "prurito" planetario, ogni tanto desideravano far sapere agli altri come stava cambiando la musica fuori dai confini nazionali. Il risultato? Il maresciallo dei vigili ci chiedeva ogni sera di abbassare il volume su “Reach out i'll be there” e i Rangers67 rimasero a suonare da soli su in piazzetta di fronte al famoso forno per pizze con la bocca di Polifemo! Nella stagione ci furono anche degli avvicendamenti, altrettanto scatenati: The Runaways (i fuggiaschi, o fuggitivi) e solo dopo appresi il motivo delle loro giacche bianco e blu, simili a quelle dei carcerati.

E così questi Provos, tutti vestiti di bianco, fra "Pugni chiusi", "Cinque minuti e poi" e "Pregherò", dal loro repertorio tiravano fuori "La tua immagine" dei New Dada, cantata per metà in italiano e per metà nella versione originale, ma anche "The sound of silence" di Simon & Garfunkel, e poi …o "Lady Jane" o "Yesterday" .. e tante, tante altre. Per me erano diventati un mito ed ogni sera li aspettavo con ansia…. qualcosa stava cominciando a friccicarmi dentro.

I ragazzi che venivano la sera da noi erano, per lo più, occhialuti studenti catanesi inconsapevoli che quella magia stava per contribuire, da lì a poco, a far nascere tanti figli dei figli dei fiori. Complici un’inebriante brezza marina che entrava nelle loro narici fino a stordirli, dolci e ammalianti note e una luna che, oltre al mare, illuminava anche dichiarazioni d’amore sussurate fra il collo, la guancia e un Fa diesis.

Ogni sera, dopo aver provato, la band andava a cenare e mi lasciavano da solo a guardia degli strumenti ancora coi jack collegati dicendomi (senza speranza): "Mimmo, mi raccomando, dai un occhio.". Ma non c’era verso. Già a quel tempo rimanevo affascinato da tutto quel luccicante ben di Dio: chitarre con i colori più sgargianti, organi elettrici, amplificatori, enormi microfoni ecc.. Quella capannina fatta con le canne e illuminata da affascinanti neons blu, rossi, verdi, gialli che si accendevano e spegnevano quasi come in un albero di Natale, era per me troppo allettante. Appena i musicisti andavano via prendevo le bacchette, mi accomodavo alla batteria tutta madreperlata e cominciavo a tormentare i tamburi; e poi passavo all’organo Farfisa, e poi pizzicavo le chitarre elettriche Eko, e poi e poi e poi…….. Da lontano, il batterista Lucio detto "Ringo", si sentiva tranquillo perchè sentendo suonare (suonare?) il suo rullante sapeva che qualcuno, anche se quasi li distruggeva, controllava gli strumenti. Pur se devastatore e inconcludente, per me quello fu il primo contatto con la musica.

Una sera li mandai in tilt. Avevano poggiato una chitarra sul retro della capannina dimenticando di disattivare lo strumento dall’impianto. Stavano cantando Homburg e a un certo punto della canzone si guardarono tutti in cagnesco: "Ma chi è che sta sbagliando gli accordi? C’è qualcosa che non va, com’è possibile?". Non si erano accorti che sul retro, mentre loro suonavano, io stavo armeggiando con quella chitarra, sballando tutto il resto della canzone! Ero terribile, un vero rompiballe!

Oggi mi sarei perduto fra quelle note invece di perder tempo a giocare al pallone di notte coi miei cugini. Una notte, dopo aver mandato in frantumi qualche lampione nella piazza antistante, il pallone rotolò troppo ma troppo lontano e andai a recuperarlo fino ad avvicinarmi alla ringhiera affacciata sul golfo dei Ciclopi, verniciata con l’azzurro del mare sottostante. Sudato, infreddolito per il gelo della notte e col pallone sotto l’ascella sentivo alcuni suoni provenienti dai locali che non avevano ancora chiuso. Dalla costa vicina, il Lido dei Ciclopi, sentivo "Yyeeeaaahhh!, i tuoi occhi sono fari abbaglianti….", cantata da un ragazzo inglese che si faceva chiamare Mal dei Primitives; e poi un’altra: "il tuo diario che sempre riempivi, solo con ciò che faceva piacere a chi di notte l'andava a vedere… piccola…", cantata da uno sconosciuto complessino che stranamente si faceva chiamare col nome dell’orsetto protagonista dei libretti che leggevo nel pomeriggio: Pooh!

Come avrei voluto avere vent’anni allora. Mi consola il fatto di averli vissuti almeno di riflesso e per questo mi considero un privilegiato. Io c’ero! (anche se il mio contributo è stato solo quello di rompere almeno tre grancasse dei Provos). Ma mi sono rifatto, col tempo ho recuperato tutto quello che mi sono perso. Con tutto quello che stava accadendo come avrei potuto sentire caldo nell'estate del '67? Anzi, c’era fin troppo fresco con quei venti portatori di nuovi entusiasmi!

Ma anche le cose belle finiscono. Quello fu l'ultimo anno della mitica Fossa dei Serpenti. Le balere e le rotonde sul mare cominciarono a far posto alle cantine e ai centri sociali; stavano per nascere i mega-raduni della musica come quelli all’isola di Man e quello a Woodstock; la Bussola e il Pyper venivano sostituiti dai Palazzetti e dai Teatritenda e certi barbuti giovanotti cominciavano a riprendere il discorso che aveva appena iniziato Tenco.

Già nel ’68 la rotonda, in senso di pista da ballo, non c'era più; veniva utilizzata come piattaforma balneare di un piccolo stabilimento. Più nessuno andava a ballare sul mare perché si preferivano le chiuse e buie discoteche. Il colpo di grazia lo ebbe nel 1972 con una mareggiata che le portò via il novanta per cento del suo pavimento, lasciandole soltanto una mezza luna a forma di falce. La sezione PCI del posto ne approfittò subito per verniciarla di rosso, dipingendole accanto un martello! L’ultima volta che ho calpestato i suoi resti fu una ventina di anni fa. Come tanti altri catanesi ci sono andato a pescare, e mentre lanciavo il mulinello sentivo i gabbiani volteggiarmi intorno in cerca di esca e di pesce; e il loro gracchiare era un canto di fantasmi in quella rotonda che non c’è più. Un canto che sembrava quasi un arpeggio simile all’inizio di "The boxer", la sigla di apertura dei favolosi Provos, oggi tranquilli signori in pensione.

Mimmo Rapisarda.

 

LE NOTTI STELLATE DEGLI ANNI SETTANTA

20 LUGLIO. Come oggi, l’uomo sbarcò sulla luna. Quella notte, la prima volta che avvenne, allunò con svariati colpi di culo che furono dichiarati dopo decenni. L’apparecchiatura informatica di bordo possedeva una potenza di calcolo inferiore a quella di uno smartphone di oggi; la CPU era stata inventata solo un anno prima e quel giorno l’armadio di transistor e valvole, un sistema paragonabile a un Olivetti M24 del 1981 che già allora era una sciccherìa, andò in tilt per la quantità di informazioni richieste e solo grazie all’esperienza aeronautica dei comandanti  Armstrong e Aldrin, che nella fase finale elaborarono a mano con una Texas Instruments tutti i calcoli di avvicinamento, il LEM potè atterrare.

Intanto Collins girava attorno alla Luna, pregando Dio di potersi presentare in tempo all’appuntamento con la navicella sparata dal Lem, per riportarli a casa. La frase, l’impronta, la bandiera, le pietre, sono tutte storie che ormai conosciamo e che ricordo con l’immagine celebrativa che ho postato. Ma quella notte, noi ragazzini di quel tempo, come vivevamo? O cosa fantasticavamo guardando quella palla che di sera illuminava le nostre vite senza bisogno di troppi neons?

Io la passai col mio adorato nonno nella sua casa di San Vito a Taranto. E mentre lui, da vecchio lupo di mare, faceva le sue previsioni meteo dell’indomani soltanto guardando le stelle e il mare che avevamo davanti, mia nonna ci deliziava l’attesa dell’allunaggio con fantastiche friselle che noi consumavamo senza accorgercene, tanto eravamo assonnati durante una di quelle estati per me indimenticabili.

Assieme a quei tre lassù, quella notte eravamo tutti svegli, in tutto il mondo. In Italia, dando pugni sul televisore per evitare le maledette strisce orizzontali, eravamo tutti sul primo canale ascoltando Tito Stagno che s’incasinò in diretta, più del rincoglionito Ruggero Orlando da Houston.

L’Italia era fresca Campione europeo e il Milan di Rivera e Prati vinceva la Coppa dei Campioni; Nixon era stato eletto Presidente USA e per rispetto ai suoi predecessori continuava a giocare a Risiko spostando le pedine sulla casella Vietnam; i Beatles attraversavano le strisce pedonali di Abbedy Road e i Rolling Stones infuocavano l’erba di Hyde Park; imperversava il movimento studentesco in cui fascisti e comunisti se le davano di santa ragione nei licei di tutta Europa. In Italia non si ricorreva più alle cambiali per una lavatrice ma si pagava in contanti. Ancora solo per un po’.

Ovviamente le esigenze non erano quelle di oggi. Non avevamo bisogno di quattro televisori in casa, sette utenze telefoniche, P.C., condizionatori, l’immancabile vacanza dove oggi tira il vento del trend onde indirizzare il gregge della serie “altrimenti che scrivo quando ritorno dalle ferie?”

Nel ’69, non conoscendo affatto le comodità che ci avrebbe riservato il futuro, era uno sballo lo stesso. Anche la cosa più banale, anche un’estate senza partenze, la vivevamo spensieratamente e soprattutto con entrate monoreddito. Significava che potevamo permetterci …. (udite, udite!) una mamma a servizio completo! Casalinga sì, ma con un ruolo importante, che contribuiva al bilancio familiare evitando sprechi sia nel locale lavanderia che nei locali sartoria e cucina. Vi pare poco? Sfido qualsiasi bambino di oggi a dirmi che riceve ogni giorno le magliettine belle stirate, le fette di nutella per la merenda del pomeriggio, il canale due già sintonizzato sulla Nonna del Corsaro nero e soprattutto il sorriso di una mamma sempre a portata di mano, invece del monitor illuminato! Vi pare poco farvi abbracciare dalla mamma anziché litigare con uno sconosciuto che commenta un vostro post su facebook?

Non so voi, ma credo che un po’ tutti si viveva meglio. Noi bambini consumavamo le scarpe buone giocando a pallone per strada e i nostri genitori non chiamavano già l’obitorio se tardavamo a ritornare a casa; soprattutto eravamo irrintracciabili! che bello! E poi, come si poteva? Il massimo era il gettone telefonico e per fare un’interurbana occorreva il consiglio di famiglia.

La ragazzetta non si conquistava con nascosti sms, ma con un atto molto più coraggioso che consacrava la propria maturazione: la dichiarazione d’amore. Era un fottuto momento, specie la prima volta: si balbettava, non si sapeva che dire, si arrossiva, si dicevano velocemente frasi imparate a memoria la sera prima, e tutto sto po’ po’ di adrenalina per ricevere cosa? la seguente risposta: “sì, ti voglio bene, ma come un fratello! ci devo pensare!”. In realtà lei ci aveva già pensato da tempo, ma per i maschietti quella era la risposta più atroce che si potesse ricevere nel 1969!

Così, ogni sera, dopo Giochi senza frontiere…. un, deux, trois, si andava a guardare la stessa luna bianca, irraggiungibile come la ragazzina; quasi la si pregava come se fosse un Dio, sperando nel “sì” dell’indomani. Che poi, a 11 anni, arrivava subito l’altro problema: che facciamo dopo il sì? Oggi si sa perfettamente, fin troppo, ma allora era un disastro. Però credo che, in fondo, era molto più romantico perchè allora la si conquistava con una penna (usata) e un cornetto Algida.

Che tempi! Non esistevano i condizionatori in auto e per evitare il caldo si partiva (tutti assieme, senza il fuggi-fuggi di oggi) per le vacanze si partiva nei freschi orari notturni, stretti stretti in auto, senza bisogno di station wagon per giustificare la voglia di certi capricci dei nostri giorni. I colori del primo mattino visti dai finestrini ripagavano di tutte le scomodità e i sudori in fronte. I ragazzi di oggi quei colori nemmeno li conoscono, impegnati a dormire fino a mezzogiorno per smaltire le sbornie di qualche ora prima. Noi ci ubriacavamo al massimo con l’aranciata in bustina e, se proprio volevamo fare i folli, il cocktail San Pellegrino, facendo attenzione a dove andava a finire il tappo perché sotto poteva scapparci un premio!

Però, anche se cambiano i tempi e queste memorie li faranno certamente ridere, sono convinto che i nostri nipoti quella luna complice la guardano ancora, ogni sera, confidandole i loro desideri. Perché cambiano le mode, gli usi, i costumi, ma i cuori no. I cuori rimangono sempre gli stessi.

Forse fra cinquant’anni qualcuno leggerà queste parole nei Social Network installati direttamente nelle proprie orbite e, lo so, riderà di me e del reperto archeologico scovato nell’internet del 2064. Ma se fra i commenti di quel futuro ci sarà qualcuno che, abbassando le ciglia, cliccherà “mi piace” vuol dire che avevo ragione. Vuol dire che i cuori non cesseranno mai di battere alla stessa maniera.

Sono andato fuori tema? No. La luna è sempre lì, pallida e paciona. Alza gli occhi al cielo e osserva, ogni sera, le nostre eterne sciocchezze.

M.R.

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 LA MIA VECCHIA 500

ah ah... forse perchè si chiama Fiat, ma anche la mia vecchia 500 mi lasciava a piedi.

Una volta, in viale Africa, non ne volle sapere di ripartire dopo averla appena ritirata dall'autofficina.

Esasperato, la lasciai lì ma gliene dissi di tutti i colori e in modo molto agitato, insultandola addirittura con termini volgari e prendendola a calci sulle ruote. Gli automobilisti passavano e allungavano il collo per vedere se c'era qualcuno a bordo.

Però era bella, niente a che vedere con quella attuale. Il tettuccio apribile per l'aria "condizionata" e le stelle sulla testa mentre gli stereo8 mandavano musica alle casse che al massimo erano a 20 watt. La mitica doppietta dalla terza alla seconda, i sedili "ribaltabili", il cruscotto della L che facevo ritornare nuovo dopo averlo lavato con la CocaCola, e ....... poi aveva delle curve mozzafiato che solo i designers di allora potevano creare.

A proposito, su quel cruscotto applicai una calamita con le foto della mia fidanzata a sinistra e quella di De Gregori a destra, sopra la scritta "con correre, pensa a noi". Spirito di patata e spensieratezza che si posseggono solo a vent'anni; era anche un modo per prendere un po' in giro quelli che alla calamita sul cruscotto ci credevano davvero, che so... Gesù e la bambina o il parente nell'aldilà.

Quelli che salivano a bordo e conoscevano De Gregori, quando vedevano la calamita già si mettevano a ridere perchè la mia passione musicale, già allora, era leggendaria. A chi invece non lo conosceva, come mia madre, la cosa suscitava ............... mi chiedeva se poteva finalmente conoscere la signorina e poi, "chi è un tuo amico, e che può dire la gente? mah!". O il meccanico, che mi guardava come se volesse dirmi "mbare ma chi addivintasti tuccatu da rannula?"

In quel periodo ero così, un po' pazzoide.

 M.R.

 

LA GAMELLA

La Gamella era un recipiente di latta nel quale, fino a tempi recenti, i soldati mangiavano il rancio, sinonimo di gavetta. Il termine proviene dallo spagnolo ma, in gergo marinaresco italiano, significava altro. Infatti nel linguaggio della Marina Militare indica l’insieme delle stoviglie e posateria delle mense di bordo (questo dice Treccani).

In effetti tutto era contenuto lì: primosecondocontornoposatepane e vino in boccione di vetro, tutti assieme e compatti per evitare, a bordo, che tagliatelle e cotolette se ne andassero per conto loro durante il mare in burrasca. Non so se viene ancora usata, ma quasi 40 anni fa si utilizzava anche nelle mense a terra.

Il termine indicava anche colui che doveva provvedere, in toto, al vettovegliamento della “ciurma”, sia a bordo che a terra. In poche parole: il Direttore di mensa, che per questo veniva appunto chiamato “Capo Gamella”.

Io sono stato costretto a farlo nel 1978, per due mesi, alla Capitaneria di Catania. Dapprima mi ribellai, ma poi mi fecero capire che far mangiare una sessantina di persone non era la stessa cosa che ristorare più di 500 persone di stanza in basi come Augusta o Maristaeli. In effetti al porto la cosa era più a dimensione terrena, piu urbana, quasi in borghese, da spesa al mercato rionale con un budget a disposizione che non era possibile avere in posti più “militari” dove si era costretti a cucinare quel che passavano da Roma.

Dopo ho scoperto il lato divertente e conveniente della cosa. Prima di tutto non avevo i miei abituali incarichi, ovviamente dormivo a casa mia, ero esente dalle guardie e respiravo aria fresca e libera! Che bello!

La mattina partivamo col furgone assieme al cuoco, il vice cuoco, i tre marinai destinati ad aiutare (sbucciare le patate, va), lavare la cucina, il pentolame e le “gamelle”. Da qui il terzo termine, cioè “essere di gamella”.

Prima tappa la colazione da offrire a tutti, poi a Fera o Luni dove si compravano dozzine di polli o decine di chili di carne; poi la verdura, la frutta, ecc. Conoscevo quasi tutti i venditori che, per palesi interessi, facevano a gara per salutarmi. Poi si passava al supermercato in Corso Sicilia per le altre cose, chiudendo un occhio a quello che il cuoco metteva nel carrello, specialmente il mio che da civile lavorava al San Domenico a Taormina!!! In caso di pesce, lo prendevo direttamente da solo al mercato ittico di ViaTempio (lo Sgabello) alle quattro del mattino.

Poi si tornava alla base e si cominciava a cucinare, mentre io pensavo alla contabilità, alle fatture ricevute per far quadrare il Giornale di Mensa per fine mese e a controllare l’ordine in refettorio.

Quando tutto era pronto, si mettevano le pietanze del giorno in una gamella che poi si poggiava sul “portagamella”. Intorno alle 14.00 lo si portava al Comandante in 2° per la “prova assaggio”, nel suo ufficio sperando di ricevere la fatidica ma stupida frase "ottimo e abbondante". A volte questi scendeva direttamente nelle cucine.

Il “secondo” era colui che, rispetto al “primo", doveva far funzionare e amministrare la macchina; quindi doveva tirare le orecchie ai ragazzi, concedere licenze e permessi, rimproverare, punire, farsi odiare; insomma era lo stronzo per antonomasia. Lo sapeva anche quando assaggiava, per questo era consapevole dei rischi che correva.

Quello nostro lo era ancora di più (infatti ci litigai e per questo lasciai la Marina), non era molto amato e temevo che un giorno gli svuotassero nel piatto un vasetto intero di Guttalax.

Lui assaggiava e ogni giorno aveva sempre qualcosa da ridire sulla cottura o sul sapore come se fosse Cannavacciuolo. Mentre ce ne diceva di tutti i colori, ogni giorno mi veniva di dirgli “Stronzo, ma quando mai te lo puoi permettere di assaggiare un boccone del genere, preparato da uno chef di prima classe, e perfino gratis? Che porcheria di minestrone ti cucinera' oggi tua moglie? Approfittane e stai zitto. Strozzati!”.

Ogni tanto mi ci lamentavo per altre cose: “Comandante, possiamo far riparare il pavimento nelle cucine? Ci passeggiano gli scarafaggi!” E Lui: “Sono i fuochisti. Durante la guerra ce li mangiavamo con l’insalata! Non c’è bisogno!” Contento lui.

Poi controllavo il pranzo, e dopo anche la cena. In attesa delle portate, facevo i ritratti a carboncino ai marinai in caserma. C'era la fila.

Comunque, bei tempi. Oggi mi era passata questa immagine per caso, ed ho voluto raccontare un periodo che ricordo con tanto piacere.

 M.R.

   

 

LE PIZZERIE DI UNA VOLTA

Oggi, rivedendo PERDUTOaMOR, mi accorgo di quanto fosse stato geniale e meticoloso Battiato nell’arte di “far vedere e non far vedere”, cioè lanciare quei piccoli messaggi nascosti fra i fotogrammi.

Quel che faccio vedere bisogna saperlo stanare. Nel film c’è un cameo, un gioiello della durata di pochi secondi, in cui si scorge un momento felice di catanesi che andavano a prendere un po’ di fresco alla riviera dei Ciclopi negli anni Sessanta. La location è la parte finale della piazza di Aci Castello, un meraviglioso palcoscenico teatrale con le quinte rappresentate dalla costa con i faraglioni di Acitrezza in lontananza, il castello normanno a destra e una mitica pizzeria a sinistra di cui scriverò in seguito.

La scena è immaginata, ricordata e girata dal Maestro proprio lì, sulla piazza di fronte a quello spettacolare belvedere. E’ magistralmente camuffata, ma chi sa o possiede quella famelica curiosità di scovare la chiave di lettura si accorgerà che tutto è al suo posto e non manca proprio niente. Ciak! il juke box che suona “La terza luna“ di Neil Sedaka; i ragazzi che corteggiano discretamente le ragazze che passeggiano “sutta u castiddazzu” dentro abiti dai variopinti colori dell’epoca; due pettegole; il timido spasimante che si fa accompagnare per dichiararsi all’amata; due anziani coniugi che litigano fra loro; fanciulle che giocano felici e senza smartphone mentre i tranquilli genitori gustano il gelato seduti in piazza. Lo Spritz? Al massimo c’era il San Pellegrino con il Cocktal, il Bitter, il Crodino, quattro olive e un pugnetto di arachidi. Stop. La fettina di limone e il cubetto (uno!) di ghiaccio, erano serviti solo a richiesta.

Guardatelo attentamente perché Battiato non ve ne darà il tempo. E’ uno spaccato di vita della durata di appena 30 secondi che proietta, come in una passerella di alta moda, una generazione che si accontentava di piccole cose ma soprattutto un piccolo scrigno di gente perbene. Geniale!

Alla fine della scena si vede il protagonista con un amico a contemplare la fuga, seduto all’ingresso di una scalinata che portava a una nota rotonda sul mare di quegli anni: la Fossa dei serpenti, gestita nei suoi ultimi anni da mio padre e i miei zii. I giovani musicisti della band che avevamo, prima di attaccare il primo LA, ogni sera andavano a prendere la pizza proprio lì sopra in piazza. Ma prima di andare mi raccomandavano “Mimmo, accura ‘e strumenti!”. Macchè! Mentre mangiavano sentivano continui e fragorosi rumori di rullanti, tamburi, piatti, chitarre scordate e la mia voce di bambino al microfono che cantava a squarciagola, lì sotto a due metri dal mare e con la pista vuota davanti, “Una ragazza in due” dei Giganti accompagnata a modo mio, solo toccando i tasti della tastiera Farfisa illuminata da quegli affascinanti neons a colori. Poveretti, quante cene ho fatto andare loro di traverso. Molte volte, come si dice qui, “cia fici fari vilenu” proprio lì in quel locale lungo otto metri compreso forno, banco e quattro tavoli per quattro persone ciascuno.

Allora a Catania non c’erano molte pizzerie come oggi perchè le prime cominciarono ad arrivare con il napoletano Carmine al Teatro Sangiorgi e poi, a poco a poco, in quei pochi ma fantastici locali di quella raggiante Catania che non esiste più, quali il Nord Ovest, Finocchiaro, Lorenti, Fort Apache, Texas, Mignemi, Bellavista; più tardi Grand Canyon, Palmento, Tre Fontane, ecc.. Oggi invece sono tante, troppe, esagerate e le ossa di quei Maestri si riivolterebbero se leggessero gli ingredienti: Grana, San Daniele, pistacchi, noci, radicchio, mortadella, salame. Ma quando mai? Le pizze originali erano quelle di un tempo, preparate con sostanze semplici e genuine, solo e rigorosamente Biancaneve, Napoletana, Margherita, Capricciosa, Fattoressa, Quattro formaggi e Calzone che per i più esigenti veniva preparato con spinaci. Nient’altro, il menù era composto solo da una pagina compresi coperto e servizio. Quelle da asporto venivano messe una sopra all’altra in involucri di carta oleata di colore rosa, non facendole toccare tra loro grazie a delle bacchette di legno che alla fine del pasto spiluccavamo perché impregnate ancora di mozzarella, di autentica mozzarella!

Per la gioventù catanese di allora era un privilegio andare in pizzeria fuori città, poteva farlo solo chi aveva l’auto perché i paesini rivieraschi erano allora considerati lontani e l’attuale litoranea rappresentava quasi una gita fuori porta.

Le pizzerie castellesi entrano di diritto nella storia della ristorazione catanese. Una che è riuscita a mantenere il passo è quella denominata “I cessi” per via della vicinanza ai bagni pubblici nella sua vecchia ubicazione. La signora Santina me la ricordo ragazzina, alla cassa. Ottime pizze, ma anche succulente scacciate diverse dalle Catanesi (almeno quelle della Fam. Bonaccorso, titolari della pizzeria) perché alte non più di due centimetri, impastate con l’olio e ripiene solo di broccoli affogati, pepe, olive nere e pepato primosale. E basta, buonissime.

Ma il non plus ultra, il must, era la pizzeria sulla piazza, di fronte al castello. Sempre piena d’inverno, non era facile sedersi subito anche perché non esistevano le prenotazioni, quindi i cellulari, internet, ecc. Non aveva nemmeno la linea fissa, a stento il registratore di cassa.

I commensali già presenti rimanevano lì a parlare anche dopo la consumazione, a discutere a lungo di occupazioni studentesche e di Che Guevara, avvolti in maglioni alla Folagra e fumando, fumando, fino a far diventare il locale un bagno turco. Non potendo stare in piedi all’interno visto il pochissimo spazio, si aspettava il proprio turno fuori al freddo, scrutando dai vetri appannati se uno dei quattro tavoli era finalmente  tornato libero, anche da propositi di rivoluzione proletaria lasciati lì fra la mancia, dieci Marlboro sul posacenere e il conto da infilare nella tasca dell’eskimo.

D’estate era diverso: venivano messi i tavolini all’aperto davanti a quel piazzale antistante la statua di Giacinta Pezzana. Si prenotava e poi, in attesa del segnale con la mano, si facevano due passi in piazza, con calma come nel film, a filosofare sui perché della vita della durata equivalente all’esatto percorso dal Bar Privitera al Bar Viscuso, avanti e indietro avanti e indietro, lasciando sull’asfalto della piazza concetti espressi al momento, mirabilmente meritevoli di essere conservati ma purtroppo volatizzati verso il cielo di Aci come farfalle, anche per un motivo molto più terreno: la fame!  Peccato.

I tavolini erano rotondi, con la tovaglia coperta da una cerata e fermata da una cintura circolare in alluminio. Le sedie erano anch’esse in alluminio, ma se c’era folla spuntavano quelle piccole in legno, scomodissime, precarie e verniciate di bianco e di rosso. Ma chi arrivava a sedersì lì non gliene importava niente, perché prendere la Margherita e una Peroni gelata seduti di fronte a quel ben di Dio, con quel profumo di mare, era una vincita al Lotto.

La pizzeria “Al Castello”, a partire dagli anni Settanta venne poi gestita da Saro Grasso, che di giorno lavorava a Catania con mio padre in città. Aveva in gestione anche Il Tubo, nei pressi dell’Ecce Homo. Non mi soffermo a descrivere il personaggio perché lo ricorda in modo magnifico Luigi Pulvirenti, qui:

https://www.facebook.com/luigi.pulvirenti.50/posts/10211811218779177

Per me le sue pizze erano spettacolari, le più buone, non lasciavo nemmeno il cornicione. E ogni volta ricordo lui, dietro al banco, ad impastare e infornare con l’immancabile sigaretta in bocca ormai tutta ridotta in cenere e che ormai faceva parte degli ingredienti.

Appena mi facevo vedere: “Pippo, pripara n’tavolu po figghiu do zu Turiddu!” (il loro Capo). Non mi faceva mai pagare, alla fine mi consegnava pure quelle da portare ai miei. Io mi vergognavo di questa cosa (soprattutto davanti alla ragazza); ci andavo solo per la sua bravura, non per scrocco. Così decisi di disertare ma una pizza come quella sua, portata fumante a un tavolo posto di fronte a quel palcoscenico, non l’ho più assaggiata.

Oggi me ne sono pentito, non per poco nobili motivi ma perché ho appreso da un castellese che in paese quasi nessuno ha pagato il conto da Saro; la sua risposta era sempre “dumani ma pavi!”. L'avrei voluto rivedere almeno una volta prima che morisse. Non so se i figli di Saretto siano riusciti a continuare l’opera del padre, se la pizzeria ha un’altra gestione o se addirittura non esiste più, ma che Dio abbia in gloria l’ultimo maestro catanese dell’arte pizzaiola!

Riposa in pace Saro, e se lassù ti diranno “bravo, queste Fattoresse sono celestiali! quante ali dobbiamo metterle?”, fai spallucce e rispondi “chi fretta c’è ? dumani … o quannu voli Diu!”.

(Mimmo Rapisarda, maggio 2021)

 

 

 

 

SCEMENZE SUI SOCIAL ACCHIAPPATE SULL'ORLO DELL'OBLIO.

Da un paio di giorni sentivo una strana puzza nell'auto. Prima di chiamare la concessionaria per verificare un eventuale problema al climatizzatore (che avevo attivato da pochi giorni), ieri l'ho portata all'autolavaggio. Con igienizzazione compresa, non si sa mai.

mi chiamano:

- duttureddu, lei è piscaturi?

- no, perchè?

- c'è n'pisci sutta u tappitu! è n'mazzuni saracinu!

Era l'ultimo degli irriducibili pettini, saltato fuori dalla busta e ormai essiccato!

 

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Alle ore 10.00 esatte il nuovo addetto all'animazione gridò "voglio vedere tutto il lido ballare!".

Solo dopo il silenzio assoluto si rese conto di avere appena assunto servizio al Geriatric Sea Beach. Disattivò l'amplificazione e aggiunse le lettere RI al cartellone delle attività di svago balneare.

 

 

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Cammariere con Paoli e Rea . Niente, non è cosa, non è musica mia. Mi sto addormentando, non ce la faccio. Più lo guardo lì sotto suonare e più sogno di vederci Willie Nelson, Jhonny Cash e Dolly Parton.

Per passare il tempo ho fatto di tutto ma, a parte chi mi è accanto,  non vedo niente di interessante. Non posso scrutare nemmeno le stelle, che non si fanno vedere per via della cappa di afa che le ricopre. Lamette nemmeno a parlarne, oggi è sabato e i tabaccai sono già chiusi.

Insomma, mi è venuta una gran voglia di Al Bano e Romina Power.

Accetto pure filmati youtube di Renzo Arbore o di Gino Latilla.

Giuro che metto gli auricolari per non disturbare.

Arrghhh!

M.R. AGO 2017

 

 

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Mettetela come volete: la musica del Padrino, i berretti neri, il Bell’Antonio, i baffi, i fichi d’India, i cannoli, beddamatri, mizzica… ma i matrimoni in Sicilia hanno un fascino tutto particolare.

E’ uno spettacolo. Come per incanto, tutto è fermo in attesa di essere dipinto, girato, scritto. Già la sposa fa parte del capolavoro appena esce fuori dalle chiese barocche di tufo e pietra lavica, coi suoi neri capelli e gli occhi come olive. Aggiungiamoci alcune pennellate di cavalli, il cocchiere, le musiche, gli invitati (soprattutto gli invitati), il selciato, i colori, i paggetti e i testimoni, il tragitto, i curiosi, il rinfresco, il posto.... e l'opera è completa.

E poi ditemi perchè qui, anche in quel particolare giorno, tutto diventa un film di Maestri del cinema come Visconti, Bolognini, Germi, Wertmuller, Zeffirelli, ecc. ecc. ecc. Forse perchè solo qui in Sicilia, questi geni dell'arte hanno sempre saputo individuare l'interruttore per accendere ….. la luce!

Giugno 2013

 

 

 

 

QUANDO ESAGERO CON LO ZUCCHERO NEL CAFFE'

 

Primo maggio di questo (omissis) ”2015”. Quel che è rimasto dei miei capelli insieme all’essere che ho incontrato tanti anni fa. Ma solo dopo ho scoperto di quale sostanza era fatto, certamente proveniente da un mondo di elfi, folletti e gnomi.

Col tempo, poi, mi sono pure adattato al ruolo molto “secondario” del coniuge di colei che emana luce così pura da attrarre gli esseri umani che vivono fuori dal bosco. Il mio è un ruolo che non esiste nella bibliografia fiabesca, non si sono sognati di inventarselo nemmeno i fratelli Grimm o Christian Andersen. Io l'ho attuato dal vivo.

Ho scoperto da tempo chi è davvero ma lei, forse, non sa di esserlo. Non l’ha ancora capito nemmeno quando viene circondata da tutti quelli che l’amano e che, incantati, le vedono scivolare attorno stelline luccicanti e polveri magiche. Loro sì che lo sanno.

Lo sanno anche i bambini, innocenti, che le vogliono dare a tutti i costi la buonanotte; lo sanno perfino gli animali, anche loro innocenti, che le scodinzolano sotto la gonna senza nemmeno conoscerla o gli uccellini che aspettano le sue molliche ogni mattina. Lo sanno tutti, tranne lei.

Personaggi del genere me li raccontava mia madre da bambino, per farmi addormentare. E invece io l’ho sposato quel personaggio, fino ad abituarmi a conviverci.... con una fata!

 

 

SAN VALENTINO

... compresi i non corrisposti e i non dichiarati, … ma anche a tutti coloro che amano o che sono amati;

 agli innamorati “tesserati” e a quelli “tartassati”;

ai liceali maldestri e ai laureati già navigati;

agli amanti che si accontenteranno di fugaci sms e ai cornificati che quegli sms li hanno già scoperti;

alle tonnellate di rose rosse accettate per bramosia, a quelle gialle rifiutate per gelosia, ma soprattutto tutte quelle ordinate dai fioristi!;

ai pacchiottoni che si mangiano le mani per l’occasione sprecata e ai Casanova (esistono ancora?) che non sprecano nemmeno le briciole e mangiano non le loro ma le altrui mani, le altrui bocche, cuori, tutto;

ai primi teneri bacetti soffiati all’asilo e a quelli, altrettanto teneri, scambiati dagli anziani nelle case di riposo quando  si guardano negli occhi convinti di essere ventenni;

a chi ci crede ancora, ma anche a chi non ci crede più;

ai separati di fresco, che stasera saranno da soli e a quelli che consumeranno un'ipocrita cena a lume di candela;

a quelli che dicono, ogni anno, che lo festeggiano ogni giorno e a quelli che non sanno nemmeno che giorno è oggi;

a chi pensa che tutto questo scompenso ormonale sia solo una composizione farmacologica con scadenza triennale e a quelli che giurano amore eterno scorticando i banchi di scuola (sono ancora in legno?);

a quelli che dicono “qualche volta chiamami anche tu” e a quelli che dicono “non mi telefonare più”;

a quelli che chiedono “quanti anni mi dai?” e a quelli che rispondono “l’ergastolo, ma mi dichiaro complice per entrare nella tua cella”;

a quelle che, per amore, al botteghino fanno due ore di fila sotto il sole per prenotargli l’abbonamento allo stadio e a quelli che, per amore, in farmacia chiedono per lei ad alta voce Lines Seta Ultra Viola (con le ali);

E infine a quelli che amano le cazzate di Federico Moccia, ma anche a quelli che le proprie le scrivono in questo post. Perdonateli, sono in buona fede e si inteneriscono perchè stanno invecchiando.

Insomma, a tutti quelli che nella loro vita hanno detto, almeno una volta, “ti amo” a qualcuno; che sia stata l’amato/a o un parente, un animale, una squadra, un mito, una passione che fa battere comunque il cuore.

Se avete pronunciato queste due sacrosante parole che servono a dire “vale la pena vivere”, San Valentino

 M.R.

 

 

SCEMENZE POETICHE

 

Ho subìto un intervento sul palmo della mano:
una cisti fra la linea della vita e quella dell'amore.
Mi hanno lasciato, a malapena, quella della vita.
L'altra è stata tagliata, ferita, squarciata, lacerata,

bruciata, recisa e poi cucita, scrostata, piallata, 

raschiata, spianata, levigata e infine eliminata,

annullata, cassata, abolita. Cancellata.
Un capolavoro di chirurgia plastica.

Ormai inesistente, invisibile, impalpabile.
Ma allora ....... com'è che la risento vibrare sotto le dita?

(M.R.)

 

 

Qual è il giorno che mi odiasti veramente?

Dimmi che urlai, come ti feci piangere, perchè ti angosciai.

Dimmi il giorno esatto, che processerò la mia coscienza

e mettendola sotto tortura le farò confessare

dove si nasconde quello che di carogna c'è dentro di me

e che non sono mai riuscito a stanare.

Ora dimmi qual è quel giorno che mi amasti veramente.

Com'ero, come ti guardavo, e quali versi ti dedicai?

Rivelami qual è la data, che interrogherò i miei rimpianti

e guardando quello specchio afferrerò in un baleno

quel che di più bello c'è riflesso in me

ma che non sono mai riuscito a vedere.

(M.R.)

 

 

La durata della felicità è regolata da un semaforo

posto agli incroci del nostro destino:
la luce verde dura un soffio,
la luce rossa un'eternità.
Quindi, quando ti è consentito premi sull'acceleratore.
Dietro ti stanno già suonando.
(M.R.)

 

Da quando ti guardo mi hai causato strabismo.
Da quando ti respiro, un enfisema.
Da quando ti ascolto, non so più parlare.
Da quando ti bacio, non sento più il palato.
Da quando t'amo, un cancro è padrone del mio cuore.
E mentre mi stai consumando, 

tu rimani la mia inguaribile patologia.
Io, invece, un malato terminale
invaso da infinite metastasi a forma di te.
(M.R.)

 

 

 

Un giorno mi hai chiesto "Quanti anni mi dai?"
Settanta!
Cafone io? No cara, e ti dimostro che a volte
la matematica è un'opinione, sanguinolenta opinione.
Dieci anni te li do per quelle gote prima da sfiorare,
e poi con cattiveria azzannate, sbranate, dilaniate.
Per indignarti, eccone dieci per il tuo sguardo magiaro
capace di pietrificare colui che ci guarda dentro.
Sei ancora risentita? E allora affondo sempre di più:
ancora dieci per quei capelli che galoppano
nell'arena dei sogni come una biga impazzita.
Signora, la mia villania non è ancora finita: altri dieci
per quella bocca da stravolgere da est ad ovest,
da nord a sud, e poi veloce fino allo zenit.
E quale insulto finale, gli ultimi trenta te li do
per l'ergastolo che sto ancora scontando
da quando mi hanno colto in flagrante,

con la prova del delitto ancora in bocca: il tuo cuore.
Lo vedi che il conto torna?

(M.R.)

 

Ieri è venuto da me uno strano essere, dicendomi che al di là della vita un Paradiso esiste davvero. Non come quello che abbiamo sempre concepito, ma un posto dove sia i buoni sia i cattivi possono godere delle sue meraviglie e del suo senso di benessere. Un posto dove appena arrivati, si rimpiange all’istante tutto il tempo sprecato nella vita terrena.

Mi ha detto che se mi fossi tolto la vita per conquistare questa autentica felicità non sarei stato nemmeno punito per il peccato commesso perché in quel posto non esiste nemmeno l’Inferno.

Poi mi ha offerto un siero per non sentire il dolore del trapasso e la sua tutela durante il viaggio per vincere la paura. In sostanza mi sono trovato su un piatto d’argento tutta la verità e tutte le risposte, peraltro belle. Un’occasione che qualsiasi mortale avrebbe accettato.

Però, prima di andar via, mi ha pure avvisato che se avessi rifiutato quella proposta avrei dovuto aspettare mille anni per riconquistare questo privilegio.

Allora ho passato in rassegna tutta la mia vita: il passato con te e il futuro con te. E ho valutato se ne valeva la pena.

    Gli ho risposto di no.

(M.R.)

 

 

IL NATALE A MODO MIO

 

CHIAMASI ATMOSFERA

Stasera rientro a casa e vedo nelle casette della posta decine di enormi buste provenienti da San Giovanni Rotondo. Prendo la mia credendo, per il suo volume, che si trattasse dell’estratto conto bancario di fine anno.

Dopo aver risposto (quotidianamente e credo per la centesima volta) a quei poveri cristi del Call Center che Fastweb, TeleTu e Teledue non mi interessano, apro l’enorme busta (era in formato A4 o forse A5 special.. esiste ancora?) . Pesa non so quanto e son sicuro che Poste Italiane, con i problemi che ha, non si sarà fatta prendere dalla compassione religiosa. Quindi tariffa intera!

Perché lo dico? Ma perché calcolando il numero dei  condomini, le palazzine, i quartieri, le città, le regioni……. dove cacchio li prendete tutti questi soldi?

Insomma, parliamo tanto di fame del mondo, di fare in modo di aiutare i profughi, di … non dico far vivere, ma far sopravvivere quelli che se la passano peggio di noi e voi, invece, che fate? Barattate col sottoscritto l’acquisto del calendario di frate Indovino con allegati il bollettino postale e la macabra cartolina della salma di Padre Pio che, con tutto il rispetto per il Santo, non la farei mai vedere ai miei nipoti per Natale.

Ma siete ammattiti? Io credo che se fosse in vita e soprattutto conoscendo il suo pessimo carattere, Padre Pio avrebbe fatto l’inferno cercando ad ogni costo di smantellare quella Las Vegas cappuccina che avete creato. Ma lo leggete Papa Francesco? Se non lui, li leggete almeno i giornali o siete troppo occupati a registrare gli incassi provenienti dalle vostre Royalties?

Ma voi, umili frati che fate rivoltare le ossa di una tomba in quel di Assisi, cari Padri dell’ordine dei “multinazionali” che non siete diventati altro, invece di spendere il denaro dei vostri fedeli in questo modo che nemmeno Berlusconi lo sperpera così in campagna elettorale, perchè ogni tanto non accendete il televisore per capire meglio quale potrebbe essere la sua reale destinazione? Non ci vuole tanto e non si deve nemmeno attendere, gli sbarchi a Lampedusa e i pensionati che scavano nelle pattumiere sono fra le prime notizie dei Telegiornali.

Comunque, Buon Natale e….  che il Signore sia sempre con voi (almeno spero).

(2013)

 

 

NATALE 2007

E anche quest'anno è arrivato, siamo pieni di auguri fervidi, cordiali, rispettosi, calorosi e auguriamo un felice e prosperoso anno nuovo a tutti, anche ai nemici. L'aria pungente e frizzantina ci brucia il naso e le guance, quel fumo che esce dalla bocca mentre parliamo ci ricorda quest'atmosfera. Le strade sono piene di gente, di autocarri fermi in doppia e tripla fila che scaricano merce ma è anche il tempo dei saggi e delle recite nelle scuole elementari.

Ogni anno ecco il coro dei bambini, dai più alti fino ai pulcini per intenerire un pubblico composto da mamme disperate perchè non sono riuscite a trovare quella particolare stoffa che richiedono queste maestre sempre più esigenti, pignole e nevrotiche. La vulcanica direttrice scolastica, presa da sindrome di protagonismo, diventa la Milly Carlucci dell'occasione presentando chiunque come si fa alla notte degli Oscar. Le maestrine di musica e canto sfoggiano i loro abiti eleganti in questo momento "mondano" che aspettano da mesi e per il quale non ci hanno dormito la notte.

Si vedono poi arrivare dei signori di mezza età in giacca e cravatta. Sono i politici che in queste occasioni fanno una scellerata opera di sciacallaggio sfruttando un momento magico riservato soltanto ai bimbi. Presenziano in queste innocenti riunioni solo per farsi campagna elettorale davanti ai genitori, sputtanando buoni propositi e promesse che non concretizzeranno mai; ricevono ringraziamenti dai direttori didattici per il contributo concesso chiedendo in cambio di citarli nei titoli di coda. Sono lupi famelici simili a quello di Cappuccetto rosso proiettato poco prima in quei locali. E i bambini, se conoscessero la vera identità di quelle nonnine camuffate, scapperebbero via dal terrore.

Nel frattempo, i genitori sono assiepati in platea e coperti da cineprese e fotocamere con teleobiettivi che ho visto soltanto nella finale mondiale con la Francia, dietro la porta di Buffon. Questa è una di quelle occasioni per usare finalmente queste apparecchiature sofisticatissime, che non sanno ancora ben manovrare nonostante la lettura di quel gran tomo delle istruzioni (450 pagine!). Quelle foto, quelle riprese, le faranno vedere ai nonni e poi andranno a finire in una sottocartella di Windows, nel dimenticatoio di decine di CD masterizzati al punto di non riconoscere più qual era l'anno di quella foto. Che era bella quell'unica, espressiva, originale fotografia, stampata, che da sola rappresentava tutto un evento, tutto un anno, tutta un'emozione.

Dagli asili ai licei, il 23 dicembre è stato sempre così, è questa la vera vigilia di quei tre giorni in cui diventiamo più inoperosi di un orso in letargo e non capiamo più se è domenica, sabato o festivo. Quindi non ci resta che aspettare che passino, ovviamente in famiglia con i nostri cari.

Ma c'è chi, in quel momento, vorrebbe essere con un tutt'altro "caro", in tutt'altro luogo. Chi non l'ha mai provato alzi la mano! Ci sarà sempre un ragazzo che sta alla finestra a guardare le altre illuminate dagli alberi di Natale pensando l'amata conosciuta a scuola, quella del primo banco che filava tutti meno che lui, che per ora immagina come una Madonna e che gli sta facendo perdere la testa. Non l'ha più vista dal 23, da quando hanno fatto la festa al Liceo per gli auguri natalizi. Ne è innamorato perdutamente. Da un paio di mesi il viso di lei ha traslocato nei suoi pensieri, armi e bagagli nella sua mente. E non vuole proprio sentire di andarsene, nemmeno con l'avviso di sfratto.

C'è la luna sui tetti c'è la notte per strada, ci scommetto che nevica, tra due giorni è Natale .... I familiari si chiedono perchè è così triste, lo chiamano per giocare a tombola ma lui è distratto, tanto distratto. "Dai, che c'è il discorso del Presidente". Ma chi se ne frega del Presidente? Lui è altrove, intento ad analizzare scrupolosamente tutte le domande e le risposte di questi ultimi giorni: "ma se quando ci siamo fatti gli auguri mi ha risposto così, allora vuol dire che....no caro mio, non ti fare illusioni, avrà un altro ragazzo, te l'ha fatto capire quando ha risposto al cellulare, si è messa a ridere, a chi rideva?.....però, a pensarci bene, con quella frase cosa avrà voluto dire?.... chissà adesso che fa, con chi sta festeggiando, se in questo momento mi pensa o non si ricorda nemmeno che esisto? che faccio, le telefono o no? mah, a gennaio prendo coraggio e glielo dico".

Secondo voi sta male? No, sta bene, benissimo, magnificamente in salute. Ha solo ricevuto uno dei regali più belli che Madre Natura ci potesse donare. Si chiama cotta, ovvero splendida infatuazione di intensità variabile che potrebbe trasformarsi in un malessere di durata triennale, ma che nei casi più gravi rimane nell'organismo fino alla vecchiaia.

Il ragazzo passerà i giorni di vacanza a pianificare strategie, a leggere frasi memorabili scaricate da internet che dovrà imparare a memoria, poesie rubate a Neruda, filosofiche metafore per impressionarla; tutto un epico piano bellico per farla cadere alla riapertura della scuola. So già che fino al 7 gennaio sarà malinconico, che non mangerà, non dormirà, che avrà le farfalle nello stomaco, che si ammalerà di gastrite. Non so, invece, se riuscirà nel suo intento o se il suo cuore, impazzito per i propri battiti, farà cadere lui anzichè lei. Chissà se lo farà inciampare in un complicato discorso intellettuale in cui nemmeno lui riuscirà a sbrogliare il bandolo della matassa, col rischio di annoiare la sua preda. Oppure lo farà balbettare in quel fatidico momento chiamato "dichiarazione", sperando che lei non gli dica (crudele, ma in realtà calcolato da tempo) "Ti voglio bene, ma come un fratello. Ci devo pensare". Una deludente risposta che ha massacrato l'anima giovanile di milioni di maschietti. Ammettetelo.

Purtroppo per lui, Gennaio è ancora lontano e tutti questi giorni di festa fino all'Epifania - maledetto Natale! - non fanno altro che impedire i suoi meravigliosi intendimenti e amplificare quello splendida malattia che si porta addosso e che ha contratto fin da quel giorno a scuola quando, durante la ricreazione, per una frazione di secondo i suoi occhi sono entrati dritti dritti dentro quelli di lei incrociandosi entrambi in un fugacissimo attimo, come due stelle che si congiungono perfettamente in parallelo nella costellazione di Cupido. Un "plin" il cui rumore sarà percepito soltanto da loro due; un secondo brevissimo ma eterno, interminabile, giusto appena per consentire a qualcuno di scoccare una freccia. E quando un cuore è stato lacerato così pietosamente, proprio in questo periodo, sono cavoli! Due settimane che sembreranno secoli.

Passerà anche per lui, ma per quest'anno dovrà rassegnarsi a una festa diversa: quella che la sua anima turbata, già arrivatagli dallo stomaco fino in gola, gli riserverà. Gli organizzatori non si chiameranno Santa Claus o Befana ma Feniletilamina, Ossitocina, Endorfina, Testosterone. Tutte sostanze, i cosiddetti ferormoni, che vigliacche faranno baldoria nel suo cuore festeggiando anche il Capodanno, fino a sfiancarlo.

E il 7 gennaio, mentre il nostro, carico di adrenalina, avrà molto da fare (speriamo bene) noi invece dedicheremo i primi giorni a un'altra sostanza: la Biochetasi, formidabile amica che ci aiuta a smaltire quelle autentiche follie di fine anno. Tutti a dieta! Ma quanto durerà? Se a dicembre i salumieri hanno fatto affari, in questo mese li faranno i farmacisti, i dietologi e le palestre. Buoni affari anche per i Pronto Soccorso, che nei primi giorni dell'anno riceveranno la visita di parecchi imbecilli. Comunque i buoni propositi finiranno presto, la buona volontà di perdere qualche chilo farà posto ai primi cioccolatini dentro la calza della Befana e alla gran quantità di Pandoro rimasta per le colazioni fino a febbraio.

Dopo le spese pazze, faremo i conti con tutto ciò che si dovrà pagare nel primo mese dell'anno: bolli auto, canone tv, tagliandi di garanzia, tassa sulla spazzatura, conguagli vari, ecc.. ma dov'erano nascoste tutte queste tasse? Per non parlare di quell'effimera dicitura che chiamano “tredicesima”, vista fugacemente ogni anno sul cedolino, che cos’è? Mai vista dal vivo, quasi un'entità evaporata nell'arco di una settimana!

Riguardo all'anno che verrà, in passato qualcuno disse "ogni Cristo scenderà dalla croce...". No, non scenderà nemmeno quest'anno. E' sempre lì che ci guarda, da duemila anni. Ogni 31 dicembre solleva gli occhi al cielo e dice "Padre, perdona sti poveretti perchè continuano a non sapere quel che fanno!".

M.R.

 

 

NATALE 2006

(Lettera di Babbo Natale a Mimmo Rapisarda)

Napapiiri (Finland), dicembre 2006

Caro Mimmo,

ciao, sono colui che tutti chiamano Babbo Natale.

Da un po' di anni soffro di depressione e ad ogni dicembre cerco qualcuno per sfogarmi. Quest'anno ho scelto il tuo sito web (si scrive cosi?).

Innanzi tutto, vuoi sapere una cosa? Mi sono stufato! Mi sono stufato di tutte queste nuove richieste che mi arrivano, di tutte queste nuove tecnologie che trasformano i desideri di quei poveri cristi lì sotto in meno di tre mesi. Così capita che mentre ad ottobre preparo l'oggetto, due bifolchi annunciano a tutti "Life is now" e a metà novembre sono costretto a ricominciare tutto daccapo. Alla fine arrivo al 24 dicembre stressato e depresso. Ho fatto pure delle sedute di psicanalisi qui vicino, in Svezia, presso uno strizzacervelli, un certo Freud. Alla fine sono uscito dal suo studio ancora più depresso.

Come ogni anno, per fronteggiare questa nuova realtà, ho cercato di farmi aiutare dai soliti gnomi lapponi. Ma quelli conoscono a malapena l'impianto elettrico dell'albero di Natale. Così ho dovuto assumere degli elfi giapponesi hi-tec, mandando in cassa integrazione i miei gnomi. Non ti credere, sono cose che capitano anche qui, conseguenze del vostro inarrestabile progresso!
Sai, una volta ero uno di quelli che voi chiamate santi. Non so come, ma dalla Puglia mi sono ritrovato in Lapponia. Mi hanno cucito addosso questa casacca rossa (ormai da buttare via e che mi sta strettissima) sfruttandomi in tutti i modi. Come un coglione mi fanno dire per le strade "oh oh", mi fanno bere la bevanda scura di una multinazionale americana, mi fanno fare il giro del mondo in 20 giorni (altro che 80 giorni, quella sì che era una pacchia!), mi infilano nei film, nelle canzoni, nei libri, negli spot ed usano la mia immagine come meglio credono. Sfogliando queste pagine, vedo che anche tu non scherzi, briccone!

Mah... meno male che dura solo un mese e che poi si dimenticano di me, lasciandomi in pace per il resto dell'anno.

Sapessi le richieste che mi arrivano! Le più pazze! Mi chiedono carriere strepitose, una notte con Alena Seredova, trenta punti di bonus per la Juve, una raccomandazione alla ASL per avere il Dott. Gargiulo come medico di famiglia, entrare nella casa del Grande Fratello, confezioni di Viagra, labbra alla Angelina Jolie e capelli alla Brad Pitt, vincite alla lotteria, terni e ambi al lotto per pagare l'abbonamento a Fuorigrotta dimenticando che mi chiamo Nicola e non Gennaro! Figurati che alcuni mi hanno chiesto, senza riuscire a trovarlo, il catalogo Postal Market. Dicono che sia meglio della rivista Playboy.
E poi una certa De Filippi che doveva nascondermi dietro una busta gigante per far riappacificare due coniugi. Un giorno mi ha pure scritto una signora che si chiama Carrà, pregandomi di farle da "gancio" per un bambino un po' scettico: dovevo entrare in uno studio televisivo dove lei gridava a tutti "Babbo Natale …è quiiiiii!.

Mai che mi sia arrivata una lettera congiunta da Gerusalemme per far finire la guerra in Medio Oriente, o una dal Palazzo dell'ONU perchè cancellino tutti gli embarghi nel mondo, o una della Fao che mi comunica "per quest'anno non c'è bisogno di niente", o una dal nord Africa dove sta scritto "da gennaio non si salpa più". Niente, nessuna lettera, quella casella del mio ufficio postale rimane sempre vuota.

Com'erano belli i tempi in cui mi scrivevano soltanto per far stare bene mamma e papà, o solo per far guarire il bambino malato incontrato per strada oppure solo per i tanti desiderati trenini e le bambole o addirittura soltanto per aiutare un innamorato a conquistare la sua amata (con la puntuale sfuriata del mio collega Valentino, il quale sosteneva che avrei voluto fregargli il lavoro!).

Anche le mamme sono cambiate. Quando mi chiedono di farmi fotografare con i loro bambini e li metto sulle mie ginocchia, mi accorgo che nei loro occhi non c'è più l'innocenza di una volta. Mi guardano come soldatesse dell'Esercito della Salvezza o come Dame della San Vincenzo. Io capisco, sto zitto e non tengo più di tanto i loro bimbi. Comunque non le giudico. Coi tempi che corrono, gli orchi cattivi sono sempre più in agguato.

E poi è cambiato tutto. Oggi i trenini me li tirano in faccia! In passato, quando mi calavo dal camino, sapevo che erano tutti a letto e potevo operare nel buio del salotto con tranquillità. Oggi, già che i miei pantaloni non mi entrano più perché ho già abbondantemente superato la taglia 58, scendo dal camino sempre con più difficoltà e quando a mezzanotte arrivo sotto, tutto sudato...... me li ritrovo ancora tutti lì, svegli, con gli occhietti ancora aperti, imbambolati di fronte alle loro playstation o a massacrarsi il pollice destro per infiniti e insignificanti messaggi, oppure per guardare il video dell'ultima bravata fatta al compagno di classe. …e li vedo immersi nella loro scolorita solitudine, nel loro status di ragazzi cresciuti troppo in fretta, nella loro spenta adolescenza di figli con genitori divorziati. Quando mi materializzo mi guardano con un'espressione che non dice nè amore, né odio. Niente. Soltanto un'atroce indifferenza simile a quella con la quale si guarda una cacchetta per strada; indifferenza che tocco con mano ogni anno, sempre di più. Vedono il sacco pieno di roba (che non sanno quanta fatica mi è costato, viste le sempre più esose esigenze della delegazione sindacale degli elfi giapponesi) e mi dicono "Mettilo lì, insieme agli altri. L'hai portato lo scontrino fiscale? Vecchio, almeno ce l'hai un punto vendita in questa città? Se non funziona, dove vuoi che reclami, in Finlandia?".

L'altro ieri ho chiesto a un dodicenne "Cosa vuoi per Natale?". Sai cosa mi ha risposto? "Niente, grazie. Non desidero nulla di terreno, ho già Emule.com!".

Vedi a che punto sono arrivato? Sono stanco e non ce la faccio più, ho miei anni, i miei acciacchi e questi folti capelli bianchi che vedi non è altro che una parrucca, quelli veri li ho persi come li perdi tu. A proposito, lo vuoi per Natale un trapianto? Un certo Silvio da Arcore me l'ha chiesto due anni fa ed è felicissimo, funziona! Gli ho fatto omaggio pure della bandana, come optional.

So che vuoi dirmi: "ma allora perchè fai tutto questo?" Perchè, nonostante desideri anch'io la pensione, la verità è che io, Pollicino, Peter Pan, Pinocchio e tanti altri "miei colleghi" siamo la stessa persona. Fino a quando esisteranno bambini che mi evocheranno attraverso quello che vogliono davvero vedere i loro occhi, sarò trascinato sulla mia slitta a girare il mondo in cerca di gente (chiamiamoli bambini) che hanno ancora nell'anima quel po' di fantasia e fanciullezza da farli rimanere tali. Ed io, per forza di cose, avrò questa perpetua missione fino a quando non ci sarà più nessuno che dirà che Babbo Natale non esiste. Ma fino a quando sentirò un bimbo piangere perchè un imbecille gli ha detto della mia inesistenza, io ci sarò. Sempre. Ci sarò (ci saremo) anche per quegli anzianotti ancora affascinati dai folletti birboni che li fanno tornare bambini e che la smettono soltanto quando si sentono dire "buonasera dottore" risistemandosi la cravatta per darsi un po' di contegno.

Amico mio, amici miei, la vita è già difficile e breve. In ogni momento una pallida donna di malaffare vestita di nero vi aspetta dietro l'angolo e, purtroppo, i clienti se li sceglie sempre da sola. Per fregarla, Madre Natura vi ha regalato quel folletto che fa tanto bene alla salute e che invece, quando crescete e siete ormai convinti di essere immortali, lo riponete nei cassetti dei vostri ricordi come una cosa che non serve più.

Lo dico soprattutto a quelli più giovani: sforzatevi di divertirvi anche con poco, basta sfruttare la fantasia, la goliardia e l'ingegno, non cercate un divertimento artificiale attraverso scellerati strumenti che vi costringono ad acquistare nel villaggio globale. E poi un consiglio da Babbo: fra tanti "mi piacerebbe farlo, ma forse è meglio di no" ogni tanto fatelo, accontentatelo il vostro cuore ribelle, fatelo adesso perché un giorno non ve lo consentiranno, perchè un giorno vi diranno che siete dei buffoni. Per questo quel dono dovrete portarlo sempre con voi, non mollatelo mai. In poche parole: godetevi la vita con filosofia, senza pensarci su più di tanto.

Un signore che si chiamava Antoine De Saint-Exupéry una volta scrisse "Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano".

Io mi ricordo delle infanzie di tutti voi, uno per uno. Ricordatele anche voi, quest'anno vi aiuterò a rinfrescare la memoria. Per me è più di un dovere perchè quel folletto sono io, sono da sempre dentro di voi e non lo sapete. Questo è il mio regalo di Natale: io stesso.

Ringraziandovi per l'affetto che mi avete manifestato in questi secoli (e Mimmo per lo spazio concessomi), vi auguro delle feste serene.
..... chiamatemi come volete, Nicola, Babbo, Klaus, spirito natalizio. Io sarò sempre il vostro.... Natale

__________________

Santa Claus Office - Joulupukin Pajakylä - 96930 Napapiiri - Arctic Circle - Finland - E-mail: santa.claus@santaclausoffice.fi

P.S. che lo sbaddu sia sempre con voi (questa me l'ha insegnata il padrone di casa)

 

 

AFORISMI

"Quando ti dicono "niente è impossibile" pensa a Leicester, quando ti dicono "tutto è possibile" pensa a Catania"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Due sono le parole più stupide inventate dall'uomo: per sempre"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Li invidio i capi in saldo a La Rinascente. Loro sì che hanno visto Woodstock!"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Che c'è di più bello nel vedere un francese incazzato mentre lui è sul cubo numero due e tu su quello numero uno?"

(Mimmo Rapisarda)

 

"Ieri non so quanto miele ho sparso lungo le vie, per decorare valanghe di cuoricini a San Valentino.

Oggi ritornerei a raccoglierlo dov'era, ma solo per decorare crespelle a San Giuseppe."

(Mimmo Rapisarda)

 

"L'uomo va in bambola per due effluvi: il profumo dei capelli della sua innamorata e l’odore di nuovo dell’auto alla concessionaria."

 (Mimmo Rapisarda)

 

"Amore vuol dire aver vissuto assieme i lockdown anti-Covid e non aver divorziato."

(Mimmo Rapisarda)

 

Sui binari della nostra vita esiste da sempre quel treno in partenza per Yuma.  Sta a noi riuscire a saltare giù dal vagone prima di arrivare a destinazione.

(Mimmo Rapisarda)

 

 

 

 

 

LA MIA TERRA

 

 LA VASCA DA BAGNO DEGLI DEI

Omaggio a Ognina, ovvero a quel che resta dell'antico scalo marittimo di Catania: il Porto di Ulisse, come lo chiamava Plinio.

La storia, le leggende e le origini del porto, tuttora coperto dalle antiche lave sul nostro lungomare, sono già descritte su magnifici libri in vendita nelle librerie. Non sono io colui che dovrebbe rendervi dotti, ma solo tentare di spiegarvi perché è una fortuna vivere attorno a questo piccolo lembo di costa jonica e perché si diventa ogninesi.

Quel poco che intendo io è l'Ognina dell'altro ieri popolata da alcuni personaggi che conosco, illustri e non: mastri d'ascia, famiglie di armatori, pescatori, sportivi, imprenditori, commercianti, ristoratori, ricchi, poveri, savi, matti, furbi e ingenui. Chi non conosce i suoi personaggi? La famiglia Testa, Pippo Sciabulazza, il Tenace, i Ceusi, Affiu u babbu, Mimmo Urzì, Maria 'a pazza, Topolino, il Vigile pazzo, il panettiere che girava d'inverno in canottiera, Padre Foti, Padre Agnello e Mons. Fallico, la clinica Gretter, gli Spampinato, i fratelli Maugeri detti i Vichinghi figli del "baracchiere"  presso il Barone Paolo Castorina da Mascalucia che diede lustro ai Bagni Ulisse nell'ultimo secolo e che, pare, abbia ispirato Brancati nella stesura di Paolo il Caldo. E poi il Prof. Peppe Perrotta, l'architetto volante Pippo Anfuso autore di libri straordinari su Ognina, Nitto dei frutti di mare e.. ricordando la grande ala che era, il campo Ulisse custodito dalla famiglia Laudani, dove non era facile concentrarsi perchè a sinistra c'era l'Etna… e a destra il mare! Con questi scenari come si poteva controllare il centravanti? Purtroppo il cinico attaccante conosceva il difensore e quanto fosse sensibile quando calciava un pallone nel suo quartiere; se poi la giornata e la luce erano tanto appropriate da mandarlo in bambola, per il centravanti non era nemmeno tanto difficile andare a rete!

Guardando oltre quella porta, dietro l'Istituto Nautico, ancor oggi si può scorgere l'infreddolita scia natatoria alla "San Silvestro a mare" del compianto Lallo Pennisi, o la squadra di canoa-polo di Edoardo Finocchiaro proprio di fronte dove una volta c'era la rosticceria Pollo d'Oro, succursale marittima di una blasonata società calcistica catanese degli anni Sessanta. Dopo aver preso "u rancutu" da Milone, infilato fra canotti e salvagenti, che c'è di meglio di un giro fra i locali della piazza? Ecco il Costa Azzurra del Sig. Alioto che ha poggiato sul mare tanto di quel cemento da passare più giorni davanti ai giudici che alla cassa del ristorante, e poi il ristorante Fort Apache, lo Yacting Club, il Circolo Canottieri Jonica, il Piccolo Bar, la pasticceria Quaranta, la storica Terrazza Balsamo che ritengo il bar più panoramico di Catania: entrateci pure dentro, prendetevi un caffè al tavolo e dopo dieci minuti controllate se per caso il caffè si è raffreddato… forse eravate troppo distratti. Ma anche i locali sul lungomare e che accompagnano fino a Guardia: Tris Bar, i Giganti, Europa, La Tavernetta, Cafè de Paris, Ernesto. Come si possono non citare?

Come peraltro sarebbe un delitto omettere, oltre al già citato Bagni Ulisse, anche uno storico stabilimento balneare appartenente di diritto alla storia di Catania. Mi riferisco al Lido Longobardo, citato anche da Ercole Patti e da Giovanni Verga.

Adesso si chiama diversamente e la gestione è cambiata, ma è ancora collocato esattamente al centro della baia di Licuti, e proprio per questo dalle sue scalette sembra di scendere in una piscina naturale di fronte a uno specchio acqueo senza una bava di vento. Ai tempi d'oro, si attraversava il vecchio ingresso decorato dai trofei dell'Amatori Catania di Paolone e dell'Ing. Stazzone e si obliteravano i biglietti al bancone dove erano sedute le signore Longobardo. Le due sorelle, fin da bambine hanno avuto la fortuna di respirare quei legni impregnati di sale e da sempre appartenuti a quell'immenso campionario di odori catanesi, così inebriante da portare al fallimento la migliore profumeria del Corso. Mentre si pagava l'ingresso, attraverso i loro occhi si poteva quasi sfogliare la storia catanese del penultimo secolo: costumi in affitto che arrivavano alle caviglie, bianche pagliette e papillon a quaranta gradi, ghiaccio grattato all'Etna per farne granite al limone, cabine da bagno con botole e scalette, gote rosse di vergogna all'uscita dagli spogliatoi, bagnini coi baffoni e soprattutto un mare che i nostri scrittori hanno sempre saputo pennellare sulle loro pagine. Ma non c'era solo il Longobardo.

Fino ai primi anni Ottanta facevano da cornice a Li Cuti anche il lido Mirasole, lo Smeraldo, il Porto San Giovanni, le Rocce (molto di moda negli anni Settanta), il Lungomare, il Villa Teresa, l'Elios, il Gambero com'era una volta. Allora era anche consentito rimanere fino a tarda sera e si approfittava per giocare a Scala Quaranta all'aria fresca, fra un'anguria ghiacciata e partite in notturna di pallanuoto, con le calottine della Libertas che si fronteggiavano fra due porte sempre a mollo e illuminate da neon … purtroppo a intermittenza. Non posso dimenticare questi flash (a intermittenza).

Bello tutto questo, no? Un posto così, davanti al mare, non sarebbe una pacchia soprattutto per i naviganti? E invece non è così.

Nonostante sia una città di mare, a Catania è già difficile conquistare un solo metro quadro su cui far galleggiare anche una paperetta di plastica, figuriamoci un vero natante. Anche la piccola pesca è diventata un'impresa proibitiva a causa della scellerata tecnica a strascico che continua a rastrellare i nostri fondali portandosi dentro le reti decenni di ecosistemi utili alla riproduzione ittica. Uno scempio che si compie sotto troppi occhi e che si chiudono spesso a metà a danno dei pescatori onesti (quelli che sono rimasti) e della sopravvivenza dei nostri speciali prodotti ittici. Basti pensare che un Presidente della Repubblica se li faceva spedire a Roma.

Tuttavia, assieme a un mio cugino, non ci siamo arresi e come tanti altri concittadini ci dilettiamo a pescare col bolentino dalla barca… o cerchiamo di farlo. Quando possiamo, ci attrezziamo e di buon mattino facciamo la nostra prima sosta a Piazza Santa Maria della Guardia per acquistare l'esca dalla Sig,ra Olga, titolare dell'omonimo negozio su via Zoccolanti.

Da sempre considerata la leggendaria scogliera su cui l'Odisseo approdò sospinto dal dio Eolo, a partire dai nomi delle strade molte cose ricordano lui e i suoi compagni d'avventura. Ecco, forse questa "vasca da bagno degli Dei" è proprio la maga Circe trasformatasi in scogliera, che dopo la delusione avuta da Ulisse, ammalia chiunque passi dalle sue parti fino al punto di non fargli capire di stare a baciare le sue onde e non lei, e quindi farlo annegare.

A mio modo di vedere, è questa Ognina. Un piccolo angolo di Paradiso che l'Etna, durante l'eruzione del 1381, pensò bene di risparmiare per assicurarsi una tribuna perfetta dalla quale farsi ammirare meglio. Per questo, tanti secoli fa, ha circondato questa piccola striscia di sabbia senza sfiorarla, nemmeno con un lapillo, trasformandola in un palco disegnato con le sue colate laviche. Così l'Opera, con la o maiuscola, fu completata. Non è stata mica scema, la montagna.

Chi legge avrà facilmente capito che il sottoscritto è cresciuto da queste parti.

Esattamente a Guardia, sopra Li Cuti. Sono un figlio di Ognina e nelle sue strade ho vissuto per più di trent'anni. Anche se non ci abito più, la percorro quotidianamente con immenso piacere (anche se allungo il mio percorso), nei suoi bar prendo il caffè del pomeriggio e ricevendo i suoi baci di sole, le chiedo sempre "come stai" come si fa con una madre. Amo così tanto questo rione che quando ho cambiato casa ho cercato con costanza solo quelle che possedevano uno speciale requisito: la vista sul porto di Ulisse. E ci sono riuscito.Ogni mattina, dopo il primo caffè, è mia abitudine affacciarmi sul terrazzo e scrutarlo. Ovviamente il panorama è sempre bellissimo e sempre uguale.

Però che ci posso fare…..devo dirglielo ogni mattina: "Buongiorno Ognina".

 M.R.

 

 

MAMMA ETNA

Le fette da distribuire aumentano sempre di più, ma la torta da far leggere a tutti rimane sempre della stessa dimensione. E allora che si fa? Oggi esistono centinaia di testate giornalistiche che nel fare il copia e incolla, inciampano in verità che si lasciano alle spalle raccogliendo nell'impatto solo colossali cazzate, pur di far notizia. Perchè ormai, in questo mestiere, la cosa fondamentale è informare continuamente minuto per minuto, a costo di diffondere allarmismi, panico e terrorismo mediatico 24h. Anzi, più catastrofica è la notizia e meglio è.

Nel link che posto, ho letto finalmente qualcosa di sensato dopo il marasma di notizie catastrofiche che stanno facendo il giro del mondo. Dice bene il Prof. Privitera, in sintesi: "hanno scoperto l'acqua calda, noi lo sappiamo da decenni ma non diffondiamo castronerie pur di ottenere un po' di like in più. Calma, tranquilli!".

Anch'io conosco questa situazione. Una decina di anni fa, qualcuno mi raccontò di un certo timore (ma non preoccupazione) di chi conosce l'Etna, dovuto alla non più robusta tenuta dei suoi pilastri: troppa roba addosso! Sono passati 10 anni e siamo ancora qui, non è successo niente se non questo battello di scienziati che ha scoperto il motore sottomarino che viaggia a 4 cm. a settimana, facendo scivolare l'Etna verso il mare.

Certo, siamo tutti sotto il cielo e, considerate le ultime scosse telluriche, qualcuno ci pensa a questa ipotesi. Eccome. Per questo voglio precisare che quel che si paventa è già accaduto, davvero.

L'Etna ha circa 500.000 anni e le ultime architetture del complesso vulcanico risalgono a 150.000 anni fa. Già allora riversava immense ed interminabili colate sull'attuale fianco orientale. Ma un giorno di 80.000 anni fa, in medio Paleolitico, improvvisamente accadde la catastrofe. Un decimo del monte, quella parte che oggi comprende Zafferana, Viagrande, Milo, Mascali, Piedimonte, Giarre e Riposto, collassò e scivolò sullo Jonio con miliardi di tonnellate di materiale. Quasi un'intera provincia che lasciò un vuoto oggi chiamato Valle del Bove!

Tempo fa lessi che a seguito di una simulazione al computer, scoprirono che i suoni e le visioni di quell'evento furono apocalittici, la montagna si squarciò da un fianco liberando oceani di lava incandescente, violentissimi terremoti, frane da fine del mondo e, soprattutto, uno tsunami che quando ritornò distrusse le coste della Sicilia orientale e della la Calabria jonica, lambendo addirittura le coste d'Israele. Il fumo e le nuvole piene di elettricità e lapilli coprirono mezzo pianeta per molto tempo.

L'avete presente il film 2012? Ecco, uguale! Roba da far festeggiare la Lega lombarda e la Liga veneta per anni!

Questo tsunami è classificato al secondo posto nella storia dell'uomo, dopo quello di Creta.

A proposito di uomo, dov'era? Non c'era quasi nessuno. In Sicilia l'uomo sembra essere giunto molto tardi. Comparve durante il Paleolitico superiore (40.000 anni fa) con l'Homo Sapiens, che non brillava molto per intelligenza ma che di fronte a quelle scene sarebbe morto sicuramente per la paura!

Chissà com'era l'Etna ancora prima e quante catastrofi ha generato! La Terra ha 4 miliardi e 600 milioni di anni e se dividiamo la sua età in 46 giorni di 100 milioni di anni ciascuno, i dinosauri scomparvero ieri mattina, Cristo è nato un minuto fa e sulla Luna ci siamo andati due secondi fa! Quel che l'Etna riversò in mare, per la vita del pianeta corrisponde a un'ora fa. Quindi, nonostante la sua moderna tecnologia l'uomo sarà in grado di radiografare il futuro del Mongibello solo fra un secondo, un minuto, forse mai. Oggi può solo ipotizzare, non più di tanto. Deciderà soltanto madre Natura quando accadrà, se accadrà. E quel giorno non basteranno le bombette del Prof. Barberi per deviare flussi lavici perchè saremo solo dei microscopici intrusi sulla pelle di un pianeta che continua il suo naturale percorso.

Ovviamente, bisogna monitorare continuamente perchè siamo (solo nel Catanese) quasi un milione di anime che vivono, pur amandolo, sotto le gonne del secondo vulcano attivo al mondo!

E se dovesse accadere? Ci faremo il segno della croce e ci saluteremo, non essendoci via di scampo. Io probabilmente morirei d'infarto, solo ad assistere a quelle visioni! Avrei solo il tempo di cliccare "salva" sull'aggiornamento della pagina "Etna" su mimmorapisarda.it !

Manco il tempo di dire "miiiiii! m'bare.... talìa, c'è a fini do munnu!"

M.R. Ottobre 2018

 

LE PROMESSE POLITICHE A CATANIA

Non volendoci ricascare, avevo dato appuntamento all’anno nuovo per vedere se le solite promesse venivano disattese oppure no. Capodanno, Epifania, Carnevale, Sant’Agata, Pasqua e Ferragosto 2018 sono già passati. Ottobre 2018 sta per arrivare e, come prevedevo, la situazione (a parte le solite panchine e qualche alberello che vedrà la luce fra 50 anni) la situazione è rimasta immutata. Male, male male!

Non appartengo alla generazione giovanile spregiudicata e strafottente di oggi, quella con le facce illuminate e i pollici maciullati dalle distrazioni informatiche, senza ideali né convinzioni, che ottiene tutto e subito; né a quella brillante degli anni 50’ e 60’ nata in una Catania romantica che profumava i suoi marciapiedi di lavanda, facendoli calpestare da raggianti giovanotti che si ingegnavano per entrare ai Ciclopi per vedere i Platters di scapocchio. Un’era in cui la città era viva e piene di gente, gli amori fiorivano appassionati e le belle signore con 5° di seno speravano di diventare Miss Italia. Altri tempi.

No, io appartengono a quella degli anni Settanta cresciuta a pane ed eskimo, in piena crisi energetica e politica e con il coprifuoco serale in via Etnea in cui circolavano solo reclute in libera uscita che uscivano dal cinema Olympia o da via Di Prima.

Fra tutte, la generazione più pacchiottona rispetto alle altre due, ma la più genuina e sincera. Pur senza un quattrino in tasca, ci divertivamo lo stesso perché non mancava mai la fantasia per poter trasformare quel grigiore in un verde che non hanno nemmeno nelle colline svizzere. Era la gioventù che si accontentava di una Margherita e una birra Henningher alla Luna Rossa di Acirezza quando si poteva parcheggiare, che rinunciava a un cinema con Edwige Fenech se sapeva che in piazza Università stava per cominciare l’esilarante comizio del Cav. Mario Ferrini, che si terrorizzava a un posto di blocco dei Falchi visto il tanto rispetto che si aveva per le forze dell’ordine, che si accontentava di entrare gratis al secondo tempo per veder giocare Bonfanti o Spagnolo, che fumava le sigarette di nascosto (pagghioli!) comprate a cinque nelle bustine, che gridava "presente! all'appello mattutino all'Esperia, che si faceva venire la gastrite nel preparare la famigerata “dichiarazione” aspettando la puntuale risposta “ti voglio bene …… ma come un fratello, ci devo pensare!”, che cominciava a ballare al Charlie Brown o al primo Banacher o si spostava con i Ciao, i Gilera e le prime Kawasaky. Questa la Catania di 40/50 anni fa, silenziosa, educata, per niente appariscente ma non per questo geniale e viva! Anzi.

E questa generazione, fra granite di mandorla che inzuppavano pagnotte rigorosamente di semola, leggeva anche il quotidiano locale, ovviamente gratis al bar, ma lo leggeva. E rideva sì, rideva di gusto ad ogni progetto proclamato dai politici che allora amministravano la città. Allora come oggi, venivano pubblicati questi grandi disegni sulle pagine: grandissimi, belli, avveniristici, spaziali; anche allora si pensava alle future passeggiate per le famiglie, i garages, i supermercati, che vi credete? Rispetto a quelli odierni elaborati con l’Autocad, erano invece faticosamente disegnati col righello, la china e il tecnigrafo. Entrambi diversi nella tecnica ma uguali nella sostanza: minchiate!

Clamorose minchiate provenienti da destra o da sinistra, sia in quelle di ieri che in quelle di oggi. Non è cambiato niente. Ho aspettato quasi un anno per vedere se stava per cambiare qualcosa. Niente, ribadisco quanto scrissi un anno fa. Ho sessant’anni ma da bambino aspetto ancora la trasformazione di corso Martiri della Libertà, del lungomare veicolare al viale Alcide De Gasperi, lo stadio nuovo, l’allungamento della pista per i voli intercontinentali, il palazzo di Via Bernini, l’ex Palazzo delle Poste in viale Africa, ecc.

Niente, assolutamente niente di nuovo! Non si è riusciti nemmeno a cambiare il nome della strada intitolata a Nino Bixio, criminale arrivato qui a decapitare contadini spacciati per briganti. E’ ancora lì, nel quartiere Barriera.

Togliere le rotaie da corso delle Provincie e trasformarlo in Viale Ionio? Ne hanno cominciato a parlare che ero alle scuole elementari! 30 anni ci hanno impiegato! Mio nonno mi raccontava che da bambino suo nonno gli raccontava della prossima costruzione del ponte di Messina!!!! Negli anni Novanta qualche sognatore megalomane (buonanima) avrebbe voluto far qualcosa, ma qui a Catania si dice che “senza soddi non si canta missa”, lasciandoci solo archeologia urbana e lacrime che stiamo ancora versando.

Qui siamo lenti, inesorabilmente lenti. Non ci piacciono le evoluzioni e le riforme, sono cose che durante lo stravolgimento delle fondamenta fanno saltar fuori cose insabbiate da una politica che si è sempre mossa come un bradipo, appositamente. Ecco perché siamo un po’ tutti figli del Gattopardo per quella famosa frase che tutti conoscono.

Lasciare Catania ancora così è davvero un peccato. Dio ce l’ha consegnata sul mare dicendoci “prendetela, è vostra, non dovete far altro che farla muovere per vivere felici”.

Suffuru! Nemmeno quello siamo riusciti a fare. Quella ricchezza è sempre lì a portata di mano: si chiama Etna, Playa o Scogliera, Simeto, Pescheria, Nebrodi, Taormina, il Barocco e tutta la nostra storia lasciata a ricordo nei numerosi siti archeologici della Katane romana, grande città. E noi, invece, che facciamo? Costruiamo il palazzetto del ghiaccio - bellissimo ma che starebbe bene a Bolzano – all’inizio di un arenile lungo dieci chilometri di fronte al mare!

Anche se “The Guardian” ci ha classificati fra le 10 dieci città europee da visitare (memorabile la frase “Catania caotica, ma bellissima”), purtroppo oggi la vedo peggio dell’altro ieri. Ne annuso l’inefficienza, l’incapacità, il menefreghismo e il disamore per la città. Così facendo si continua a non rispettare i catanesi che ci guardano dall’estero costretti a donare altrove eccellenze e genialità che sarebbero servite per farci vivere meglio tutti, che aspettano da un momento all’altro quel cambio di passo …. gridandocelo da migliaia di miglia sempre con le stesse parole: “Forza Catania, sei la più bella, alzati!”

M.R. sett 2018

  

 

COMU FINIU CO CATANIA?

Questa maledetta attesa per l'ufficialità della serie B ci sta distruggendo l’anima.

A Catania è così ad ogni estate e sospetto che ci sia un accordo fra Organi sportivi e la Stampa nazionale per far vendere più giornali. Ogni mattina al bar, fra un boccone di minnulata ca brioscia e il telo da mare sotto braccio, ormai siamo abituati a rovinarci l'estate nel bene e nel male, a causa delle vicende che riguardano il Calcio Catania. Che siano promozioni, retrocessioni, radiazioni e notizie su probabili acquisti.

Mai come in agosto sfogliamo così assiduamente il nostro quotidiano La Sicilia. Sì, va bè, la lettura delle prime pagine sono quasi un dovere per la nostra coscienza di cittadini: i migranti (mischini!), gli sbarchi, la politica, la TAV, la FLAT (cosi fitusi, ni luvanu 80 euri!), la quota 100 e la modifica della legge di Elsa Fornero (grandissima tappinara!), lette velocemente perchè la brama di arrivare a ciò che si vuol veramente sapere è davvero tanta. Poi le altre pagine dedicate allo spettacolo, l'ambiente, la cronaca nazionale (chi nicchi e nacchi lo speciale di 4 pagine dal titolo Economia Ragusana? avaia!), tutte saltate in minuto per arrivare, finalmente, all'agognato tesoro: "comu finiu co Catania?"

Arrivati a quella pagina, LO SPORT, la granita si squaglia e il telo da mare cade per terra: abbiamo appena appreso (forse, chissà domani) la sorte della nostra squadra di calcio, da sempre maltrattata e odiata dagli organi federali, quindi quanti punti di penalizzazione (ma l'annu ca veni unni iucamu?) per certi treni, i ricorsi, gli avvocati, la carta bollata e i nostri politici sempre assenti . Oppure le news se l'attaccante in arrivo ha finalmente trovato l'accordo per giocare con noi, dopo un tira e molla scritto e centellinato quotidianamente goccia a goccia sulla nostra curiosità, come il mastro fa con l'alambicco per distillare la grappa. Che poi sono notizie presenti anche sui social, infatti non facciamo altro che rileggere le notizie del giorno prima. Però ci piace leggerle anche sulla carta stampata, siamo fatti così.

A proposito di tira e molla, ricordo l'arrivo a Catania dell'attaccante della Reggiana Giampietro Spagnolo, ambito da mezza Italia per la sua straordinaria potenza. Costava parecchio ed era un pallino del nostro Presidente Massimino che voleva regalarcelo a tutti i costi. Passammo almeno due estati a parlare di lui nei bar: "arriva, non arriva, in settimana sapremo del braccio di ferro fra le sue società, nella trattativa si è inserito il Bari terzo incomodo...". Alla fine del secondo anno, finalmente, arrivò a Catania ma a condizione di ingaggiare anche il libero Roberto Benincasa, che poi si confermò un valido difensore nella pronta risalita in serie B del 1975. Di famiglia borghese di Siena, Roberto si era fidanzato a Catania e..... con Catania: abitava a Picanello e si iscrisse in Economia e commercio per laurearsi poco dopo. Diventammo amici e ogni tanto, a noi ragazzotti, con la sua Fiat 500 ci portava allo stadio per l'allenamento. Quando entravamo al parcheggio del vecchio Cibali, tante erano le risate quando i tifosi ci guardavano da fuori i finestrini "cu jè chiddu d'arreri, Malaman? Chi dici, jè Biondi... non viri ca ch'avi i baffi?". ah ah !

Chi si rici do Catania?" sì, ogni anno è uno stress. Poi, sazi di rossazzurro, dopo aver formulato tutte le formazioni possibili (4-3-3, 4-2-3-1, 3-5-2) e detto peste e corna dell'ultimo allenatore, passiamo all'altra parte del quotidiano: la cronaca cittadina, per apprendere gli ultimi acquisti della Questura pubblicati con tanto di foto e relativo, esilarante, pecco (il soprannome).

E' stato e sarà sempre così nella nostra bollente, smaniosa e sempre uguale estate sportiva. In un preciso momento della mattinata, durante la lettura de La Sicilia, da "talìa a cu accattanu!...." si passa immediatamente a "talia a cu attaccanu!...."

M.R. ago 2018

 

 

IL LUNGOMARE LIBERATO.

Chiedo scusa al bambino che mi ha massacrato l’alluce col suo skateboard e al quale gli ho augurato di andare in … altro paese. La colpa non è sua, ma dei suoi genitori che dopo una settimana di cicche fuori dal finestrino e tovaglioli gettati di nascosto sulla strada, oggi hanno deciso di fare passerella radical-chic sulle bici, al lungomare.

Bella iniziativa, da seguire, promuovere e incoraggiare in futuro. Ma regoliamola. Non è più una passeggiata ma una pista e bisogna stare attenti ai ciclisti che (guai a chi li tocca!) ti mandano al diavolo senza mezzi termini.

E poi, dai, senza tirarsela… che in questa specialità siamo degli specialisti. Non vorrei fare il rompipalle ma, francamente, più che una passeggiata mi sembra un’ondata di sfrenato esibizionismo. Stasera vedevo i clienti dell’Hotel Nettuno che, affacciati, guardavano questa maratona umana sull’arteria come a chiedersi “sono pazzi o affamati di libertà?”

Guardavano attoniti la parata di t-shirts di chi sfoggia la più prestigiosa della serie “Hard Rock Cafè”, artisti di strada che proponevano opere d'arte che nemmeno i muri degli asili comunali avrebbero accettato, poveri scemi che salivano a bordo del book-bus municipale facendo finta di fare gli intellettuali e sfilate di cani vestiti con imbarazzanti foulard al collo che manderebbero volentieri al diavolo i loro padroni per la magra figura di fronte alla cagnoline bastarde delle sciare del Rotolo.

I bambini? Poveretti, loro sono incoscienti. Non sanno che rischiano l’osso del collo in tenera età perché infilati forzatamente dentro il cestino della bike elettrica del papà che, con Nike, Lacoste e capelli al vento, non si accorge dell’auto che gli suona dietro perché intralcia il passaggio.

La sua risposta è “Ma sei demente? E suoni, pure!”.

Con tutto il dovuto rispetto per i dementi autentici (grande, grande rispetto), il conducente dell’auto lo affianca, scende dall’auto e gli dice “Coglione cos’è questa confidenza? A chi dai dal tu? Ti sei mai chiesto perché sono uno dei pochi che possono passare? A bordo c’è una persona cagionevole di salute e per questo sono autorizzato a percorrere il lungomare per portarla subito a casa che è dopo Ognina, se ti togli dalle palle. Chiaro?”.

I colori della faccia del papà ciclista-ambientalista non li ho mai visti in natura, non li posso descrivere.

La più sincera della serata? Una signora che ha detto al marito “ma quannu finisci sta minchiata, ca ni facemu na bella passiata ca machina?”

Ok il lungomare libero, ma più tolleranza e meno spakkiamento ambientalista.

 M.R.

 

 

SFOGO DI UN CANE AL LUNGOMARE LIBERATO

Buonasera,

sono un cane di una razza dalla non facile nomenclatura che, però, il mio padrone pronuncia con fierezza. Non è colpa mia, io non sono nato per essere amato ma per essere mostrato come una modella di Annabella di Pavia, soprattutto al Lungomare liberato in Catania. Sarà così, almeno fino a  quando sarò considerato di  moda. Dopo non lo so.

Non so quante volte, oggi, ho sentito “Che razza è? Come? Ma che bello, quanto costa? Morde? Posso?” Che sofferenza ogni 15  giorni, peggio di andare dal veterinario!

Quante centinaia di mani mi hanno accarezzato mentre facevo su e giù da Balsamo al Borghetto: bello cucciolone (ahi! e non pizzicare…  e che cazzo!). Quanti bambini mi hanno tirato con le dita la pelliccia sotto la bocca, e le orecchie, la coda? Tutto questo un centinaio di volte. Fatevelo fare voi, e poi vedrete che bello!

Per non parlare di quando incrocio un mio simile e il padrone mi costringe al confronto  di pedigree, quello della prova del fuoco. L’altro cane mi guarda come a Mezzogiorno di fuoco; si avvicina, mi annusa dovunque, … eh no caro mio, lì no! E dai! Perché ti incazzi, e non ringhiare, ce l'hai con me? E poi sono etero!

Perché mi costringe a questi incontri massacranti ad ogni venti metri? Che ti ho fatto di male? Mi hai portato al mare, quindi fammelo respirare, fammi correre fra gli scogli, fammi riportare da te un piatto di plastica lasciato sulla scogliera dai tuoi concittadini zozzoni. Soprattutto fammelo fare sempre, non solo oggi come se dovessi timbrare un cartellino di presenza.

E invece no. Posso pure accettare di farmi chiamare, con estremo imbarazzo per un cane, Filippo, Antonio, Ernesto (fa fico) invece dei canonici Black, Zorro, Flick, ma quando è troppo è troppo!

Per fortuna, ogni duello finisce quando sento la sua stretta al collo, in evidente difficoltà sulle risposte date al padrone del cane più titolato. Dopo ho avvertito la sua delusione nel non aver saputo reggere il confronto di razza. Proprio io, che gli sono costato un occhio della testa e pagato a cambiali. Quando mi ha riportato in auto mi ha quasi scaraventato dietro, guardandomi come un maglione Armani con l’etichetta Made in China.

Ritornati a casa, si è pure dimenticato di portarmi la ciotola. Fa niente, tanto la domenica non si cena mai. Domani è lunedì e, preso dal lavoro, avrà dimenticato tutti i suoi propositi di coccarde a concorsi canini da affibbiarmi al collo.

Lo amo lo stesso il mio padrone, ma adesso sono troppo stanco e nervoso per farglielo capire. Che stress il lungomare liberato, meno male che lo fanno solo due volte al mese!

Bau!

(2017)

 

 

 

LE CALENDE GRECHE CATANESI

Bellissime le sue pagine ..! solo le dico che dopo averle viste mi sono innamorata della cittá e il primo viaggio che potró fare sará a Catania !!

Grazie !! un saluto da Castellon de la Plana (Spagna) che, guarda il caso, assomiglia un po´a Catania..! non la cittá in sé, ma la posizione geografica..il mare, una pianura di aranceti e la montagna alle spalle...Grazie ancora per la sua meravigliosa guida !

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Di complimenti me ne arrivano parecchi (qui non li ho mai postati), ma ricevere messaggi del genere mi rende estremamente felice, non per la mia persona ma per Catania e ciò mi fa capire che gli sforzi profusi attraverso il mio sito web, volti a valorizzare la mia terra, funzionano! Forse più di un Ente di promozione turistico.

Non sono uno che se la tira. Quello che voglio dire è che se un piccolo (si fa per dire) sito web riesce a far tanto, cosa si aspetta a promuovere tutto questo ben di dio, che qualcuno ci ha regalato, e che non sappiamo far decollare?

Promuovere vuol dire calarsi nella passione verso la propria città, diventare suoi ruffiani, truccarla come una star da farla apparire uno schianto. E invece no, il sito web del Comune fa piangere, sembra il portale di un Istituto bancario. Ormai il biglietto da visita è Internet.

Forse chiedo troppo. Già, qui si fa tutto in modo lento, molto lento….e senza ammuttari! Da quando ero ragazzino seguo l’iter di semplici opere pubbliche, attraverso proclami dei governanti di turno, come se fossero le piramidi egiziane in costruzione. Sui giornali, ogni sei mesi, leggo progetti bellissimi sulla trasformazione di C.so Martiri della Libertà al posto delle fatiscenti sciare, ma solo avveniristici progetti degni di Nembo Kid e niente più. Ogni tanto leggo: a giugno inizieranno i lavori, sì ma di quale anno?

Togliere le rotaie da corso delle Provincie e trasformarlo in Viale Ionio? Ne hanno cominciato a parlare che ero alle Elementari! La tribuna coperta al Cibali? Una vita di articoli su La Sicilia come se stessero costruendo il Maracanà. L’allungamento della pista per far atterrare i 747 a Fontanarossa è ormai diventata una farsa, una cosa che al Nord verrebbe realizzata di routine ma che qui diventa un’opera colossale. Il Governo l’ha messa di canto, negando pochi spiccioli al settimo aeroporto italiano. Adesso si spera di farla rientrare nel Def, avremo da leggere sotto l’ombrellone, quest’estate. Nel frattempo devo pure vedere Salvini che gira in Pescheria, accompagnato da un certo Attaguile (nemmeno catanese), promettendo future minchiate ai pescatori.

Ma la vogliamo finire? Fino a che punto permettete questo? Perché dovete ignorare la ricchezza che è lì, a un palmo da vostro naso, solo aprendo la finestra dei vostri palazzi? Non la vedete? Sì che la vedete, si chiama Ognina, Etna, Playa o Scogliera, Simeto, la nostra Movida, Riviera dei Ciclopi, Sant’Agata, la Pescheria, Nebrodi, Taormina, Barocco, storia romana, araba, greca, normanna, bizantina, sveva (sabauda lasciamo perdere); e poi l sua letteratura, il suo teatro, i suoi musicisti, il sole, il mare, la gastronomia, le tradizioni. Tanti accessori che non servono per “truccare” Catania come la star che ho detto prima perché sono proprietà che indossa già, in modo naturale, da millenni. E poi non dovreste nemmeno spendere denaro in rossetti e mascara, ci avrebbe già pensato madre Natura! Vi rendete conto di cosa avete a portata di mano? Perchè non vi sforzate di presentarla come merita, senza farla deridere da tutti sul web per uno scippo in Via Tempio o per un autobus che passa quando vuole Dio. Truccatela, rendetela attraente, stuzzicante, trasformatevi magari nei suoi magnaccia per accattivarvi svedesi e norvegesi in arrivo con le navi al porto, impazziti per il nostro clima.

So già che non sarà possibile (volutamente), ma sarebbe bello trasformarla nella capitale del Mediterraneo. Ma seriamente e senza noiosi tavoli tecnici pieni di gelosie su chi deve fare questo o quello. Solo per un attimo abbandonate il gioco delle solite poltrone e delle strategie politiche che ci hanno ormai nauseato da decenni; pensate ai tanti catanesi che vi guardano dall’estero, costretti a donare altrove genialità che sarebbero servite per farci vivere meglio e che voi siete riusciti soltanto a seppellire.

“I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.”

(Il Gattopardo - Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

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Scusate, ma alla sera mi prudono i polpastrelli …

 M.R.

 

 

 

GIORNI BUI

Ecco una serie di vocaboli "Marca Liotru", quando a Catania si vede in cielo (ma solo ....... poco poco) qualche nuvoletta nera.

Dopo appena qualche goccia, il catanese comincia a prepararsi come se stesse venendo giù l'Apocalisse. Non è cosa, non sopporta l'umidità, il freddo, il vento. Sì, è affascinato dalla neve o dalla nebbia che in quelle poche volte che le ha viste le festeggia come a Carnevale. Basta che il gioco duri poco e torni il sole.

Per lui, avvertire freddo è terribile. Prova ne è la descrizione che ne fa Brancati in Don giovanni in Sicilia: il Percolla fa la doccia, gelata, a Milano e sogna il bagno in vasca a Catania a temperatura "ambiente", preparato amorevolmente dalle sorelle.

36, massimo 37 gradi. Corporea, quasi a non accorgersi dell'acqua sulla pelle. Non un grado di meno, e rigorosameNte senza scaldabagni.

  

 

 

LA TRAPPOLA

E' proprio così, o si ama o si odia.
Per chi non l'ha mai vista, a vederla la prima volta deve fare un brutto effetto essere circondati da tutti questi vecchi palazzi di colore nero e con le rifiniture di bianco calcare. E' il materiale di costruzione che ci ha regalato quel monte che ci sovrasta, che ci saluta ogni mattina all'albeggiare, che ci fa vedere e capire quanto è potente e quanto può decidere le nostre sorti. Ma ormai amiamo pure lui, nonostante i forestieri ci dicano ad ogni eruzione "ma come fate a vivere qui, ma siete così tranquilli?".
Chi viene a vivere qui i primi giorni si sente oppresso da questa città scura, viene preso dalla malinconia per via dei colori pesanti e severi che niente hanno a che fare con i colori siciliani, solari e mediterranei; infatti Catania si contraddistingue dalle altre città siciliane anche per il colore.
Ma soprattutto per quelli che quel colore lo hanno intonacato: i catanesi. Non so se sia dovuto alla temperatura dell'Etna che circola sotto la città o ad uno strano gas invisibile che emana il suo cratere, ma i catanesi sono proprio figli del Mongibello. Sono vulcanici come lui. E sono anche diversi dagli altri siciliani. Nell'essere "catanese" c'è tutta la furbizia dei napoletani, l'intraprendenza nel commercio degli svizzeri, la genialità degli inglesi, l'ospitalità dei giapponesi, la voglia di far festa dei messicani, la lingua dei toscanacci, la bramosia di scommettere dei texani a Las Vegas, l'amore per i viaggi dei vichinghi (l'accento catanese si avverte in qualsiasi aeroporto del mondo, sono dovunque) ecc.
Ma l'ironia no. L'ironia e l'autoironia dei catanesi (o liscìa come la chiamano qui) sono proprio marca "Liotru". Questo spirito liscio, la battuta pronta che ti brucia al primo colpo è una cosa che ci appartiene. Storica è la disavventura di quel signore che, scendendo dal tram in corsa, mise un piede in fallo cadendo rovinosamente sul marciapiede. Molte persone accorsero per aiutarlo a rialzarsi e una di loro, con altruistica sollecitudine, gli chiese: "Chi fici, s'astruppìàu?" (che fa, si è fatto male?). E quello (liscio), prontamente, mentre si tirava su dolorosamente: "Ma no, non m’astruppiari... Iù d'o trammi scinnu sempri accussì" (No che non mi sono fatto male, io dal tram scendo sempre così!).
Oppure l'altra storiella di qualche anno fa, quando la gente di colore non aveva ancora invaso la città e incontrarla era sempre un fatto un po' insolito. Due catanesi passeggiano discutendo pacatamente sotto i portici di Corso Sicilia in un luminoso pomeriggio di sole, quando incontrano un numeroso gruppo di nigeriani, di quelli molto scuri di pelle, proprio neri che più neri non si può. Al passaggio degli africani uno degli amici si ferma e rivolto all'altro: "Au, Giuvanni, scuràu!" (Ehi, Giovanni, si è fatto buio!"). Si può essere più brucianti di così?
Questa ironia ce la portiamo dovunque, dagli sportelli degli uffici postali - dove l'impiegata viene ricoperta dalle battute più sarcastiche - ai marciapiedi di Via Etnea, culla di questi cervelli in continua fibrillazione. Anche allo stadio, nella tribuna B, reparto "liscio" del vecchio Cibali e famosa per storiche battute rivolte ai giocatori o all'arbitro, si fa ironia. Una è questa:"Abbittru, si i cunnuti avissuru l'ali a tia t'avvissuro a ddari a mangiari ca fionda!" (Arbitro, se i cornuti avessero le ali, tu lo sei tanto che per farti mangiare dovrebbero lanciarti il cibo con la fionda!")
E che dire di un mio conoscente che alla "Fera o luni", avendo trovato un paio di pantaloni di suo piacimento, non sapeva come provarseli davanti a tutti? L'ambulante: "Prufussuri, si mittissi sta tuvagghia davanti" e l'acquirente, di statura alta: "Sì, ma arriva a coprirmi soltanto dalla testa alla pancia!! E l'ambulante: "Prufussuri.... ma a lei di sutta cc'u canusci?" (n.d.r.: ma a lei di sotto chi la conosce?). Micidiale! Quando la liscìa diventa filosofia!
Solo qui, se una signora, dopo aver atteso quasi due ore l'arrivo del bus dice al conducente "su tri uri c'a aspettu a lei!" quello le risponde "picchi? chi avevumu n'appuntamentu?".
Solo qui se qualcuno chiede al telefono "chi parla?", si sente rispondere "cchi sacciu, un pocu iu e n'pocu vossia".
Solo qui, se una bella turista entra in un bar e chiede dell'acqua (dopo essere stata "radiografata" dalla testa ai piedi), si sente rispondere "l'acqua a voli naturali o frizzantina comu a lei?". Solo qui le maestre d'asilo, chiedendo in aula "Bambini, come si chiamano quei signori col sacco bianco che tirano il cordone di Sant'Agata?", si sentono rispondere ".... Cuncettu, Arazzio, Turiddu, Melo, ecc. ecc.". Fin da piccoli, lisci!
Solo alla nostra pescheria, alla domanda "ma è fresco?" la risposta è "signuruzza, qui è tutto combustibile!"
E poi hanno un grande spirito di adattamento e del commercio. Gli stessi che vendevano i panettoni per strada dopo un po' di tempo li puoi trovare a vendere colombe, uova pasquali e palme per la Pasqua, mimose per la Festa della donna, panini davanti alle discoteche, rose per S. Valentino, giocattoli per la festa dei Defunti, fuochi d'artificio per il Capodanno. La domenica non si riposano: limoni e bibite dalla dubbia marca allo stadio (così vedono anche la partita gratis!). Anche i taxi hanno una grande faccia tosta. La passeggera si lamenta: "Mi scusi, ma a Mlilano la corsa dall'aeroporto costa molto di meno!" e il tassista, senza battere ciglio: "Signorinella bedda, cchi voli mettiri.... Catania ccu Malanu?"
Ecco, forse anche questo aiuta quei malinconici dei primi giorni a rendersi conto che qui non è come avevano pensato.. Ma la città non fa niente per farsi amare, sta sorniona, come una bella donna non dice niente e si fa desiderare, non li calcola nemmeno, non li guarda, è tutto un corteggiamento fatto di sguardi che spetta fare al visitatore che alla fine se ne innamorerà perdutamente e capirà che tutto quel colore scuro non era come pensava, che quel nero non era nero ma rosso scuro, rosso sanguigno, pressione alta, lava e lapilli che tentano continuamente di fuoriuscire. Il visitatore, poi, in quella lava incandescente ci si tufferà volentieri. Diventerà anche lui, per forza di cose, parte integrante di quel materiale piroclastico che scende ogni sera a valle e va a ricoprire le strade cittadine, facendole rivivere ed esplodere come ad una nuova eruzione. La prova è che molti che sono stati trasferiti qui e poi sono ritornati al paese d'origine hanno ancora Catania nel cuore; altri sono rimasti intrappolati dal suo fascino e non sono più andati via.
Altri ancora, purtroppo, l'hanno dovuta lasciare per sopravvivere e quando tornano qui mettono da parte qualsiasi appartenenza forestiera, si rimettono addosso la "marca Liotru" e fanno il pieno di catanesità (a cominciare dalla gastronomia) in quei pochi giorni di vacanza.
Lasciarla è quasi sempre un dramma. La stazione e l'aeroporto sono i muri del pianto delle partenze. Il catanese è uno dei pochi passeggeri ad affacciarsi dai finestrini del treno. La sua innata curiosità lo spinge a scrutare, a guardare cose nuove, a far riflettere la sua mente vulcanica, ma quando parte dalla sua città si affaccia ancora di più anche se il paesaggio è sempre lo stesso, anche se il viaggio dura soltanto due giorni. E per salutare un suo figlio Catania sceglie le giornate più splendide (vigliacca!): si profuma con una brezza marina da far resuscitare i morti, si bagna i capelli con un mare azzurro al sapor di alghe profumatissime cresciute in fondali meravigliosi, si dà un fondotinta con la luce e il sole che c'è da queste parti, chiama a raccolta i più floridi giardini di aranci che salutano con profumi di zagara e un cielo che è un Carnevale di colori.
E il catanese in partenza sta lì a guardare sua madre, dopo si ritira nel corridoio del treno e avverte subito odori diversi e un'improvvisa malinconia. Apre il pacchetto della merenda e dà il primo morso a un'olivetta di S. Agata, dimezzandola. L'altra metà non può più mangiarla perchè è bagnata dalle lacrime che scivolano dai suoi occhi. Ma lui, da buon catanese, non si dà per vinto e pensa: "sarà stato il vento dal finestrino...... "
(Mimmo Rapisarda, 2004)
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Ogni uomo nasce Re. Ma la maggior parte degli uomini muore in esilio, proprio come la maggior parte dei Re. (Oscar Wilde) 

 

 

LA VIA ETNEA

Quando, un tempo, il centro e le zone circostanti erano considerate la Città per eccellenza, chi doveva raggiungerle spostandosi dalla periferia, diceva che doveva andare a Catania, anzi, per l'esattezza, "andare" si trasformava in "scendere": quindi "scinnu a Catania" (a prescindere dalla reale orografia del territorio).

Queste frasi si sentono anche nel film "La terra di trema" di Visconti, quando la famiglia Valastro di Trezza si appresta ad incontrare l'avvocato di città. Oggi ciò farebbe solo ridere, ma c'è ancora qualcuno che lo dice.

Ma c'è di più: per esempio chi, "scendendo" (abituiamoci) al centro in via Etnea, esaspera il verbo all'inverosimile con "calare." Pazzesco, no?

"Staiu calannu a via Etnea", perchè a Catania non si scende ma si .... cala! E la calata in via Etnea è tutta particolare. E spiego il perchè.

Anche la salita è affascinante, da ricordare, col sole alle spalle e l'Etna di fronte che fa capolino dal Tondo Gioeni, salutando a volte rosato, a volte imbiancato, a volte incazzato, ma la discesa… è tutt'altra cosa.

L'orario ideale, e comodo, è fra le undici e le dodici del mattino; stavolta il sole si sente arrivare schietto in faccia, senza preavviso, come uno schiaffo spinto dal caldo Mezzogiorno, ed è così bello ricevere tale affronto da porgere l'altra guancia, non smettendo mai di farsi oltraggiare, spudoratamente.

Si deve percorrere la via Etnea a passo di lumaca, come appena alzati dal letto, in pantofole e vestaglia. Non bisogna farsi fregare da lei, perchè è molto furba, ma al contempo civetta: bisogna farle la corte, assaporarla nel suo insieme, ma senza lasciarle briciole. Basta non farsi scappare niente di ciò che accade intorno: le saracinesche dei negozi oleate da Turi dell'Olio, le sudate esternazioni dei clienti dei chioschi e le folle di pensionati alle fermate AMT, imbestialiti per i soliti ritardi dei mezzi.

Quindi attenzione a destra e a sinistra, perchè qui succede tutto e il contrario di tutto, e quando qualcosa accade te ne accorgi da estemporanei capannelli di gente creati dalla rinomata curiosità catanese o dai barocchi complimenti dei barman dei celebri Caffè che, per la passione che mettono nel promuovere ciò che offrono ai turisti sul banco, sembrano quasi essere proprio i titolari del locale o attori di compagnie teatrali, pagati dall'Ente Provinciale del Turismo.

C'è tempo o cambiamo pagina web? Ma sì, dai, c'è tempo. E chi ci spinge, basta aspettare no? Restiamo qui a crogiolarci al sole.

Camminare di fretta sarebbe un'offesa a Stesicoro, Verga, Bellini, Martoglio, Musco. Il passo veloce non è da noi, l'orologio lasciamolo ad altri: abbiamo ben altro da guardare, per esempio decine e decine di bellissime chiome nere su occhi grandi come olive che sembrano dirti "ti aspetto di là".

"Calare" lungo la via Etnea a quell'ora, davanti a bianche spire di fumo che si "annacano" in controluce, liberandosi da bocche ancora pregne di aromi di caffè, panzerotti, viscotta e minè. ... ecco, tutto ciò è sublime.

Ascoltare il contenuto umano di questa strada è come sentir parlare ad alta voce la città stessa; così giunge notizia di disperati sit-in a Palazzo degli Elefanti, del Governo ladro, di case occupate, del tempo che tarda a migliorare (incontentabili!), della misteriosa sparizione dell' 830 per tornare a casa a Picanello, del venditore di "masculini" alla Pescheria che ha sbagliato a "tornare" il resto, del maledetto destino funesto; e poi delle corna di quello e di questo, delle numerose cambiali finite in protesto, del "bacilicò" dimenticato alla Fera o luni e che invece doveva serviva per il pesto. Ecco, tutto ciò è spettacolare!

Levigare, ancora e sempre, gli storici marciapiedi in pietra lavica scolpiti anche da Brancati nelle sue opere, scansando mitici matti che lì vivono e rispondere loro con un sorriso, quando gridano "Savoia!"; poi fermarsi presso Savia a rivolgere un caloroso "mbare, cchi si rici?" ad occasionali conoscenti intenti a cazzeggiare (cioè nel pieno della loro attività istituzionale) ma soprattutto a sparlare di ogni cellula che faccia parte del mondo organico dall'Alcantara al Simeto ...ecco, tutto ciò è rilassante.

Veder radiografare dalla testa ai piedi la fauna rosa che passa davanti in quel momento, ascoltare l'"ars oratoria" cittadina, immensa ma variabile a seconda delle condizioni meteo, spaziare dalle notizie de La Sicilia, alla crisi (perché si sa … c'è crisi) a tutto quello che si riesce a captare nella tromba delle scale di un qualunque condomino... ecco, tutto ciò è straordinario.

Ma come possiamo quantificare e distinguere, soprattutto giustiicare questo ciarliero "piccolo mondo" d'altri tempi che resiste ancor oggi alla tecnologia dell'I-Phone preferendogli un tam tam proveniente dagli antichi cortili - meno artificiali - di Via Etnea?

- Il venticinque per cento di quelle parole sono castronerie estemporanee che, grazie al cielo, il vento solleva oltre Palazzo Pancari volando fino a Cibali;

- L'altro venticinque per cento, è puro pettegolezzo da comari inviperite pronte a calunniare l'inquilina del piano di sotto, novella Maddalena.

- La crema rimasta (corrispondente al cinquanta per cento) è costituita da decine e decine di brillanti massime o geniali concetti filosofici da strada, autentiche perle che meriterebbero di essere vergate su carta stampata, anziché galleggiare dentro una tazzina di Spinella.

E' un peccato, basta ascoltare la proverbiale e famosa "liscìa" catanese quando entra in azione o leggere questi signori (se i vostri occhi riescissero a vedere!!!) come parole nelle pagine di un libro di Ercole Patti, per accorgersi di tutto il ben di Dio che evapora nell'etere senza essere conservato agli atti.

Comunque, oggi è difficile incontrare questi prodotti autoctoni di origine controllata, soprattutto vederli all'opera nel pezzo migliore del loro repertorio: sentirli parlare. Purtroppo sono camuffati in mezzo a mandrie di balorda gioventù prese dal Grande Fratello e dall'ultimo modello di smartphone. Ma se si riesce a scovare un residuato del famoso Gallismo, è  facile accorgersi di quando stanno per scoccare una delle loro brillanti esternazioni. Lo fanno nel loro angolo preferito, di fronte ai bar storici che non possono tradire della loro presenza perchè loro stessi sono monumenti in quel contesto. Quasi tutti benestanti e avvolti in eleganti soprabiti, gli "ultimi dei belli" passano ancor ogg il loro tempo a consumare quei marciapiedi; non lavorano, non hanno mai lavorato e mai hanno pensato, nemmeno lontanamente, a quella catastrofica .... ipotesi. Insomma, son tutti figli di un certo Giovanni Percolla, il famoso "Don Giovanni in Sicilia".

Quando arriva la bruciante battuta, ti osservano con uno sguardo alla "Sig. Carunchio"; la fronte si arruga, i baffi si sollevano fino ad aprire il sipario a un sorriso mascalzone circondato da guance così arrossate che sembrano  pregustare ciò che per sta uscire da quella bocca.... e poi...

Tac! E' partita! Bollente, appena scivolata sulla lingua da un sovrastante cervello sempre in fermento come un vulcano! Quando la consegnano al destinatario, le sopracciglia inarcate del mittente continuano a sorridere ancora un per un po', come testimoni di qualcosa che deve essere registrata nell'elenco delle memorabili storielle siciliane.

Forse mi sono dilungato ad analizzare il fenomeno, ma assicuro che il fatto accade nell'arco di due-tre secondi. Niente di più!

Così, a turno, ad ogni ora della giornata, in quell'angolo magico che trasuda Storia da ogni mattone, questi signori si lasciano rubare in versi dal luminoso cielo, come aquiloni in aprile che non riprenderai mai più, centinaia e centinaia di tresche mai esistite, centoquarantamila formazioni del Catania indispensabili per approdare a una tranquilla salvezza, interminabili ricordi dei night club di Taormina o dei Platters al Lido dei Ciclopi, quotazioni degne da consumati bookmakers su certe prestazioni sessuali, ricordi di indimenticabili incontri che farebbero arrossire perfino Tinto Brass, valutazioni estimative sui patrimoni altrui così precise che nemmeno la Guardia di Finanza e, infine, gli ultimi avvistamenti del più bel culo di Catania!

Questo miscuglio di coriandoli fatto di popoli, etnie, cultura, storia, ormoni, sensazioni, tradizioni, scemenze al vento e ... meravigliose, stupende, minchiate….. ecco tutto ciò è poesia!

Soprattutto perchè questo gran carnevale di aggettivi si chiama... Via Etnea.

 M.R.

  

 

LA FUGA

Tanto tempo fa, al tempo della Genesi, Dio decise di fare ai Catanesi un dono meraviglioso: farli nascere "tutti, ma proprio tutti" in un Giardino dell’Eden.

Piazzò questo giardino ai piedi di un monte che lo proteggeva dai venti e dalle piogge, gli dipinse davanti un mare intingendo il pennello in un azzurro inesistente in natura, lo profumò di una brezza proveniente da fondali ricchi di pesci unici al mondo, lo seminò di frutti maturati sotto un sole che non voleva più saperne di andarsene ed infine lo illuminò con un sipario di stelle per decantarne tutta la sua bellezza, al punto da suscitare le invidie della Luna appena creata.

Però, non essendoci spazio per tutti, con rammarico pensò di fare delle selezioni permettendo così solo ad alcuni privilegiati di viverci dentro fino alla fine dei loro giorni.

Quindi emanò un editto che diceva: "Coloro che l’indomani troveranno davanti alla porta di casa una piccola mela di marzapane acquisiranno per sempre il diritto di cittadino dell'Eden".

Ma in quella notte i catanesi, essendo golosi di dolciumi fin dalla notte dei tempi, all'insaputa del Padreterno fecero man bassa di tutto quel "ben di Dio". Come se non bastasse, nella foga fecero rotolare alcune mele davanti alle porte sbagliate.

La mattina seguente accadde che alcuni, innamorati della propria terra, furono costretti ad andare via portandosi nel cuore il perenne ricordo di quel Paradiso ed altri invece rimasero controvoglia, anche se avrebbero preferito cercare frutti più grossi e gustosi altrove.

Chiaramente ci furono dei malcontenti per le scelte impopolari e a tutti gli Etnei rimase l'eterno dubbio che Dio, quella notte, forse assonnato o distratto per il gran lavoro della creazione del mondo, avesse ripartito senza alcun criterio e con immotivata ingiustizia il suo marzapane.

Dio non volle saperne niente: disse che i Catanesi avevano fatto scempio del suo dono macchiandolo con la loro ingordigia e che per tale colpa non poteva esserci punizione più giusta. Ecco perchè da quel giorno, in quel Paradiso chiamato "Catania", ad ogni episodio del genere viene pronunciato l'antico detto "U Signuri ci mannau u' (marza)pani a cu non ciavi i denti".

E i cosiddetti fortunati che sono rimasti, al contrario di quelli che son dovuti andare via per sopravvivere? Dopo un po' di tempo aprirono il cancello del giardino e scapparono fuori, spinti dalla bramosia di emergere, dall'ambizione e dalla convinzione di trovare paradisi più belli.

Sono diventati qualcuno, certo. Ma maledicono ancor oggi il giorno che andando via rifiutarono quel frutto perchè anche se hanno trovato mele più grosse, hanno capito che la vita scorre e il tempo passa inesorabile mentre le loro mele marciscono. Ogni tanto ci rientrano, nel giardino, ma poi devono starne lontano perchè non possono viverci. E soffrono.

Dal loro purgatorio, ogni giorno, chiedono alla loro nostalgia in quale direzione guardare il tramonto .....per ricordare il loro Eden. E piangere.

Ma questa è un'altra storia.

(Mimmo Rapisarda)

 

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- I veri paradisi sono i paradisi perduti. (Marcel Proust)

 

 

CONSIGLI TURISTICI

Va bè, lasciamo queste le cose tecniche e passiamo...... a cose più  "di sustanza"!

Il suo clima è mite, punto. Scrivono così, senza aggiungere la parola "perennemente" per non rosicare. La verità è che il nostro clima è invidiato da tutti, sia per la posizione geografica sia per il meraviglioso parallelo sul quale ci poggiamo. Grazie al complesso vulcanico dell'Etna, Catania è riparata dagli spifferi di Tramontana mandando puntualmente in bambola tutte le previsioni meteo annunciate. Quindi, prima di arrivare qui è consigliabile telefonare a parenti ed amici per verificare le reali condizioni meteo, onde evitare la figura di Totò e Peppino alla stazione di Milano.

Convincetevi che quando è nuvoloso, la causa non è dovuta a perturbazioni ma a nuvole di gas che sprigiona l'Etna e che si spingono fino in città. Qui non esiste la Primavera: dalle isteriche pioggerelline di marzo e aprile, l'estate arriva violenta e senza preavvisi nei primi giorni di maggio, prolungandosi fino alla fine di ottobre e lasciando il suo posto a mesi di novembre e dicembre così miti da indurre gli aficionados a fare un tuffo a Licuti (quello famoso che si vede sempre in TV) o a passeggiare in via Etnea in t-shirt a Natale e Santo Stefano. Insomma, non è una città per andare in giro in montone!

La corrente elettrica è da 200 w.  con prese di tipo L. Quindi, sia gli inglesi che gli americani devono premunirsi di adattatori, acquistandoli nel loro Paese o appena arrivati in città.

Ma la corrente non è solo elettrica, perchè quella del nostro Golfo alimenta una brezza che, se penetra a fondo nei polmoni, attiva scariche che possono provocare gravi danni da dipendenza. Se già fulminati e il malessere dovesse persistere, consultare un medico che nulla potrà rimediare di fronte a cotanto paradisiaco stato di appartenenza. E' consigliabile tenere tali effluvi al di fuori della portata dei bambini se si vuole evitare che crescano sotto il marchio Liotru. Sono stati accertati casi di adolescenti che, crescendo e diventando più adulti, sono ritornati sul posto dell'incidente convivendo, felicemente, con questa sindrome mediterranea.

Sarete accolti con calorosità della gente che vi ospita, perchè orgogliosa di farvi vedere in quale posto vivono. Abituate le vostre orecchie a percepire sillabe in cui tutte le "gl" diventano "ggh" (es: coniglio = cunigghiu); a vocaboli con una consonante che a noi sembra fin troppo superflua e che quindi tronchiamo raddoppiando tutto quel che ha davanti (es.:cettamente, possibbimente, ecc. ecc.); poi le doppie "elle" le facciamo diventare doppie "di" (es: bella  = bedda) ma spinte con la lingua in un modo che è impossibile descrivere, davvero. Tutto ciò è affogato in mezzo a un'infinità di verbi al passato remoto (turnai, u pigghiasti, mangiai, guidai, ecc.) e in un mare di defini.."zioni" pronunciate con una O molto, ma molto, ma molto larga!

In caso di imbottigliamento stradale non vi preoccupate. Non si tratta del "traffico" come recitava un noto film di Benigni, ma della caratteristica curiosità dei catanesi che anche davanti a un banale tamponamento, paralizzano il mondo attorno a loro perchè vogliono scrutare, accertarsi, vedere, capire il perchè, intuire se per caso il motivo è un altro, se si è venuti alle mani (spettacolo ambitissimo), se è questione di "spittizza" o se, addirittura, è stato un problema di ... "conna, sdisonorati!"

Insomma, un cortile alla Martoglio. In ogni caso, anche, soprattutto. Vivendoci per un po', capirete perchè.

Non meravigliarsi nel vedere le stesse facce, nelle stesse bancarelle e negli stessi posti: sono sempre loro, che per campare cambiano solo la merce e i cartelli per vendere olivette e torrone a Sant'Agata , zeppole a San Giuseppe, castagne e vino a San martino, palme a Pasqua, giocattoli alla festa dei Defunti, panettoni a Natale, botti a Capodanno, rose rosa alla Festa della Mamma e rose rosse a San Valentino.

Il tasso di disoccupazione qui è elevatissimo, ma i catanesi sono stati sempre dei maestri nell'arrangiarsi. La volontà ce la mettono tutta, ci hanno creduto e ci credono ancora ed oggi. Rispetto ai tempi delle valigie di cartone, preferiscono mangiare pane e cipolla pur di non partire.

Purtroppo sono stati governati, attraverso i secoli e fino al recente passato, da una scellerata classe politica. Anche se la vivono come una spugna per l'intero giorno, il 70 % dei catanesi dorme nei comuni limitrofi e quindi tocca a quei pochi residenti entro i confini municipali di decidere, col proprio voto, le sorti di Catania. Certi sciacalli, purtroppo, di questo ne sono a conoscenza e si ricordano di "quei pochi" solo ogni cinque anni, cioè al momento della campagna elettorale. Infatti, puntualmente, li prendono in giro in cambio di promesse che non verranno mai mantenute per farsi obliterare  il biglietto d'ingresso nei Palazzi che contano. 

Tuttavia, Catania è fatta d'acciaio perchè abitata da un popolo che attingendo da inesauribili depositi di estro e genialità, si adatta e si plasma a qualsiasi catastrofe perchè capace di inventarsi sul momento le più brillanti soluzioni. Non per niente è sopravvissuto a tante catastrofi naturali ricostruendo la città ancor più bella di prima. In sostanza, i Catanesi ne sanno una ... e molte di più del diavolo!

Pertanto, non date retta a quelli che ci dipingono con la coppola, perchè si tratta di gente ignorante che non è mai stata qui e non ha mai letto i libri di storia. I simboli coi quali ci etichettano appartengono ad una cultura ignorante e bigotta e sono sicuro che anche loro, rendendosi conto e respirando l'aria della culla di antiche civiltà, partiranno poi con opinioni diverse e tante emozioni nel cuore. Parecchie volte ho sentito queste parole galleggiare fra le lacrime, alla partenza: "ma non credevo.... ma era questa Catania, la Sicilia?".

La verità è che, rispetto ad altre città più organizzate, Catania (soprattutto per la sua "ruspante" inefficienza) ha dalla sua il potere di affascinare con un profumo che spruzza addosso a chiunque la stia per lasciare.

Volete sapere com'è fatto per constatarne la fragranza? Basta passeggiare per il suo lungomare nelle mattine primaverili o autunnali (ma sì... anche invernali) ed annusare gli spruzzi che salgono sul "passeggio" dalla risacca che si infrange sulla scogliera . E' così forte, aspro, salmastro, che diventa più indimenticabile del n. 5 di Chanel. Rimane addosso a vita, ed è proprio lì che Katane ti frega. Chiedete a chi ha vissuto qui, per qualsiasi motivo. Anche il più banale, il più breve.

Ovviamente, per altri "piccoli problemi" di convivenza, l'importante è attenersi, come in ogni parte d'Italia (e ogni mondo è paese) a certe regole. Quindi non arrivate a sventolare la borsa fuori dal finestrino, non esibite gioielli come se foste alla cassa di Bulgari ed evitate di percorrere zone pericolose quali quelle oltre Porto, il Faro Biscari e zone limitrofe.

Ma, dopo tutto, anche questo è folklore. Basta farci l'abitudine e capirete anche questo aspetto, con ironia, per rendervi conto quanto Catania sia la città più napoletana della Sicilia e, come i napoletani, sappia fregare il prossimo.... con classe, fino a fargli dire Grazie! Li amerete, vedrete, li amerete. Per farvi amare voi, invece, basta non toccare ai catanesi queste tre cose sacre: Sant'Aituzza, i Masculini e....  u Catania.

Vuoi sapere ancor di più come sia fatti? Allora clicca qui.

Le avvertenze sono tutte qui. Che vi credevate, di trovarci ad attendervi con la lupara? Non sappiamo nemmeno com'è fatta; di canne mozze conosciamo solo quelle da dove fuoriesce l'insostituibile ricotta dei nostri cannoli.

Buona permanenza a Catania e... buon divertimento! Dimenticavo: il biglietto è gratuito!

(mimmorapisarda.it per la sua città)

M.R.

 

LO DIRO' AL SINDACO

Fra le altre, a Bianco dirò anche questa.

Chi ha il privilegio di avere un esercizio commerciale in un posto – come nel caso di Piazza Duomo – che gli consente di avere un’enorme affluenza rispetto ad altri suoi colleghi meno fortunati, ha il sacrosanto dovere di rispettare i motivi per cui tutta quella clientela, soprattutto turistica, sosta e riscalda le sedie dei suoi tavolini.

A questi particolari locali, siti in pieno centro storico catanese (fra i quali il titolare del bar all’angolo con Via Garibaldi, Prestipino, da te immortalato) e, purtroppo, nostro primo biglietto da visita al turista o crocierista assetato che arriva a Catania, bisognerebbe imporre alcune regole fondamentali previa apposita ordinanza della Giunta, deliberata all’unanimità e nell’interesse storico e culturale della città. Pena: il ritiro della licenza.

Me l’hanno detto e l’ho verificato di persona. Tutti sappiamo che i migliori locali, dove con un Bitter potresti anche pranzare, non sono proprio al centro. Ma i crocieristi li portano lì, all’Elefante e a Sant’Agata. Quindi è impensabile che al Caffè del Duomo, dico Duomo, accanto all’aperitivo ti presentino le patatine San Giorgio e un paio di olive. Questo spilorcio “trattamento” viene attuato anche dai primi bar fino alla Collegiata, mentre dovrebbero far di tutto per diventare i Gilli, i Greco, i Sacher, i Florian di Catania. Proprio come gli storici Bar che resero famosa la nostra città negli anni Cinquanta.

Il servizio eccellente, impeccabile; i banconisti e i camerieri dovrebbero conoscere almeno la lingua inglese (anche con corsi organizzati dal Comune) come si fa in tante altre città del turismo mondiale. A stento, i nostri rispondono “quella potta là”, quando chiedono loro dov’è la toilette.

Ne ho tante altre da dirgli, al Sindaco.

Oggi pomeriggio vedevo la festa di Sant’Agata d’agosto. Immensa, inimmaginabile: Via Etnea, la Cattedrale, la Badia appena restaurata splendidamente che faceva da contorno; luoghi pieni di catanesi e soprattutto di turisti che si chiedevano in quale luogo fossero mai capitati. Li vedevo, spaesati fra il fragore delle campane, i fuochi artificiali e centinaia di sacchi bianchi fra la calia e il torrone. Poveretti, non capivano se erano in Sicilia, in Spagna o in Messico per tutta quell’enorme devozione dentro il Duomo. Erano lì, con le loro fotocamere in quel contesto surreale, con il tramonto che dorava meravigliose facciate mentre rimanevano sbalorditi a quella risposta, quando domandavano, con un cono di gelato al pistacchio di Bronte fra le mani, “ma è bellissimo, mai vista una cosa simile. ma lo fate ogni anno?”.

La risposta che li ha fatti sbigottire era “signorinella bella, lei non ha visto niente. Questa è solo la festa di mezz’agosto. La vera festa, il meglio, è a febbraio di ogni anno”. Ecco, occasioni come queste, in un periodo in cui la città brulica di turisti, sono l’assaggino per far capire davvero cos’è (e non per sentito dire) la terza festa religiosa nel Mondo. Quindi la Sant’Agata di agosto – che da sola dovrebbe essere già un evento importantissimo dell’estate catanese e pubblicizzato all’inverosimile - meriterebbe più enfasi e ridondanza turistica per far pregustare al pellegrino o turista che sia, la vera festa di Sant’Agata celebrata in pieno inverno.

I miei consigli non si riferiscono alle grandi opere o alla disoccupazione. Anche se il degrado è sotto l’occhio di tutti conoscendo le orrende incompiute lasciateci in eredità da Scapagnini, non sono né un urbanista né un sindacalista. Sono solo un cronista. Del web, ma un cronista. E da cronista sento un gran fetore.

I marciapiedi cittadini li vedo oleosi, unti di grasso, lucidi di olio di frittura e luccicanti dai cocci di bottiglie di birra della sera prima. Come nel calcio, anche qui c’è il tentativo di imitare Barcellona, ma lì di notte puliscono e invece qui, al mattino, tutto puzza dei residui dell’ultima serata di movida.

Tutta questa forma di aggregazione è bella, divertente, spassosa. Definiamola come vogliamo, ma anche in questo caso bisogna rispettare le regole. E’ un delitto imbrattare con lo spray i muri del prezioso Barocco catanese di via Crociferi o della Civita solo perché sei ubriaco o hai sniffato, come è un altrettanto delitto scaraventare sulla scogliera del lungomare tonnellate di carta stagnola, contenitori di fritture varie e lattine perché non possiedi il minimo senso civico o rispetto per il luogo in cui vivi. A nulla serviranno le pregevoli opere di volontariati per ripulirla. Non servono a niente se si autorizzano, ancora, autentici mercati nordafricani in Piazza Nettuno e Viale Alagona. Chi è stato a firmare?

Catania ha bisogno di essere “sgrassata e ramazzata” per bene. Ne ha proprio bisogno, il suo tanfo si sente da Ognina al Pigno. E siccome il servizio per farla pulire costa parecchio, le spese le farei pagare a chi infrange le regole. Chi sono? Chi vende panini sul lungomare, chi riempie di volantini pubblicitari i parabrezza per aquisti di ori e argenti, elettrodomestici o cene in ristoranti poco raccomandabili. Che fa l’80% dei catanesi quando vede queste proposte , prima di entrare in auto? Le getta per terra. E allora il servizio di spazzatura (a nostro carico) facciamolo pagare, attraverso multe salatissime, a chi provoca tutto ciò. Non è difficile individuarli. Si firmano pure, sappiamo anche chi è il colpevole!

Nell’era della spazzatura differenziata e dei problemi delle discariche, è da pazzi continuare a ragionare così. Dobbiamo capire che certe cattive abitudini non sono più consentite, per il bene della collettività. La multa la applicherei anche alle Onoranze Funebri che consentiranno ai congiunti di gettare per terra i fiori delle corone durante il corteo. Un’autentica porcheria che non serve a nessuno, nemmeno a far salire più in fretta verso il cielo l’anima del defunto. E’ solo inciviltà gratuita, autorizzata da tempo, che qualcuno l’indomani dovrà spazzare via. Chi paga? Facciamolo pagare alla Ditta delle Onoranze funebri, vedrai come imporranno il divieto, con apposite clausole, al momento del preventivo!

Avrei un elenco interminabile per Enzuccio nostro, appena lo vedo. Tante sono le cose, come quella di far aderire il comune di Catania all’applicativo Decoro Urbano. Una App gratuita con la quale si può segnalare immediatamente al Comune associato la buca stradale, il muretto divelto, l’atto di inciviltà, ecc. Un modo diretto di collaborare col Sindaco.

E poi il verde, ma dai smettiamola. Per il suo clima, ma specie per il suo secolare e demagogico vizio di promettere un servizio che poi non sa mantenere, Catania non è mai stata una citta che può permettersi il verde urbano (vedasi Villa Bellini) e, pertanto, proporrei di smetterla con gramigna, cliclamini e piantine che durano la bellezza di sette giorni. A che serve piantare ettari di rotoli di erba già pronta al momento dell’inaugurazione, se poi nessuno la innaffia e dopo una settimana quelle rotonde sembrano un incrocio di Tunisi? Dai, diamoci al sintetico! Le rotonde e le aiuole comunali rivestiamole di erba come quella dei campi di calcio che non ha bisogno di grande manutenzione. A prima vista, quel verde perenne si presenterà molto meglio della gialla sterpaglia rinsecchita a causa del mancato affidamento alla ditta dei Servizi, ecc.

Ne avrei tante altre, ma non vorrei tediarti. Mi fermo qui.

I problemi sono tanti, tanti, tanti e per questo non invidio chi, di questi tempi, aspira a candidarsi a Sindaco.

Noi catanesi abbiamo riempito per decenni la rubrica "Lo dico a La Sicilia" nel nostro quotidiano, oggi diventato quasi un cortile. Ma queste sono storie che conosciamo tutti da tempo. Storie vecchie, Francesco. Vecchie come la nostra città.

Ma io le taggo lo stesso, non si sa mai.

 M.R.

 

 

M'BARE TUCLE

Vi racconto la storiella di un marinaio greco.

La Grecia fu la più importante civiltà della storia antica dell’uomo; già duemila anni prima di Cristo nelle sue Agorà i filosofi si chiedevano chi fossimo, se rotondo o piatto era quel mistero oltre l’orizzonte e cosa ci sarebbe stato appena defunti. Tutto ciò mentre gli antenati di Salvini saltavano di ramo in ramo, fregando le bacche agli scoiattoli per sopravvivere.

Ma, seppur potente, il territorio ellenico era di natura prevalentemente montuoso, arido, e non poteva garantire ai suoi abitanti, sempre più numerosi, una produzione agricola sufficiente al fabbisogno della popolazione. Questo problema sfociò in un diffuso malcontento sociale, già ampliato fra i ceti inferiori perchè costretti a subire la prepotenza degli aristocratici e soprattutto per i contrasti fra le “poleis” greche. E siccome ogni mondo è Paese, la residenza greca fu assicurata solo ai soliti pochi eletti, costringendo la classe meno abbiente a cercare altrove migliori condizioni di vita. Fantozzi esisteva anche allora!

Così, col permesso di Atene a partire con le proprie navi, carichi da spirito di avventura e stimolati da quanto appreso nelle favole omeriche, questi esuli emigrarono altrove colonizzando terre mai viste ma conservando gli usi, i costumi e la religione della Madre Patria. Ecco chi erano.

- di etnia dorica Corinzi, Megaresi, Cretesi, Rodesi, che fondarono Megara, Siracusa, Gela, Agrigento, Eraclea, Selinute;

- di etnia jonica i Calcidesi della penisola Eubea e dell’Isola di Nasso che, addentrandosi fino in Campania, fondarono la prima colonia greca italiana dal nome Cuma e dopo Naxos a Taormina, Reggio, Messina, Catania, Lentini, Milazzo;

- proseguirono gli Achei con Sibari, Locri, Crotone e Metaponto;

- e infine i dorici greci di Sparta, che fondarono Taranto, la più importante città della cosiddetta Magna Grecia  il cui territorio si estendeva fino a Paestum, tanto da far preoccupare la terra d’origine.

Il capo della spedizione era generalmente un nobile mandato ad interrogare l'oracolo per avere istruzioni su dove fondare la nuova colonia. L’Ecista (fondatore) non si limitava a guidare i coloni ma provvedeva anche alla costruzione della nuova città, all’assegnazione dei lotti di terra da coltivare e alla pianificazione urbanistica della stessa colonia. Niente a che vedere con Corso Martiri della Libertà a Catania. Se sapesse! 

Il viaggio nella Sicilia orientale fu guidato dall'ecista Tucle da Calcide che, appena approdato in Sicilia, dovette fare i conti con i Siculi che si opposero per difendere le loro terre. Intorno al 734 a.C. fondò Zancle (Messina) e poi Naxos, l’approdo migliore. Viste le bellezze naturali, il promontorio e l’isola Bella ancora incontaminata, quel luogo straordinario volle chiamarlo Naxos in onore a Nasso, l'isola greca calcidese dove lui nacque e dove fu organizzata la spedizione.

In memoria di quel che accadde tanti secoli fa, nel comune siciliano è stata eretta una statua bronzea dedicata a Nike e rivolta verso quel mare che spinse sulle sue spiagge le navi dei coloni greci. La statua si trova a Giardini in Via Calcide Eubea (vi ricorda qualcosa?). Una seconda copia è situata, invece, nell’attuale Calcide (Khalkis) per ricordare la linea virtuale che unisce le due Naxos nonché il gemellaggio tra Giardini Naxos e Calcide Eubea, celebrato nel 1965.

Questo Tucle, un giorno d’estate salì su quella collina dove successivamente fu costruito un teatro ad opera del rivale dorico Gerone, tiranno di Siracusa, e il suo sguardo lungimirante si allungò su qualcosa di affascinante che fumava al tramonto. Era Aitna, qualcosa che in vita loro i Greci non avevano mai visto. Così, spinto dalla curiosità e dalla sete di conquista, dopo sei anni guidò una spedizione più a sud e scoprì che adagiata sul mare e ai piedi di quel monte esisteva una terra meravigliosa ricca di laghi, fiumi, foreste, spiagge e fertili terreni.

Bellissima, ma come chiamarla? Visto il territorio lavico su cui sorgeva la chiamò Katane (grattugia), anche se le interpretazioni riguardo il nome sono tantissime: da "katà-Aitnè" (dal greco "presso” e “Aitna”) continuando fino alle nomenclature degli Arabi.

Nel 728 avanti Cristo fu così fondata Katane, e poi Leontini soprattutto per tenere a bada i Siracusani, ma i nuovi abitanti (irriconoscenti “sdisangati e malusangu” già dall’antichità) fecero fuori Tucle sostituendolo con Evarco. Catania cominciò così la sua storia, con tutto quel che avvenne fino ai nostri giorni.

Dichiarando l'indipendenza della Magna Grecia, tutte queste colonie raggiunsero splendori più grandi della stessa Madre Patria ma le lotte interne e l'eterna rivalità fra dorici e jonici, soprattutto in Sicilia, porteranno a un indebolimento della Grecia siciliana che diverrà facile preda dell’Impero Romano nel 263 a.C. Poi arrivarono i Bizantini nel 555, gli Arabi nel 900, i Normanni nel 1071, gli Svevi nel 1194, gli Angioini nel 1266, gli Aragonesi nel 1282 e conseguentemente gli Spagnoli nel 1516, i Borboni nel 1734, i Sabaudi nel 1860 e, dal 1947, quelli che ancora scaldano le poltrone a Sala d’Ercole. Ma questa è un'altra storiella.

Purtroppo, a parte il teatro greco-romano, le testimonianze della colonizzazione greca a Catania sono pochissime rispetto a quella romana visibile ancora oggi in parecchi quartieri della città.

Anche Goethe, incantato da quel monte fumante visto da Taormina, racconta nel 1787: ” …….. davanti a noi l’intero, lungo massiccio montuoso dell’Etna; a sinistra la sponda del mare fino a Catania, anzi a Siracusa; e il quadro amplissimo è chiuso dal colossale vulcano fumante, che nella dolcezza del cielo appare più lontano e più mansueto, e non incute terrore”.

Questa è la storia di quel marinaio ellenico, impavido quanto Ulisse re di Itaca. Ma se l’Odisseo era solo una leggenda raccontata da Omero, 'mbare Tucle è esistito davvero.

Tutto ciò che ho scritto è un piccolo messaggio ai miei concittadini: quando vi trovate al lungomare di Giardini, in attesa davanti alla pizzeria o in procinto di affittare lettino ed ombrellone, anziché guardare souvenir made in China sulle bancarelle fate qualche passo più avanti fino ad arrivare in una piazzetta dove è collocata una grande scultura in bronzo simboleggiante il coraggio, la perizia e la tenacia dei naviganti e che i residenti del luogo chiamano “L’uomo e il mare”. Se guardate bene, sulla statua c’è una targa su cui è scritto “Tucles”, a ricordo di quel condottiero che noi catanesi dobbiamo ringraziare e che per tale motivo, essendo lo scrivente di queste righe nato nella terra del "peccuru", gli viene conferito d'autorità quello di "Tucle u spettu”. Pertanto, adesso che lo sapete, quando gli passate davanti rendetegli omaggio e toglietevi il cappello, perché vi troverete di fronte a colui che fondò Catania, la nostra città.

M.R.

https://www.mimmorapisarda.it/STORIA.HTM#kat

 

 

VIA PLEBISCITO COAST TO COAST

Dal Porto comincia la salita. A sinistra si va per il vecchio macello di Via Zurria (adesso piscina comunale dedicata al povero Ciccio Scuderi) e poi l'Angelo custode. E' la zona più vicina al mare e si vede dalla vendita di esche, vermicelli ballerini, spagnoli, coreani e americani. Più avanti, fra i muri delle strade spruzzati "a sostegno di una fede", tanti chioschi di fede rossazzurra tappezzati da poster del nostro amato Catania e raffiguranti immagini a me molto familiari: provengono dal mio sito web !

Siamo in Via Plebiscito, nell'autentica Catania. Confesso che io ci vivrei; molto meglio di silenziosi condomini pieni di verde e cinguettii. Certe volte, invece di perdermi in un caotico e inconcludente centro commerciale, preferisco farmi un “via Plebiscito coast to coast”. Mi ci immergo volentieri divertendomi ad ascoltare la sua gente, sentirmi dentro la storia della mia città per la vicinanza di numerose testimonianze rimaste su quelle strade e sconosciute da parecchi. Le dominazioni in Sicilia qui si toccano con mano. Diverse, man mano che si cambia il quartiere: da quella sveva e normanna dell’Angelo Custode a quella araba di San Cristoforo, a quella aragonese e barocca dai Cappuccini fino all’Antico Corso.

Siamo in un mondo a parte. Nel suo contesto sociale e storico, è un quartiere bellissimo dove poter ritrovare le proprio origini, l'essere catanese. Come in una Matrioska, scoprire quartieri infilati in altri quartieri con splendidi cortili degni delle sceneggiature recitate da Angelo Musco e Giovanni Grasso. Sono come li lasciò il Gen. Montgomery nel luglio del 1943, in alcuni edifici sono rimaste anche le scritte del ventennio fascista!

Nonostante la triste e falsa nomea, io non ho mai avuto problemi. Ogni volta ne rimango stregato. Senza che nessuno mi abbia mai infastidito, percorro in piena tranquillità strade interne come via Stella Polare, Gramignani, Mulini a vento, del Principe, Cordai, Villa Scabrosa. Ogni tanto esagero e tento di entrare in quei cortili ma, non conoscendomi, vengo bloccato puntualmente all’ingresso con un immancabile “prego?” spuntato fuori all’improvviso.

Eccomi sulla strada maestra. Sul marciapiedi davanti al suo ingresso, una farmacia suggerisce di misurare la glicemia a solo un euro. Però qualcuno, con una “disinteressata” quanto geniale idea pubblicitaria, aggiunge "e 'cu n'euro ta luvatu u scantu e ti po iri a mangiari a raviola ni Lanzafami". Translate: “e con un euro ti sei tolto lo spavento e puoi andarti a mangiare la raviola fritta da Lanzafame”.

Il fatto che il titolare della farmacia - ormai assuefatto alla mentalità del quartiere - non l’abbia più cancellata decreta la suddetta frase aggiuntiva che, di fatto, diventa un'opera d’arte marca Liotru! Questa non potevo farmela scappare.

C'è tanto da fotografare, ci sono chicche che nemmeno a Forcella a Napoli. Percorro via Plaja e vedo un vecchio stabilimento ormai smantellato, pieno di macerie. Mi accosto e, mentre mi appresto a fotografarlo, un colpetto sulla mia spalla blocca il mio entusiasmo: un anziano signore mi fa un cenno con il suo dito indice che si muove come un metrometro. "Lei cca non po' fotografari! C'è gente ca s'avissi a stari a casa e inveci s'attrova peri peri" (è più forte di loro, non ce la fanno a rimanere ai domiciliari con tutto quel ben di Dio che c'è fuori). Il signore continua: "appoi ci su autri ca pigghiunu u redditu di cittadinanza e vinnunu i muluni strada strada.....m'ascutassi, chi voli sapiri ciu cuntu iu!".

E mi racconta che in quell'edificio esisteva il pastificio Maione, la pasta consumata dalla maggior parte della cittadinanza fino al Dopoguerra. Fallì a causa del benessere degli anni Sessanta e l'avvento della Barilla & Co. Un racconto affascinante, proveniente da quegli occhi pieni di storia, di sofferenze, di guerra, di anni difficili e che si muovevano assieme a tutte quelle rughe che mi spiegavano anche del deposito dei vini semidistrutto dai bombardamenti, della fabbrica di ghiaccio antistante per farci i gelati e le granite di una volta. Tutti quegli edifici, in rigoroso stile architettonico del famoso ventennio, sono ancora in piedi. Malconci ma presenti come vecchi fantasmi che sovrastano centinaia di ricevitorie di scommesse frequentate da una gioventù balorda che, devo dire, a casa sua è davvero molto "arucata"! Mi sono sentito più sicuro qui che davanti all'Altare della Patria. Bello, bello, bello! Quella mezz'ora è stata per più soddisfacente del report fotografico.

Ecco perchè qui non faccio più click. Faccio un esempio: tempo fa stavo fotografando un vecchio edificio in via Di Giacomo (regno di Santapaola) e non mi accorsi che nell'inquadratura stavo riprendendo anche una donna anziana che si prendeva il fresco pomeridiano annusandosi le ascelle su una sdraio, fuori dalla sua casa che era ormai quasi da demolire. Inconsapevolmente stavo per acchiappare un capolavoro, ma lei si accorse di me. “Lei cu iieeèèè? Chiamu a me figghiu!”. Insomma, m’assicutau. Ciò significa che, come dice una famosa frase, "ti piace? guarda ma non si scatta!"

Ad angolo con via Cordai c'è una trattoria col suo slogan che campeggia sulle tende davanti all'ingresso: "si picca vo pavari e bonu vo mangiari, na Zia ..... ta fimmari". In zona, sono tante le zie che che diventano tali per i nipoti e pronipoti. Il massimo della loro carriera è il caravan dei panini al Lungomare di Catania, lì zii e zie diventano tante.

Ci passo e scopro qualcosa nel locale che in città non sono mai riuscito a trovare: lumache già cucinate, da asporto. A Catania le lumache le vendono dovunque, purtroppo a casa non me le fanno cucinare e nemmeno me le cucinano perchè si impressionano. Addirittura, mia moglie ha organizzato in passato evasioni bibliche, sui vasi del terrazzo, quando le ho portate a casa.

Sto per prenderle ma non mi fido tanto. Più in là scorgo un'altra trattoria con tutta l'esposizione della mercanzia: costate suine, bovine, equine e tanta gastronomia "Made in Catania" da far storcere il naso a chi è abituato a cucina vegana, vegetariana e gourmet. Chiedo anche a questa trattoria se hanno lumache da asporto.

- "Vaccareddi? no, non ni facemu"

- "Ce li ha la Zia, più sopra. Mi dica, mi posso fidare?"

- "Assira, vossia .... chi mangiau?"

- "Che c'entra? Va bè, una caprese"

- "U viri? nuatri da zona semu vaccinati e non ni succeri nenti, inveci lei finisci 'o spidali! Ci luvassi manu !".

L'avrei abbracciato !

Comunque, la risposta del gestore è anche invidia, cuttigghiu e folklore catanese, perchè qui si fa teatro anche in queste cose. La trattoria che racconto non sarà luccicante come il Pavillon Leodoyen a Parigi, ma è semplice e senza fronzoli come si legge in questa brevissima recensione in rete che dice proprio tutto: "Potete assaggiare la vera, tipica saporita cucina catanese. Fantastica, gustosa, semplice e ignorante al punto giusto"

Lungo la via, moltissimi sono gli esercizi commerciali, tutti con enormi immagini di Sant'Aituzza e racchiusi fra loro in duecento metri. Nessuno di loro ha difficoltà economiche per la breve distanza col rivale, tanta è la densità di popolazione. Oltre al pane vendono anche tavola calda della tradizione catanese. Tanta, tanta, tanta da produrre tonnellate di trigliceridi ben evidenti nella ciccia traboccante dai jeans della gioventù del luogo.

Qui non puoi mai sentirti solo; sono moltissimi, spumeggianti, estrosi, geniali e pieni di colori come dentro la "Vucciria" di Guttuso. Amano la vita in tutti i sensi, nel bene e nel male e comunque vada. Per essere chiari, prendere il quartiere un sabato sera, squartarlo come un cappone a Natale e poggiarlo all'angolo fra via Belfiore e Via Plebiscito, poi entrarci dentro e vedere quel capolavoro prendere vita come quei libri per bambini che aprendoli cominciano ad animarsi. Lo si sentirà parlare, ansimare, litigare col venditore di carne arrosto, scacciare il cane "spettu" scacciare il cane "spettu" che sa dove fare la questua. E poi decine di Malaguti che sfrecciano come missili fra quarti di carne equina disossata per strada, fra braci di carne e carciofi accanto a mercanzie di ogni genere. Un dipinto !

Affondo sempre per via Belfiore fino a Via Tripi, al "Traforo", alla famosa macelleria equina dei F.lli Foti, inconfondibile per il tendone biancorosso. Percorro via Testulla e arrivo al Locu, piccola zona che in confronto via Plebiscito rappresenta via Veneto a Roma. Oggi molto degradato, questo spazio si trova nella parte finale del traforo ferroviario, a ridosso di Via della Concordia. Ci voglio entrare perchè mi ricorda quando, giovane sottufficiale di Capitaneria, alla fine degli anni Settanta mi inviarono qui per notificare un verbale a qualcuno (non ricordo se navigante o pescatore). Quella mattina ero in divisa, entrai in quelle stradine e fui subito circondato da un branco di cani, molto aggressivi nei confronti del sottoscritto.

A mia difesa arrivò una voce "Cumannanti, si luassi u cappeddu. I cani su addestrati ppi muzzicàri i vaddia!". Così mi tolsi il berretto, i cani si calmarono e alla fine riuscii a completare il mio compito. Pazzesco, no?

Lungo via Juvara torno indietro in Via Plebiscito ed entro in un bar. All'ingresso è affisso il manifesto del prossimo concerto di Gianni Vezzosi; special guest "Savvo Zauddu" e Matteo, dodicenne cantante neomelodico che è già una star!! L'arredamento è rimasto simile a quello degli spot dei gelati Algida nei Caroselli. Non pensate di trovarci tavolini in granito, aperitivi che fanno trend o gente che se la tira (a Catania lo chiamano "spacchiamento"). Di stuzzicherie nemmeno a parlarne, al massimo un pugnetto di arachidi e un paio di olive. Vi serviranno le bevande ancora nei lunghi e scomodissimi bicchieri del Bitter San Pellegrino che solo una cicogna ci può bere, e se chiedete un Negroni vi risponderanno che fuori ce ne sono a decine in ogni angolo di strada!

Ordino il mio aperitivo (questo lo conoscono) che di solito preferisco con ghiaccio e senza limone. Al banco c'è una donna che nemmeno mi ascolta perchè impegnata in chat, mentre si distrugge i pollici e le unghie disegnate con luccicanti paesaggi stellari. La massima aspirazione in carriera per le ragazze è il diploma di ricostruttrice di unghie, estetista oppure (il sogno) velina; per i ragazzi diploma all'Alberghiero, calciatore (possibilmente il compagno della velina) o cantante neomelodico.

La donna al banco sarà sulla quarantina, probabilmente è già nonna perchè canta al cellulare "Battiamo le manine, ca ora arriva u papa’, ni potta i cioccolattini e Kevin si mancirà". E' rilassata, continua a fottersene del sottoscritto ma dal retro arriva un giovanotto, forse il compagno: "au Aitina, chi fai, ti movi? U vo sevviri u chistianu?" .

Gli sguardi delle donne sono una condanna che Dio ha inflitto a noi uomini, ogni volta che li incrociamo. Quindi gela il suo uomo con uno di questi sguardi, accompagnato dal noto "Quannu iu parrava che chistiani tu sgaggiavi mobili co girellu!". (translate: "quando io parlavo già con la gente tu graffiavi i mobili col girello".

Mentre vengo servito nervosamente dalla donna (aperitivo caldo e con una fettona di limone, nemmeno mi rischio di protestare), vedo che l'uomo si arrende e le dice: "Amore, vita do me cori, lo sai che a quest'ora dò i numeri". Un esempio di come, nella vera Catania, si può mettere a posto una persona solo con le parole!

Esco con quello schifo nello stomaco e risalgo lungo la Route 66 della catanesità. Appagato, continuo per la piazza di fronte la Chiesa San Cristoforo dove, gentilissimi, mi spiegano tutte le procedure per cucinare, ancora lì bollenti, il sangeli, la matruzza e il quarume. Lì davanti inizia via Velis (dove visse il grande Micio Tempio) e in uno splendido cortile all'aperto che sembra il sipario di una commedia, mi imbatto in un battibecco fra una madre di famiglia e un bambino di 10 anni che le risponde ad ogni rimprovero come in un'opera di Martoglio, fra le risate della gente presente. Meglio di andare al cinema!

Continuo per San Cosimo alle Chianche in cui è rimasto qualche residuo del vecchio Bastione di San Giovanni, la Giudecca, la Vigna del Sardo, la zona del Fortino piena zeppa di scomodissimi divani, pessimi arredi e rosticcerie che attendono di accendere le loro luci al passaggio di Sant'Agata nella notte del prossimo 4 febbraio.

E poi i Cappuccini Nuovi, il vecchio Ospedale V. Emanuele spesso teatro di nervose rimostranze al pronto soccorso, l'Istituto Ippico, l'incrocio col Fortino, il Bastione degli infetti, quello del Tindaro e la Torre del Vescovo e, alla fine, annusando l'aria, capisco che sono quasi arrivato alla fine, cioè all'interno di quel gomito puzzolente e gustoso che si chiama Antico Corso (U Cussu, in dialetto catanese), tappa finale a nord nella sezione "Terme dell'Itria" e famoso per il cosiddetto "arrusti e mangia" della carne di cavallo, preparata in rigorosa maniera "street food" dai numerosi osti presenti in zona.

Ecco, secondo me, via Plebiscito. Sono sicuro che molti altri più bravi di me la saprebbero descrivere meglio, nel dettaglio e nella sua storia.

Io la vedo così. Basta saperci guardare dentro col cuore, la curiosità e la fantasia per farla diventare un'autentica giostra.

www.mimmorapisarda.it

 

 

I BENEDETTINI IN TV

Qualcuno del Dipartimento di Scienze umanistiche mi ha detto che quando finì di girare nell’ex Convento dei Benedettini, Alberto Angela non se ne voleva più andare. Si è innamorato di Catania e infatti nella prossima puntata parlerà dell’Etna, e dopo ancora della maestosità della festa di S. Agata.

Io lo sapevo, ne ero certo della cotta. Come una bella donna, Catania ti ammalia e ti rapisce… ma solo quando decide lei.

Puntata Impeccabile, sabato scorso. Anche se un po’ generico, visto il tempo a disposizione, Angela ha fatto omaggio a Catania con uno straordinario servizio. Più di così non poteva fare, perchè l’ex Monastero dei Benedettini, Palazzo Biscari e Via Crociferi meriterebbero, da soli, un’intera puntata ciascuno. Per non parlare di quel che manca ancora: Anfiteatro, Teatro romano, Castello Ursino, ecc.

Angela ha fatto capire come questa città conservi all’interno del suo tessuto urbano (non si tratta di siti fuori porta!) gioielli inestimabili che il mondo dovrebbe conoscere di più. Basti pensare al sito dei Benedettini, fino a poco tempo fa adibito a caserma o ad aule per scolaresche e poi rivalutato dall’Università di Catania negli anni Ottanta grazie alla grandiosa opera dell’Arch. De Carlo, autentico artefice del suo recupero. Nel 1984 ero presente all’inaugurazione, che fecero coincidere con il 500° dell’Ateneo, e mi meravigliò lo stupore ancora impresso nei suoi occhi, quandò raccontò ai Presidi delle ex Facoltà le sue scoperte sotterranee, dalle cucine progettate dal Vaccarini ai refettori che uscivano fuori man mano. Un grande.

L’altra sera è stato spiegato ampiamente quanto è immenso, ed è vero quel che raccontava Angela in merito alla vita agiata di chi abitava il Monastero. Non si trattava di poveri prelati votati alla vita francescana, ma dei secondogeniti della Nobiltà catanese costretti ad andare in convento, a condizione di viverci a 5 stelle. Cioè servitù al seguito, agiatezze, prostitute durante le ore notturne, fumo, alcol e soprattutto, cibo tanto cibo. Niente a che vedere con la vita di un monaco.

Chi non ricorda in TV i Vicerè, tratto dal romanzo di Federico De Roberto, che li definì “Porci di Dio”? Avrete pure sentito Angela pronunciare la frase “Scacciu e michellassu”. Ecco che significa:

Questo il menù (così come lo scrivevano i monaci) di una cena in un giorno qualsiasi del 1800: Eccolo qui:

Comunque, una grandiosa puntata che rende omaggio ad un importante luogo del Mito, che meriterebbe altro e non il degrado, l’inciviltà, l’ignoranza (soprattutto) e il menefreghismo che regnano sovrani nelle sue strade. Buttafuoco disse “A Catania il provincialismo non ci fa vedere il bello che c'è”. E’ vero, Catania non è solo arancini, granite e cannoli. C'è dell'altro, meravigliosamente altro.

Assieme a poche altre città italiane, a Catania – come in tutta la Sicilia - ci si può permettere di toccare con mano la storia grazie alle dominazioni e ai popoli che l’hanno abitata e governata. Non ci siamo fatti mancare niente: Greci, Romani, Arabi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Borboni, Sabaudi. Per chi non la conosce, percorrendo certe strade la sua storia la si può annusare, si può respirarla. E poi non ci vuole tanto a partire carichi di informazioni prima di allacciare le scarpe, internet non è solo stupidaggini da condividere. Per esempio, su facebook la pagina Obiettivo Catania di Milena Palermo è una fonte inesauribile di notizie storiche per chi vuole divertirsi all’indomani, calpestando letteralmente il nostro passato e apprendere le proprie origini …. invece di perder tempo nei Centri commerciali.

Credetemi, scoprire certe cose e poi dire a se stessi “ma dai!… ma io vivevo qui?” è davvero un sollazzo. A Catania viviamo fra patrimoni UNESCO che nemmeno gli stessi cittadini sanno di possedere.

Grazie Prof. Angela, grazie anche per quelle frasi finali: “Catania è distesa tra il mare e l’Etna e riassume molto bene due termini da noi utilizzati: distruzione e rinascita. Catania è stata devastata da quel terribile terremoto di fine ‘600 trasformandosi in una sorta di fucina internazionale del barocco. Ha saputo rinascere e quello che ha saputo creare è qualcosa di straordinario. Piazze che sembrano palcoscenici, statue che sembrano parlare con ampi gesti. E’ una città che incanta e che ha tanto da insegnarci proprio per questa capacità di guardare al futuro con ottimismo. Questo spirito ci chiede di essere tutelato e protetto”.

Belle, ma qualcuno potrebbe pensare “ma se avete tutto questo ben di Dio, perché lo distruggete? Forse è colpa di chi lo abita? Forse senza i catanesi Catania sarebbe una città straordinaria ?”

No. Catania è così perché (nel bene e nel male, nonostante inciviltà, inefficienza e tante altre cose negative) è abitata proprio dai catanesi. Per assurdo, Catania non sarebbe stata così bella se non ci fossero stati i catanesi. Lo so, sono “malusangu”, malarazza, pronti a fottere il prossimo nell’arco di 10 nanosecondi, arroganti, imprevedibili, impulsivi, a volte violenti… ma hanno un cuore grande così, intraprendenza, ingegno, estro e generosità da vendere. Soprattutto vanno letteralmente pazzi per la scritta “Melior de cinere surgo” che hanno nel loro DNA, e cioè rinasco dalle mie ceneri ancora più bella.

Perché loro sono fatti così: si autodistruggono e poi ricostruiscono dalle ceneri la loro città più splendente di prima. Figli del loro vulcano, come a "Muntagna" sono incontentabili, piroclastici al loro passaggio e impetuosi come colate laviche al momento di incanalarsi negli ingrottamenti delle loro vite, per poi riemergere nelle nuove rinascite come sempre. Come disse Luigina Grasso: Essi stessi sono l'Etna, anche loro fremono, sbuffano, eruttano e mandano al cielo lapilli. E se nel loro sangue si guardasse bene, il coagulo è magma solidificato, è lava.

(gennaio 2020)  M.R.

 

 

 

IL CALCIO

 

QUANDO IL CALCIOMERCATO DIVENTA UN TORMENTONE ESTIVO

Adesso che è finito il calciomercato, non c'è alcun dubbio che il più grande acquisto del Calcio Catania per la prossima stagione rimane l'essere riusciti a trattenere, ancora per un anno, la Gallina Bionda.

Con tutto il rispetto per i Grandi del passato, Maxi Lopez resta il più grande attaccante che abbia mai calpestato la sacra erba cifalota. Però quest'estate ci ha fatto alzare le temperature corporee. Non è stata colpa sua e nemmeno del caldo; i quaranta gradi li abbiamo raggiunti grazie alla continua cantilena della stampa sportiva: "Maxi resta o no? va alla Fiorentina o va al Genoa? Undici, dieci o nove milioni?" Quanta ansia! Nemmeno quando sono arrivati Spagnolo e Benincasa dalla Reggiana, nell'estate del 1973.

Lopez è innamorato di Catania, ma le sirene continuavano a suonare e così, fino al 31 di agosto abbiamo dovuto rimodulare, quasi ogni giorno, la formazione-tipo senza lui, con lui o con alternative del suo calibro.

Che compiti gravosi per noi, che gran problema sociale... vero? Quasi una città allo sfascio!

Tuttavia, come ogni anno, ho pubblicato nel mio sito la mia ipotetica formazione ma non sono stato il solo ad immaginare "come sarà il Catania". Infatti questo puzzle è un divertente gioco a quiz cittadino che si svolge prevalentemente d'estate, fra inverosimili "allenatori" dotati di una boria che sembrano provenire da Coverciano e davanti a una dozzina di granite di mandorla. Diciamo che ci divertiamo da matti a giocarci, forse per rispettare quel detto "siamo tutti C.T." oppure perchè quando siamo seduti a un tavolino, qui in Sicilia cominciamo a filosofare al vento (in gergo liotrico: "minchiati!"). Ben altra filosofia impazza nei forum dedicati al Calcio Catania e le nostre brucianti battute li infuocano a dovere.

Quindi, a parte i Gossip balneari e le escort nazionali, le vacanze rovinate e le cambiali protestate, la manovra finanziaria e il Governo ladro, i mulinciani a Fera o luni e i capuni a Piscaria, le "conquiste" vere, presunte e inventate, questo è il principale argomento nei bar catanesi durante i mesi di giugno, luglio e agosto.

L'uomo da sparlare ferocemente, invece, è Pietro Lo Monaco: l'Etna ci ricopre di polvere nera? I commercianti fregano sui saldi? La linea D non passa? ...... il colpevole è sempre lui! ...."Manca l'acqua! A cuppa è di Lo Monaco, ca soddi non ni voli nesciri!". Che pazzi! Lui ci rimane male, ma non ha ancora capito che i tifosi in fondo gli vogliono bene, che nonostante le accuse si fidano ciecamente di lui e che gridare allo stadio "Direttore pezzo di...." è ormai diventata una pratica scaramantica per invocare il gol della vittoria. Sarà una follia tutta nostra, ma è vero! Verificato di persona.

Ma è anche il caldo, credetemi, che ci fa "delirare" così da mezzogiorno in poi. Garantisco che quando al mattino c'è più fresco siamo meno vulcanici, pure più riflessivi, anche se il nostro dilemma rimane sempre quello: ".... chi fici u Catania? a ccu accattanu? Così, dopo aver imboccato il primo cucchiaino traboccante di delizie, i "grandi saggi" sognano di sedere sulla panchina rossazzurra riformulando ad alta voce la formazione etnea senza il mancato acquisto, sognato da settimane fra conferme e smentite del quotidiano di città.

Poi, anagrammando, continuano: "Mah, viremu ora a ccu attaccanu!"..... e sfogliano la Cronaca nera. A Catania è sempre così, ogni estate.

 M.R.

  

NON PIU' UNA PARTITA MA UNA LEGGENDA.

 Non è la data, l'anno, il paese, lo stadio che rende ogni volta incredibile questa partita, ma è la nomenclatura che la fa diventare mitica: Italia-Germania. 

Due parole che unite da un trattino e messe dovunque, o in una partita al calcio balilla o sulla spiaggia di un villaggio turistico fra un'amichevole di turisti tedeschi e italiani, innescano una magia che scatena quanto di più incantato si possa pensare per una partita di calcio. C'è qualcosa di stregato in queste due parole, è come se il Dio Palla volesse chiedere la parola d'ordine a chi vorrebbe conferire con lui per iniziare a parlare di pallone. 

Questa partita è diventata lunghissima, non finirà mai. Da oggi ancora di più, ma per quanto tempo ancora? Il 90' è finito da parecchio, i minuti di recupero pure, ma i supplementari si stanno ancora giocando e forse si giocheranno ancora. Da una fantastica panchina le riserve sostituiscono da quarant'anni i titolari: esce Boninsegna ed entra Totti; Gigi Riva ha i crampi ma Paolo Rossi si sta già scaldando; il sudato Tardelli ha problemi alle corde vocali per quanto ha urlato e Gattuso gli va incontro per farlo riposare. Chissà quando lo sentiremo davvero il triplice fischio finale! E' un match che è diventato ormai una leggenda, una sfida interminabile fra la scuola dei panzer tedeschi, tutta muscoli, perfezione e geometria e quella italiana, tuttta estro, contropiede e genialità. Quando quel rettangolo verde si riempie di 22 puntini bianchi e azzurri una polverina magica scende sul capo di quegli uomini che per sortilegio, anche se sfiniti, ritrovano nuove forze, nuovi stimoli, corrono come pazzi alla ricerca del gol della vita. 

C'è da dire che in queste epiche battaglie i tedeschi hanno sempre incassato cocenti sconfitte sulle quali, però, non hanno mai potuto recriminare nulla o accampare scuse. E questo li ha fatti inviperire ancor di più, perché sono state sconfitte sempre limpide, pulite e meritate e che hanno fatto sempre male al loro stomaco e al loro orgoglio nazionale. Ma più perdono e più ritornano ad essere i soliti crucchi, fino ai miserabili articoli della loro stampa o alle puntuali e puerili minacce di boicattaggio delle pizzerie italiane in Germania. Non mangiano più la nostra pizza? E cchisenefrega!! Chiedete al pizzaiolo coi baffi neri di Berlino se sono meglio duemila Margherite invendute o due gol a nostro favore! Forse non vi può rispondere perché è ancora ubriaco di birra ed euforia. Però… sotto sotto, anche se dicono che siamo cafoni, furbetti e disonesti, alla fine ci ammirano e ci invidiano e - a modo loro - ci rispettano. Perché per loro noi siamo, da sempre, IL NEMICO. 

Italia-Germania a questo punto è anche un simbolo, una metafora per significare che in ogni occasione della vita tutto è il contrario di tutto, che puoi scendere dalle stelle alle stalle in un minuto, che mentre stai a difendere la tua area di rigore piena di problemi ti ritrovi - per spontanea reazione - proiettato ad attaccare l'altra area di rigore; che niente in ogni nostra Italia-Germania è predisposto, preparato, dettato e organizzato ma, illogicamente, in quella confusione di ormoni impazziti tutto va al suo posto come se ogni lancio o rimessa laterale fosse già stata scritta su un libro. Italia-Germania significa che può succedere qualsiasi cosa, avere la licenza di essere te stesso, vuole dire dimenticarsi subito degli schemi imposti dall'allenatore, entrare in campo e perdersi… perdersi fra quelle immense praterie di prato verde che si spalancano davanti perché la tattica non esiste più, le marcature nemmeno (figuriamoci la zona) e i capovolgimenti di fronte fanno diventare il campo di calcio come un flipper col Tilt acceso. 

Ognuno va per conto suo, e si ritrova da solo con la sua sorte in quel suo piccolo fazzoletto verde personale, smarrito, come su un campo di battaglia della Grande Guerra in attesa che il nemico si affacci da dietro la nebbia. Fra l'odore di erba fresca appena tagliata, il boato del pubblico ormai non lo sente nemmeno più, non vede più neanche gli spalti, ma soltanto il verde e quella nebbia surreale. Attorno a lui soltanto un fatato silenzio. Ogni tanto avverte ai suoi lati soltanto una locomotiva che passa, bianca o azzurra non importa, è un compagno di squadra o un avversario che in preda ai cinque minuti di straordinaria follia che gli ha assegnato il fato corre in cerca di una gloria che vede davvero, di un gol che percepisce in anticipo, di appiccicosi e fraterni abbracci che già avverte sulle spalle, di una prima pagina di giornale che sta già leggendo mentre corre un dannato, con 120 minuti nelle gambe, alla ricerca di quelle tanto ambite linee bianche: i pali e la traversa. In quei suoi cinque minuti il pallone che ha davanti ai piedi è pazzo, ha voglia di infilarsi in quella rete come uno spermatozoo che tenta di entrare nell'utero di una donna. E non importa se per strada ha perso i parastinchi e gli sgambetti gli fanno tanto male, lui deve macinare a tutti i costi quei trenta metri che lo separano dal sogno.

Non c'è niente di patriottico in quel che fanno quando questi uomini s'incontrano, lo fanno perché accade qualcosa di strano, quasi miracoloso. Non lo sanno nemmeno loro perché accade.

Questa è divenuta Italia-Germania. Come ci ricorda una famosa foto di Tardelli, è una folle e infinta corsa segnata dal destino, un urlo lungo centodieci metri di prato colorato di bianco e azzurro.

M.R.

 

5.8.2017 ITALIA ARMENIA 9-1 -

La formazione armena scesa in campo ieri sera:

Airapetyan, Hambartsumyan, Haroyan, Calisir, Ishkhanyan, Hovhannisyan, Babayan, Grigoryan, Edigaryan, Barseghyan,

Karapetian.

A disposizione:

Beglaryan, Voskanyan, Manucharyan, Daniielian, Hovhannisyan, Vardanyan, Harutyunyan

Allenatore: Khashmanyan

Vi risparmio il cognome del massaggiatore.

Quello che mi colpisce è il calciatore Calisir, che rispetto alla monotonia che sarebbe uscita dalla bocca dell'arbitro durante le presentazioni dei suoi compagni negli spogliatoi, ha un cognome per niente euro-asiatico e che sa tanto di allegria sudamericana.

Non sono andato a vedere dove è nato, ma io l'ho immaginato come un ballerino di samba che una ventina di anni fa, durante una improbabile tournée all'Est, si innamorò di una bella montagnola del Caucaso e che restò in Armenia per sempre.

Si stabilirono a Vanadzor, dove nacque Joao Pedro Calisir, detto Calinho per sue qualità pallonare. Purtroppo il ragazzo non riuscì ad avere successo ed oggi fa il meccanico di auto sconquassate degli anni Cinquanta nella sua città. Però un giorno è riuscito a coronare il sogno della sua vita: giocare contro la Nazionale italiana. Ha incassato 9 gol, essendo difensore ma, felice, ha riaperto la saracinesca della sua officina il martedì mattina, pieno di gloria.

La fantasia galoppa. Oltre al risultato, il tabellino di questa partita meriterebbe un romanzo, una canzone, una storia.

 

 

IL MIO CONCETTO DI "PELOTA"

Volevo ancora credere che il calcio fosse sempre quello, quella benedetta palla bianconera che rotola ogni domenica sull'erbetta e che smettiamo di seguirla con gli occhi solo alla sigla di chiusura della Domenica sportiva. Volevo crederci ancora che era ancora quello. Mi ero illuso.

Purtroppo è successa una cosa infame, che ormai conosce il mondo intero e che ci etichetterà come una delle tifoserie più violente, come una città troppo agitata. Non lo dicono o non lo vogliono dire nascondendosi sotto frasi come "poteva succedere dovunque". Ma lo pensano, eccome. E noi catanesi lo sappiamo, eccome.

Il calcio a Catania non era questo. E quanti ricordi di bambino in uno stadio pulito! Negli anni '60 mio padre fece fare a mia madre un maglione di lana a strisce rossazzurre. Ogni tanto mi chiedevo per chi fosse quel maglione e alla fine capii a chi era destinato: era la mia divisa da piccolo tifoso. Così ogni domenica allo stadio, ad ogni goal del Catania, mio padre mi prendeva in braccio e mi sollevava come una bandiera sballottandomi fra tante braccia festanti! Primitivo  tentativo di mentalità ultras!

Mi portava allo stadio fin dai tempi in cui il Catania era considerato l’ammazza-scudetti delle Grandi. Uno lo rovinò alla Juve e l’altro all’Inter di Herrera dopo che questi, dopo il 5-0 di San Siro nel girone di andata, considerò il Catania una squadra di post-telegrafonici che giocavano in un campionato aziendale. Poi al Cibali la pagò cara.

Ma il mio ricordo più bello è legato a qualche anno più tardi, alla partita Catania-Inter del 28.3.1971. Tipico dei ragazzini, la notte prima non riuscii nemmeno a dormire pensando di veder giocare la squadra del mio cuore: l’Inter! Era l’Inter zeppa di vice Campioni del mondo ai Mondiali di Messico ‘70: Mazzola, Facchetti, Burgnich, Bertini, Boninsegna.

 Io ero seduto nella tribuna laterale con un mio amichetto, ma quando vidi quei colori nero-azzurri sbucare fuori dagli spogliatoi, cominciò a battermi il cuore. Non potevo rimanere là, dovevo vederli da vicino!

Col mio amico scendemmo sotto e andammo in curva, proprio vicino alla bandierina del calcio d'angolo per vedere meglio le azioni. Quel giorno pioveva, il cibali era un pantano, ma c’era abbastanza verde da far spiccare quei colori indossati dalla pantera Jair, da Mariolino Corso e da Bonimba. Vedere le mie figurine Panini lì davanti, in carne ed ossa, mi faceva venire i brividi. Quando smise di piovere, seppur inzuppato dalla testa ai piedi, ero ancora lì e al settimo cielo. L’erba bagnata emanava un fresco odore e potevo sentire Bordon mentre incitava Bellugi a lanciare il pallone verso l’ennesima cavalcata di Facchetti. Mi sembrava di stare in mezzo ai miei campioni. Non al Cibali, ma a San Siro. Cosa potevo desiderare di più a 13 anni? Oggi tutto questo sarebbe stato normale, ma negli anni Settanta no. Clamoroso al Cibali! In quel pomeriggio si realizzò un sogno!

Negli anni Settanta giocavo in una squadra chiamata Pollo d'Oro. Senza nulla togliere ad altre gloriose società catanesi come Massiminiana, Katane, Interclub, Palestro, Mongibello e Trinità, per blasone è una delle più famose e ricordate a Catania. Oggi questa squadra non esiste più perchè il suo creatore, Angelo Barbagallo, un presidente vecchio stampo alla Massimino, alla Rozzi, si è portato con lui tutto quel po' di gialloverde che era rimasto nel calcio etneo.

 Allora, per noi ragazzi delle Giovanili, l'allenatore (il mister) era come un padre. C'era un profondo rispetto per quella persona, sapevamo abbassare la testa se sbagliavamo, in casi estremi sapevamo anche porgere la guancia se sbagliavamo ancora di più, con rassegnazione sapevamo posare le nostre chiappe sulla panchina se per una partita non si giocava. Sempre con educazione, anche con i calciatori della prima squadra che vedevamo come persone anziane, come zii. Oggi chissà che fanno, ma allora i signori Sanfilippo, Cuntrò, Di Francesco (u cavaleri), Lumia, Consoli, Morgia, Barbagallo (schigghia), Belviso, Scirè, Tropea (topolino)  e Verderame erano abbastanza conosciuti e per me, giovane juniores, giocare il giovedì sera contro questa sorta di miti del pallone, "allenarli", spedirli incazzati anzitempo sotto la doccia perchè non riuscivano a far gol al mio portiere soprannominato "Pruvulazzu", era già una gran soddisfazione. Tempo fa, dopo tanti anni, incontrai uno di loro e mi disse che nel 1973 aveva soltanto 24 anni. Com'è possibile? Io lo vedevo come uno di quaranta, tanto era il rispetto che c'era nei confronti delle persone più anziane!

Figuriamoci cos'era per noi Presidente, l'autorità che a settembre inviava le convocazioni per la preparazione pre-campionato. Vedere nella buca delle lettere la busta intestata della Società era meglio della lettera di Babbo Natale. All'inizio del torneo tutti in sede a prendere in consegna la borsa (gialloverde, che anche a quei tempi non doveva essere tanto chic), la tuta d'allenamento, gli accessori e le scarpine, che erano i parametri della tua bravura. Si cominciava dalle Tepa Sport, ma se stregavi il Presidente potevi arrivare alle Atala (allora molto in voga) o addirittura arrivare al non plus ultra: la Pantofola d'Oro, la mitica scarpa di calcio costruita ad Ascoli Piceno e che era l'oggetto dei desideri di noi giovani calciatori. Se poi si otteneva la Super Pantofola, voleva dire che il Presidente era riuscito ad inserirti nella selezione provinciale, in mostra prima dell'estate, per gli osservatori delle grandi squadre del Nord.

Altri tempi. Solo recentemente, ho appreso che tempo fa l'allenatore della squadra allievi del Catania è stato massacrato di botte perchè non aveva fatto giocare un ragazzo di 13 anni!

Tutto diverso da quelle sensazioni. I ginocchi sbucciati sui campi di terra battuta come il Turati o il Duca d'Aosta, l'odore della crema Sifcamina sui muscoli e quello dell'alcool canforato sui polpacci, l'ormai familiare fetore dei paludosi spogliatoi, l'ansia o il piacere di rompere il fiato dopo il calcio d'inizio, l'emozione della "federalità" delll'incontro nel vedere la giacchetta nera dell'arbitro, l'incoraggiamento ai compagni prima di entrare in campo, i battiti del cuore nel vederti nella lista dei titolari al sabato sera, nella sede sociale. E poi quella rete, quella rete di plastica che dava tanta gioia quando la vedevi felicemente gonfiarsi.

E come scordarsi delle voci di Enrico Ameri e di Sandro Ciotti nelle autoradio delle nostre Cinquecento? Solo loro potevano farti immaginare di essere lì, sugli spalti di Vicenza o al Comunale di Torino.

 Ecco, questo per me era il calcio. Ma forse è ormai troppo tardi per cambiarlo, perchè gli interessi economici e televisivi hanno il sopravvento anche su eventi tragici come quello del 2 febbraio. Ma quanta nostalgia di quel calcio genuino che ricordo io!

Quelli, per me, erano i campioni. I calciatori che vedevi soltanto sull'album Panini oppure seduti la domenica sera da Alfredo Pigna con le loro enormi basette che giganteggiavano su enormi nodi alla cravatta. Che non sapevano nemmeno parlare, che si vergognavano davanti alle telecamere, che nemmeno si sarebbero sognati di dire "life is now" o di fare i commentatori. Stadi quasi in religiosi silenzi interrotti soltanto dai boati degli autentici sportivi, gente composta che però sapeva stare al suo posto. Le marcature ad uomo, il terzino sull'ala sinistra, lo stopper incollato sul centravanti, lanci lunghi  senza fretta, col tempo di ragionare o di avere un'ampia visione di gioco. Oggi non lo potrebbe fare perchè si beccherebbe settanta calcioni in novanta minuti e con la palla al piede non gli lascerebbero nemmeno il tempo di capire con chi sta giocando, ma quando Rivera (qui riportato solo in maglia azzurra, non potevo tradire la mia Inter fino a questo punto!) riceveva il pallone dai "portatori d'acqua" o da mediani leggendari come Benetti, Furino, Bertini, Lodetti, Bedin, Agroppi, aveva davanti a sè delle praterie immense per mettere in moto il suo genio e lanciare la punta: Chiarugi, Pierino Parti o, in Nazionale, Gigi Riva. Ed era puro spettacolo!

Già, Riva. Secondo me il miglior attaccante della storia del calcio italiano. Quando era in attività anche lui era un semidio come i campioni di oggi, chi lo guardava arrivare da dietro la porta avversaria poteva avvertire il rumore dei suoi passi potenti mentre scattava per farsi trovare pronto all'appuntamento con l'oggetto del suo desiderio: una sfera di cuoio da scaraventare in porta con una potenza inaudita. Proprio per questo lo chiamavano Rombo di tuono, come il nomignolo di un Dio greco.

A Catania, durante un Palermo-Cagliari di serie A in campo neutro (è proprio una maledizione, siamo stati sempre monelli!) una volta lo vidi scagliare uno di quei suoi palloni.

11 febbraio 1973. Ero dietro la porta del portiere palermitano Girardi, e lo vidi avvicinarsi all'area avversaria. Da lontano lo vedevo piccolo piccolo, minuscolo, bianco nella sua divisa di gioco sarda. Man mano che si avvicinava il tamburino diventava sempre più grande, sempre più grande.. e dal rumore della sua galoppata verso di me, capii perchè lo chiamavano "Rombo di tuono". Dicevano che i suoi passi erano così rumorosi da paragonarli al "sinistro" presagio di un fulmine che sta per abbattersi in una trequarti di campo qualsiasi, da vicentina a meneghina, da foggiana ad antonelliana, tutti potevano godere di quello splendido temporale. Insomma, vederlo arrivare faceva davvero paura a tutti.

Arrivato in area palermitana al fantastico appuntamento con il suo grande amore di forma sferica, come il guerriero Achille agganciò al volo il solito spiovente offerto su un piatto d'argento da Sergio Gori, si sollevò da terra in una armoniosa festa di nervi e tendini, si girò in plastici movimenti degni dei disegni di Leonardo che a rifarli oggi devi andare a correre da un fisiatra e infine tese la sua coscia sinistra gonfia di muscoli (e non di strane sostanze) pronta a scagliare il suo castigo di Dio.

Lo straordinario balletto si concluse con un fragore che rimbombò fin nei quartieri adiacenti e circostanti lo stadio e l'impossibilità, da parte del sottoscritto, di vedere quel pallone viaggiare tanto andava veloce. Commovente!

Adesso fa il dirigente della FGCI. Già, soltanto un Sig. Riva Luigi da Legnago, che oggi accompagna giovanotti in  azzurro, ignari di chi fosse stato veramente quell'uomo in giacca e cravatta. Ma forse è meglio così, l'anima di Gigi Riva non è a Coverciano ma all'Olimpo del calcio.

Solo lui, assieme a pochi altri, mi hanno fatto divertire. L'ultimo è stato Roberto Baggio. Era bello vederlo "sciare" con la palla ai piedi lasciando a terra tre, quattro, cinque avversari. Ricorderò sempre quel codino che svolazzava una volta a destra e una volta a sinistra, come il timone che governa le ali dell'aquila in picchiata….codino a destra: schh-tam-gol, codino a sinistra: schh-tam-gol.….un fruscìo di capelli, il rumore di tacchetti che accarezzavano il Dio Palla completamente ai suoi piedi, mentre gli implorava "fai di me quel che vuoi, che mi sto divertendo tanto".

Ecco, il calcio è soprattutto divertimento. Diversamente da quello che oggi è diventato. Al contrario di altri sport, dove i movimenti rasentano la monotonia, dal calcio ti puoi aspettare di tutto, sempre qualcosa di diverso, di geniale. Una partita al pallone non sarà mai uguale a quella precedente o a quella successiva. Ecco perchè sono ancora legato soprattutto a quello di trent'anni fa. So pure che dovrò aspettare anni per rivedere quelle discese, quelle acrobazie, forse non le vedrò mai perché il calcio di oggi non è fatto per i giocolieri ma per i gladiatori. Mi accontenterò di rivederli in "Sfide".

E poi c'è da dire che allora i calciatori avevano attaccamento alla maglia, alcuni erano delle bandiere dei loro clubs. Oggi hanno smesso, ma le loro non saranno mai delle semplici scarpette attaccate al chiodo, di quelle che puzzano e che magari ammuffiscono nell'oblio. Non emaneranno cattivi odori perché sono state usate da chi ha fatto della sua passione un esempio per i giovani, un modello di come deve essere davvero lo sport. Sanno di pulito.

Sono le scarpette prima di tutto di veri uomini, e poi di campioni.

 M.R.

 

 

CRISTO SI E' FERMATO A CIBALI

Quella sera c'ero anch'io al Cibali, proprio in curva Nord, quella incriminata.
Quest'anno ho fatto l'abbonamento con alcuni amici in quel settore, ma lontani dalla "zona agitata". L'abbiamo fatto soprattutto per sentire il vero respiro della curva. C'è chi lo fa apposta, come se andasse ad ascoltare le voci della pescheria o del mercato. Catturare la vera essenza del popolo, godere delle sue geniali trovate.
Me ne sono pentito amaramente. Dall'inizio del campionato non si capisce più niente: allo stadio entra gente senza biglietto che l'amico fa entrare con un cenno, alla faccia dei tornelli che qui a Catania non hanno mai funzionato (il controllore chiede, a chi entra, di far vedere la tessera."Ciao Ciccio!" e si entra) e quindi stiamo stretti come sardine, sopportiamo portoghesi di 12-13 anni disinteressati alla partita e che sono lì solo per il gusto di provocare, insultare, gettare pallottole di carta sugli spettatori dell'anello sottostante, appropriarsi con prepotenza del posto riservato all'abbonato, distruggere i chioschetti del ristoro, progettare le strategie per il nuovo nemico di quest'anno. Che non è il Palermo o la Sampdoria, ma il poliziotto. Infatti uno dei cori ricorrenti è "Poliziotto primo nemico".
Era già successo col Messina: hanno attirato un poliziotto dentro la curva con la scusa di un'emergenza e lo hanno pestato a sangue. Per questo motivo abbiamo giocato due turni in campo neutro, e a porte chiuse. A pagare le loro pazzie sono stati, però, i veri sportivi. Ma a loro non è bastato.
Come mai la Società ha permesso tutto questo? Come ha fatto scoppiare all'inverosimile la capienza di questo stadio, senza tra l'altro ricavarne nulla, visto che entrano quasi tutti gratis? Infine, con questo andazzo chi sarà quel fesso (se ancora esisterà il calcio a Catania) che l'anno prossimo rinnoverà l'abbonamento?
Quella sera stava andando tutto bene: grandi coreografie, controlli agli ingressi, partita iniziata regolarmente, anche una luna gigantesca più luminosa dei riflettori che si stava godendo l'incontro. E poi fuochi d'artificio spettacolari che nessun altro giocatore al mondo si sognerebbe, nella sua carriera, di vedere all'ingresso in campo.

Una cornice spettacolare e un'occasione unica: proprio nei giorni di festeggiamenti della Patrona di Catania, in uno stadio siciliano c'erano due squadre siciliane in serie A, che con sponsor siciliani stampati su maglie dai colori sociali siciliani lottavano per il terzo e quarto posto, per giocare la Coppa dei Campioni, su 110 metri x 65 di erbetta siciliana; sugli spalti solo tifosi siciliani, in tribuna un presidente siciliano, in panchina un allenatore siciliano, in campo due centravanti siciliani. Quando mai avremmo avuto un giorno cosi? Una vita che aspettavamo la madre di tutte le partite! C'era da essere orgogliosi di questo scenario che andava in mondovisione, era un sogno che non si sarebbe avverato mai più! Era tutta la Sicilia in festa, un evento che stava proiettando l'immagine dell'Isola in tutto il mondo. Significava dire ai nipotini "quel giorno c'ero anch'io!"

Ma qualcuno aveva già deciso di rovinarlo, quel giorno. Dalla curva Nord aspettavano con ansia gli ospiti palermitani, gli odiati cugini che non arrivavano, gridando "dove sono gli ultras?" , cioè il nemico. Sfogare, su chiunque esso sia, tutte le angosce accumulate nella settimana da disadattato.
Nel secondo tempo, da dietro la curva Nord, arrivano i palermitani ed entrano nell'adiacente settore degli ospiti. Su di loro volano insulti, mortaretti, fumogeni, sfottò, slogan. Regolarmente rimandati ai mittenti. Ma era una cosa prevedibile, messa nel preventivo di un derby qual è Catania Palermo. Penso ai derby Roma-Lazio o Lucchese-Pisa. Scapagnini aveva anche avuto rassicurazioni dai Capi Ultras, che gli avevavo garantito la massima tranquillità anche per rispetto a Sant'Agata, la cui festa si celebra in questi giorni.
Vigliacchi! La notte prima sono invece entrati al Cibali, avevano oscurato le telecamere interne con nastro adesivo per non fornire le prove dei misfatti all'indomani, avevano parzialmente divelto i sanitari dei bagni in modo da essere utilizzati al momento, fuori dallo stadio avevano distrutto un vecchio muro per ricavarne pietre da lanciare, pronte all'uso all'uscita dallo stadio. Tutto progettato, tutto premeditato. Non ci sono scuse dovute alla follia del momento. Tutto vigliacco, tutto vile, tutto carogna!
 L'arbitro ha sospeso la partita due volte per via dei lacrimogeni che arrivavano dentro lo stadio. Fra svenimenti, gente che si sentiva male, donne e bambini terrorizzati, tutti ci chiedevamo come mai la Polizia stava compromettendo il campionato appestando 30.000 persone senza motivo? Perchè fare questo se in quel momento c'era calma piatta, non si stava insultando nessuno e non c'era nessun fumogeno?
Noi non sapevamo, eravamo ignari di tutto. Fuori dallo stadio le forze dell'ordine, per proteggere il settore dei palermitani, stavano fronteggiando centinaia di ultras catanesi che avevano abbandonato gli spalti per raggiungere gli odiati ospiti. Quindi gente che non aveva alcun intenzione di seguire l'evento sportivo, ma che era lì sotto solo per il gusto di menare e di farla pagare all'odiato nemico. Con l'aggravante che un altro nuovo "nemico", peraltro casalingo, stava proteggendo lo storico nemico.
Quando sono uscito alla fine della partita c'era un'insolita ressa ai cancelli, piccoli mascalzoni spingevano e avevano fretta di uscire, sembrava avessero un'appuntamento e un ordine preciso: giocare alla guerra con la Polizia e i Carabinieri.
Quando sono uscito in Piazza Spedini mi sembrava di essere a Bagdad o a Beirut, mi sono ritrovato in piena guerriglia urbana. Donne, bambini e famiglie intere che piangevano disperati alla ricerca dei congiunti, i vigili del fuoco che cercavano di proteggere un disabile in carrozzella dai poliziotti che in quel momento non esoneravano nessuno dai loro manganelli. Un inferno! Inutile descrivere immagini che ormai conoscono anche in Cina.
 Lo stadio di Catania è situato nel quartiere Cibali. Attorno ci sono viuzze anguste, pochissimi parcheggi, le zone di fuga sono inesistenti e i suoi poveri abitanti sono costretti, ogni quindici giorni, a vivere una domenica blindata. Questo non è giusto. Quando si esce tutti i tifosi, di qualsiasi settore (gente per bene, gente per male, vip e non vip), si ritrovano tutti assieme in Piazza Spedini. Quindi, (vedasi le immagini in tv) lì in mezzo c'era anche gente che va allo stadio solo per vedere la partita e che si è ritrovata in mezzo ai teppisti in un inferno inatteso, ma studiato al tavolino.
Ho attraversato la piazza fra i mezzi blindati che giravano all'impazzata, ho gettato il cappellino e la sciarpa rossazzurra e con attenzione mi sono incamminato (purtroppo insieme a questi pazzi) lungo la strada che mi avrebbe portato all'auto. Durante il percorso ho incrociato una trentina di carabinieri in assetto di guerra che correvano verso di me, verso di noi, verso quelli che non c'entravano niente. Ed erano molto nervosi. Ho pensato "tanto non mi crederete mai, non posso spiegarvi in quattro secondi che non sono un ultras, mi arrendo, ricopritemi pure delle vostre manganellate". Per fortuna i loro obiettivi erano altri. Mentre auto e cassonetti bruciavano, le pietre e i cessi dei bagni del Cibali volavano, mi sono riparato assieme ad altra gente dentro un cortile privato, fino a quando con cautela mi sono potuto avvicinare al parcheggio. Ero anche senza cellulare, tornando a casa (naturalmente tutti preoccupati per le immagini televisive e per il mio ritardo) ho appreso della morte dell'Ispettore Raciti.
Devo però spezzare una lancia a favore dei veri catanesi. Noi non siamo questi esagitati, non si possono associare i Catanesi a questo migliaio di teppisti. Noi siamo fieri di questa splendida città che in questo momento è sulla bocca di tutti, noi non siamo gli abitanti di una città che in questo momento è dipinta peggio del Bronx.
La vera Catania non è questa. I Catanesi che sono costretti a viverci lontano se la sognano anche di notte. La Catania per bene, onesta, educata, i figli di Bellini, Verga, Brancati, Capuana, Majorana e Musco sono mortificati, sdegnati, vergognati. Non si può fare di tutta l'erba un fascio, non si può all'improvviso etichettare come delinquenti tutta una popolazione che finora è sempre stata elogiata per la sua storia e la sua cultura; famosa soprattutto per la sua intelligenza e genialità, decantata per la sua calorosità, passionalità. Noi non ci riconosciamo in quel migliaio di giovani parassiti che per una settimana non fanno altro che parlare su come menare gli ospiti. Questi, nei loro bar dello sport, non parlano del rigore negato o del gol in fuorigioco, ma che tipo di mortaretto nascondere dentro lo stadio per fare più male.
Tutti noi catanesi sappiamo bene da quali quartieri proviene questa gente. Zone che tutti considerano terra di nessuno, zone dove nessuno osa avvicinarsi, dove le volanti della Polizia se la fanno alla larga perchè verrebbero aggredite dai familiari del ricercato, dove l'Enel non si rischia di contestare le bollette non pagate, dove le scuole sono carenti di docenti perchè nessuno ci vuole andare, dove ogni abitante ha già due o tre figli a 20 anni e a 30 è già nonno; gente  che vive di furti, estorsioni, sussidi, assegni familiari. Non voglio fare quello che dai quartieri alti discrimina gli altri con la puzza al naso, ci mancherebbe. Odio le discriminazioni territoriali, figuriamoci quelle con i miei concittadini. Sono catanesi anche loro e ce ne accorgiamo soprattutto il sabato pomeriggio quando si riappropriano della loro città invadendo via Etnea di gioventù balorda. Ma non si può far niente, non si possono mica mettere le barriere a sud della città. E poi loro non vorrebbero viverci in città, sono ben felici di vivere laggiù.
Una volta, alla vista delle volanti, impauriti gridavano "a custura, c'è a' custura! e scappavano come lepri. Oggi no. Le affrontano a testa alta, le sfidano, senza pietà colpiscono con spranghe di ferro padri di famiglia che lavorano e che per 20 euro di straordinario rischiano di farsi ammazzare da un bambino.
Ecco, quello che mi sconvolge è questo. In loro non albergano sentimenti come la pietà o la compassione. Hanno stili di vita simili a quelli dei ragazzi delle favelas di Rio. Per loro, organizzare la curva per la domenica o la trasferta è un modo di sfogarsi per tutte le condizioni di vita che accumulano in una settimana. A loro importa soltanto che arrivi presto la domenica per caricarsi di cocaina in curva e andare meglio in battaglia.
Ma sapete perchè? Perchè ormai non hanno più niente da perdere! Non ci credono più. Non credono più a niente. Si sentono cittadini di una società che li ha fatti diventare spietati, cinici, che ha fatto perdere in loro tutti i valori, compreso quello della vita umana. Non hanno nessun rispetto per le istituzioni, per la gente più adulta, non hanno più paura davanti a una divisa. Per loro è un onore entrare nei corridoi di Piazza Lanza ed essere salutati dai detenuti veterani.
Non gliene frega più niente di niente, non vogliono lavorare perchè sanno in che modo guadagnare in due ore il corrispondente di un mese. Hanno rinunciato a tutto ciò che significa civiltà, non riconoscono e non vogliono riconoscere i sentimenti più nobili appartenenti ad un essere umano, non sanno e non vogliono sapere cos'è la cultura, l'educazione, il rispetto, l'onestà, la giustizia. I loro miti sono gli abitanti della Casa del Grande Fratello, le canzoni napoletane, gli status symbol che possono acquisire facilmente e, soprattutto, tutto ciò che di violento può arrivare dal cinema, dalla tv, dalla stampa. Ormai sono incontrollabili, sono diventati ancora più sprezzanti, strafottenti, insolenti.
 Non posso negare che l'Amministrazione comunale di Catania, sia quella attuale sia quella passata, sia di destra che di sinistra, ha avuto sempre a cuore la rivalutazione di questi quartieri, cercando di urbanizzarne le strade, prestando attenzione ad alcuni importanti problemi quali la mancanza dei servizi pubblici e sociali, l'edilizia popolare, aiutando in tutti i modi questa gente. Nessuno si è mai tirato indietro per dare loro una mano. Penso ai parroci in prima linea, che con grandi sacrifici cercano di tenere in piedi ciò che di buono aveva fatto la Chiesa per i giovani: l'azione cattolica, gli scout, l'oratorio dove sfogarsi tirando calci al pallone sui muri parrocchiali, quindi tirandoli fuori dalla "strada". Ma è una questione di mentalità, oggi non ci riescono nemmeno questi giovani e coraggiosi sacerdoti.
Il problema si allarga a macchia d'olio anche ai giovani appartenenti alla borghesia. Il discorso è lo stesso, non si salvano nemmeno loro...anzi, si sono alleati. Così diversi, così uguali. Se quelli di Monte Po soffrono e si comportano di conseguenza perchè non hanno niente, quelli di Via Monfalcone fanno altrettanto perchè hanno tanto, tutto, subito e non hanno ancora capito cosa significhi desiderare qualcosa. Il disagio sociale fra le due categorie è uguale, anche se i loro giubbini sono uno di marca e l'altro griffato. Anni addietro i fighetti catanesi assaltarono in Corso Italia un reparto di vigili urbani soltanto perchè sequestrarono alcune moto per mancanza di casco.
E' un fenomeno generazionale davvero preoccupante. E se si ascoltano le parole che pronunciano quelle che stanno per salire a galla, a cominciare dalle elementari, c'è da preoccuparsi ancora di più. Generazioni ancora più diaboliche, ciniche, praticamente di plastica.
Oggi si parla di misure drastiche per far ripartire il calcio. Dicono che così non si può più andare avanti. Ma quali sono i rimedi? E' una cosa difficile. La verità è che il problema non riguarda il calcio, ha radici molto più profonde, il cancro da estirpare bisogna cercarlo a monte. Il calcio è solo una stazione di questo disagio sociale. Bisognerebbe infondere, non agli ultras ma alle nuove generazioni (perchè non lo sanno, non l'hanno mai provata) la sensazione di farsela addosso quando vedono i Carabinieri, come nella favola di Pinocchio. Ma forse è troppo tardi.
Sono d'accordo con chi dice che i primi ad essere rieducati debbano essere i genitori che accompagnano i bambini alle Scuole Calcio. Occorre far loro comprendere che non è affatto educativo insultare l'arbiro all'incontro dei pulcini soltanto perchè ha negato il rigore al figlioletto di appena 8 anni! Quando ne avrà 18 quell'arbitro se lo divorerà! Ecco, far capire che l'arbitro è una figura da rispettare sarebbe il primo passo per far capire al bambino che l'autorità è sacrosanta, e non si tocca!

Quando un popolo, divorato dalla sete di liberta', si trova ad avere il capo dei coppieri che gliene versa quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei suoi piu' esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni.
Ed avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, un servo; che il padre impaurito finisce col trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; che i giovani pretendono gli stessi diritti, la stessa considerazione dei vecchi e questi, per non parere troppo severi danno ragione ai giovani.
In questo clima di liberta', nel nome della medesima, non vi è piu' riguardo, nè rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una sola pianta: la tirannia.

Un problema che aveva già perpecito Platone nella sua Repubblica, migliaia di anni fa!
Ma quali sarebbero i rimedi se vogliamo salvare il calcio? Non è un problema sportivo ma sociale e politico. E non servono gli Osservatori previsti dal Ministro Melandri. E poi le misure prese ieri dal Governo decreteranno soltanto la fine del calcio. Perchè? Perchè vorrebbero addossare tutte le responsabilità alle Società calcistiche, come se gli stadi fossero di loro proprietà.

Se nell'appartamento l'impianto idrico ha una perdita e fa danni al piano sottostante, chi paga l'inquilino o il proprietario? Gli organi di Governo sono stati chiari: negli stadi non in regola si giocheranno incontri a porte chiuse.

E succederà questo: 1) Gli enti locali continueranno a disattendere i vincoli imposti dal CONI lasciando gli stadi così come sono (Catania è un autentico esempio, non hanno rifatto nemmeno il terreno di gioco, le cui condizioni hanno costretto l'arbitro a sospendere la partita con l'Empoli per poche gocce di acqua!); 2) secondo le nuove norme e la perdurante indampienza dei Comuni, le partite si continueranno a giocare a porte chiuse; 3) Le Società, impotenti, chiuderanno bottega; 4) nessuno sarà così pazzo da prendere in consegna una squadra a queste condizioni; 5) Game over!

Gli enti locali devono uscire fuori dal mondo del calcio, con una legge speciale il Governo dovrebbe dare loro una scadenza per mettere a posto lo stadio. Scaduto il termine, con decreto d'esproprio il Governo nomina proprietario di tutti gli impianti il CONI che ne affida la gestione alla Società con tutte le conseguenti responsabilità. E solo a quel punto!
Il vero colpevole dovuto allo schifo di questi impianti se n'è stato in silenzio, il proprietario di queste strutture sono le Amministrazioni comunali. Le Società calcistiche sono proprietarie dello stadio dalle 11 alle 20 di ogni domenica, dopo riconsegnano le chiavi ai Comuni che invece, con tanta negligenza, si fanno beffe dei vincoli imposti dagli Organi superiori e nei mesi di sosta estivi non fanno nulla per adeguare gli impianti alle norme di sicurezza. Pulvirenti aveva anche proposto di costruire a sue spese uno stadio nuovo se il Comune gli avesse concesso un terreno in periferia. Gli è stato risposto di no.

E poi ci vogliono delle leggi davvero speciali a livello penale e non l'acqua fresca degli ultimi anni. Non si può rischiare la vita, arrestare un ultras e poi dopo una settimana, farsi deridere da questi perchè già in libertà, perchè minorenne.

Occorre dotare la forza pubblica di poteri straordinari, autorizzarla nuovamente all'uso degli idranti e istituire il processo per direttissima con pene severe. Se minorenni, tramutare la pena dei colpevoli in lavori presso comunità sociali; chiedere il casellario giudiziale al momento dell'abbonamento; eliminane, per sempre, quello che alimenta tutte queste cose: quelle gabbie maledette che si chiamano "settore degli ospiti", allargando così la capienza ai veri sportivi; proibire le trasferte organizzate delle tifoserie (nessuno ne ha mai sentito la necessità); oscurare tutti i siti, blog e forum degli ultras in cui si leggono cose atroci; i clubs dei tifosi devono essere costituiti soltanto presso tribunali come persone giuridiche, con statuti, regolamenti e soci iscritti; demolire tutti gli stadi nei centri cittadini e ricostruirli solo in periferia; essendone i proprietari, obbligare i Sindaci ad organizzare una vigilanza serrata su queste strutture evitando l'introduzione di tutto ciò che potrebbe far male.Lo stadio deve essere un tempio intoccabile e non un mercato; i tornelli devono essere esclusivamente elettronici e non manovrati da addetti ricattabili o poco affidabili; tutti i posti all'interno devono essere poltroncine numerate e nominative; vietare assolutamente, in tutti settori, i posti in piedi; prevedere ispezioni presso le Società per verificare se esistono contatti con club ultras, se esistono ricatti nei confronti della società e multarle pesantemente se sponsorizzano abbonamenti o trasferte; squalificare a vita i calciatori che dopo il gol sollevano le magliette con scritte che incoraggiano l'attività degli ultras (vedasi la maglietta di Amauri);

Non sono invece d'accordo sulla possibilità di impiegare nelle tribune gli steward a spese della società. In Inghilterra questi hanno dei poteri che l'ordinamento giuridico italiano non prevede. Ve lo immaginate lo steward che va in curva Nord a Catania e chiede "scusi signore, la prego di alzarsi perchè questo posto non le appartiene"?
Quando apprendo che a Udine il Presidente di quella squadra, d'accordo con la tifoseria, ha deciso di eliminare le barriere tra gli spalti e il campo mi vien da piangere. Mi vien da piangere a pensare tutti gli sforzi che un uomo come Pulvirenti ha fatto, già miliardario per conto suo, per rilanciare l'immagine di Catania per poi vedere il suo stadio nei telegiornali di Aljazeera; mi vien da piangere pensare che in futuro invece che col Milan giocheremo con il Mila...zzo, mi vien da piangere pensando che altri assassini stanno festeggiando la morte di Raciti con scritte atroci sui muri di mezza Italia; mi vien da piangere pensando che i colpevoli tireranno il cordone di Sant'Agata gridando "cittadini, tutti devoti tutti!". Si dice che il devoto che si carica sulle spalle il cero di Sant'Agata deve sceglierne uno di peso corrispondente al voto che deve scontare. Tutti sospettiamo che gli assassini erano in corteo a tirare il cordone. Di quante tonnellate doveva essere il loro cero? Non erano degni nemmeno di indossare il sacco bianco. Mi vien da piangere sentire Fabiana che dice "Ciao Papino" e quel bellissimo bambino seduto sulle gambe della madre, frastornato da tutta quella gente in cattedrale. Mi vien da piangere.
Ma chi lo va a dire alla Signora Raciti che mi vien da piangere, che con queste parole cerco di spiegarle tutto il dolore della Catania onesta e pulita? Chi glielo dice che non basterebbero nemmeno queste misere parole che ho scritto a far ritornare il suo Filippo?
Come faccio a farle capire tutta la rabbia e lo sconforto che noi catanesi abbiamo dentro il cuore? Come riuscirò a convincerla che una città intera si sente offesa e che anch'essa pretende le condoglianze per quello che hanno causato queste bande che giocano ai Guerrieri della notte? Come riuscirò a farle vedere il cordone che tira Sant'Agata sul quale qualcuno, quest'anno, ha lasciato delle macchie di sangue? Come farò a farle sentire il nostro silenzioso disgusto per la perdita di un nostro fratello? 

Signora, lo so che non mi capirebbe, che adesso non gliene frega niente e che mi sputerebbe pure in faccia! Ma se potessimo, noi catanesi ci metteremmo in ginocchio davanti a Lei per tutte le volte che hanno dato dello sbirro a suo marito, per tutte le volte che è tornato casa con i graffi di questi animali. 

Sa... noi siamo un popolo schietto.... e proprio perchè sono catanese, in un momento così doloroso, con coraggio mi permetto di dirle certe cose.

Con sfacciataggine tipicamente etnea, Le chiedo perdono a nome della città di Catania. Perchè questo popolo indignato, ma mai rassegnato, auspica con tutto il cuore che il sacrificio di quel grande uomo che era Filippo, educatore nella vita e, da quella sera, anche nella morte (come Lei ha detto), sia d'esempio per una gioventù che non stiamo più riconoscendo. Una gioventù povera di cultura e di sani ideali, ma che con la volontà di tutti riusciremo a mettere nei giusti binari. Perchè possediamo un'arma formidabile, che loro non hanno: la penna! 

Cara signora, come Lei, oggi mi vergogno di essere catanese. 

Ma, malgrado tutto, sono e sarò sempre orgoglioso di esserlo. Come Lei.
Cordialmente, Mimmo Rapisarda

 

 

IL CINEMA

 

CHI HA PAURA DEGLI HORROR ESTIVI?

Sicuramente sarà capitato a chiunque, almeno una volta nell’infanzia ma anche nella maturità, di vedere un film horror. Di quelli da vedere nelle sere d’estate e che vi piantano sul divano fra attacchi di zanzare, gocce zuccherose di anguria sulla shirt appena stirata e cieli stellati da illuminare a giorno qualsiasi incubo televisivo.

Da ragazzino quello che mi faceva terrorizzare di più era la serie televisiva “Belfagor, il fantasma del Louvre”. Lo facevano d’inverno, maledetti, senza nessuna via di fuga rispetto all’estate. Allora non c’erano nemmeno i mezzi per scemare la paura che saliva alla gola… che so, la sigla di Canale5, o le allegre suonerie dei cellulari o Guido Angeli che ci diceva "Provare per credere". Noi ci credevamo parecchio, perchè subito dopo arrivava solo Bernacca la cui figura piena di fulmini e saette non era per niente un preludio a qualcosa di allegro. E allora si girava sul secondo canale per Gianburrasca, se ci era consentito. Altrimenti non ci restava che accendere tutte le luci dei corridoi fino ad arrivare alla nostra camera, sperando di non incrociare la maschera di Belfagor, ancora impressa nella nostra mente!

Però, noi bambini, più ci spaventavamo e più aspettavamo, con sottile godimento, la puntata successiva. Altri telefilm erano i Visitors, E.S.P., Il segno del Comando,  la baronessa di Carini. Come non si possono ricordare?

Per i film di questo genere, la bella stagione è il periodo migliore per vederli, perché per smorzare la tensione gli espedienti sono facili da trovare (rispetto al passato, grazie a Dio, basta ascoltare Mille cantata dall’Oriettona nazionale quale valvola di sfogo) e il periodo è in sintonia con tutto ciò che è allegro e lontano da certe paure: dall’abbigliamento al clima, dagli spots ai libri da leggere in bagno, dai pensieri quasi balneari agli ingredienti della cena.

In inverno è diverso. I freddi ambienti non facilitano a centrare le pantofole sul pavimento e il buio non aiuta ad acchiappare, in preda al terrore, gli interruttori posti ad altezza d’uomo. No dai, non c’è nessuno lì, era il led del frigo, che in realtà nel tuo inconscio sembra inseguirti fra le mura di casa e fin sotto le coperte, dove ci si concentra immediatamente a situazioni tranquillizzanti come Gianni e Pinotto, Topolino, Fantozzi, Totò, oppure calcolare la probabile formazione della squadra del cuore per scemare, alla lunga, certe terrificanti ricordi di qualche minuto prima ma destinati a sparire per sempre nel caffellatte dell’indomani.

L’altra sera mi sono imbattuto in un film che, puntualmente, si è rivelato un’americanata spettacolare senz’anima nè originalità. Niente a che vedere con Shining del grande Kubrick o l’Esorcista, avanguardia riguardo al filone “vade retro” del tempo ma che, dopo qualche anno, faceva un po’ ridere. Ricordo che una sera dovetti andare al cinema per fare da chioccia a mio cognato, e poi riaccompagnarlo a casa perché …. dopo la proiezione non se la sentiva di camminare da solo per le strade.

Ecco perché ce la facciamo sotto (dico in generale) dopo aver visto un film del genere, pur sapendo che si tratta di una finzione, soprattutto “made in U.S.A.”.  Secondo me, buona colpa ce l’hanno il buio e il silenzio, che siano di strada o di camera.

Gli americani, poi, sono dei maestri per gli effetti speciali ma, a pensarci bene, le loro trame vanno bene solo per la strega di Biancaneve e, alla fine, il tutto diventa una buffonata.

Innanzi tutto, il luogo della sceneggiata. Negli supertecnologici quartieri californiani il teatro della vicenda è l’unico costruito in stile Vittoriano, che a vederlo da fuori ti fa subito pensare che qualcosa non va, la visione è fin troppo tetra, spettrale. Già alla vista dello stabile, simile alla casa della famiglia Addams in mezzo a tante villette all’insegna dell’architettura moderna, dovrebbe far abbandonare a chiunque l’idea di qualsiasi affare immobiliare. Però la “casa” è piaciuta alla nostra famiglia sprovveduta; è sembrata originale, affascinante, direi… quasi Vintage. I genitori, due coglioni figli dei Figli dei fiori, si scambiano effusioni sulla porta di casa promettendosi eterno amore - nella buona e cattiva (tanto cattiva) sorte - mentre le cerniere degli infissi si stanno già svitando da sole, incomprensibilmente, dietro i loro fianchi. Ma loro ovviamente non se ne accorgono, incuranti anche del conveniente - ma strano - prezzo proposto dall’agenzia che, dopo la firma sul contratto, se l’è data a gambe levate alla vista di un armadio di un metro e novanta nascosto dietro la finestra sul patio, con la maschera bianca e un motosega in mano già attivato sul tasto ON fin dal giorno di Hallowen!

Questa famiglia standard è composta da madre, padre e tre figli. La madre, casalinga stressata e complessata, non fa un cazzo da mattina a sera; ha (aveva) la domestica che è la prima ad essere trapassata con un coltellaccio da cucina mentre cerca di acchiappare il più piccolo dei tre finito, chissà come, sul lampadario. La padrona di casa passa il tempo ad accompagnare i ragazzi a scuola e a cercare ricordi passati negli scatoli scaraventati dagli operai della ditta del trasloco, scappati subito dopo perché, molto più perspicaci dei loro clienti, avevano capito tutto dopo aver visto il pianoforte suonare da solo “Great balls of fire” di Jerry Lee Lewis, molto meglio dell’autore.

Già questo sarebbe stato un segnale. E invece, niente! Come si suol dire… errare è umano, ma perseverare è… diabolico!

E poi, cazzolina, è mai possibile che quando hai fatto ristrutturare questa casa in modo sdegnosamente hi-tech, dove basta un battito di mani per accendere la luce del bagno e non sarebbe possibile l’ingresso nemmeno agli atomi, non hai fatto caso a una porticina, proprio sul piano, fatta di un “inconfondibile” legno marcio di cento anni, che porta in un soffitto che sembra la Londra ai tempi di Jack lo Squartatore? L’hai scoperto solo adesso?

E che ti meravigli a fare, a questo punto e col contratto già firmato, quando entrandoci dentro, apri vecchi bauli che contengono strane scatole, senti certe vocine infantili, antichi giochi che se li attivi sei fottuto per sempre, carillon che suonano, sospiri, dondoli in movimento, bambole con gli occhi aperti all’improvviso in un ambiente che farebbe uscire la bava dalla bocca di Dario Argento per il suo prossimo film?

Eppure anche questo non le è bastato. La donna comincia a convincersi solo quando vede in cucina tutte le sedie del tinello che compongono, assieme, una piramide che nemmeno quella di Cheope….

A quel punto informa il marito che, in sostanza, è solitamente un imbecille e giovane avvocato in carriera che lavora in uno studio legale nel Downtown della grande città americana; è fin troppo preso da progetti di carriera ed impiega, cocciutamente, quasi tutta la durata del film per capire (proprio di coccio) che bisogna chiamare, finalmente, un acchiappafantasmi o un esorcista per salvare la prole. Non si convince nemmeno quando la moglie gli fa vedere le falangi che fuoriescono dalla lavastoviglie il cui tubo di scarico è collegato direttamente alla gabbia dove era stato sepolto vivo il …..sì, il loro principale problema! Non si convince nemmeno a vedere il secondogenito in coma, a pronunciare frasi in aramaico quali “bastardo, me lo chiami o no un prete per liberarmi da questo stronzo che ho sul groppone?”.

Si convince solo quando la lampadina del suo comodino si accende e si spegne 285 volte in modo da non fargli ripassare il rapporto per la riunione al lavoro del giorno dopo. Egoisticamente, a quel punto si incazza come una bestia, molto più del demone che circola beatamente in casa, acquisendo una forza quasi innaturale.

E’ il familiare più scettico del nucleo, quello che meriterebbe di essere sgozzato con canini da vampiro sul collo per quanto è coglione e che invece, alla fine del film, gli viene pure attribuito il merito di eroe-genitore-padre-rassicurante che con grande coraggio affronta lo spettro per salvare tutta la famiglia, medium rincoglionita compresa (di solito una nana) chiamata all’ultimo minuto.

I figli. Generalmente sono tre. La più grande è una svampita sedicenne già in preda a bollori liceali e svezzata da fin troppo tempo per finire nelle trappole del fantasma, che da bianco latte arrossirebbe di colpo di fronte alle avances proposte della ragazzina.

Quello che però la deve pagare per tutti, come al solito, è il mezzano, schiacciato al centro dal primogenito orgoglio di famiglia e il terzo che è il più piccolo e quindi non si tocca. Un destino, come sempre, per tutti i mezzani. E’ colui che da sempre deve far spallucce e assecondare i capricci dei fratelli; è quello che per poteri di famiglia ereditati da antichi delitti, è il più sensibile ed attratto dalla presenza che infesta l’abitazione. Dovrà quindi far da tramite fra la realtà e l’occulto. Quindi sacrificarsi per concludere il film, salvando così il terzo, maschietto o femminuccia, è di solito è quello che in tutti gli Horror si infila incautamente dentro il “grigio” della TV durante l’inno nazionale. E' il più ambito dalle forze malefiche, perchè il più tenero e incosciente.

Ecco le loro stanze. A vederle, sembra di essere nel Paese delle meraviglie di Alice, tanto sono rasserenanti. Celesti, rosa, piumoni morbidissimi. Ma non è così, guardate sotto il letto che traffico che c'è: sembra di essere a Manhattan all'ora di punta!

Nonostante tutti i segnali premonitori, che avrebbero allertato così tanto i genitori da telefonare anche a padre Amorth al Vaticano, i figli dormono SEMPRE da soli. Ognuno nella propria stanza. E come farebbe incassi un film del genere, se non li fai dormire da soli? Solo così facendo, la video-cassetta attiva il play facendo uscire fuori dallo schermo la protagonista annegata, i rami dell’albero entrano dentro il letto e il giullare si mette a ballare.

I ragazzini urlano (grida anche la Lolita che, nel frattempo, soffia lo smalto sulle unghie) e vengono presi in grembo dai genitori che dopo una notte nel lettone matrimoniale, l’indomani li rimettono nuovamente nelle stesse stanze e nelle medesime condizioni. Diabolici, proprio da telefono azzurro!

Verso la conclusione del film, la lotta contro il male diventa di una noia così nauseabonda che sembra di rivivere Giochi senza frontiere. Così chi libera la casa sembra Pancaldi che dice … “attention: un deux trois”, e lo spettro sparisce all’improvviso! Il secondogenito si risveglia, insozzato da chissà quali schifose sostanze che gli riempiono il viso.

Sono tutti contenti e sereni, finalmente, ma non sanno che il cinema americano in fatto di resuscitazioni ne sa una più del diavolo, avendo battuto tutti i record esistenti nella storia e facendo impallidire persino il campione per antonomasia in materia: un certo Lazzaro da Betania!

Quando alla fine tutti si abbracciano, il cattivo esce fuori dalla vasca d’acqua pronto per giocarsi la sua ultima chance. Ma ci penserà finalmente la mamma, facendo la cosa più sensata della sua squallida vita, a dargli il colpo di grazia in fronte con un proiettile d’argento (dove lo avrà trovato, in frigo?) per finirlo, una volta per tutte. Alla fine ne uscirà completamente traumatizzata, più di prima, e pronta per essere ricoverata in un istituto psichiatrico.

Questi film finiscono quasi sempre con le sirene rassicuranti della Polizia e i protagonisti dentro la coperta dei Vigili del Fuoco davanti al cartello “for sale” sul giardino all’ingresso di casa, illuminato dalle luci rosse e blu. Si allontanano, finalmente liberi, sorseggiando una calda tazza di quell’imbevibile caffè americano. Ma quando tutti sono andati via, una tenue lucetta si è accesa nella finestra del soffitto. Una luce già pronta per il sequel!

Se in futuro vi capiterà di imbattervi negli horror americani non abbiate paura, alla fine della visione andate tranquillamente in camera vostra camminando al buio. Nel tragitto sbadiglierete così tanto per la noia accumulata che vi addormenterete di colpo, senza pensare più a niente  e con i polpacci ancora al loro posto.

Buonanotte (davvero).

M.R.

 

AMERICANATE TRADE MARK

Ieri sera non c’era nient’altro di interessante in TV e così mi sono infilato in una classica “americanata” che rilassa meglio di un cartoon, con tutti quegli effetti speciali che sanno fare soltanto loro: gli americani!

Che siano invasioni aliene, guerre nucleari o meteoriti giganti in dirittura d’arrivo sulla Terra, sono convinti che tutto avvenga lì, quasi una Route 66 in celluloide costruita solo per loro da Los Angeles a New York. Tutto ciò che accade negli altri Paesi durante queste catastrofi è davvero marginale, tutto il resto avviene esclusivamente sui loro suoli nazionali.

A parte questo, c’è da dire che il cinema è la loro vera storia, nessuno potrà mai negarlo. Il cinema è qui, solo qui, e meglio di loro non lo sa fare nessun altro. Se noi abbiamo a Roma il Colosseo e a Parigi la Torre Eiffel, loro hanno la Paramount o gli Universal studios disseminati da est ad ovest, cioè autentici "paesi dei balocchi" degni di Lucignolo e usciti fuori dai libri di fiabe.

La storia è una mancanza che hanno sempre invidiato all'Europa. Il loro breve e giovane passato si nota proprio dai pochi monumenti dedicati ai suoi uomini illustri. Infatti, togliendo i grandi del passato e qualche canaglia a cui hanno dedicato strade e piazze - vedasi Grant e Sherman - non restano che Davy Crockett, Mickey Mouse, Marlon Brando, Clark Gable, Marylin Monroe e compagnia bella.

Il film di ieri sera rientra nell’elenco delle grandi cazzate yankee, almeno dal punto di vista della trama, come quelle di Tom Hanks nella saga cinematografica del Codice da Vinci e il primo Rambo in cui il protagonista, alla domanda del suo colonnello “John, adesso come vivrai?” gli risponde “Giorno per giorno”. Tre parole in due ore di film!

La trama del film in questione tratta della rottura della famosa faglia di Sant’Andrea, che molti produttori cinematografici hanno sfruttato parecchie volte per colossal da milioni di incassi. L’eroe di turno è Dwayne Johnson (per tutti The Rock). In quasi tutti i suoi film, l’ex star del football americano appare tutto muscoli e con la mano destra sul petto, preso dal suo lavoro patriottico e quasi un semidio per i suoi connazionali. Nel film è il comandante dei Vigili del fuoco di Los Angeles. Ovviamente, è separato dalla moglie che si è rifatta una vita con un altro e  una figlia molto più navigata dei genitori ma con problemi. Questa condizione familiare è presente in quasi tutte le pellicole catastrofiche americane, cioè figli da sottoporre ad analisi dopo la separazione dei genitori; madre che tradisce il marito supereroe con un’altro, già da tempo; il nostro eroe che, grazie a queste Apocalissi e alle sue abilità, approfitta per romperle i coglioni pavoneggiandosi con manovre al limite dell’impossibile onde riappacificarsi e riunire la famiglia. Oh, yeahhh! Gli specialisti della categoria di cornuti in cinemascope tutti chiacchiere e distintivo sono Bruce Willis, Arnold Schwarzenegger e Tom Cruise.

Vi risparmio tutte le fasi del terribile terremoto che sconvolge il mondo (cioè la California), ma il comandante dei pompieri Ray Gaines capisce subito e prima di tutti quello che sta per accadere, meglio del capo della nostra Protezione Civile. Quindi potremmo aspettarci che vada a salvare vite umane in quella Apocalisse, no? E invece no, va alla ricerca della moglie e della figlia e con il suo elicottero pagato coi soldi dei contribuenti (questa è una cosa a cui gli americani tengono molto) la va ad acchiappare sul terrazzo uguale ad altrettanti terrazzi dei  grattacieli di Los Angeles, città di milioni e milioni di persone, cioè una cosa impensabile per ogni essere umano. Ti tengo!

La più minchiatare location della storia del cinema accadono proprio a Los Angeles: terremoti, alluvioni che puntualmente trascinano a valle la famosa scritta “Hollywood”, dischi volanti sulla torre della US Bank, vulcani che eruttano a Beverly Hills. Tutto e sempre lì. Non ho mai visto films del genere ambientati in Mississippi o nel Dakota.

Comunque, con cinismo micidiale dice alla sua consorte “Andiamo a prendere nostra figlia” e glielo dice su un mezzo di pubblica utilità mentre tutta la San Fernando valley si muove come un materasso ad acqua e parecchi suoi connazionali avrebbero bisogno di lui ma soprattutto dell’elicottero con matr. 121!

Mentre crolla tutta la costa Ovest degli Stati Uniti, riesce con rocamboleschi mezzi a salire a bordo di un Piper. E chi è il secondo pilota? La moglie, che in quel marasma generale che provocherebbe un infarto a chiunque, si mette il casco e in dieci secondi attiva non so quante manopole per assistere il coglione principale alla guida. A questo punto, mi chiedo: ma che cazzo vi mettete a fare i concorsi in aeronautica e i corsi di aggionamento? Basta sedersi accanto a The Rock e tutto vi apparirà chiaro!

Prima di ripartire e cercare la figlia (non dico i superstiti, ma almeno la ragazza che vi sta aspettando a San Francisco, dai!), i coniugi cominciano a guardarsi negli occhi con tipici sguardi alla Beatiful (fra domanda e risposta degli interlocutori si consuma un’intera puntata), massacrandosi a vicenda su di chi fosse stata la colpa della morte della loro prima figlia. Magari a parlarne qualche anno prima con uno psicologo e uno specialista, invece di farlo adesso?

Dopo aver navigato due ore senza concludere una mazza, lui si schianta a terra e dice alla moglie “il carburante ci piove addosso, usciamo via da qui”. Ma và? Non era meglio se lo si usava in maniera migliore invece di gironzolare, come due minchioni in 200 mt. quadrati, sopra la Transamerica Pyramid?

Alla fine, al Pier 39 del Waterfront, rubano un gommone a motore, uno di quelli che a Catania usiamo per pescare a traina i tonnetti e i caponi. Solo per quello, ma in questo specifico caso si usa per affrontare guerre mondiali! 

Il mare avanza con un primo Tsunami dopo un terremoto del 9° grado, San Francisco è trasformata in una laguna veneziana con cadaveri e grattacieli abbattuti ma marito e moglie cercano la ragazza sempre con quel gommone indistruttibile fra tonnellate di rottami e lamiere galleggianti sull’acqua,  senza scalfirlo di un centimetro. Non un taglio, un graffio, niente! Non ci credete? Per arrivare dove era la figlia decidono di superare il secondo Tsunami che hanno di fronte, risalendolo con quel piccolo motore da 300 cavalli. Sulla cresta di quell’onda mostruosa di 50 mt. si vedono arrivare addosso anche la poppa di una super containers ma il nostro eroe (Nembo Kid, scansati!) riesce ad evitare eliche  di decine di tonnellate! Il gommone e il suo motore? Una meraviglia! Intatti! Devo capire la marca, perché sarei davvero interessato.

Arrivano al Dowtown allagato, con la moglie al timone che qualche giorno prima non sapeva usare nemmeno la lavastoviglie in casa. Alla fine the Rock salva la figlia con il classico “non ti arrendere, ti tiro fuori!”, ricambiato con una quarantina di “ti voglio bene papà”, distribuiti in tutto il film.

Papà, e ora che facciamo? Ricostruiremo il nuovo mondo, piccola! La moglie: “Voglio che tu sappia che io sono molto orgogliosa di te!” mentre una bandiera a stelle e strisce sventola sull’unico pilone rimasto del Golden Gate. Gli altri ponti famosi nel resto del mondo? Ma chi se ne frega!

In queste cataclismi non vi perderete mai le sorti atroci che i registi riservano ai nuovi compagni delle mogli,  le coppie di anziani che prima di morire si abbracciano per affrontare l’imminente morte e il Presidente che dalla Casa Bianca semidistrutta annuncia alla popolazione americana di essere in contatto con il resto del mondo e che anche stavolta il pianeta (cioè gli Stati Uniti) ce la farà.

Morale. Quando guardate queste americanate non credete a nessun codice rosso, coordinate geografiche, rotte e comandi che non esistono,  evoluzoni alla Top Gun, linguaggi militari, valigette nucleari o botole alla Cappella Sistina che portano chissà dove. E’ tutto falso, la realtà è ben altra cosa ma gli americani rimangono dei veri maestri nell'incollarci sul divano con queste simpatiche stronzate.

Insomma, questi film non prendeteli troppo sul serio e guardateli come si dovrebbe vederne uno con il lupo Ezechiele e i tre porcellini. A parte la pressione arteriosa che arriva a 200, la sostanza non cambia.

m.r.
 

ENNIO

Il mio amico è un fisico teorico. Tempo fa, durante un viaggio all’estero e in attesa che arrivassero le signore per andare a cenare, da buon mortale mi misi a leggere i messaggi su wathsapp per ammazzare il tempo. Lui, da buon scienziato, prese il depliant del locale e cominciò a scriverci sopra.

Gli chiesi cosa stesse scrivendo, forse pianificava l’itinerario per l’indomani? Sbirciai: erano formulette matematiche, calcolate così, tanto per passare il tempo. Per passatempo? Per me, scarso com'ero in matematica, sarebbero state oro colato, roba che agli esami di Stato al liceo potevo solo sognarmele se non avendole sottobanco da qualcuno o da quella del primo banco.

Quei numeri, quelle equazioni, quei segni strani li ha continuamente in testa, come li aveva il matematico John Forbes Nash, interpretato da Russel Crowe. Tengo a precisare che il mio amico sta bene, nella sua vita non vive con personaggi immaginari, ma volevo scrivere questo per dire che in questo pianeta esistono essere umani in possesso di quel quid che fa la differenza e permette loro di entrare in un mondo a noi inaccessibile. Vivono quotidianamente con quel che “vedono”, non possono farne a meno, quasi un’incontenibile malattia fatta di formule scientifiche, parole, pennellate, progetti architettonici, fotogrammi, parole, note musicali.

Già, note musicali. Quella stessa patologia che Dio donò ai vari Mozart, Bethoween, Chopin e a tutti gli altri.

L’altra sera ho visto Ennio, il film che Tornatore gli ha voluto dedicare. Bellissimo.

Anche Morricone fu colpito dalla stessa malattia. Senza usare il computer o cuffie per ascoltare o correggere, inventava di getto le sue partiture come se stesse scrivendo una delega per la riunione condominiale, veloce e senza pensarci più di tanto. Poco pianoforte, perché le note erano tutte infilate nella sua testa, lui le sentiva già tutte, immediatamente. Guardava i tasti e le scriveva senza suonarle. Un extraterrestre.

Nel film sono inconfondibili quelle dita che freneticamente impugnano la matita per posare sul pentagramma quel che gli ha sempre dettato il Padreterno. Era soprattutto instancabile, inesauribile nel produrre quell’immenso repertorio che ha impreziosito il cinema mondiale. Provate un po’ a guardare Giù la testa, Per un pugno di dollari o Il mio nome è nessuno senza quei particolari colpi di tromba, i fischi e i rumori che risultano indispensabili, necessari in ogni sequenza. Senza il suo genio, quei film non sarebbero stati la stessa cosa, con tutto il rispetto per il grande Sergio Leone.

Più che un brano, C’era una volta il West è una meravigliosa preghiera ambientata in un luogo che è già un altare di suo: Monument Valley. E come sarebbe stato il film senza quell’aria sublime, senza quei semplici rumori all’inizio? Morricone percepiva il ronziò della mosca come un La bemolle, la goccia che cade come un Fa diesis. I calpestii sul legname, le ante che si aprivano e altre diavolerie erano tromboni, xilofoni, ottavine. Ogni cosa rappresentava uno strumento, che sia stata una forchetta o una sveglia. In qualsiasi storia riusciva già a cucirci sopra la colonna sonora, meravigliosamente diversa da ogni vestito, da ogni contesto. Sarebbe stato capace di musicare anche una finale di Champions League e renderla immortale.

A prima botta i registi non capivano nulla quando presentava al pianoforte la prima bozza. Poi si arrendevano quando vedevano il film e cominciavano a capire che bisognava solo abbandonarsi fra le braccia della sua musica. Per questo il cinema sarà per sempre in debito con Morricone.

Come nel cinema da C’era una volta in America a Nuovo Cinema Paradiso, l’elenco è interminabile anche nel repertorio della canzone italiana, da Se telefonando a Il mondo e a centinaia e centinaia di altre perle. Cosa sarebbero state le canzoni che Bigazzi o Zambrini scrissero per Gianni Morandi senza i suoi famosi sovrappunti, quei ricami, quelle cuciture che imbastivano tutta la melodia? Il pianoforte iniziale, potente e ormai famoso, i violini che introducevano, gli incisi con gli oboe e i clarini: “Io voglio per me le tue carezze" e, immediatamente”, quel “po po po po po” come un trattino e che ormai canticchiamo tutti, prima di “ritornerò in ginocchio da te". (a proposito di musica leggera, ho pure scoperto con piacere che C’era una volta il west fu cantata da Edda Dell’orso, che qualche anno dopo fece il coro in Le strade di lei nel disco Alice non lo sa di De Gregori.)

Diceva “Ho sempre in testa note, toni, semitoni, intervalli”, come uno schizofrenico della musica, proprio come il protagonista di The beatiful mind. Ecco chi era Morricone.

Per raccontare la sua stupefacente carriera occorrerebbero quattro pagine e non voglio annoiare, dico solo che subito dopo sono andato a rivedermi La leggenda del pianista sull’Oceano, ascoltando attentamente la colonna sonora. In quel film Morricone riuscì ad estrapolare quella musica che Alessandro Baricco raccontava nel suo “Novecento” e che avrebbe voluto spiegare, far ascoltare ai lettori. Lui li stanò, splendidamente, musicando se stesso e la sua passione, perché il pianista che suonava quelle incantevoli melodie non esistenti in natura e che fin dalla nascita aveva visto il mondo solo da poppa a prua, con un inizio e una fine che si fermava alla settima ottava di un pianoforte … era proprio lui, era Ennio!

(M.R.) mar 2024

 

 

 

TEMPO DI COVID

 

Oggi ultima passeggiata dei catanesi in zona gialla, in una splendida giornata primaverile alla faccia delle previsioni meteo.

Sul lungomare incrocio una ragazza che porta al guinzaglio il suo barboncino che si pianta e non vuole saperne di continuare.

Allora la ragazza prende lo smartphone, gli scatta un po' di fotografie mentre lui, tutto impettito e contento, continua a rimanere in posa.

La padrona: "Fotine te ne ho fatte abbastanza. Adesso cammina!"

Il cane scodinzola compiaciuto e riprende la sua passeggiata al guinzaglio dell'umana.

Stiamo diventando tutti pazzi, mondo animale compreso.

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Sicilia in arancione da lunedì. Comandi!

Però sta cosa del divieto di spostarsi fra i comuni in una città metropolitana ancora non la capisco. Non voglio ripetermi.

Visto che in Italia si stanno consumando tutti i colori in natura per classificarci, non potevano togliere questa scemenza collocando Catania non dico in zona color "terra di Siena" ma , che so, color "ocra umbertina del barocchetto romano"? Mi sarei accontentato anche di  un "giallo Portofino rafforzato".

Sarebbe stato un ottimo compromesso fra giallo e arancione, per fare tutti contenti.

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Stamattina, in piazza Europa a Catania, enorme spiegamento di forze dei Carabinieri. Gazzelle, motociclette e  giubbotti antiproiettili in assetto di guerriglia urbana. Per quale motivo? Nulla. Lo chiamano Controllo del territorio. Ma dove, qui? Al limite qui trovi lo spacchiosetto che parcheggia in tripla fila per pavoneggiarsi all’ingresso del Bar Epoca o da Quaranta un po' di chilometri prima.

Con tutto il rispetto e il bene che voglio alla “truppa” dell’Arma e ai suoi caduti per difendere la cittadinanza, trovo tutto ciò assurdo. Perché chi dispone queste minchiate il sabato mattina, quando la gente vuole rilassarsi dopo una settimana di lavoro, sa benissimo dove dislocare i posti di blocco per controllare il territorio. Più a sud, molto più a sud; ma non c’è bisogno che sia io a indicargli l’itinerario. Lo conoscono bene il percorso: è anarchico, polveroso e con tanti fili attaccati ai pali della luce lungo la strada.

I veri delinquenti non bivaccano il sabato mattina in piazza Europa, hanno cose più importanti da fare. Mostrare la paletta alla Panda, con una famigliola dentro, e con il mitra spianato chiedere al capofamiglia i documenti mentre i bambini dietro guardano terrorizzati, non è una bella cosa. Ogni minuto di controllo (inutile per controllare la malavita) lo considero soltanto uno spreco di denaro pubblico pagato dai contribuenti.

Hanno fermato anche me. Apro il portabagagli ed un giovane milite mi chiede “cosa c’è in quella busta?”. Rispondo “muccu e cozzuli da Plaja”.

"Còssa?"  Poveretto, non ha capito, doveva essere un polentone di stanza a Catania.  Ma la colpa non è sua, ma di chi lo mette lì .........ad minchiam !

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Poco fa una botta di vita: sono stato al supermercato, sconfinando pure il Comune. Irresponsabile? No, perchè è lecito. Sconfino (già scritto tempo fa) per i servizi attorno a casa mia: citofoni, cancelli, salici piangenti, pavimentazione stradale, un'edicola, una scuola elementare e una farmacia.

Pur di non uscire dal supemercato, mi sono fatto anche un giro supplementare nel reparto Elettricità con quel largo corridoio colorato da tante cose che mi sembrava di passeggiare sull'Avenue degli Champs-Élysées. E poi gli attrezzi, i giravite, i chiodi, tutte cose che sono per me come  il vino per un astemio, essendo assolutamente negato per il bricolage! Ma in quel momento meravigliosi.

E alle casse? Mai stato così lento e cavaliere, facendo passare chiunque pur di vedere, ancora, ......... gli essere umani !

Help !

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In questi mesi sarà capitato ad ognuno di noi quando, colti dalla paura, al primo segnale di influenza o mal di testa pensiamo subito “e se fosse il Coronavirus?, eccolo sì, è arrivato!”. Così si procede già ad allarmare la propria moglie “la chiami mia madre?” e poi, col termometro sotto l’ascella, di corsa su internet a cercare la frase “Covid, primi sintomi”. Ecco il mio test:

- Febbre;

(ancora son passati solo 4 minuti)

- Tosse;

(ce l’ho, un poco)

- Affaticamento e dolori muscolari

(ovvio, ho appena buttato la spazzatura)

- Brividi;

(avevo le cuffie alle orecchie e stavo ascoltando Heart of Gold)

- Congestione nasale o naso che cola;

(sì, è lui!)

- Perdita del gusto o dell'olfatto;

(magari!)

- Nausea o vomito;

(è appena finito I soliti ignoti con Amadeus, possibile che sia questo?)

- Mal di stomaco;

(consideriamo di essere sotto le feste natalizie, ci sta)

- Mal di testa;

(ce l’ho)

Poi leggo l’ultimo sintomo:

- Perdita di peso e scarso appetito.

….e mi rassereno.

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L'anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va. Si esce poco la sera, compreso quando è festa  e c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra.

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione e tutti quanti stiamo già aspettando: sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno; senza grandi disturbi qualcuno sparirà, saranno forse i troppo furbi e i cretini di ogni età.

Vedi caro amico, cosa si deve inventare per poter riderci sopra, per continuare a sperare? E se quest'anno poi passasse in un istante vedi, amico mio, come diventa importante che in questo istante ci sia anch'io?

L'anno che sta arrivando tra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità.

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Oggi ho dovuto varcare i confini del mio comune perchè nella farmacia più vicina non avevano il farmaco che avevo finito. Che bello!

Così, forte di questa giustificazione, mi è bastato attraversare la strada dal mio cancello per entrare nel Luna Park che da qualche giorno posso vedere solo da 10 metri. Pazzesco.

E visto che avevo già oltrepassato la "dogana" States-Mexico, che fa non me la facevo la spesa al vicino, fornitissimo e luccicante Decò?

Che sballo! Mi sembrava di stare a Las Vegas!

 

M.R.

 

 

PERSONAGGI 

 

 

LA SIG.RA OLGA, REGINA DEL MARE.

La Sig.ra Nicosia è lì da una vita. Assieme al marito e ai figli, fin dagli anni Sessanta ha venduto magazzini di pinne, fucili ed occhiali a generazioni di catanesi. Io ci andavo fin da bambino, a comprare le ciabatte e il costume per la stagione balneare.

Me la ricordo sempre al banco, coi suoi occhi azzurri che sembravano scrutare orizzonti che potessero rivelarle il buon tempo della giornata da regalare come bonus ai suoi acquirenti pescatori. Sempre pronta ad averla vinta sui rappresentanti di bombole e canne da pesca, che dopo un po' se ne andavano via col volere della titolare sul contratto, ma con la battuta finale sulla soglia del negozio: "minchia, è n'masculu!".

Oggi la regina del mare di Guardia-Ognina è ancora lì, con la sua particolare voce rauca, a svuotare la merce sul banco illuminato dalle prime luci dell'alba: "chi isca voli, iammuru, bigattinu, coreanu, spagnolu o ballarino? Chiummu n'havi vossia? Quali paratura ci rugnu… no, chissa non è bbona ppi l'ucchiati! Pi iddi ci voli prima u fummaggiazzu co panuzzu, intra a cosetta!". Sig.ra Olga, è fresco questo verme? "Ma dove deve andare a pescare"? "a Portopalo" e lei: " Mi creta, lo trova già là!”.

E' un po' più emaciata, ma sempre battagliera e circondata da una miriade di nipoti sparsi nelle succursali della città. Adesso l'azienda si è ingrandita e informatizzata, ma lei è rimasta la stessa matriarca con addosso quella strana voglia di mare e per questo sembra che tutto il parentame continui a farla giocare, per non farla invecchiare mai.

Ancor oggi, entrando nel negozio principale, non è difficile sentire l'inconfondibile voce di colei che è diventata un mito: "Callo, a mamma, pigghimi a nummuru cincu …. no Cressi…..chidda ddà Mares." Giancarlo sa esattamente dove prendere la muta da sub, ma fa appositamente lo sbadato per farla sentire ancora importante, necessaria.

Insomma, un personaggio in possesso di una tale esperienza che potrebbe tranquillamente armare e governare un peschereccio in piena tempesta. Col suo prezioso ed immutato scibile marinaro, sarebbe capace di indovinare quale misura di lenza occorrerebbe per pescare i Marlin in pieno Pacifico o i merluzzi nel Mar Artico!

Sono questi i personaggi che meritano la Candelora d’oro, non esperti informatici (con tutto il rispetto) nati per sbaglio a Catania!

(M.R.)

 

TAPPETI MARCA LIOTRU.

 Mancano due settimane al primo tuffo, eppure c’e’ ancora maltempo in tutta Italia. Anche qui in Sicilia, stamattina, ci siamo svegliati con tanta sabbia africana dovunque: sui balconi, sui tetti delle case e delle auto.

A Catania, in particolare, è una di quelle giornate dell’anno in cui il Grecale vuol fare il prepotente, infischiandosene del collega Scirocco, proveniente dalla Plaja e già lì seduto fin dalla mattina. Ma l’Ellenico fa il gradasso e nel pomeriggio sfida il vento rivale per soffiargli il posto, iniziando un duello turbolento sul mare di Ognina. I due venti sembrano i valorosi ammiragli Ruggero di Lauria e Artale Alagona in battaglia per difendere le sorti della città e ai quali è dedicato il Lungomare.

Le nuvole cercano di far da pacieri, a “Muntagna” osserva culumbrina perché sa che dopo arriverà il suo turno a dar spettacolo sul mare, mentre i gabbiani ne approfittano raccogliendo quintali e quintali di “ben di Dio” sollevati in superficie da quella Cavalleria Rusticana atmosferica. Bassa pressione e alta pressione salgono e scendono, scendono e salgono, su e giu vorticosamente come le mani di un direttore d’orchestra, mentre quei due se le danno di santa ragione.

 Le gocce di sudore della loro lotta si riversano sulla città inerme e spettatrice del loro contendere mentre smuovono quel pezzo di mar Jonico i cui spruzzi, pregni dei loro insulti benedetti dal Dio Eolo, si infrangono sulla nera scogliera catanese senza pietà, sollevandosi in alte fontane d’acque salata sui marciapiedi. Insomma, le lacrime di Lola sul corpo morente di Cumpare Turiddu.

 Alla fine lui, il Greco, alzando le braccia al centro del ring, si dichiara vincitore sputando, però, tutto l’odio salmastro accumulato nella sua bocca dopo il feroce combattimento durato ben due ore. Dicendone peste e corna di quell’altro, non sa che più s’incazza, più maledice il rivale ….  e più produce spettacolo! Gli effetti della sua rabbia soffiano fuori da quelle piccole insenature piroclastiche, simili a Geyser, che l’Etna lasciò quale suo testamento nel 1381 quando decise di “disegnare” il Lungomare di Catania e seppellendo per sempre il vecchio Porto Ulisse.

 Oggi ero testimone del cruento match. In queste occasioni nessuno, nemmeno chi non è nato qui, può fare a meno di parcheggiare e sentire il vapore del mare addosso sulla pelle, sulle narici, sulle palpebre, trasportato dalle sbuffate che arrivano rapidamente in città, o ammirare quei verdi cavalloni che arrivano galoppanti come un reggimento di Cavalleria.

 Eppure lui era lì, tranquillo, come se niente stesse accadendo. Accovacciato sulla ringhiera arrugginita a godersi quella salsedine che gli penetra alle spalle rovinandogli le ossa,  ma che ormai conosce e alla quale si dichiara immune. Anzi, le si arrende. E'  innamorato di questo mare forse più di noi catanesi. Lo conosce a tal punto che sarebbe capace di indovinare a che secondo esatto il moto ondoso arriva a produrre quella più grande, quella che fa dire “ohh!” prima del fuggi fuggi sul marciapiedi, tutti bagnati.

 Intendo l’extracomunitario, quello che vende tappeti sul lungomare davanti all’Istituto Nautico. Chiunque, a Catania, lo ha incontrato almeno una volta. E’ quel signore che vende i tappeti a basso costo (molto napoletani e poco persiani); u Tuccu va, quello col pizzetto e con quell’aspetto medio-orientale che ricorda scarpe a punta, turbanti e scimitarre da Mille e una Notte.

 Sapevo di lui (non è possibile scansarlo o far finta della sua presenza) ma oggi, visto il momento magico,  mi ci sono messo a parlare. E’ una persona cordiale e intelligente, ed ho capito perché spesso vedo gente che si attarda a parlare con lui, non solo di tappeti. Marocchino, vende tappeti a Catania dal 1982 e quando può, torna dalla sua famiglia dove moglie e figli lo aspettano per l’approvvigionamento. Trent'anni a vivere in quel furgone da rottamare, che vita! Però, con tutte le città italiane che ci sono, ha scelto di rimanere qui. Solo qui.

 Oggi se ne stava seduto senza badare ad eventuali colpi di risacca che avrebbero potuto “spostarlo” sulla carreggiata. Ma a lui, il mare, non avrebbe fatto niente. Lo conosce, sono amici da tempo.

 Ci siamo messi pure a parlare del suo amico agitato alle sue spalle che conosce a memoria, scoglio per scoglio, onda per onda e, purtroppo, patatina per patatina. Dice di ammirare quel pezzo di mare che vede ogni giorno e di amare soprattutto Catania che considera, lui forestiero, un Paradiso terrestre. Mi ha raccontato che quella forza della natura è uno spettacolo che i suoi occhi non hanno visto in altri luoghi; che noi catanesi siamo degli ingrati a Dio perché non capiamo di vivere in mezzo a una tale fortuna: la scogliera, il sole, quel mare, mentre davanti l’Etna sprigiona fontane di fuoco.

 “Lo sapete – continuava – che i milanesi, i francesi, i tedeschi, si portano a casa le vostre pietre laviche come souvenir, raccolte in mezzo alla spazzatura che ogni sera lasciate quando passeggiate sul lungomare? Li ascolto quei turisti, mentre si allontanano e dicono ‘Perché? E’ un peccato!'.... Infatti, fratello, perché lo fate?

 Avete una città stupenda e la insozzate così. Ogni tanto, al mattino, mi metto a pulire questo tratto di lungomare, ma è tutto inutile perché al sabato sera è di nuovo pieno di  roba che andrebbe, invece, gettata nei cassonetti”.

 Imbarazzato, mortificato dalle sue parole e vergognato di certi miei concittadini, quelli che ogni sera lasciano lattine, carta stagnola e quant’altro scambiando la propria città per una pattumiera, gli ho risposto che non siamo tutti così e che cerchiamo di rimediare a questi segni di inciviltà anche con atti di volontariato ripulendo la scogliera, periodicamente. Che potevo dirgli di fronte a tanta amara verità? Non so se ci ha creduto, ma l’ho pure ringraziato per quanto ammirasse Catania perché, in fondo, un tempo è stata anche sua, fin da quando il Normanno Ruggero d’Altavilla, Re di Sicilia, conquistò il Nord d’Africa facendo emigrare in Sicilia maestranze che qui hanno lasciato uno scibile immenso. Sì fratello, questa è stata pure casa tua. Anzi, è casa tua, perché la rispetti più di noi.

 Qual è il suo nome non gliel’ho chiesto, non era importante. A questo punto, per me, potrebbe anche chiamarsi Melo, Saretto, Arazio, Cuncetto, Turiddu, Agatino. Lui sì che è un Catanese DOC.

(M.R. - Maggio 2013)

 

 

IL GRANDE PIETRO

Una sera Aida e Mario mi chiedono di cenare con loro, in attesa dell’inizio di una partita di calcio del Catania. “Mangiamo un boccone prima del calcio d’inizio?”

Per me un affettuoso piacere. Con noi, ovviamente, c’è pure mio cugino Pietro.

Gustose pietanze siciliane, di quelle che fanno sballare ogni proposito di dieta o di valori clinici. Pietro, accanto a me, è in silenzio e comincia a far onore ai piatti presentati dalla madre mentre noi decantiamo ogni forchettata che però, purtroppo, vanno in frantumi quando diciamo che certe leccornie non dovrebbero essere consumate (lui ascolta) per via di intolleranze dovute ad allergie territoriali, sindromi dell’apparato digerente, colesterolo, trigliceridi e altri eccetera ormai noti a tutti.

Tuttavia, si continua a cenare e Pietro, da buon commensale, non si tira certamente indietro di fronte a questi campanelli d’allarme, ascoltandoci sempre in silenzio mentre cena, ma con un ciglio leggermente preoccupato a causa delle nostre considerazioni.

Siamo quasi alla fine, le squadre sono già in campo quando un bicchierino di grappa saluta il nostro pasto e il mitico Cibali è proiettato sul grande schermo. Ma mentre Aida sparecchia in tavola si sente, finalmente, la voce di Pietro:

“MINCHIATE SONO!”

Quasi sussurata, soffiata sul tavolo con un tono da consumato Padrino di Cosanostra. Ci guardiamo nei nostri occhi, fra noi, perché la frase rimane per un istante ad aleggiare in aria. Ormai immaginato sul divano, mai ti aspetteresti di sentirla arrivare come una fredda schioppettata di pallini di piombo sparati per sbaglio da un cacciatore.

E poi “minchiate sono”, detta alla Commissario Montalbano col verbo e il complemento invertiti e in assenza del soggetto, come si usa da queste parti, proprio come uscita dalla bocca del Dott. Pasquano medico legale con i cabbasisi scassati dal famoso funzionario di PS, davanti alle presunte cause sulla morte dell’ultima vittima a Vigata.

Minchiate sono.

Come per dire “Ma che state dicendo? Fatemi capire, vorreste farmi credere che per i vostri allarmismi dovrei rinunciare alla buona tavola, ai marron glasses, alle meringhe, alle olivette di sant’Agata, alle Rame di Napoli, alle granite, ai gelati, ai budini, alla pasta alla norma la cui mancanza fa stare bene voi ma fa stare male il sottoscritto se non la vede per due giorni sul piatto?

Minchiate sono.

Detta alla Don Vito Corleone quando voleva dire a qualcuno che le cose genuine della nostra Sicilia non fanno mai male, anzi, e che certe “buttanismi” sono roba da medici in carriera. Quindi, Pietro voleva dirci “Mangiate tranquilli e non curatevi di quel che dicono, perché poi a pagarla sono soltanto io.”

Con Mario e Aida ci siamo guardati e subito dopo abbiamo realizzato in una grassa risata l’acuta riflessione di colui che era seduto accanto a noi!

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Ah, dimenticavo: la cena era ottima, il Catania è stato sconfitto e mio cugino Pietro è Down. Splendidamente Down. Loro sono quelli che non riconoscono autorità, divise porporate, uniformi incoronate, colori di parte, inchini e genuflessioni. Loro sono quelli che vedono il mondo, davvero, come dovrebbero vederlo gli altri. Li invidio.

Grande Pietro!

 

 

 

MONSIGNORE, MA NON TROPPO

Stamattina il Papa è rimasto bloccato nell'ascensore 25 minuti. Nessuno ha potuto far nulla, nemmeno San Cristoforo di Licia protettore degli intrappolati negli ascensori.  Per tirarlo fuori ci sono voluti, proprio terra terra e senza scomodare aiuti divini, i nostri pompieri.

Mi sono chiesto che pensieri potrebbe farsi, quale rappresentante di Dio in terra, in una situazione in cui domina l'ingegneria meccanica e la tecnologia dell'uomo.

A proposito di chiesa, voglio ricordare un grande personaggio appartenente ad uno stampo di uomini che oggi rimpiangiamo, essendo noi rassegnati alla pochezza politica dei giorni nostri. Ma più che politica, è una questione di palle che oggi non sto vedendo più.

Anche se qualcuno diceva che era più uno scaltro manager che un prete, a me stava bene così. Se andava a battere i pugni sulle scrivanie dei palazzi per togliere dalla strada un po’ di ragazzi difficili, a me stava bene. Più che un prelato, era un uomo che la città amava e per questo spero che la Diocesi di Catania cominci a pensare ad un piccolo posticino per farlo riposare, come merita, in Cattedrale.

Negli anni ’90 mi contattò l’Arcivescovado annunciandomi che Bommarito voleva far visita alla Facoltà di Agraria. Col Preside di allora organizzai tutto e quel giorno, dopo averlo ricevuto al suo arrivo con tutti i "santi" crismi che il cerimoniale impone (uniche e rare occasioni in cui mi si poteva vedeva incravattato, infatti in questi avvenimenti mi chiedevano fra le risate “chi sta arrivando?”), lo accompagnai nella Biblioteca grande dove lo aspettavano tutti.

Quel giorno capimmo subito di che pasta era fatto: mai in difficoltà, con grande abilità dialettica e uno sguardo sornione alla Don Camillo glissava o rafforzava gli argomenti a suo piacimento come giocando al flipper, senza mai fare Tilt. Poi, con l’ironia che lo ha sempre contraddistinto, ci raccontò di cose antiche e divertenti vissute durante la sua infanzia nelle campagne di Terrasini (furbacchione, era ad Agraria!). Ma se ci avesse raccontato anche di Tom & Jerry, saremmo stati tutti lì ad ascoltarlo a bocca aperta!

Ricordo con piacere il momento in cui, prima di passare alla canonica benedizione della Facoltà e di ricevere la targa-ricordo, volle a tutti i costi farmi i pubblici complimenti.

Grazie Monsignore, riposa in pace. Catania non dimentica.

MR 

 

ARTURO E’ RITORNATO

Eccolo! E’ ritornato Arturo.

Chi è Arturo? Da parecchi anni, quotidianamente, a un semaforo vicino a casa mia si avvicinano alla mia auto i vu cumprà e i vu lavà. La maggior parte di loro sono marocchini e tunisini. Alcuni li conosco di vecchia data, uno mi ha pure mandato a quel paese maledicendomi con un sinistro "Allah è grande!" quando gli negai la pulizia del parabrezza dell’auto, appena lavata.

Ma fra di loro c’era un uomo con un colore di pelle che contrastava tutti quelli medio-orientali. Era un signore distinto sulla sessantina, alto, pelle chiara, occhi azzurri, sempre sbarbato, mai sgualcinato nell’abbigliamento; anche con quaranta gradi all’ombra lo vedevo avvicinarsi al finestrino senza una goccia di sudore ed esprimendosi con un perfetto italiano mi consigliava, senza insistere e senza chiedere nessuna carità, l’acquisto dell’accendigas, del parasole, del ventaglio.

Con i suoi speciali consigli per gli acquisti, corredati da sorrisi ed altri discorsi sulla vita che niente avevano a che fare in quei momenti, gli oggetti proposti riusciva a farli apparire più preziosi, come se l’accendigas fosse firmato Cartier e i deodoranti impregnati di Channel. E tutto questo lo faceva con modi così gentili e cortesi che veniva voglia di caricarselo in macchina e portarlo a pranzo fuori porta.

Tante volte l’ho visto parlottare con gli automobilisti, che scendevano dalle auto e parlavano a lungo con lui e alla fine gli lasciavano più del dovuto. Ma lui non accettava l’obolo, non scendeva mai così in basso, non voleva suscitare nessuna pietà. Voleva solo parlare. Anzi, quante volte l’ho sentito dirmi "Dottore..un ventaglio in omaggio per i bambini". Un vero manager production della V.C.C. (Vù Cumpra Corporation). Un signore.

Non conoscendo il suo nome, nella mia immaginazione l’ho sempre chiamato Arturo, non so perché. Forse fantasticando, lo immaginavo come uno di buona famiglia che a un certo punto ha mollato tutta la sua vita precedente perché voleva essere così; oppure un professionista, un dirigente, un avvocato, stanco di tutto e finalmente appagato da quello che la vita gli poteva dare: il contatto umano, parlare con la gente, rispettare ed essere rispettato da tutti, anche dai suoi colleghi tunisini e albanesi, che lo proteggevano e lo volevano bene.

Poi un giorno non lo vidi più. Qualcuno se lo caricò davvero in macchina, qualcuno di quelli convinti che i paradisi sono ben altra cosa rispetto ad un incrocio infuocato. Un "cieco" benefattore che pensò (come effettivamente si disse in giro) di non sprecare cotanta intelligenza per la vendita di piccoli ventilatori per auto. E se lo portò via estirpandolo da quella sua piccola felicità.

Forse lo avrà fatto lavorare in un posto più decoroso, forse gli avrà fatto vivere un’esistenza più dignitosa. Un benefattore comunque da lodare perché colpito da quell’anomala situazione con uno strano vu-cumprà troppo bianco, troppo occidentale ma….. (quello che non vedeva) troppo felice.

Stamattina l’ho rivisto dopo tre anni. Ritrovandomelo davanti al finestrino, ho capito che Arturo era fuggito per ritornare dove voleva essere.

Ma nel frattempo che ha fatto? E dov’è stato? Forse sarà sparito dalla circolazione per non farsi trovare da un altro benefettore dalle idee poco chiare. Sarà sparito nel nulla senza dire niente a nessuno?

Avete mai desiderato, nel mezzo della vostra vita, di sparire senza lasciare traccia? Forse lui l’ha fatto! Dai, che ogni tanto ci pensate! Via mogli, suocere, mutuo, lavoro, parenti, problemi, imbecilli, responsabilità, pensieri, ecc..

Secondo me è l’atto più coraggioso che un uomo possa fare: premere il tasto reset a metà della propria esistenza e rinascere daccapo in un altro mondo, totalmente diverso, con altre persone e altro tutto. Lo so, sarebbe doloroso lasciare gli affetti e meno male che questa cosa, in fondo, la attuiamo soltanto a parole; e poi c’è anche un altro intoppo: il cuore non ti fa staccare il biglietto d’imbarco. Ho conosciuto invece chi l’ha fatto veramente, ma non in modo anonimo e per coraggio, ma per incoscienza. Adesso è in America, ma felice. Esistono pure delle agenzie specializzate che ti fanno sparire, basta fidarsi. Pensano a tutto loro per l’evasione, dalla destinazione definitiva al passaporto falso, dalla lingua ai biglietti aerei, alle carte di credito, ecc. E poi via!

Chi avrebbe mai cercato Arturo in una macelleria eschimese di caribù nella Baia di Ungava in Canada del Nord? O in un allevamento di canguri nel desertico Bush australiano? O in Cina in un mercato all’ingrosso di riso a Houzhie? O a Junin fra i gauchos della Pampas argentina? O nell’officina meccanica La Bujía Carretera a Santiago de Cuba? O fra i benzinai texani di Ceasar's Auto Detailing ad Austin? O fra i cuochi (non i monaci, troppo facile) di un monastero tibetano? O fra le guide turistiche di Ultima Esperanza (bella città per chi non vuol farsi trovare!) in Patagonia?

A chi non è mai capitato di sentire qualcuno che stancamente sospira: "Sparirei per sempre, comprerei un chioschetto di gelati in un’anomina spiaggetta di Santo Domingo e starei tutto il giorno in costume e a piedi nudi"? Ma ormai i Caraibi sono inflazionati da questi pensieri evasivi e fra un po’ sarebbero pure affollati. Meglio la Terra del fuoco.

Stamattina, tornando dal mare, l’ho rivisto al suo posto ed ero felice. Mi sono avvicinato a lui che mi ha salutato guardandomi negli occhi come Dustin Hoffman nel film Paphillon, cioè come un evaso appena scappato dal carcere. Ho comprato un set di accendini che si scaricheranno fra una settimana, due parasoli che non mi serviranno a niente, tre deodoranti dal pessimo profumo e tanti fazzolettini da asciugare le lacrime di tutto il mondo…. e forse anche una mia, scappata fra la prima marcia, la frizione e l’acceleratore, perché sapevo che Arturo, il Lord dei Vu-Cumprà, aveva finalmente riconquistato il suo paradiso: la libertà.

M.R. 2002

 

QUEL BAFFONE DI MIO PADRE

No, non aveva i baffi. Non li sopportava.

Baffone perchè è stato, fin da bambino, di sinistra. Non come quella di oggi, ma proprio di sinistra rosso rosso rosso, più dell’estrema sinistra del partito popolare cinese.

Classe 1930, suo padre era socialista e per poter lavorare senza problemi gli era stato consigliato ad iscriversi a un certo partito e a indossare una certa camicia. Mia nonna era più comunista di mio nonno e assieme nascondevano impavidi, dietro la tenda in camera da letto, la bandiera rossa in attesa del giorno della liberazione.

Fu nel ventennio fascista che nacque mio padre. Dentro una divisa da Balilla che gli andava proprio stretta, andava già a scuola e leggeva ai genitori certe notizie che arrivavano a Catania di nascosto, che so… news da Radio Londra o l’Unità che già allora arrivava clandestina chissà come. Crescendo, il ragazzino era richiesto altrove per leggere alle donne della borghesia catanese (anche se “arripudduti”, sempre ignoranti restavano) la Domenica del Corriere. Cresceva in meglio e per questo, nel frattempo, leggeva anche le loro gambe. Era bello, così bello che anche le prostitute lo “sconcicavano” quando passava per via Di Prima, con la tenutaria che si incazzava. In vecchiaia, quando gli dissero “ma lo sai che sei ancora un bell’uomo?”, lui rispose “..... chissa fu a me disgrazia!”.

Invece la disgrazia, se così vogliamo chiamarla, della malattia “bolscevica” se la portò addosso per tutta la vita. Per lui la Russia era la madre patria, più dell’Italia, quasi come Peppone & Co. nei film di Don Camillo, da adorare e da visitare almeno una volta nella vita.

Uomo di sinistra davvero, in modo concreto e non stupido, superbo ed esibizionista come quelli attuali. Niente fronzoli, abbigliamenti, fasulle letture maledette o quant’altro. Era un bolscevico fin dentro le ossa, attaccato da sempre alla sua madre Russia, o CCCP come si chiamava allora. Non gli interessava come apparire o far vedere a tutti l’Unità che gli usciva fuori dalla tasca del cappotto; lui andava dritto al sodo, anche nelle sue battaglie sindacali (dove volevano lui, solo lui). A vederlo sembrava una persona normale ma se lo si stuzzicava sulla politica, soprattutto su quella internazionale e quindi sui nemici americani, attaccava e non lo fermavi più.

Innamorato del suo mito indiscusso Kruscev, in pieno periodo di guerra fredda mi portava sporadicamente al cinema, dopo cena. Ma non per vedere Bambi o Ciccio e Franco. No, solo per pellicole (così le chiamava) della durata di due ore piene di storie intrigate di spionaggi e controspionaggi tra USSR - la bellissima sigla che adorava e che vedeva ormai come un dipinto di Leonardo - e gli odiati americani! Io mi addormentavo, lui invece mi rimaneva accanto come ipnotizzato da quel che facevano i suoi (possiamo dirlo?) compatrioti!

Sì, tantissimo comunista. Memorabile il giorno quando rischiò di farsi arrestare perché volle a tutti i costi stringere la mano a Berlinguer. Era in via Etnea e, viste le sue insistenze, il grande Enrico lo fece entrare in auto accontentandolo. Appena il tempo di sentirsi dire che era un grande uomo, poco dopo il leader del PCI morì.

Nel frattempo i tempi cambiarono, ma quella particolare sigla, USSR, lo affascinò sempre e anche se trasformata in CCCP, non riuscì a guarirlo. Quando in TV trasmettevano le Olimpiadi, cominciava una sua gara personale controllando l’aggiornamento del medagliere per godere degli ori CCCP su quelli USA. Raggiunse il massimo quando una notte, andando a bere in cucina, passai davanti al soggiorno e lo trovai davanti alla TV mentre suonavano l’inno sovietico per una medaglia nella ginnastica artistica. Era in piedi in pantaloncini, pantofole e canottiera illuminati dallo schermo del televisore in bianco e nero.

L’una del mattino: “Papà, che fai?”. Scoperto, mi rispose imbarazzato nella notte “sto controllando il contrasto che non va”. Non era vero, aveva la mano sul petto!

Per farlo contento, un giorno gli portai una piantina che acquistai da un marinaio imbarcato su un mercantile di Odessa e che coltivava di fronte la sua cabina. Gliela portai e mi disse che l’avrebbe conservata per portarla nella tomba!

Grande lavoratore, tentò in tutti i modi di conoscere il mondo e viaggiare, al contrario di mia madre. Così portava a casa decine di depliants che le sottoponeva senza speranza e che poi poggiava con rassegnazione sul comodino immaginando, con la fantasia, di poter visitare Cuba, Soci, ecc.. Località balneari, ma sempre Soviet!

Quando andò in pensione ci riuscì, e alla meglio! Sette giorni a Mosca con il suo fratello maggiore, bolscevico pure lui. Era la fine di aprile del 1990 e quel giorno li accompagnai all’aeroporto di Catania. Si erano abbigliati con giacconi e sciarpe per affrontare il famigerato gelo siberiano. Per farvelo capire: come Totò e Peppino all’arrivo alla stazione di Milano! Quella mattina, già primavera, c’erano più di 20 gradi. Stavano sudando, erano paonazzi e allora, paventando pericolosi sbalzi di pressione arteriosa in due sessantenni, dissi loro di togliersi di dosso, subito, almeno due chili di roba. Fui accontentato, per fortuna.

Quando ci avviammo sul terrazzo panoramico di fronte alla pista, come un angelo dal Paradiso apparve al parcheggio un grande aereo con la scritta “Aeroflot”. Era bianco, enorme e silenzioso come Moby Dick pronto ad affrontare il capitano Achab. Ne fui colpito pure io.

Di fronte a quei caratteri in cirillico che rievocarono in loro chissà quali ricordi da bambini, desideri politici e rivoluzioni proletarie mai raggiunte, mio padre e mio zio si commossero sul serio. La Madre patria era ormai vicina ed era venuta a prenderli, addirittura, nella loro città natale. Mi fecero tenerezza. Li salutai e, poco dopo, raccomandando loro di non far danni, li vidi lì sotto alle partenze mentre si avviavano all’imbarco tenendosi per mano per evitare di perdersi, sempre come Totò e Peppino.

Al ritorno dal viaggio lo ritrovai un po’ deluso. Papà, che è successo?

Mi raccontò che fin da bambino, con suo fratello, avevano sognato di vedere sfilare i carri armati con i missili e la stella rossa nella parata del Primo Maggio. Mi disse pure che era sul palco della Piazza Rossa proprio vicino a quel miscredente di Gorbaciov, allora alla guida dell’Unione Sovietica.

- E allora? Non sei contento?

- No! E’ stato il primo anno con la sfilata di carri pieni di fiori invece dei missili!

Azz! Come potevo dargli torto?

Colpito da ictus, non abbandonò mai la sua fede politica. Durante le elezioni del 2001 stava male ma voleva andare a votare a tutti i costi l'Ulivo per Rutelli. Si fece convincere solo quando lesse la lettera che gli preparai, immedesimandomi, nel farla, come se fossi nei panni di un dirigente di Via delle Botteghe Oscure e che lui che definì meglio di dieci voti messi assieme:
"Caro Francesco, con grande rammarico sento il dovere di comunicarti la mia impossibilità a votare il  13 maggio.

Purtroppo, a causa di grave malattia, i medici mi hanno obbligato al riposo assoluto e quindi, nonostante i tentativi di convincere i miei familiari, non potrò dare il mio contributo in un’occasione che, specialmente oggi, richiede un appello di tutte le forze democratiche a rispondere “presente!”.

In questo momento importante per la storia d’Italia, per la salvaguardia di una democrazia conquistata col sangue della resistenza e con la lotta proletaria, ritengo assolutamente indispensabile, adesso come allora, supportare il movimento politico che rappresenti.

In 70 anni è la prima volta che diserto il seggio elettorale e ti garantisco che in questo momento mi sento come un traditore in Patria. Se potessi, metterei a repentaglio la mia stessa vita per riuscire ad impugnare la matita ed apporre quella croce su un simbolo che per gli italiani è stato la locomotiva del “cambiamento”, ma contro la tenacia e la preoccupazione dei miei familiari, credimi, non ho potuto nulla. Sono però riuscito, con le lacrime agli occhi, a dettare a mio figlio questa lettera che ti invierà via internet per manifestarti il mio dolore, unitamente alla richiesta di ritenermi “assente giustificato” alla vittoriosa battaglia di domenica prossima.

Adesso che l’ho fatto mi sento a posto con la mia coscienza che stavolta, visti gli eventi che segnano questi miei giorni e a ricordo di una fedeltà lunga mezzo secolo, mi assolverà certamente da qualsiasi colpa.

Con immensa stima. Catania, 8 maggio 2001"

Continuò la sua esistenza facendo lavorare il suo cervello più del dovuto, come era solito fare, fino a provocarsi una demenza vascolare che lo portò a non riconoscere più mia madre. Molte volte l’ho dovuta riprendere sul pianerottolo, fuori di casa, e riaccompagnarla dentro con tanto di documento d'identità. Ogni volta una lunga opera di convincimento mentre la riabbracciava dicendomi (non tanto convinto) “ma è lei, come dici tu? mah, sarà… però questa ragazza che abbiamo in casa cucina bene!”

Non più gestibile a casa, visse i suoi ultimi anni in una casa di riposo a cinque stelle dove vedeva montagne di ossa di ebrei e fortezze volanti, infermiere da acchiappare al volo che poi si lamentavano col sottoscritto e resoconti a modo suo in cui mi raccontava, con stupore, dell’ultima gita che gli avevano fatto fare, in una Catania invasa dai turisti. In verità, in Italia avevano modificato le targhe e, quindi, scambiava AV per Avellino CB per Campobasso e BL per Belluno.

Una sera del 2010 decise di far smettere la corsa del suo formidabile cervello di fronte alla sua ultima fidanzata (una picchiatella di 76 anni), piegata al suo capezzale e che piangeva ricordandomi quanto era "giovane e non vecchio". Disperata.... e consolata da una ragazza che sapeva cucinare bene.

Papà, adesso che sei lassù non fare il rivoluzionario come al solito, dai loro un po' di tempo per far capire come si vive. Quelli hanno tempi lunghissimi per capire certe cose, tanto tanto tempo.... perciò... "arrizzettiti". Ma oggi è la tua festa e farti fare il "diavolo a quattro" credo che ti sarà concesso.

Ciao papareddu.

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PS:  Oggi non molestare le defunte all'accettazione, lascia la bandiera rossa sulla tua nuvola e soprattutto non t'acchiappari cu San Giuseppe, ca oggi è macari a 'so festa!

(Mimmo Rapisarda, 19.3.2017)

 

 

 

 

 

 

LA MUSICA

 

  

I TESTI NELLE CANZONI DEGLI ANNI SESSANTA

Negli anni Cinquanta e Sessanta, almeno fino a quando arrivò gente del calibro di Tenco, Paoli & Co., la musica italiana era costituita da cover di successi mondiali, cioè cantare sulla base di successi internazionali e metterci il testo italiano. Oggi lo sanno tutti, allora solo in pochissimi.

Fu una sciagurata operazione che, per fortuna, alla fine degli anni Settanta si risolse in una sanatoria per non far fallire le case discografiche di casa nostra e mandare a casa decine di migliaia di lavoratori. L'elenco è lungo e comprende quelle che più conosciamo. Grazie a loro molti cantanti italiani si autoproclamarono "la storia della canzone italiana". Non credo, casomai la storia di interpreti di successi mondiali in versione italiana, perchè quel motivetto che ci faceva stare attaccati al juke box non l'avevano composto i Dik Dik, Camaleonti o Equipe 84. Loro lo cantavano soltanto, col testo in italiano, peraltro da pena. Ebbero soltanto la fortuna di ritrovarsi in un momento in cui milioni di italiani erano convinti che l'Isola di Wight o Un Angelo Blu o Senza luce fossero successi italiani.

Quello che fecero allora quelle Band italiane oggi lo potrebbe fare qualsiasi ragazzino con una chitarra in mano. Soprattutto siamo più informati del 1965.

In alcuni casi accadeva l'inverosimile: Ricky Gianco e Don Backy, allora del Clan, si rifiutarono di citare Ben E. King, Jerry Leiber e Mike Stoller quali autori nei credits della canzone "Pregherò" di Celentano, dichiarando di non aver mai sentito nella loro vita Stand by me. Cioè musica e parole appartenevano, sfacciatamente, a loro!

Oppure i Juaguars, che quando il giornalista fece loro notare che la loro "Barbara" somigliava spudoratamente a una certa "Barbara Ann" scritta da cinque ragazzi che chiamavano Beach Boys, risposero "e chi sono? non li conosciamo!" In altri casi accadeva che il paroliere e il musicista scriveva il capolavoro a nome suo e dopo si accorgeva che la musica era la stessa di un motivetto americano che aveva ascoltato due mesi prima. In questo caso reo confesso e plagio involontario.

Detto ciò, potremmo dire "Va be, poi hanno sanato ma in compenso i testi erano favolosi, toccanti". Per niente! L'italiano, fino all'avvento dei cantautori, si è servito da sempre della canzone per trasmettere il messaggio a qualcuno che gli era vicino. Così si regalava il disco "Mamma" a maggio o il 45 giri pieno di parole e sottintesi per manifestare stati d'animo verso qualcuno. Insomma, era un modo poco coraggioso ma melodioso, quindi più dolce, per dichiarare l'amore alla commessa o alla cassiera, chiedere perdono dopo la marachella, fare pace, separarsi. Così i testi delle canzoni, infarciti di rime al sapore di cuor, amor e tesor, diventarono delle vere e proprie lettere infilate a regola d'arte in mezzo al pentagramma di quelle canzoni.

Alcune, rileggendole oggi, fanno davvero ridere, con tutto il rispetto dei rispettivi parolieri. Ma fanno anche capire come allora era alta l'attività cornificatrice. La trama è sempre quella: il tradimento, il perdono e il ritorno. Chi canta è quasi sempre il tradito, che si accorge di non essere più amato perchè lei è innamorata di un altro, ma la implora lo stesso di tornare da lui. Una fissa, masochistica, che durerà più di una decina d'anni.

Le perle autentiche del genere “corna” sono poche, fra le quali la geniale "Ed io tra di voi" del grande Aznavour, in cui è descritto meravigliosamente il dramma di un uomo che si accorge, col grande disagio di trovarsi in quella angosciosa situazione, di quanto sia diventato intruso fra la sua donna e il rivale. Oppure "Era già tutto previsto di Cocciante" in cui stavolta è l'amante di lei a raccontare, a darle l'addio prima che l'altro gliela porti via; mentre ballano la bacia di nascosto per l'ultima volta, mentre lei gli sussurra "io non l'amo, non lo amo". Straordinaria canzone, anche la musica.

Se mi capiterà, ogni tanto ne posterò qualcuna, assieme al relativo video youtube e le mie considerazioni. Di quelle canzonu che mi passano alle orecchie la mattina (dopo mi dimentico pure quale) e che al momento mi fanno dire "ma che cacchio le ha scritte ste stronzate?"

Perdono è una canzone cantata da Caterina Caselli (parole di Mogol e musica di Soffici).

Andò a ruba proprio per il testo. Cioè, vuole dire: come faccio a fargli capire che ho sbagliato (puttanazza che non sono altra) e che gli voglio chiedere perdono? Ecco, gli regalo il disco così capisce, io mi tolgo il pensiero e faccio pace anche con la mia coscienza!

Perdono, perdono, perdono... io soffro più ancora di te!

(non credo, guarda il danno dall'altra parte)

Diceva le cose che dici tu, aveva gli stessi occhi che hai tu!

(per fortuna Dio ci ha creati tutti uno diverso dall'altro; per questo la ragazza avrebbe avuto bisogno di una visita dall'otorino e un'altra dall'oculista)

Mi avevi abbandonata ed io mi son trovata a un tratto già abbracciata a lui...

(anche di una visita dal fisiatra, visto che le gambe non le reggevano e si scaraventava velocemente dovunque.... poveretta)

Perdono, perdono, perdono... il male l'ho fatto più a me!

(sempre egoista, guarda un po' che guaio hai provocato all'altra parte. Che fa, per caso vuoi chiedergli il modulo di Constatazione Amichevole così pagate i danni al 50 %?)

A volte piangendo non vedi più. Da come ha sorriso, sembravi tu...

(l'oculista ci voleva, te l'ho detto! se ci fossi andata ti avrebbe fatto passare l'infiammazione alle ghiandole lacrimali, così ci vedevi meglio e capivi di chi era quel "sorriso")

Di notte è molto strano ma il fuoco di un cerino ti sembra il sole che non hai!

(con la miopia che ti ritrovi, non ci credo che becchi il fuoco di un cerino!)

 M.R.

 

 

 

PERDUToAMOR
Battiato non ha girato un film ma ha scritto una canzone montandoci delle immagini al posto delle note. Ha preso il pentagramma e come un album di ricordi ci ha incollato sopra le fotografie della sua infanzia a Riposto negli anni Cinquanta.

Però, come dichiarato da lui stesso, non è un film autobiografico, infatti i ricordi della sua infanzia si limitano soltanto ai luoghi, agli oggetti e alle usanze che fanno da contorno alla storia dell’immaginario Ettore Corvaia. Ha usato i sogni e l’emancipazione del protagonista come un binario che ci porta attraverso tanti flash di rimembranze sul percorso Catania-Milano; e i cambi improvvisi fra la trama e le altre inquadrature non sono altro che introduzione, ritornello, refrain, ritornello, refrain, ritornello, finale, proprio come in una canzone, una canzone di quelle buone, di quelle che ti raccontano una storia invitandoti, per vederla, ad entrarci dalla porta di servizio e non da quella principale. La Madonna nera di Fossati parla di una processione religiosa, di una statua nera che si inclina, di un uomo che la sorregge e la paragona alla donna amata. Eppure è una canzone d’amore. Chi l’avrebbe mai immaginato se non l’avesse detto lo stesso Fossati? Questo è il bello di entrare dalla porta di servizio.

Non pensavo che Battiato, cimentandosi al cinema quasi per gioco, riuscisse ad ottenere una fotografia degna di un regista con quattro oscar in bacheca. Ogni fotogramma è quasi un quadro. E poi i luoghi: Ragusa, Acicastello, Acitrezza, Catania e Palazzolo Acreide con i loro colori fanno già sceneggiatura; le suore con le tonache nere che si stagliano sulle facciate barocche di chiese costruite col tufo giallo, con lo sfondo del cielo azzurro… e poi la luce, l’immensa luce che c’è qui. Geniale la scena al macello, quando la cinepresa si sposta dalla mano armata di coltello - pronta ad uccidere l’animale – fino a salire sopra quel muretto affacciato sul mare dove si vede di spalle il piccolo Ettore, che non vuole più accettare quel mondo e sogna di veder passare il Rex dei suoi desideri e della sua fantasia, perché dentro di noi c’è sempre stato un Rex, simbolo di una partenza liberatoria che ti porta via. Gli oggetti, le situazioni, le battute necessarie per riportare lo spettatore indietro nel tempo sono tutti molto curati e, come uno storico consumato, Battiato non ha mai lasciato niente al caso. Nel bagno di casa Corvaia il padre con la brillantina in pomata davanti a un autentico specchio che si usava negli anni Cinquanta e dieci anni dopo il figlio con altro tipo di gel, altri pettini, altri specchi, altre canottiere, altro tutto (ma dove li ha trovati?). Tutto è stato messo al suo posto, minuziosamente, come in un museo di modernariato.

Ho letto della visione metafisica di Battiato riportata in questo film. Mah…io non ne capisco niente di metafisica, forse sto parlando di metafisica e nemmeno me ne rendo conto. Comunque, le immagini presentano con dovizia di particolari una generazione e un mondo che non c’è più. Alcune cose me le ricordo e sono arrivato in tempo a vederle, anche se sono più giovane di Battiato: il mangiadischi, le seicento, quelle lampade sulle scrivanie, i complessini che suonavano su un palchetto con tastiere Farfisa traballanti e con improvvisati impianti di amplificazione, le uova acquistate in campagna, ecc.

Anche i modi di dire e di fare: con calma, senza fretta, senza stress; ritmi molto cadenzati, perché allora di tempo ce n’era tanto e di cose, a differenza di oggi, se ne facevano poche ma buone. Le ventiquattro ore di un giorno sembravano non finire mai e, a volte, la salutare partita a briscola nel film serviva ad esorcizzare certe situazioni.

Oggi sembrerebbe una cosa inutile e noiosissima e si scapperebbe subito presso lo studio di un consulente familiare, per non perdere tempo. Sempre per non perdere tempo.

Perché non lo fermiamo questo tempo? Dalle parti di Acireale, in una frazione incastonata fra giardini di limoni e il mare, c’è un bar a conduzione familiare che produce una granita di mandorla buonissima, ma il servizio è così così per i nasini all’insù, ma eccellente per chi lo capisce e apprezza. Può capitare di ordinarla e sentirsi rispondere "Ora a voli? Si facissi du passi ca poi a facemu!". Magari poi te la preparano subito, anche a mezzanotte, ma quelle lamentele sprigionano tutto il folclore e la sottile ironia che circolano da queste parti. I catanesi lo sanno, ci vanno apposta e stando al gioco si divertono a ricevere le risposte più colorite alle loro richieste. E fanno questo anche per passare tempo, e questo da noi si chiama "sbaddu".

Il bello viene quando capita da quelle parti una famigliola del Nord, che si incazza quando riceve quelle risposte che non comprendono, perché la loro vacanza è tutta programmata e il tempo destinato all’assaggio di quella prelibatezza è soltanto di venti minuti, sempre per non perdere tempo. E invece non sanno che il divertimento è proprio lì, cogliere l’attimo di certe situazioni occasionali, sfruttarne tutti i suoi aspetti positivi e spassosi, senza guardare l’orologio o il telefonino. Un po’ come il caffè che sorseggiava il sergente Nicola Lo Russo in Mediteraneo.

Devo dire che il film mi ha affascinato fin dall’inizio. Tanto ne ero preso che nel finale vengo pure colto di sorpresa: "Oh, guarda chi c’è… che ci fa De Gregori qui?", quasi dimenticando il motivo della mia presenza in quel cinema. Subito dopo, però, ho sollevato istintivamente la mia mano destra quasi a cercare il testo "rewind" del telecomando. Devo dire che nella parte del musicologo che parla di catarsi e sciamani si è comportato davvero bene, complimenti.

La Sicilia, chiaramente, non è più come quella descritta nel film, anche qui la gente corre e pigramente si affida alla tecnologia perché è più comodo e non fa perdere tempo. Il cucito non si fa più come in quel bellissimo cortile circondato da banani, dove le donne, fra l’ago, la lingua e il ditale (facendo finta di essere sottomesse) regolavano il destino dei loro uomini.

E’ sempre stato così, in Sicilia hanno sempre comandato loro. La battuta finale di Sgalambro, seduto al tavolino di un bar in una piazza assolata, simboleggia tutto il nostro modo di essere: "La Sicilia esercita un diritto di appartenenza. Per favore, una granita alla mandorla".

E’ vero, siamo fatti così. Seduti a un tavolino, con una granita di mandorla davanti e stavolta PER perdere tempo, volutamente, quaggiù siamo ancora capaci di consumarla impiegandoci anche due ore filosofando, filosofando, filosofando…

(Mimmo Rapisarda, 2003)

 

 

SIAMO DEI di Lucio Dalla

GLI DEI

Siamo dei e ci muoviamo nello spazio profondo. Corriamo dietro ai tuoni, ci pettiniamo, e aspettiamo la fine del mondo.

Mentre tu, pover'uomo, non sei niente di speciale, devi anche lavorare e poi chiedere perdono!

Siamo dei, figli del sole. Invece tu chi sei, tuo padre è stato il dolore!

IL MORTALE

Un momento, un momento, ho anch'io qualche argomento: ho un amico che è un campione di rock e riesce a ballare per tre giorni e tre notti senza doversi fermare e un'altro che ha la voce da basso e con una mira che ti stacca la coda di un cane con un sasso, se lo tira.

E poi ho un grande amore, un amore di ragazza che mi aspetta e se non torno esce pazza dal dolore, poveretta!

Ed ogni estate do il mio voto e vado al mare e resto nudo tutto il giorno. Fa molto bene alla salute abbronzarsi e puoi nuotare, se mi vedessi quando torno!

GLI DEI

Ma cosa credi di fare, dove credi d'andare? Non hai più aria per poter respirare! Non c'è più nessuno che ti possa aiutare ed ogni giorno che vola via scopri di avere una nuova malattia.

IL MORTALE

Oh...! Brutto uccello, ti ha mai detto nessuno che un Dio dovrebbe essere più bello? E poi non ho capito l'ultima riga, non sarà che a stare sempre nello spazio hai imparato a portar sfiga?

Oh ...! Su quale giornale scrivi? Noi non siamo ancora morti, se possiamo guardarci in faccia vuol dire che siamo ancora vivi.

GLI DEI

Siamo Dei e la tua vita è un inferno, o qualcosa di più atroce. Potresti vivere anche tu in eterno se ti pentissi e se abbassassi un pò la voce!

IL MORTALE

Oh...! Brutta specie di aereoplano, ma non ti accorgi che stando in alto vedi il mondo da lontano? E per che cosa mi dovrei pentire? Di giocare con la vita e di prenderla per la coda? Tanto un giorno dovrà finire!!!

E poi, all'eterno ci ho già pensato. E' eterno anche un minuto, ogni bacio ricevuto dalla gente che ho amato!!!!!!

 M.R.

 

IL POPOLO DEL JAZZ

L’abbonamento alla Rassegna Jazz. Ci vado, con rassegnazione, senza aver ancora capito il motivo di tale punizione. Eccomi alla prima delle serate in cartellone e all’ingresso del teatro ritrovo, dopo un anno, quel particolare pubblico che va a queste rassegne.

Nonostante l’apparenza, non è difficile intuire che si annoieranno mortalmente, che sarebbero rimasti a casa a vedere “Il processo di Biscardi” in pantofole o a giocare a Risiko. Ma quel giorno, a quell’ora e in quel luogo devono farsi vedere all’ingresso del teatro a tutti i costi, davanti alle locandine in vetrina con il loro aspetto stravagante, il codino, la sciarpa alla palestinese e il giaccone d’ordinanza, affumicato dai sigari cubani. Azz! e va bè, fumiamo questi; peccato per quelle bellissime Marlboro Light lasciate “momentaneamente” in auto, parcheggiata chissà dove.

Parlano, parlano, fanno a gara a chi pronuncia meglio la parola “Jazz” e si agitano, terrorizzati nel caso in cui non vengano notati nell’atrio dall’amico o dal conoscente. Sono tutti lì in branco quasi a timbrare un cartellino di presenza, con un atteggiamento quasi superbo come se appartenessero ad una specie di loggia massonica a numero chiuso, senza possibilità di ingresso per i profani. Non ci giurerei, ma su 500 spettatori penso che soltanto in 3 o 4 siano lì esclusivamente per ascoltarsi il jazz, perché lo capiscono e "vogliono" godersi il suono che emette quella musica d'elite.

E beati loro! Perché io non l’ho mai capito! Lo ammetto, è il gesto più incoerente che io possa fare nell’arco dell’anno. Forse è una periodica occasione per rivedersi e discutere con alcuni amici perché, prima che cominci lo spettacolo, su quelle comode poltrone svuotiamo il sacco delle nostre vite molto meglio del confessionale, molto meglio del divano di Freud. Ecco, forse questo o perché in mezzo all’abbonamento c’è qualche artista che mi tira e quindi vado a sorbirmi tutto l’intruglio. Comunque, è la stessa domanda che mi ponevo negli anni Settanta ai Cineclub quando mi sciroppavo tediose pellicole polacche di quattro ore.

Prima dello spettacolo l’occhialuto organizzatore, espertissimo di musica jazz, sale sul palco e introduce la carriera degli artisti che si devono esibire da lì a poco. Con una preparazione sconcertante, scandendo i loro nomi, la carriera e i titoli del loro dischi con un’impeccabile pronuncia inglese che mi verrebbe voglia di abbatterlo a scarpate in nuca, lo immagino a casa sua con le pareti delle stanze tappezzate non di CD (giammai! non fa fino per un esperto) ma di LP. Centinaia e centinaia di vinili pronti per essere ascoltati sul piatto, perché "la fedeltà del piatto è assoluta e totale". E mentre parla facendo attenzione a pronunciare la parola "jazz", me lo immagino come il Dott. Semenzara prima della visione de "La Corazzata Potemkin", davanti a centinaia di persone che già pregustano due ore di noia mortale ma che dovevano essere lì in quel luogo e a quell’ora di quel giorno.

E continua: "…..il jazz è una scelta di espressione della propria sensibilità. Non c’è mai una fine, ci sono sempre nuovi suoni da immaginare, nuovi sentimenti da cogliere. Purificandoli potremmo vedere, allo stato puro, ciò che abbiamo scoperto, cosa siamo. L’approccio al jazz genera suggestioni raffinate e un gioco ad incastri con gli strumenti che raggiunge una musicalità totale in qualsiasi forma. Con questo duo stasera siamo ad una scrittura decisamente complessa, senza nulla togliere al fascino e all'indiscussa abilità individuale dei musicisti che ospiteremo…… Signori: Stanley Jordan e Jeff Berlin!... (Jordan, a detta degli esperti del settore, è uno dei più grandi chitarristi al mondo ed era affiancato da bassista Berlin, definito dall’organizzatore come l’erede di Jaco Pastorius).

Arrivano i due musicisti americani che accennano a qualche "bonasera, ciau Catania, milli grazi!" ma soprattutto parlano in inglese, non facendo capire una mazza. Dalla sala ridono con ipocrisia alle loro battute facendo intendere di conoscere la lingua, ma in effetti non hanno capito un cazzo! Qualcuno risponde pure, per prendere spudoratamente un po’ di punti. Altri tacciono con dignità.

In queste rassegne il palco ha una scenografia assai spartana: soltanto le luci della sala, niente occhi di pernice o fari particolari, niente effetti o fumi, nè colori. Insomma, niente allegria. E poi il vero intenditore non tiene a queste cose, non vuole fronzoli, luci e pajettes; è lì soltanto per assaporare il suo jazz, a godere fino all’ultimo accordo che esce dagli strumenti, a “decifrare la nota incredibile di ogni singola tonalità”, come scrisse un mio amico (*).

E’ una scena triste, come tristi sono questi musicisti, come tristi sono le sobrie ed essenziali locandine fatte col carattere Courier 12 che sembrano uscite fuori da una macchina da scrivere del Kgb nel 1961. Triste anche la tessera dell’abbonamento, tristi anche i colori degli strumenti, soprattutto per uno come me che va matto per i colori di quelle madreperle che scintillano sotto i riflettori.

Cominciano a suonare. Questi concerti hanno tre tediose caratteristiche:

a)  cominciano con un ritardo mostruoso: un’ora rispetto a quanto annunciato, con prevedibili ripercussioni sulla tenuta dell’apparto urinario dei malcapitati;

b)  i pezzi sono interminabili. Le cronache raccontano di rivolte nelle sale con manifesti sui quali c’era scritto "Pupo for President!";

c) l’intervallo non c’è quasi mai, si fa tutta una tirata fino alla fine. E per uno come me, che in questo caso l’intervallo significherebbe la bombola di ossigeno per respirare in superficie, significa la fine.

Comunque, attaccano con il primo pezzo e dalle ultime file qualcuno grida "Dai, bravo… quella, sì!" come se lo conoscesse. Era, invece, pura improvvisazione dei due artisti e quando lo hanno fatto gentilmente (ma con grande cattiveria) notare allo spettatore, questi avrebbe voluto infilare la sua faccia sotto la poltrona….  tanto era rossa!

Durata del primo pezzo: 25 minuti! Alla fine tanti applausi e grida, ma dalle facce stravolte si capisce subito che il pubblico sta già per cedere: le Gillette cominciano subito a circolare in sala e la loro quotazione arriva a cifre imbarazzanti. Qualche esagerato ha addirittura portato da casa un’attrezzatura portatile contenente: 2 corde di varia misura con nodo scorsorio già pronto, una P38 carica, 12 tartine di cianuro, 2 bottigliette di curaro e 1 mini-sedia elettrica componibile. L’ultimo colpo di plettro è un sollievo o, per meglio dire, l’ancora di salvezza.

Davanti a un pubblico ormai agonizzante, per onore al Paese che li ospita eseguono una sorta di inno di Mameli con chitarra e basso. Allora anche i più ostinati amanti del Jazz cominciano ad agitarsi perché sentono finalmente (e francamente!) qualcosa di orecchiabile, anche se si tratta della Mameli Band!

Ma il divertimento finisce presto. Il terzo pezzo è un mattone terrificante, incomprensibile, impenetrabile, astruso, difficoltoso da apprendere anche per i più navigati, destinato soltanto a quei pochi che conoscono perfettamente lo scopo della loro presenza in quel teatro.

Dopo due ore il pubblico fissa attento il palco. Ma in realtà sta fingendo, perchè in quel momento ogni spettatore pensa, nell’ordine:

1) E se l’auto me l’hanno portava via col carro attrezzi? E dove lo trovavo un parcheggio a quell’ora, visto che sono arrivato soltanto cinque minuti fa! (arrivare in ritardo fa fico);

2) L’ho chiuso o no il cassetto segreto della scrivania di casa, dove c’è l’altra agendina telefonica che mia moglie non deve vedere?;

3) Ma chi me l’ha fatto fare? Qui non c’è nemmeno la pausa; almeno con quella scusa mi fumavo una sigaretta in corridoio per prendere una "boccata d‘aria";

4) Se arrivo in tempo, forse posso vedermi chi è stato nominato al Grande Fratello;

5) Quale scusa inventare domattina al Capo per il ritardo accumulato per via dell’acquisto del biglietto del derby?

6) Ma la rata del condominio l’ho pagata o no?

7) Questo dente si muove, domani devo correre dal dentista;

8) Ora mi invento una bella colica, così esco per andare in bagno e invece mi sparo una croccante busta di Cipster, di quelle che fanno tanto rumore;

9) Sto morendo di sete, ho dei miraggi: una Moretti gelata! Anzi, visto l’ambiente, meglio una Bud o una Ceres, o meglio ancora una Maes o una Red Erik. Con una Moretti in mano mi sputerebbero in faccia;

10) Ma quello non è il mio vicino di casa? Che ci fa con una donna che non è sua moglie?

11) Guarda quant’è carina quella in seconda fila… ma, sbaglio o è quella mia compagna di scuola che filava tutti, tranne che me?

12) Il soffitto di questo teatro è pieno di calcinacci.

13) Ma questo sta suonando con una Gibson o una Guild? Boh, … se fa un altro passo indietro va a sbattere con l’amplificatore e cade all’indietro.

Ma, soprattutto, cadono in clamorosi abbiocchi. Quando il chitarrista si esibisce in virtuosismi che vanno un po’ fuori dagli schemi prestabiliti, alcuni si risvegliano in sala come ghiri dal letargo. Chiedendosi per un attimo in quale luogo fossero, con gli occhi pieni di sonno emettono un "iiiuuuu! bravo" e poi si riaddormentano profondamente come orsi polari.

Anche la mia autonomia sta per finire. Conoscendo la mia erudizione in materia  - limitata a "Tutti quanti voglion fare il jazz perché resister non si può al ritmo del jazz!" degli Aristogatti -, le mie ciglia cominciano a congiungersi e prendo sonno. Sogno l’organizzatore della rassegna che mi sveglia. Poi mi prende per le orecchie come Fantozzi, mi fa inginocchiare sui ceci davanti alla platea e mi fa leggere, brano per brano, tutta l’opera omnia di Louis Armstrong, John Coltrane, Duke Ellington, Charlie Mingus, Count Basie, Bill Evans, Chet Baker, Romano Mussolini e Franco Cerri. Intanto, tutti intorno a me, gridano "merdaccia, merdaccia, ci hai rovinato lo spettacolo, rimborsaci la serata!".

Quando mi sveglio, guardando l’orologio, mi rendo conto che, grazie a Dio, siamo quasi alla fine dell’incubo. I due yankees fanno l’inchino e se ne vanno.

Qualcuno accenna timidamente (con occhiatacce da parte di tutti) alla richiesta di un bis. Manco a dirlo! Con una velocità olimpionica i due sono di nuovo sul palco per un altro pezzo, lo finiscono davanti a una platea ormai provata psicologicamente, e se ne vanno in silenzio stavolta senza applausi. Ma all’improvviso, proprio quando la gente, felice, comincia a staccarsi dalle poltrone per continuare il sonnellino a casa…..rieccoli! Il secondo bis! Eh no! Questo non l’aveva chiesto nessuno (e se mai c’era qualcuno rischiava grosso)! Quasi tutti ormai, rassegnati, restano in piedi pensando "dai, fra poco tutti a casa, per fortuna".

Oh!… Quattro bis! Se avessero fatto appena l’accenno del quinto avrebbero rischiato il linciaggio in sala! Meno male che in queste rassegne non è previsto il dibattito dopo-concerto.

Alla spicciolata se ne vanno tutti via, commentando la serata: "gran concerto, ma come faceva quello a suonare con la mano sinistra il piano e con la destra la chitarra? …. il lavoro ritmico - armonico del contrabbasso si esaltava con quello della chitarra, eccezionale! Le hai scattate le foto? No? Ma come….ti sei appisolato? Ma come hai potuto ….(yawn!)… dormire?". E tornano di fretta alle loro auto per disintossicarsi con una musicassetta dell'ultimo Festival di Sanremo, ma che forse non troveranno più perché le hanno portate via col carro-attrezzi. Hanno troppo sonno per incazzarsi all’una di notte, e poi incazzarsi per strada non è trend, meglio essere calmi e diplomatici. Domani si vedrà.

Un giorno a bordo del  Virginian salì Jelly Roll Morton. Sfidando Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento gli disse: "io sono colui che ha inventato il jazz". Lui, il pianista Novecento, non è mai esistito. Ma Jelly Roll Morton, il pianista del duello è esistito veramente. E probabilmente ha davvero inventato il jazz.

Maledetto!

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(*) qualcuno l'avrebbe saputo perfino suonare quel jazz, per decifrare la nota incredibile di ogni singola tonalità, certamente non proprio benissimo ma quel tanto che basta che fa, che si dica "Ha vissuto la vita sotto i colpi del jazz", che si dica "Quell'uomo ha vissuto sotto i colpi del jazz".

(da Jazz, di F. De Gregori – Prendere e lasciare - 1996)

 

YOU ARE THE CHAMPION, MY FRIEND!

Chi, amante della musica, avrà visto il film “Bohemian Rhapsody” non può aver fatto a meno di rivedere quei venti, straordinari, memorabili minuti suonati in extremis dai Quenn nel mitico Wembley nel 1985. Milleduecentosecondi in cui suonarono, e bene, anche loro. Sì, c'erano anche i Queen ma soprattutto quell’animale da palcoscenico che da solo li rappresentava alla radice quadrata: Freddie Mercury!

Complimenti a chi, in quel film (e soprattutto al talentuoso Rami Malek) ha saputo ricostruire nei minimi dettagli quei venti minuti regalati al LiveAid. Centomila persone tutte nel pugno della vera stella di quel pomeriggio, in canotta bianca e Wrangler Denim, che saltellava sulle sue Adidas da un lato all’altro del palco imponendo la sua classe, il suo stile e a trascinare perfino i fotografi a ballare in quella festosa bolgia i cui comandi erano dettati da un solo bastone: il suo microfono.

Era una grande persona, andata via a soli 45 anni. Troppo presto? Non lo so, forse nel girone dell’arte l’angelo della morte li raccoglie proprio quando si trovano nel momento in cui stanno per obliterare il biglietto per diventare immortali, indimenticabili. Lui l’ha staccato a Wembley.

Chissà quanto avrei pagato per stare nell’area di rigore di quel magico rettangolo d’erba, a battere le mani al ritmo di “All we hear is radio ga ga, Radio goo goo, Radio ga ga” con quella leggenda del rock davanti. Avrei sopportato (come si usava sotto i palchi nei grandi concerti) anche il peso di una grassona anglosassone sulla spalle che inneggiava con le mani alzate, come arrese a tutto quel ben di Dio musicale. Non avrei avvertito alcuna fatica perché, come lui disse, quel pomeriggio si sarebbe toccato il cielo con un dito.

M.R.

 

VARIE

 

LE DONNE DI ATENE

Ieri, passando da piazza Stesicoro, mi sono avvicinato alla manifestazione organizzata in occasione della Giornata contro la violenza sulla donna. Non scrivo per questo, sono ragioni che condivido assolutamente, per carità. Pubblicizzo contro questo animalesco andazzo, che non dovrebbe essere nemmeno oggetto di discussione, anche nel mio sito.
Erano una sessantina, quasi tutte donne, belle donne che si sono date appuntamento all’anfiteatro dentro giacconi di due taglie in più su gonne a fiori e la sciarpa rossa al collo, simbolo del movimento. Agguerrite, in cerchio, ad ascoltare (dispiace, ma devo dirlo) delle cantilene pazzesche degne di antiche corazzate cinematografiche.
Non so voi, ma vi capita mai di provare piacere a farvi del male? Stavo per assopirmi (c’era chi usava già stampelle sulle quali poggiare il mento per dormire) perchè ieri sera ho provato quella voglia per un attimo. Proprio per assaporare quella masochistica sensazione di sentire il sapore del sangue in bocca, avvertire la vergogna del linciaggio in piazza davanti alle nobili lapidi dei miei concittadini Stesicoro e Caronda, stavo per farlo: stavo per strappare la chitarra di mano alla cantante che si era addormentata su un La minore e un Mi maggiore durati francamente parecchio; stavo per imbracciare lo strumento, cambiare accordi – che era ora - e cominciare a cantare questo, proprio per farmi crocifiggere, suicida, alla Porta Aci:
Le donne di Atene
(traduzione firmata di Eugenio Finardi e Alberto Camerini della celebre canzone di Chico Buarque de Hollanda Mulheres De Atenas).
Dovreste prendere esempio da quelle mogli di Atene , che vivon per i loro mariti, orgoglio e razza di Atene.
Tutto il giorno si son profumate, lavate nel latte e pettinate per esser amate.
(FIN QUI MI AVREBBERO GUARDATO SOLO CON SOSPETTO)
Se fustigate non piangeranno, ma anzi proprio loro imploreranno. Più dure pene, catene.
(CANTANDO, VEDO I LORO VISI DIVENTARE SEMPRE PIU’ ROSSI DI RABBIA)
Cercate di prendere esempio da quelle mogli di Atene, che soffron per i loro mariti, potere e forza di Atene.
Quando essi partono soldati intessono lunghi teli ricamati per settimane e quando tornano affamati di baci con violenza strappati e carezze piene. Oscene.
(RIMANE IL ROSSORE, MA SOLO PER LA PAROLA BACI)
Dovreste prendere esempio da quelle mogli di Atene, che perdonano ai loro mariti, i bravi guerrieri di Atene, quando si ingozzano di vino per trovare il coraggio di aver vicino altre falene!
Ma poi alla fine della notte , spossati, son quasi sempre ritornati dalle loro piccine. Elene.
(DOPO LE CORNA E IL VINO DOVREMMO PURE CONSOLARLI? TU CI PROVOCHI, STRONZO!)
Cercate di prendere esempio da quelle mogli di Atene che generano ai loro mariti i nuovi figli di Atene.
(A QUESTO PUNTO VEDO ALCUNI CUBETTI DI PORFIDO, STACCATI DAI MARCIAPIEDI DI VIA ETNEA, NELLE MANI DELLE MANIFESTANTI)
Non hanno alcun gusto ne volontà, non han difetti ne qualità. Lo sanno bene, non hanno sogni ma solo presagi per i loro uomini e il mare e i naufragi e belle sirene. Morene
Dovreste prendere esempio da quelle mogli di Atene, che temon per i loro mariti, gli eroi e gli amanti di Atene. Dalle giovani vedove segnate e dalle gestanti abbandonate che non fanno scene
(SENTO DIRE “SEI PAZZO? DOVREMMO ESSERE SENZA GUSTO, QUALITA’, SOLO MACCHINE DA RIPRODUZIONE? BASTARDO MASCHILISTA!”)
Vestite del nero di chi é rassegnato di chi ha oramai già accettato il Fato. Senza più pene. Sono serene
Cercate di prendere esempio da quelle mogli di Atene. Che vivono per i loro mariti, orgoglio e razza di Atene!
(SULLA CROCE, INCHIODATO ALLA CHITARRA)
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Ovviamente son rimasto al mio posto, mi avrebbero massacrato. Anche se lo dicono, non sono così matto.
Finardi l’ha solo tradotta, non so chi ha scritto le parole di questa canzone ma quel che esprime è veramente osceno e scandaloso. Cantarla davanti a una donna è un’offesa irreparabile per l’ascoltatrice/ore e una vergogna per l’interprete.

 

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PER CASO NON È CHE…..?

Noi catanesi usiamo questo termine quando chiediamo qualcosa con cortesia, pensando di usare del tatto e non apparire sfacciati. Esempi sono “per caso ha provveduto anche per me?” oppure “per caso ha della ricotta salata di Vizzini?” oppure “per caso è arrivata della posta?”

Nel 1992 siamo al Plan De Corones in Val Pusteria, con i paperotti di cari amici. Oggi sono genitori anche loro e stanno ripopolando la Paperopoli del mio cuore.

Alloggiavamo a Riscone, località a me cara perché ritiro estivo dell’Inter, in un Hotel i cui gestori erano degli autentici nostalgici del Kaiserthum Österreich, costretti a vivere a malincuore in una provincia che si chiama Bolzano (che con orgoglio separatista chiamano Bozen), dove si parla in tedesco per il 70 per cento e le strade si chiamano Strasse. I nomi che sentivamo nei pressi erano Gertrude, Ingrid, Johanna, Helga, Wolfgang, Herbert, Klaus, Norbert, Hermann, ecc. ….roba che avrebbe fatto felice il Rodolfo Favaretto interpretato da Albenese in uno dei suoi film. Non ricordo se ci fosse già Sky, ma appena si accendevano i televisori in camera appariva subito Romy Schenider nel ruolo della famosa principessa. Film che guardano all’infinito.

Sapevamo che il gestore dell’Hotel faceva giornalmente una dozzina di viaggi al vicino Brunico, distante 3 km., per prendere le merci o accompagnare i turisti. Un giorno dovevamo scendere (calare? scansatini, mi avrebbe messo al muro!) in Centro e alla reception chiedemmo: “Franz, per caso vai a Brunico?”.

Se di cognome avesse fatto Pappalardo, avrebbe capito subito che volevamo uno strappo. Purtroppo di cognome faceva Schnitzer e, da austriaco italianizzato suo malgrado qual era, ci rispose con accento austro-ungarico: “No, non ci vado mai per caso. Ci vado apposta” e continuò a rincorrere nella hall la sua bassottina che, ovviamente, si chiamava Sissi.

Un crucco DOC.

Col mio amico ci guardammo negli occhi e, rassegnati, chiamammo un taxi!

M.R.

 

NAPULE, CHE BELLA PAROLA!
(da post Facebook)

Una capatina a Partenope Land è stata da sempre desiderata e che mi ero ripromesso di farla non appena ci fosse stato concesso un minimo di respiro dopo due anni di divieti. Non pubblico altre foto perchè mi sembra banale far vedere paesaggi presenti a milionate sul web. Sono tutte uguali, chi non ha mai visto una foto di Napoli, Capri o Pompei?

E’ bella, bella davvero ... a città e Pulecenella. Quando si dice “vedi Napoli e dopo puoi anche morire” è una cosa vera, cioè una visita alla città non la puoi perdere assolutamente, è un fondamentale biglietto prima del cielo. La leggenda vuole che la sirena Partenope, per non aver saputo conquistare Ulisse in quel di Scilla, si infranse per disperazione sugli scogli di Mergellina, spargendo le sue membra nel Golfo: Napoli, Ischia, Capri, Procida e le penisole Sorrentina e Amalfitana. Adesso capisco perchè i coloni greci,  risalendo il Tirreno, scelsero Cuma nei Campi Flegrei come prima città di quella Magna Grecia che stava per nascere.

La Napoletanità è una cosa seria. Niente di programmato, s’inventa al momento secondo gli eventi e le circostanze. Mi spiego meglio: alla Costiera Amalfitana andiamo mediante un’agenzia che nelle esose presentazioni si presentava hollywoodiana ma che, in realtà, ha offerto un servizio di trasporto pessimo. Quel giorno si presentano davanti all’hotel Ciro e Assunta (nomi inventati per privacy). I passeggeri nel pullmino raccolti lungo la strada siamo noi quattro catanesi, una coppia toscana e una coppia spagnola.

Niente da eccepire sui fantastici luoghi visitati. Partiamo in direzione della stupenda Sorrento, dove tento di entrare all’Hotel Vittoria in cui Dalla si ispirò per “Caruso”, ma mi dicono che non si può andare nella stanza del celebre tenore per via del Covid. Ecco come il grande Lucio spiegò come nacque il suo gioiello:

“Ero in barca tra Sorrento e Capri quando si ruppe l’asse del motore. Andai a vela per qualche miglio e poi chiamai il mio amico proprietario dell’Hotel Excelsior Vittoria, che mi trainò al porto. In attesa che aggiustassero la barca, mi invitò a passare la notte in hotel, proprio nella suite dove morì Caruso. C’era tutto, anche il pianoforte completamente scordato. Quella sera un altro amico, giù al bar La Scogliera, mi raccontò di un Caruso alla fine dei suoi giorni, innamorato di una giovane cantante cui dava lezioni. Era uno stratagemma per starle vicino, ma l’ultima sera, sentendo la morte arrivare, fece portare il piano sulla terrazza e cantò con un’intensità tale che lo sentirono fino al porto. Quel Te vojo bene assaje che appartiene a Dicitencello vuje significava dare il marchio della napoletanità. Per quello che ho appreso io, Caruso si spense al Vittoria, ma per non dover pagare le gabelle in voga in quegli anni, venne messo su una barca, fingendo fosse ubriaco, e fu portato all’Hotel Vesuvio, a Napoli, dove morì ufficialmente.”

Bello, no? Come sarebbe stato bello, quando vidi le indicazioni per Montechiaro a Vico Equense, proporre una volata a Villa Rosa per salutare il mio amico Peppe  Guida . Ma non fiatai per non essere lasciato per strada (ah ah !).

A bordo l’aria cominciava stranamente ad essere più calda, già a Napoli si avvertiva che l’impianto non funzionava alla grande. In poche parole: era finito il gas di raffreddamento. Questa la prima pecca per un mezzo che offre un certo servizio e che proprio per questo dovrebbe essere controllato ogni giorno.

Allora Ciro, colto da pietà turistica, apre il portellone principale per far entrare l’aria all’interno,  proseguendo il tour fino a Ravello e al prefissato pranzo leggero (a Napoli si fa per dire, stavamo scoppiando) al valico dei Chiunzi nei monti Lattari. Riprendiamo l’autostrada per tornare ma, a causa di un incendio in autostrada, si sono formati chilometri di coda. Ma il nostro autista era Ciro, brillante pioniere partenopeo che conosceva tutte le scorciatoie provinciali per farci tornare a casa senza farci soffrire. Quindi devia per Torre Annunziata e da lì comincia uno spassoso “on the road”, non previsto nel preventivo, che non dimenticherò. Mentre lui guida, anche Assunta abbandona la sua figura professionale e comincia a sfotterlo per i sensi vietati, gli spericolati tornindietro, le strade sbagliate e quelle interrotte per lavori in corso. Il tutto con il rischio di farci fermare dalla Stradale per il portellone aperto. Pazzi!

Il climatizzatore non dava più segni di vita. La signora spagnola chiede un po’ di acqua dal vano freezer “Lo siento señora, no tenemos”. Allora in coro chiediamo di metterci dentro quella nostra:  “signori, è guasto!”. Noi catanesi la prendiamo con filosofia ed ironia, considerato che la situazione era quella che era e che non si poteva cambiare tranne che con un elicottero. Gli altri, incazzatissimi, no.

Il tour continua fra paesi che mai mi sarei sognato di vedere in vita mia. A Torre Annunziata passiamo davanti a una chiesa dove stanno per uscire gli sposi. Ciro si ferma e comincia a strombazzare facendo voltare tutti gli invitati che vedono davanti ai loro occhi un furgone Mercedes con i passeggeri che battono vistosamente le mani come pazzi. Ovviamente solo quelle napoletane e catanesi. Stessa pasta, stesse dominazioni, stesso estro, ironia e fantasia. Gli altri muti come pesci, mentre pregustano i loro reclami all’arrivo.

Passiamo per il lungomare di Torre del Greco dove i napoletani scappano la sera dalla grande città per un gelato fuori porta, e poi Portici, Ercolano. Per cavalleria, offro alla signora spagnola il mio posto che era vicino al portellone, per farla respirare un po’. Il marito mi fa capire qualcosa come dire “grazie, ma preferisce non parlare, è arrabbiatissima!”

Fra tante risate con le nostre guide, arriviamo finalmente a Napoli. Lasciamo i toscani e passiamo per Piazza Dante dove Assunta spiega che le statue presenti sull’emiciclo del Foro Carolingio  raffigurano le 26 virtù di Carlo di Borbone, aggiungendo “modesto lui!” Subito dopo traduce completamente il tutto in lingua spagnola, guardando in faccia la signora.

E mi dice “Mimmo, nemmeno mi guarda più!”

Assunta, e ci credo, dopo averla distrutta le insulti pure il Re spagnolo!

Arriviamo in Hotel dopo un viaggio di ritorno durato quattro ore, stanchissimi ma soddisfatti e divertiti. Lasciamo la lauta mancia ai ragazzi che non c’entravano nulla con la poca serietà dei loro datori di lavoro. Li abbiamo salutati con un “grazie, meglio di un film di Troisi!”

Altro episodio di napoletanità? Nei pressi del rione Sanità, col mio amico entriamo in un bar e chiediamo due limoncelli. Il ragazzo tira fuori un bottiglione con la scritta “Limoncello”. Ma quando gli chiediamo se era quello di Sorrento, tira fuori un pennarello e aggiunge sulla bottiglia la scritta “di Sorrento”. Va bbuono accussi? (ah ah ah!)

Sono fatti così. Per esempio, i tassisti ti raccontano, senza alcuna inibizione e senza chiederglielo, la loro vita, il loro vivere alla giornata, i loro guai durante le restrizioni della pandemia, le loro cambiali e, ad ogni corsa, l’amore che hanno per Catania, fra le siciliane quella che somiglia di più alla loro città. In poche parole, ci amano e ci rispettano.

Passiamo alla gastronomia. La pizza fritta non è altro che la nostra Diavola con all'interno la mozzarella o la ricotta con tocchetti di salumi al posto di tuma e acciughe.

Non ci siamo fatti mancare la cena a Santa a Lucia sotto Castel dell’Ovo e la classica pizza napoletana. Ormai tutti sanno, come suggerisce il web, che la pizza bisogna provarla da Michele a Forcella. Non possiamo dire di non averci provato; fuori all’ingresso mi hanno consegnato un numeretto aggiungendo “ci vediamo fra due ore”. Era un normale martedì, ore 19.00, con un gregge di 150 pecore tutte in fila perché l’ha ordinato il Sig. internet.

Siccome per me sono poche le cose che meritano due ore di coda, anche la pizza più buona al mondo, propongo ai miei compagni di viaggio di cambiare aria. Così ci avviamo in direzione Spaccanapoli fino a via dei Tribunali e, rassegnati, inconsapevolmente consumiamo una straordinaria pizza napoletana da Mazz al Vico del Fico, vicino al busto di Pulcinella. Siamo stati serviti subito, senza stress, a 30 metri da un altro gregge che si stava rovinando la serata in attesa di entrare da Sorbillo. Non posso giudicare perché non ho assaggiato le altre, ma vi assicuro che il risultato della mia cena era quello che immaginavo.

Per questo suggerisco di non andare dove vi porta il vento del web. Attorno a tutto quello che vi dicono gli influencer c'è tutto un mondo parimenti ottimo ma molto più comodo senza farvi venire le piaghe ai piedi. Soprattutto non perdete un quarto d'ora a leggere le recensioni di TripAdvisor ad ogni locale che vi aggrada (fregature comprese, che comunque fanno parte della vita). Cioè, per me è impensabile aspettare un’ora in fila perché devo assaggiare a tutti i costi la sfogliatella di Attanasio. A Napoli sono tutte buone, perfino all’aeroporto. Tutto il resto è solo spocchia da condividere sui social per far capire a tutti che…"ci sono stato".

Quel che mi è mancato in questi 5 giorni?

- Non aver trovato nei menù gli ziti alla Genovese, a pasta “e patane”, quella "assassina" .......e “u rraù” che viene portato al tavolo in una ciotola per farci la scarpetta.

- Una capatina alla panoramica Posillipo con la Gaiola, il  Palazzo degli spiriti e il misterioso palazzo di Donna Anna (a casa mia c’è un mio vecchio dipinto che lo raffigura).

- Qualche chilometro più avanti, una zuppa di cozze da Cicciotto a Marechiaro, seduto di fronte “a fenestella” del grande Di Giacomo con lo sfondo fornito dalla classica cartolina napoletana. Non è stato possibile per difficoltà logistiche e il tempo a disposizione.

- e poi Sant’Elmo, il Vesuvio, il Teatro San Carlo, Museo archeologico e di Capodimonte e la Certosa.

Ma ci sarebbe voluto un mese, non cinque giorni. Per il resto ho visto tutto, compresi 40 km walking.

Napoli mi resterà nel cuore, visitarla è stato soprattutto un dovere per rimpinguarlo al reparto “luoghi dell'anima”. Essere napoletano è soprattutto un pregio, ho capito ancora di più che dono significa esserlo, ho capito perché anche in miseria vivono con felicità assaporando le cose più semplici e adorando i loro dei, sacri e profani, quali San Gennaro, Totò, Maradona, De Filippo e le loro canzoni. E i Borbone, senza i quali Napoli non sarebbe stata così bella.

Tornando a casa, già a Capodichino, avevo un po’ di tosse e sentivo una vocina che mi diceva all’orecchio “Jamme, ja!”.

L’indomani stanchezza, febbre e tosse. La voce la risento ancora: “vi dovete fare il tampone!”.  A Napoli si dà del Voi, non del Lei e allora, a quel punto, mi sono reso conto di avere addosso un Covid napoletano verace ! Soprattutto educato, manifestandosi solo a Catania. Positivi, tricheco e signora.

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Vi lascio, vado a riposare perché stanotte non ho dormito. La tosse continua a sconquassarmi, per questo perdonatemi gli eventuali strafalcioni. Adda passà ‘a nuttata (e dalle!)

Giugno 2022

 

L'INSONNIA

Sono le prime ore del mattino ed eccomi qui.

Niente, due occhi a palla che guardano fissi un soffitto nero come la pece! Ci provo ma non ci riesco, ho pure provato con la filmografia di Fellini, la bibliografia di Baricco e la discografia di De Gregori : suffuru!

Eppure, da giovane mi svegliavo alla domenica alle 10 del mattino e anche in tempi recenti tiravo almeno fino alle 6.30, ovviamente cronometrando alla Fantozzi salvo imprevisti (cambio!)

Oggi non ci riesco più. Alle 4.30 mi sveglio nella notte e …….. “mi votu e mi rivotu suspirannu”.

Di contare le pecore nemmeno a parlarne. In tempi remoti ci provai ma venivo distratto, come sempre, dalla mia epica curiosità cominciando a classificarle per razze: la Sarda è nera o bianca? Massese e Delle Langhe a quali regioni appartengono? Comisana e Girgentana queste sì che le conosco, e poi Leccese, Bergamasca, Appenninica, ecc. aiuto! Quindi rimanevo vispo come uno che aveva già preso tre caffè bollenti. Così decisi di attuare un metodo più immediato, sbrigativo e … soporifero: le nazionali di calcio! Secondo la tipologia, “convocavo” nel mio fantasioso Coverciano undici calciatori che nella notte belavano nei miei pensieri meglio che in un ovile. Da quel che ricordo funzionava a meraviglia perché non arrivavo nemmeno al centravanti, che saltava alla grande sulla staccionata che porta a Morfeo. Eccone alcune:

COGNOMI: Cudicini Cabrini Maldini Bertini Chellini Bini Domenghini Albertini Mancini Giannini Cappellini; Alessandrelli Petrelli Piangerelli Prandelli Agostinelli Tardelli Altobelli Antonelli Bulgarelli Balotelli Magistrelli Lucarelli. E poi Facchetti Lodetti Benetti Benedetti; Anzolin Ghedin Bedin Speggiorin Gasparin Tacconi Battistoni Re Cecconi Antognoni.

Ma quando la cosa era propria tosta, cambiavo direzione geografica elencando gli stranieri nella nostra serie A, quindi: TEDESCHI: abbiamo avuto portieri tedeschi? (solo a cercarlo mi appisolavo) Briegel Brehme Schnellinger Kohler Bierhoff Haller Rummenigge Matthäus Klinsmann Völler. BRASILIANI: Julio Cesar Junior Falcao Dirceu Socrates Amarildo Nenè Ronaldo Ronaldinho Zico Altafini. E poi via via con Olandesi, Argentini, ecc.

Ma non solo oltre le Alpi, a volte ci infilavo anche i SICULI: Rampulla Cottone Coco Furino Amendolia D’Agostino Riganò Arcoleo Schillaci Calaiò Mascara Anastasi. Ormai in preda all’insonnia, come disperato tentativo di addormentarmi arrivai a formulare la formazione della nazionale defunti! Giuliani Roversi Facchetti Di Bartolomei Rosato Scirea Meroni Frustalupi Chinaglia Re Cecconi Anastasi.

Pace all’anima loro, ma oggi non mi riesce più nemmeno quell’espediente. Alla fine mi alzo e vado a leggermi le news dei quotidiani sul tablet. Ma si può cosi? Ritorno a letto e quando prendo finalmente a morsi il saporito sonno del dormiveglia (i migliori bocconi, quelli buoni) e i rossi bagliori oltrepassano le tapparelle che aprono le palpebre del provetto Bearzot, vengo svegliato da una vocina che mi dice “beddu agghiunnau, sei ancora vivo, ti è stato regalato un altro giorno di vita e siccome devi guadagnartelo, ti avviso che se non ti alzi farai tardi al lavoro.” Cazzarola!

Buongiorno, finalmente

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Cos’è sta cosa? E’ questa la vecchiaia?

2 febbraio 2020 - M.R.

 

RICERCA O F35?

Se la legge di Stabilità passerà al Senato così com’è, produrrà un tale colpo di mannaia all’Università Italiana da ridurre al collasso metà degli Atenei in termini di servizi agli studenti, ricerca scientifica, edilizia universitaria, arruolamenti di giovani ricercatori, funzionamento, ecc.

Servono 300 milioni di euro, equivalenti al costo di 4 cacciabombardieri F35, solo quattro in meno nella lunga lista dei prossimi acquisti ordinati dal potere militare che scalda il sedere sulle poltrone romane.

Eppure è stato detto e ridetto mille volte: investire nella ricerca è l’unico, indispensabile strumento per lo sviluppo di un Paese civile. E’ l’unica via, senza c’è solo l’appiattimento totale di una Nazione, che a scadenza ventennale pagherà poi conti salatissimi perché dipenderà da altri che hanno operato meglio.

Perché questo? Perché nel sottobosco burocrate c’è chi fa resistenza a diminuire gli armamenti. Nonostante gli appelli di Napolitano, del mondo culturale, della Chiesa, dell’opinione pubblica e di fronte all’evidente esigenza di investire in un futuro ricco di sapere, innovazione tecnologica, miglioramento genetico e ricerca scientifica volta a scoprire nuove forme di lotte contro le malattie inguaribili e soprattutto di avvenire dei nostri ragazzi (“tuttituttimapropriotutti” i nostri ragazzi), ci sono sciacalli che dicono “No, grazie. Giochiamo alla ‘fruttuosa’ guerra”.

Quindi meglio far svolazzare inutilmente quattro “fabbriche di vedove” in più nei cieli dell’Afghanistan, sprecando miliardi di kerosene solo per far pattugliamento (gli americani non ci permetteranno mai di fare altro), che investire in progetti molto più intelligenti e lungimiranti, ma soprattutto utili per il genere umano.

Probabilmente i soldi si troveranno altrove, piangerà qualcun'altro. Ma loro niente da fare, sulle forniture militari di una Nazione che nel panorama bellico mondiale vale poco o niente, non mollano. Però l’obiettivo prefissato è stato raggiunto, e le tasche dei soliti furbetti si saranno già gonfiate. Capisco che l’altro obiettivo, il piano segreto, è quello di far studiare solo i figli dei ricchi, anche se somari; perchè quelli degli operai non devono apprendere o fare carriera, né tantomeno sapere o istruirsi. Ma questo era un ragionamento borbonico che valeva solo ai tempi dei Granducati del Risorgimento. Oggi fa solo ridere.

Lo so che le vostre sette, i Massoni, i Gesuiti e l’Opus Dei sono ancora molto potenti ma, cari Venerabili, provate a privare il diritto allo studio alle nuove generazioni, ricchi o poveri che siano, e ve ne pentirete: oggi (non solo in Italia, ma in tutta Europa) vi faranno un mazzo così, molto peggio delle Facoltà occupate negli anni Settanta. Poi non lamentatevi dei poveri poliziotti malpagati che avranno la peggio contro la rabbia degli studenti o delle continue fughe dei cervelli italiani. Rimedierete con la carità di Theleton? Cazzate, solo spettacolari cazzate a forma di passarella televisiva.

Quest’anno il Buon Natale non voglio inaugurarlo né al Ministro Profumo, né al Ministro della Difesa perché solo uomini di passaggio. Lo voglio augurare a quei signori col copricapo coperto di ridicole stoffe dorate.

Cari Generali, come in una famosa canzone, quest’anno le vostre cinque stelle saranno cinque lacrime sulla pelle di migliaia e migliaia di persone che nemmeno conoscete. Sono i malati di cancro, sclerosi multipla, AIDS, varie forme di leucemia, morbi di Hodgkin, Creutzfeldt-jacob, Fibrosi cistica, Schindler, ecc., tutte persone che, con l’aiuto della ricerca, aspettano dai laboratori scientifici la formula giusta per la loro guarigione. Sono pure consapevoli che non arriveranno in tempo, ma sperano almeno che il loro martirio possa servire agli scienziati che hanno loro chiuso gli occhi per salvare altre vite umane.

Voi invece state cancellando anche questa loro speranza, fieri davanti alle finestre illuminate dalle luci del vostro “ottimo e abbondante” albero di Natale, mentre vedete sollevarsi in cielo altri quattro F35 che andranno a sparare missili miliardari ai culi di cammelli in fuga nei deserti del mondo.

Cari Generali, quest'anno desidero porgervi i miei migliori auguri per un santo e sereno Natale, anche da parte di chi sta morendo. E di chi morirà.

 Mimmo Rapisarda (dicembre 2012)

 

 

COREA DEL NORD. KIM EMACIATO SPEZZA IL CUORE DELLA GENTE, DUBBI SULLA SUA SALUTE.

Questo è quello che dice la stampa, ma non è così.

Apparentemente disperato e in preda al terrore di non farsi trovare con tanto di lacrime sul viso, il popolo nordcoreano si lasciò andare in pubbliche comparsate pregando il loro unico Dio: Kim, perché in Corea del Nord è vietato professare qualsiasi religione e se si viene trovati anche solo in possesso di una bibbia si rischia il gulag o la morte per fucilazione. Tutti sono tenuti a glorificare lui, il padre e il nonno che hanno dato origine all’unica dittatura ereditaria della terra.

Questo, però, non scoraggiò gli impiegati di una ditta di Pyongyang, da tempo oppressi dalla feroce dittatura e vicini ormai alla carestia, viste le spese pazze del loro Capo di Stato.

Fra questi spiccava il Rag. Pak Lee Tozzi Fan, il più disgraziato di tutti che, rischiando la morte,  riuscì a scovare una chiesa cristiana clandestina convinto che quell’occasione irripetibile andava aiutata con qualsiasi mezzo.

Così si recò in sagrestia:

- io vorrei far dire una messa

- pro o contro qualcuno?

- contro

- contro costa il triplo: 30.000 won, cantata 50.000 won

- cantata !

- lo devi odiare molto, figliolo !

Alla sua iniziativa privata ne seguirono altre collettive di suoi colleghi e di milioni di nordcoreani, tipo rosarioni giganti in Sala Mensa e nella campagne.

Ma un giorno, dalla finestra del palazzo del Governo apparve il Ministro per la Cultura che gridò al megafono  “Tranquilli! Il nostro Leader Maximo ha soltanto la Rosolia!” I nordcoreani accolsero la notizia con composto dolore ma, furtivamente, si lasciarono andare in manifestazioni di gioia pari a quelle di Rio durante il Carnevale.

Furono esauditi. Il Leader Maximo si ammalò subito dopo di anoressia! Accennò a una piccola ripresa ma fu aggredito nella pubblica piazza della capitale, tranciato a pezzi e poi ripescato da una paranza di Torre Annunziata nel mar Mediterraneo. Fu poi rivenduto alla Findus e immesso sul mercato dei prodotti itttici come cernia surgelata.

Questa è la verità.

(lug 2021)

 

 

 

La più grande regione d'Italia in ginocchio una settimana... per niente.

Il paradosso è che il resto d'Italia nemmeno se ne è accorto! Diciamo che si è bendato gli occhi. I TG hanno esposto il problema degli autotrasportatori solo adesso, quando i disagi li hanno avuti  tutti gli italiani, però senza pronunciare sfacciatamente una sola parola su quello che ha subìto e dovuto subìre la Sicilia.
Resta il fatto che a pagare siamo stati solo noi, che ancora ci lecchiamo le ferite per l'autolesionismo che ha provocato questa protesta. Durante l'affanosa ricerca per rifornirmi, mi lamentavo con un conterraneo in fila alla stazione di servizio fin dalla mattina, era già in pigiama e pronto a passare la notte al freddo dentro l'auto per non perdere il posto conquistato. Gli ho chiesto "ma si rende conto che i Forconi ci stanno usando per scopi commerciali e che dietro tutto ciò c'è qualche furbetto che ci marcia?" Mi ha risposto "Lo fanno per noi". Gli ho ribattuto "No, lo fanno per loro; ma lei l'ha capito, almeno, perchè lo farebbero anche per noi?" Mi ha risposto "Non lo so."

Ecco in che mani saremmo stati.

Mi sono allontanato con una gran voglia di sputargli e di leggergli i risultati (vedi sopra) di questa follia collettiva che noi siculi abbiamo pagato a caro prezzo per ignoranza; una stupida e catastrofica rivoluzione durata cinque giorni che ha lasciato ambulanze in panne, malati che aspettavano sangue mai arrivato e che in positivo ha prodotto soltanto 1.000 richieste di Cassa Integrazione per le mancate spedizioni di prodotti siciliani, aggiunte alla perduta credibilità nei canali commerciali internazionali. Anzi, il futuro non si prospetta roseo perchè gli abituali acquirenti (specie quelli del settentrione europeo) che in questi giorni non si sono visti garantiti dalle spedizioni nostrane, hanno già deciso quali saranno i loro prossimi rifornitori, specialmente per l'agrumicoltura: Spagna e Marocco. Questo, per la nostra terra, è un disastro.
Il sogno dei Forconi, gestito in modo pessimo e che farebbe rivoltare le ossa a Finocchiaro Aprile, ci ha lasciato soltanto un clamoroso risveglio nel NIENTE, con la certezza che il prezzo della benzina rimarrà invariato anche in Sicilia (pagheremo come tanti crasti peggio dei tempi del Gattopardo, nonostante dall'Isola si estragga e si raffini il 40 % del fabbisogno nazionale) e che, soprattutto, il Flop di questi signori ha creato soltanto sacrifici senza scalfire l'interesse dei nostri problemi da Reggio Calabria in sù. 

Volevano davvero bloccare tutto? Bene: dovevano costituire i presìdi agli ingressi dei traghetti senza far uscire una goccia di carburante (nostro) dall'isola, per impedire al continente di rifornirsi e così metterlo in mora. Allora sì che a Roma si sarebbero resi conto del problema, riconoscendo che forse il grande serbatoio Sicilia uno sconto sul prezzo del carburante lo avrebbe meritato. E invece no, i nostri fratelli Forconi hanno bloccato solo i loro conterranei, arrecando loro gravissimi disagi mentre gli italiani circolavano tranquillamente ignari di tutto. Praticamente hanno protestato contro loro stessi, per questo ribadisco il fallimento di tutto il Movimento.
Questo, a memoria, per tutti i Masanielli qualunquisti che inneggiano nel web a "indipendenze del cazzo" senza sapere da dove cominciare e soprattutto dove andare.
Se vogliamo davvero e "democraticamente" cambiare le cose in Sicilia (non parlo da conservatore, nè da Borbone), esorto i siciliani a non trasformarsi in Garibaldi della Domenica, perchè oggi faremmo solo ridere. Quindi, inviterei a rileggere ciò che scrisse Paolo Borsellino: "La rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, è più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello."

Fino a quando dipenderemo da Roma, alle prossime elezioni politiche riflettiamo attentamente su chi stiamo mandando a rappresentarci a Montecitorio, stampiamolo bene in mente che in questi giorni nessun deputato o senatore siciliano ha fatto un'interrogazione al Ministro delle Telecomunicazioni in merito all'ignobile silenzio della TV di Stato sui fatti di Sicilia. La nostra guerra dei Vespri cominciamo a farla in quel metro quadrato, dove nessun mafiosetto può vedere dove segniamo la croce sulla scheda. Ma soprattutto facciamoci valere scrivendo con quella benedetta matita, anzichè postare su Facebook o cinguettare su Twitter .... "ad minchiam".

 (M.R.)

 

 

NE VEDO SEMPRE DI PIU'

Ne vedo sempre di più, e mi capita proprio di sabato.

Cosa? Di vedere seduti al tavolino il padre e il figlioletto, perché probabilmente è il sabato l’altro giorno in cui è consentito al genitore, separato o divorziato, di vedere il proprio figlio. Però, in che modo?
Col padre, chiaramente, il bambino non ha la stessa confidenza che ha con la madre e quindi l’’approccio non è proprio diretto, il dialogo non è scorrevole e le battute non sono abituali ma, per entrambi, soggette al timore di infrangere le regole dettate dal giudice, dalla psicologa, dall’assistente sociale. Pertanto quella consumazione, che dovrebbe essere un momento felice, si trasforma in una sorta di tortura. Il bambino, per compiacenza, opta per un succo di frutta che ne farebbe volentieri a meno purchè gli arrivi da parte del passivo papà l’invito a una corsa sul bagnasciuga, a fare pazzie in curva allo stadio o al limite il suggerimento - anche dicendogli scemenze, autorizzate a fin di bene - per i prossimi acquisti Ninja. Insomma, tante coccole attraverso piccoli stratagemmi volti a conquistarlo, anche se solo una volta alla settimana. Ma soprattutto, parlagli. Caspita!
Invece, davanti al suo Campari Soda con olive e salatini, suo padre non vede l’ora che finisca quel momento per lui divenuto insopportabile, con quell’esserino creato proprio da lui che adesso vede solo come una “questione di principio in mezzo alla gara fra gli avvocati delle parti” in una situazione paradossale che più che un piacere sta diventando un dovere (o meglio, una ripicca nei confronti dell’ex moglie).
Senza rivolgergli una sola parola, smanetta sul cellulare per vedere se gli arrivano messaggi dalla sua attuale compagna. Nel frattempo, la madre, a casa e in assenza dell’ingombrante presenza del figlio, non è da meno. E il bambino lo sa, sa tutto. Uno spettacolino settimanale evidente a tutti gli astanti seduti a tavolino, un cast che diventa man mano sempre più ampio, in cui gli attori non vedono l’ora di finire la farsa offerta al pubblico.
Eppure questi nuovi bambini, cioè quelli di questa generazione, sono molto più forti rispetto a noi degli Anni Settanta che una situazione simile l’avremmo vissuta in maniera drammatica, da far sfociare poi in fiumi di tragiche lacrime, antichi tabù e ripercussioni psicologiche. Questi, invece, hanno le spalle larghe; sono molto più freddi, insensibili e affrontano la separazione dei genitori con la massima serenità. Per loro, vedere il papà o la mamma allontanarsi dal nido familiare equivale ad una inevitabile tappa del loro percorso formativo, simile al primo giorno di asilo (traumatico anche quello!), al catechismo o al terrore dell’ostia della prima comunione (idem c.s.). E' un evento che fa parte della loro vita; sanno che nella loro infanzia, prima o poi, arriverà. Per questo non si considerano figli jellati, perchè consapevoli che la stessa sorte toccherà a quasi tutti i loro compagnetti di classe.
Stamattina lo osservavo quel bambino, col padre totalmente assorto dentro il display del cellulare. Mezz’ora assoluta di silenzio fra loro, intervallata da sporadici “ti piace?”, forse uno ogni dieci minuti. Ognuno di loro non aspettava altro che arrivasse il conto per scappare via da quella incresciosa circostanza. Alla fine il bambino, essendo ancora tale e non ricevendo alcun input dalla statua di marmo che aveva di fronte, solleva la cannuccia dal bicchiere e si improvvisa spadaccino, ingaggiando una disputa contro un immaginario avversario che solo lui vedeva sul muro di fronte.
Naturalmente il padre non si accorgeva di nulla ma io, vedendo armeggiare suo figlio in singolar (è proprio il caso di dirlo) tenzone, avevo una gran voglia di dire “Cavaliere, ti getto il guanto sul tuo succo di frutta, e ti sfido a duello! Sono pronto!”. Proprio per farlo giocare un po’. Ma dopo aver pagato sono andato via, schifato.
Ciao, dolce bambino. La prossima volta ordinerò un aperitivo vestito da D’Artagnan. Mi riconoscerai subito. Te lo prometto.

M.R. NOV 2011

  

 

Straordinaria serata di Alberto Angela “Stanotte a Firenze”.

Grazie alla mia famosa insonnia, anche a Firenze ho fatto la gitarella notturna, una decina di anni fa. Come non approfittarne?

Alloggiavo nei pressi e, mentre gli altri dormivano, mi sono avviato a piedi al centro storico: S.M. del Fiore, Ponte vecchio, via dei Calzaiuoli, fino ad entrare a Piazza della Signoria.

Lì mi sono avvicinato al centro della piazza, dove c’è la targa che ricorda la condanna al rogo del Savonarola e da quel punto ho cominciato a girare su me stesso guardando tutte le meraviglie che mi circondavano. Una visione in cinemascope spettacolare !

Come in una giostra, nel silenzio di quella notte deserta senza nessuno e senza turisti, mi sono goduto Palazzo Vecchio, la Loggia della Signoria con il Perseo del Cellini, il Nettuno, la copia del David, tutte meraviglie che in quel momento sembravano essere lì solo per me.

Ci sono rimasto un’ora; ero da solo, forse c’era qualche netturbino. Un sogno.

Ha ragione Angela, Firenze di notte è indimenticabile.

M.R. 2.4.2020

 

 

SPOT  

Ambientato in Svezia, entrambi i protagonisti sono occupati a trafficare in cose salutari quali la pesca, la raccolta di erbe nel sottobosco, il salmone (ovviamente selezionato fra le altre opzioni carni e pollame) rigorosamente al forno, in nome dell'ambiente fra arredi di un colore così deprimente che non hanno nemmeno all'Ikea. Manca solo il ritratto di Greta in cucina.

I due non si parlano, non dicono una parola, anzi si guardano compiaciuti per quella cena degna di un reparto ospedaliero.

Spot di una tristezza infinita. A vederlo, vien voglia di mangiare un chilo di cozze crude da Gennaro o Vibrione!

 M.R.

 

 

 

CHITARRISTI DI STRADA

Hanno due chitarre sgangherate che non le vorrebbero nemmeno al festival degli stonati, corde di metallo caricate fin dai tempi di Modugno ormai così piene di ruggine che diventa pericoloso addirittura tentare di accordare gli strumenti (strumenti?), un amplificatore utile solo per far dire "mamma" alla bambola .... e poi le mani, le loro magiche mani che volano su quelle tastiere ridotte ai minimi termini.

In queste paradossale situazione, quasi al limite della produzione di un suono, questi due chitarristi sudamericani regalano piccoli momenti di felicità musicale lungo i marciapiedi di via Etnea carichi di addobbi natalizi. Sono bravissimi e le offerte che ricevono sono meritate.

E poi un'offerta a un musicista di strada non si nega mai.

 M.R.

 

 

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Girotondo          Stefano Rosso